Adesso rivendicano un po’ tutti. Dopo il successo (così lo chiamano) di Sanremo c’è chi rivendica più attenzione dalla Rai. Chi che si contino bene i voti. Chi d’esser diventato un grande show man. E c’è chi come la De Filippi - con qualche sprezzo del pericolo, visto l’ottovolante del televoto - rivendica di aver guidato il televoto grazie ai fans della propria trasmissione. Io non ho rivendicazioni di nessun genere, ma ho una certezza: l’Italia non si merita un Sanremo così. Non lo meritiamo. La piantino con la storia del “successo” di pubblico. Bastava stare un po’ collegati al social network Twitter durante le fasi finali del programma per vedere cosa pensavano una gran quantità di telespettatori di quello che stavano vedendo.
E non sperino di buggerarci ancora con l’idea che Sanremo rispecchia l’Italia. No, rispecchia quel che i produttori televisivi e i capi bastone del business pensano sia l’Italia. L’Italia dei loro clienti. Dei fidelizzati col televoto che arricchisce i gestori, e la tv. Quel che loro pensano debba essere l’Italia. Non rivendico nulla. Se non che l’Italia non si merita il Sanremo della qualità precotta, della retorica lacrimevole, delle furbate di Costanzo che avvelenano persino un argomento come quello degli operai di Termini Imerese. Non ci meritiamo questa giustificazione della qualità attraverso i meccanismi della popolarità televisiva.
Ci meritiamo un festival della canzone, noi italiani, non un festival pacchiano e furbo della televisione. Non ce lo meritiamo, c’è un limite da porre al kitch, al posticcio, al retorico che in dosi massicce è stato propinato.
Il fatto che sia diventato uno spettacolo carrozzone, che “non si può non vedere” (e invece si può benissimo) è l’indizio del completo imbastardimento di un festival della canzone, trasformato in una specie di circo che alcuni vogliono sia il “Circo Italia”.
No, non ci sto. L’Italia non è questa. Non siamo solo l’Italia della retorica furbetta e insopportabile di alcune canzoni dedicate a temi d’attualità con saccenteria e superficialità. Non siamo l’Italia dove si mischia con disinvoltura il lacrimevole e l’audience. Dove si giustifica ogni fenomeno con il fatto che ha successo, e proprio da parte di coloro che decretano il successo di quei fenomeni. Questo “circo” dove i padroni della tv celebrano se stessi dicendo che celebrano noi è ormai insopportabile. Qualcuno lo dice. Un po’ pochi. Gli intellettuali latitano, snob. Però anche solo a voler usare la logica dei numeri dell’audience, sono certo che l’Italia che ha visto gli sceneggiati su Agostino o su Basaglia non si riconosce in quel baraccone di paillettes e interessi milionari che è andato in scena a Sanremo.
Certo, è più facile chiudere con un “bravi tutti” e poi tutti a casa a godersi popolarità più o meno meritate e più o meno sensate. Il popolo sovrano non è detto che sia quello attratto dal televoto. Ci possono essere altri modi per giudicare quanto ci viene proposto dalla tv di Stato (in evidente stretto intreccio di interessi con quella privata) oltre al decidere se televotare o no.
Ci sono in proposito, non dimentichiamolo, i "sim server": computer collegati a “cestelli” con i quali possono venire gestite anche 10 o 20 mila sim card. Basta dare l’ordine con il computer di mandare un sms a un determinato numero e tutte le schede, a distanza di meno di un secondo l’una dall’altra, entrano in azione. Il servizio che offrono a pagamento i sim server è diretto prevalentemente a concorrenti bramosi di celebrita e con soldi da spendere o magari a manager consapevoli della bontà dell’investimento.
Ci sono poi le forme non solo del dissenso dei telespettatori su Twitter (tra gli altri segnalo un esilarante messaggio: “E ora esiliate Pupo”) ma anche della discussione, della “cultura”.
Sì, perché la faccenda non è solo un problema del mondo dello spettacolo. C’è una faccenda culturale da leggere e da interpretare in questa volontà di dare quel che è a mio avviso, e non solo mio, una caricatura dell’Italia. Far finta di niente, pensare “è solo uno spettacolo” è il primo modo per cedere a chi sa usare grande potere sull’immaginazione. Stanno provando a imporci di pensare a noi stessi in un modo che è una caricatura di quel che siamo.
E io, per quel che conta, non ci sto.
(Fonte: Davide Rondoni, Avvenire, 23 Febbraio 2010)
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