La decisione della Pontificia Accademia per la Vita, in occasione della sua assemblea annuale, di chiamare a riflettere i suoi membri sul tema del rapporto tra bioetica e legge morale naturale non ha soltanto una valenza dottrinale (peraltro di notevole spessore), ma in senso lato antropologica, o, se si vuole, "biopolitica". Infatti, solo nei limiti in cui si riconosce l’esistenza di una legge morale naturale, presente nel cuore di tutti gli uomini, e tale da donare loro la possibilità di discernere oggettivamente il bene dal male, è possibile difendere uno dei pilastri della riflessione bioetica, cioè il suo fondamentale carattere transculturale.
Se la dignità dell’uomo è inviolabile, è perché la vita umana è bene oggettivo, condiviso da tutti gli uomini, a qualunque cultura appartengano e in qualunque epoca siano chiamati a vivere e per questo le umiliazioni della dignità di ogni essere umano – e in particolare dei più semplici e indifesi – sono sempre e comunque un male, che va denunciato e combattuto. Quando si rinuncia a postulare una legge morale naturale, viene inevitabilmente meno la possibilità di dare un fondamento all’eguaglianza morale di tutte le persone e si apre la via ai mille tentativi, più o meno sofistici (e infinite volte riproposti nella storia) per legittimare indebite discriminazioni, distinzioni, gerarchie, ranghi, graduatorie, priorità tra gli esseri umani: tentativi che, quando sono stati coronati da successo, si sono inevitabilmente trasformati nell’oppressione sui più deboli da parte dei più forti.
Ricevendo i membri dell’Accademia, Benedetto XVI si è mostrato pienamente consapevole della rilevanza di questo tema, al punto da auspicare la promozione di un "progetto pedagogico integrale", per affrontarlo "in una visione positiva, equilibrata e costruttiva, soprattutto nel rapporto tra la fede e la ragione", perché "Dio ama ciascun essere umano in modo unico e profondo". Ed ha insistito nel rilevare come, quando si toglie al tema della dignità il fondamento della legge morale naturale, si corrono rischi gravissimi: si incrina il rispetto che si deve alla persona in ogni fase della sua esistenza, si mette a rischio la possibilità di costruire un coerente sistema dei diritti umani fondamentali, si indebolisce la loro difesa, come diritti assoluti e inalienabili, e si favorisce un uso strumentale della scienza, indotta a operare sul vivente umano, come se fosse riducibile a materia inanimata e manipolabile.
A questi esiti inaccettabili, il Papa ne ha aggiunto un altro, con forza particolare. Quando si nega la legge morale naturale e non si riconoscono principi universali che consentono di verificare un denominatore comune per l’intera umanità, "il rischio di una deriva relativistica a livello legislativo non è affatto da sottovalutare": la storia, ha aggiunto il pontefice, "ha mostrato quanto possa essere pericoloso e deleterio uno Stato che proceda a legiferare su questioni che toccano la persona e la società, pretendendo di essere esso stesso fonte e principio dell’etica".
C’è un ammonimento implicito nel discorso del Papa, di cui dobbiamo prendere adeguata consapevolezza: anche se apparentemente oggi siamo lontani dal rischio che si ripresentino sul palcoscenico della storia Stati "etici", secondo gli infausti paradigmi del Novecento, molto concreto è il rischio che si attivino nuove minacce alla vita e alla dignità umana, attraverso il riferimento a legislazioni formalmente democratiche, a convenzioni e accordi internazionali dotati di vasti consensi, ma giustificati spesso esclusivamente da specifici interessi politici, e sotto ogni altro profilo carenti di legittimazione.
La biopolitica, che si sta facendo strada nel mondo di oggi, sta frequentemente assumendo un profilo "positivistico" e troppo spesso la legalizzazione di prassi bioeticamente ingiustificabili attiva nell’opinione pubblica una pericolosa acquiescenza. La questione "antropologica", su cui il Papa ci invita costantemente a riflettere sempre più appare coincidere con le questioni bioetiche più estreme.
(Fonte: Francesco D’Agostino, Avvenire, 14 febbraio 2010)
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