giovedì 20 agosto 2009

Italia dei livori. I colpi di sole di Gigi & Tonino

Allora, Antonio Di Pietro ha detto che: 1) «questo è il governo del favoreggiamento alla mafia e che passerà alla storia per aver rafforzato economicamente, e fatto penetrare fin nei più alti ranghi delle istituzioni, il flagello della criminalità organizzata»; 2) «con quali voti pensa di fare la differenza politicamente nel Paese, il Cavalier nostrano, se non con quella dei sodali malavitosi?».Poi quell’altro, Luigi De Magistris, ha detto che: 1) «il governo sta progettando interventi che renderanno il crimine ancora più granitico; 2) «la più grande ed ignobile falsità di Berlusconi e del suo governo consiste nel dichiarare di voler contrastare le mafie... Lui sta massacrando lo Stato di diritto e lo Stato sociale, le controriforme che sta attuando rispondono a un disegno eversivo che sta distruggendo la democrazia nel nostro Paese». Bene. Questi due esagitati, Antonio Di Pietro e Luigi De Magistris, sono stati due magistrati: due persone votate a decidere del bene primario, ossia la libertà altrui, due persone in grado di rovinare vite, distruggere imprese, mandare in malora famiglie, azzerare centinaia di posti di lavoro, far cadere giunte e governi democratici, fare e disfare senza mai pagarne lo scotto, mai, neppure mezza volta, questi due appartengono a una categoria a cui dovrebbero tremare i polsi per qualsiasi decisione presa, è gente che l’immaginazione peraltro vorrebbe imperturbabile, ferma, equilibrata, dotata di peculiarità non comuni. E invece eccoli: due demagoghi da strapazzo capaci di dire e fare qualsiasi cosa, due che erano di parte - si sospettava - e infatti lo sono, due che facevano politica - si vociferava - ed ecco che la fanno, due che una buona parte della nostra classe giornalistica - adesso – osserva tuttavia solo come due elementi un po’ così, pittoreschi, che straparlano per mestiere, due che sono sorti come funghi la notte scorsa anziché aver fatto parte della disgraziata cronaca di un Paese che mai, mai, mai comprende ciò che accade mentre esso accade.Gentili colleghi, dunque ditelo, una buona volta: non è possibile che due personaggi del genere possano diventare magistrati. Non è possibile che due magistrati del genere possano diventare politici. Non è possibile che la medesima classe giornalistica seguiti a non comprendere che l’anomalia dei due, una volta smascherati e gettata la toga, non viene neutralizzata e addomesticata, ma si sposta solamente da una parte all’altra, si insinua e diffonde come un virus, come una malattia. Senza neppure accorgercene, in questo Paese, il livello della disputa e della polemica politica sono diventati borderline: qualsiasi cosa può essere detta e sostenuta impunemente, basta farlo, basta aprir bocca. Dire che ormai siamo agli «insulti» non rende l’idea perché quelli ormai fioccano dappertutto, anche nei famosi Paesi normali: ma in quale Paese, chiediamo, è ormai diventata sistematica e mediaticamente accettata la calunnia, l’ignominia, la pura invenzione? Forse ha ragione chi dice che gli squilibrati professionali andrebbero soltanto ignorati, che il loro delirio mira soltanto a finire in un qualsiasi articolo di giornale, questo compreso: ma certo snobismo e certa finta superiorità, d’altra parte, sono soltanto ignavia, sono soltanto i siparietti dietro i quali si nasconde la rinnovata incapacità di una classe politica e giornalistica di chiamare le cose col loro nome. Dario Franceschini seguiti pure ad allearsi con questa roba e a farsi massacrare, se crede; gli analisti seguitino ad annoverare «l’unica opposizione» dell’Italia dei Valori tra gli ordinari strumenti di lotta politica, se vogliono. In questo Paese quelli che l’avevano detto non se li fila nessuno, e chi non ne azzecca una invece rimane regolarmente in cattedra, ma pace, noi lo diciamo lo stesso: Di Pietro ha già fatto una rivoluzione e cercherà di farne un’altra, e le rivoluzioni tanto democratiche non sono mai state. Ecco, l’abbiamo detto: purché sia chiaro che lo stiamo dicendo. Di Pietro non ci fa più solo ridere. Di Pietro è pericoloso.

(Fonte: Filippo Facci, Il Giornale, 20 agosto 2009)

Deghettizzare si deve, proibire i «rave party» si può

Non si può più negare che i rave party siano occasioni per un uso smodato di stupefacenti e luoghi in cui aumenta a dismisura la possibilità di morire per overdose. Vanno vietati? In Francia l’hanno fatto. E in Italia? Davide Dileo (in arte Boosta, uno dei fondatori dei Subsonica) si schiera apertamente per il no, rispolverando il vecchio e specioso argomento dei libertari: il proibizionismo produce effetti contrari a quelli desiderati. Il che equivale paradossalmente a sostenere che, quanto più li si proibisce, tanto più si moltiplicano i rave party; quanto meno li si proibisce, tanto più gli organizzatori si mordono le mani, perché la presenza di leggi libertarie toglierebbe loro ogni fascino e renderebbe insensato promuoverli. C’è evidentemente in questo ragionamento – utilizzato da tutti i fautori della depenalizzazione dei più vari comportamenti socialmente deplorevoli – qualcosa che non funziona e che va contro il buon senso; il fatto però che l’antiproibizionismo torni continuamente a galla, che venga insistentemente riproposto, è segno di quanto sia profonda oggi la crisi del diritto penale e in particolare la prospettiva funzionalistica oggi dominante tra i penalisti. Bisogna ribadire che la ragione per la quale un comportamento (individuale o collettivo) deve essere proibito dalla legge non è di per sé "funzionale", non dipende cioè dalla più o meno fondata aspettativa di potere, attraverso la proibizione, ottenere la scomparsa di quel comportamento o almeno la sua riduzione a livelli di irrilevanza statistica. Quelli che così la pensassero, dovrebbero, per coerenza, ritenere insensata la proibizione dei più tipici reati contro il patrimonio (dal furto ai più sofisticati crimini finanziari) e auspicarne la depenalizzazione, dato che nessuna persona di buon senso può illudersi che basti la proibizione legale a farli estinguere come pratiche criminose. La criminalizzazione legale di una pratica sociale è doverosa non perché utile a fini preventivi, ma perché è la doverosa espressione di un giudizio di disvalore sociale, socialmente e ampiamente condiviso. Il cuore della questione è tutto qui: per quanto possa suscitare in noi una legittima inquietudine, il diritto penale non serve a prevenire efficacemente possibili comportamenti delittuosi, ma a sanzionare delitti purtroppo già commessi. Questo non significa che il giudizio di disvalore sociale, che la criminalizzazione di una pratica porta con sé, non serva ad aprire gli occhi a molti e a dissuadere alcuni dal commetterla; ma la pedagogia sociale attivata tramite le leggi penali è inevitabilmente lenta, come lo è in generale qualsiasi pratica pedagogica. È la reazione del diritto contro il delitto che, invece, dovrebbe essere non lenta, ma rapidissima. Dove gli antiproibizionisti hanno ragione da vendere è nell’indicare quali e quante pratiche di politica sociale non penale potrebbero essere efficacemente poste in essere per prevenire delitti e comportamenti di massa devianti. Quello che però i libertari non percepiscono è che tra le mille iniziative di politica sociale, possibili e benemerite, e le diverse, doverose iniziative di politica criminale non c’è alcuna incompatibilità. Aiutare la socializzazione dei giovani deghettizzando le periferie e attivando iniziative loro specificamente dedicate non significa non dover reprimere pratiche vandaliche e violente o lo spaccio indiscriminato di droga. Minacciare sanzioni e non applicarle, individuare comportamenti gravemente antisociali, proibirli formalmente e far poi finta di non vederli, per evitare che scatti la solita assurda accusa di 'repressione' è, questo sì, semplicemente assurdo. Lo Stato si assuma le sue responsabilità; riduca pure al minimo veramente indispensabile l’ ambito del diritto penale; ma una volta che tale ambito sia stato individuato (una volta, per esempio, che si sia presa coscienza dell’impossibilità di non prendere posizione nei confronti di rave party, in cui la droga scorre a fiumi e la gente muore di overdose) intervenga fermamente, con le dovute sanzioni penali nei tempi brevi e con le altrettanto dovute misure di politica sociale, nei tempi medi e lunghi. Minacciare sanzioni e non applicarle, facendo finta di non vedere, per evitare che scatti la solita assurda accusa di «repressione» è, questo sì, assurdo

(Fonte: Francesco D'Agostino, Avvenire, 20 agosto 2009)

Il relativismo è vittima di se stesso

Come era prevedibile – nell’altalenare delle polemiche sugli stili di vita di uomini pubblici – si è riaperto un fuoco di sbarramento nei confronti della Chiesa che ha espresso le proprie valutazioni su questioni etiche come la pillola Ru486 che può incentivare il ricorso all’aborto, oppure per attaccare l’insegnamento religioso nelle scuole plaudendo a una recente sentenza del Tar Lazio. Si ricompone, così, lo schema goffo tutto italiano per il quale i cattolici possono intervenire in ambito etico se è conveniente per una parte politica, ma quando lo fanno per difendere la vita nascente o prevenire l’aborto ricadrebbero nel vizio di invadere la sfera civile. Riemerge poi un sordo rancore verso la presenza sociale del cattolicesimo che si manifesta nella scuola attraverso la libera scelta del 91,1% degli studenti italiani e delle loro famiglie, e se si può denigrare questa scelta è bene farlo. Siamo di fronte a una forma sbilenca di relativismo per cui la Chiesa ha diritto di proporre il proprio magistero se qualcuno le dà il permesso, ma deve tacere se la difesa di principi morali essenziali, o il suo contributo alla formazione delle nuove generazioni, non collimano con la cultura dominante. Tanto questo gioco sta diventando insostenibile che finalmente un importante intellettuale ha sentito il bisogno nei giorni scorsi di andare più a fondo nella riflessione, e si è chiesto come mai nelle scuole la stragrande maggioranza delle famiglie (anche poco praticanti) sceglie l’insegnamento cattolico per i propri ragazzi, e perché la Chiesa continui a svolgere di fatto una funzione di supplenza etica laddove lo Stato e una certa cultura laica non sanno essere convincenti di fronte alle coscienze. Già, come mai? La domanda è veramente preziosa. Non sarà per caso che la cultura relativista sta divorando sé stessa, scivolando verso l’agnosticismo antropologico, lasciando spazio a chi da sempre è attento alla complessità e all’armonia della personalità individuale, all’equilibrio tra diritti e doveri, al ruolo che l’impegno personale svolge nel fluire della vita? La crescente attenzione verso la Chiesa non deriva anche dal fatto che il laicismo acritico sta abbandonando ogni orizzonte etico di riferimento, immiserisce scelte e opinioni in qualsiasi materia, afferma continuamente il primato dell’arbitrio individuale, e taglia così alcune delle sue più nobili radici? Oggi nessun esponente del pensiero relativista avrebbe il coraggio di evocare la vita buona di Aristotele, tantomeno di richiamarsi all’etica kantiana per la quale dobbiamo agire in modo che il nostro comportamento sia valido universalmente. E neanche si ispirerebbe ai principi dei nostri padri liberali (proprio loro) in buona parte coincidenti con i valori cristiani che avevano alimentato, plasmato, la cultura italiana e l’identità delle nostre popolazioni. Tra l’altro, sia detto tra parentesi, proprio i protagonisti del Risorgimento hanno mantenuto la religione cattolica nella scuola elementare (scuola di massa dell’epoca) con l’esplicito intento di garantire la formazione dei bambini e l’educazione dei futuri cittadini. Oggi gli unici principi cui il relativismo sa appigliarsi sono quelli dell’individualismo totale, per cui conta soltanto la signoria dell’utilitarismo, che può dominare la vita e la morte, anche dei più deboli, lasciando che la persona faccia quello che vuole, espungendo ogni forma morale perché autoritaria e infondata. Così, però, il relativismo dichiara il proprio fallimento perché afferma che non esiste alcun principio forte, nessun valore che dia stabilità etica e psicologica, e finisce per non offrire sponde di alcun genere a chi vuole affrontare la vita con l’impegno che richiede. Il relativismo all’inizio affascina, dà un senso provvisorio di potenza, ma poi delude, umilia, svuota la coscienza, finisce con l’assumere il volto moderno del nichilismo. Sta qui, non altrove, la ragione per la quale la religione cristiana continua a svolgere una funzione etica di riferimento per milioni di cittadini, per le nuove generazioni, le quali sanno, intuiscono con il cuore e la mente, che la vita offre gioia e serenità ma chiede convinzioni e coerenza, non può essere costruita sul nulla. La negazione dell’ethos alla lunga provoca solitudine, lascia insoddisfatti, e la ricerca di una fonte di sapienza e di saggezza si ripropone più forte che mai nella coscienza individuale e collettiva. Forse una riflessione su questi temi darebbe risposte assai più convincenti di quelle offerte da piccole polemiche sulla presenza della religione nella scuola, e sul ruolo del cattolicesimo nella società italiana.

(Fonte: Carlo Cardia, Avvenire, 20 agosto 2009)

giovedì 13 agosto 2009

La sentenza del Tar: “Una ferita alla cultura. E alla laicità”

Un’affermazione ed un’omissione: a tacer d’altro, basterebbero queste per rendere conto della non fondatezza di una sentenza che fa discutere, con la quale il Tar del Lazio ha affermato che i docenti di religione cattolica non potrebbero partecipare "a pieno titolo" agli scrutini e la frequenza al loro insegnamento non potrebbe influire sulla determinazione del credito scolastico. Sentenza contro la quale il ministro Gelmini ha annunciato ieri il ricorso al Consiglio di Stato. L’affermazione innanzitutto. Secondo i giudici amministrativi l’insegnamento della religione cattolica comporterebbe "una scelta di carattere religioso": di qui una serie di conseguenze negative per la laicità dello Stato, per la libertà religiosa e per l’eguaglianza dei cittadini senza distinzione di religione. È un’affermazione che sorprende, perché ignora un’abbondante bibliografia in merito, nella quale è chiaramente dimostrato che si tratta di un insegnamento culturale e non confessionale. Ma soprattutto l’affermazione sorprende perché i giudici sembrano ignorare la normativa vigente in materia: basterebbe scorrere le disposizioni di programmi e di libri di testo per rendersene conto. Soprattutto è ignorato lo stesso art. 9 del Concordato che, prevedendo l’ora di religione cattolica nelle scuole pubbliche, ne motiva la ragione in termini esclusivamente culturali. Dunque non si tratta di un insegnamento catechetico, diretto cioè a sostenere un cammino di fede, ma di un insegnamento culturale di ciò che oggettivamente è il cristianesimo, così come trasmesso da quella tradizione cattolica che tanta parte ha avuto nel forgiare l’identità degli italiani e che ancora marca tanto, della sua presenza, la nostra società. Non a caso si tratta di insegnamento che, pur opzionale, è aperto a tutti, anche ai non cattolici, anche non credenti; è aperto in particolare a coloro che hanno interesse a conoscere ciò che la Chiesa cattolica crede e professa, a prescindere da personali scelte di fede.Ma quand’anche fosse un insegnamento confessionale – cosa che, va ribadito, non è – sarebbe per ciò stesso lesivo della libertà religiosa e della laicità dello Stato? Dove sarebbe lesa la libertà religiosa in presenza di un insegnamento che chiunque può rifiutare? Dove verrebbe lesa la laicità dello Stato se questo è a servizio della società civile, in cui è la religione, e non viceversa? Sarebbe davvero laico uno Stato che disattendesse le richieste della società di avere nella scuola di tutti un insegnamento, opzionale, della religione? E che vi sia una consistente richiesta dell’insegnamento è nel fatto che novantuno studenti su cento scelgono ogni anno di frequentare l’ora di religione. E veniamo all’omissione. Posto che nella vigente normativa quello di religione cattolica è insegnamento curricolare – perché tenuto nell’orario scolastico, perché i programmi ed i libri di testo sono normativamente definiti, perché viene impartito da docenti di ruolo che hanno superato un pubblico concorso – ne consegue che per gli studenti che abbiano liberamente scelto di inserire tale insegnamento nel proprio piano di studi vi sia non solo il dovere, ma anche il diritto di essere valutati; che essi abbiano il diritto di veder riconosciuti i crediti scolastici maturati. La sentenza chiaramente frustra tale diritto.Tra le righe della decisione, ma non troppo, si avverte la preoccupazione della conformità costituzionale della normativa vigente in materia. Ma se ad altri spetta il giudizio di costituzionalità, rimane pur sempre che la Corte costituzionale si è pronunciata in merito per ben tre volte, confermando sempre la legittimità dell’ora di religione.

(Fonte: Giuseppe Dalla Torre, Avvenire, 13 agosto 2009)

Per Umberto Veronesi, un pianeta di amazzoni con il cervello da uomo

«Le donne non si fermano: la vittoria dell’approvazione della Ru486 è parte di un progetto non scritto di affermazione del loro futuro ruolo» . L’incipit dell’articolo del professor Umberto Veronesi su Repubblica è uno squillo di tromba; come l’annuncio di prossime certe e trionfali vittorie da parte di un condottiero, o un generale. Alla definizione della pillola abortiva come ulteriore tappa della liberazione femminile non erano arrivati, almeno apertamente, i più accesi fautori dell’aborto da bere. A dirla tutta, a uscir fuori al naturale, ci ha pensato il maestro di pensiero della medicina politicamente corretta. La pillola dell’aborto, « metodologia meno traumatica » , come un’altra pietra d’inciampo sgomberata da un vittorioso storico cammino femminile. In cui bisognerà, dice il professore, « ridisegnare gli spazi » fra procreazione e impegno pubblico delle donne: senza dimenticare una « superiorità » femminile, quella per cui una donna può fare un figlio senza un uomo, solo con una provetta di seme. Quella per cui una donna potrà un giorno clonare se stessa, e un uomo no. È lo scenario di una egemonia femminile superomistica, quella tratteggiata da Veronesi. E in questo radioso avvenire la pillola abortiva è un passo avanti. Verso il futuro Dominio delle Donne. O delle Superdonne. Fantastico. Peccato che questo disegno sia un evidente esempio di delirio di onnipotenza maschile. Pensateci: il famoso oncologo, nell’immaginare la rivoluzione femminile, altro non fa che disegnare il mondo come sarebbe, quando lo comandassero delle donne con un cervello assolutamente maschile. Donne educate da una cultura di potere, per le quali il sogno è liberarsi agevolmente di ' ostacoli' quali un figlio per essere più pronte a inseguire carriera o successo. Ora, è vero che di donne così ce ne sono sempre di più; aggressive, abili, perfettamente omologate al modello socialmente vincente. Ma che questa sia davvero rivoluzione femminile, è ciò che potrebbe dire un osservatore molto superficiale. Uno che, delle donne, non conosca la radicale, spesso tacita alterità. Scritta nei geni, nel corpo, perfino in quel ritmo che ogni mese scandisce il tempo dell’età feconda, come una domanda: vuoi che un altro viva? Come una profonda vocazione all’altro, che non si contenta degli idoli o balocchi del potere maschile.L’immaginazione di Veronesi di un mondo di Amazzoni autosufficienti è pura deriva di onnipotenza maschile. E solo un uomo può pensare mondi simili: clonando, con antica arroganza, la sua misura del vivere e sovrapponendola alle donne. Ma le autistiche Amazzoni che fanno figli da sole, sono fortunatamente un orizzonte futuribile e lontano. Drammaticamente attuale invece è la questione della pillola abortiva. E il messaggio dell’oncologo delle donne, del medico ' democratico', è: è un passo avanti nella vostra liberazione. Un veleno che annienta un figlio, è un pezzo di liberazione conquistata. Pare di risentire gli echi della battaglia, quando alle ragazze degli anni Settanta l’aborto legalizzato venne raccontato come una conquista e quasi una promozione sociale. Rieccoci: dai giornali giusti i maestri giusti conducono i loro corretti sermoni. Mia figlia ha dodici anni: è della generazione che crescerà nella nuova vulgata. Con una pillola che educa a pensare che quel problema è, in fondo, un problema da poco. Solo una pillola: fra qualche anno sarà possibile non mancare neanche un giorno al lavoro. Così vi vogliono, bambine: produttive, efficienti, competitive. Concrete, e senza rimpianti. Dei veri uomini. È questa, la rivoluzione millantata. Dimenticarsi di sé, di una propria natura, di un’accoglienza all’altro come scritta addosso: nella generosità del grembo, nello sguardo. Dimenticarsi di sé nel radioso, livido Mondo Nuovo del professor Veronesi.

(Fonte: Marina Corradi, Avvenire, 11 agosto 2009)

Caro Almodovar, non spacciare per famiglia ciò che famiglia non è

Va rassicurato Pedro Almodovar: Benedetto XVI non ha bisogno di fare una passeggiatina fuori del Vaticano per rendersi conto di certi fenomeni sociali; fenomeni che peraltro appaiono assai marginali, se si guarda al totale degli abitanti del Pianeta e, soprattutto, al di là di certi contesti del decadente Occidente. Sì: perché il noto cineasta sembra addebitare al Papa di non riconoscere altro che «la variante cattolica della famiglia», ignorando la pretesa realtà di una pluralità di esperienze familiari. Di qui l’invito a uscire dal Vaticano per vedere finalmente il mondo, giacché «è del tutto folle non riconoscere come vivono oggi milioni e milioni di persone». Almodovar va rassicurato perché attraverso quell’enorme rete che avvolge tutto il globo, data dalle strutture ecclesiastiche, dalle associazioni e dai movimenti, dalle opere sociali e di volontariato, dall’immenso strumentario di carità, la Chiesa cattolica è presente in tutti i contesti umani ed è certamente il miglior conoscitore di come va il mondo. Verrebbe da domandarsi, semmai, quali siano i limiti d’orizzonte e le fonti dirette di conoscenza di chi lancia certe inutili provocazioni. Qui occorre precisare che non esiste una “variante cattolica della famiglia”; che la famiglia, come società costituita dal matrimonio, presenta una struttura essenziale, invariabile e invariata nel tempo, com’è dato rilevare a livello storico, etnologico, antropologico, giuridico; che il matrimonio cristiano è nient’altro che l’elevazione a dignità di sacramento, tra battezzati, dell’istituto naturale. Certamente, la storia insegna che a livello personale, le esperienze concrete possono essere più o meno fedeli al modello; ci sono storie di fallimenti, umanamente dolorosi e che debbono essere oggetto di umana vicinanza, ma anche storie di eroismi nel mantenere fede alla parola data, nel volere il bene del coniuge, dei figli, degli altri componenti il gruppo familiare, anche quando l’amore sia scomparso o quando sia venuta meno l’utilità del vivere insieme. Così come la storia insegna che vi possono essere forme di solidarietà umana anche al di fuori della famiglia, dove i vincoli di sangue non contano perché non ci sono, che si fanno carico dei più piccoli, dei più deboli, di chi non può contare sulle proprie forze; forme di solidarietà di cui – grazie a Dio – è intessuta la quotidianità, che umanizzano la convivenza e che dovrebbero essere meglio sostenute e incoraggiate. Il problema, però, è non confondere le più diverse espressioni del farsi carico dell’altro con la famiglia; non contrabbandare per comunità familiare ciò che tale non è. In questo senso lascia molto perplessi una sentenza della Cassazione, appena resa nota, secondo cui «il diritto non può non tener conto dell’evoluzione della società e della necessità di adattare le sue regole ai mutamenti della realtà sociale», che «oggi famiglia e matrimonio hanno un significato diverso e più ampio» rispetto a quello che veniva loro attribuito in passato, e che «la stabilità del rapporto, con il venir meno dell’indissolubilità del matrimonio, non costituisce più caratteristica assoluta e inderogabile e anzi spesso caratterizza maggiormente unioni non fondate sul matrimonio». A prescindere, infatti, dalla coerenza di queste affermazioni con l’articolo 29 della Costituzione, che nella misura in cui «riconosce la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio» dà chiaramente a vedere che il paradigma di riferimento precede il diritto positivo e non può da questo essere mutato, rimane pur sempre la domanda alla quale nessuno ha mai fornito una risposta, e cioè: perché si pretendono gli effetti giuridici di quel matrimonio che non si vuole? È la volontà manifestata formalmente e pubblicamente di farsi carico di coniuge e figli, per il futuro, nella buona o nella cattiva sorte, che qualifica e distingue la famiglia, e non il mero scorrere del tempo. Tornando ad Almodovar, nasce un dubbio: certa cinematografia vuol essere realmente uno specchio della realtà o, viceversa, vuole incidere sulla realtà sociale per modificarne valori etici e cultura? È descrizione o manipolazione? Rappresenta per allertare sulle difficoltà che in determinati contesti, oggi, la famiglia incontra a realizzarsi secondo la propria natura, o persegue l’obiettivo ideologico – ma anche utopistico – del suo superamento?

(Fonte: Giuseppe Dalla Torre, Avvenire, 8 agosto 2009)

mercoledì 12 agosto 2009

Demenza laicista

Ci risiamo. E’ lecito, certo, che accada, ma non riusciamo ad abituarci al suo accadere. Il pronunciamento da parte di organi d’informazione cattolici e di esponenti della gerarchia ecclesiastica contro la pillola Ru486 è stato accolto con livore da parte dei laicisti, tanto a sinistra che a destra. E i pulpiti da cui sono stati lanciati i soliti anatemi non sono stati solo i giornali storicamente schierati, come Repubblica o Il manifesto, ma anche testate quali Libero o Il giornale, lette comunemente dall’elettore di centro destra.
Quando si tratta di laicismo si verifica un’interessante trasversalità.
Sul Manifesto hanno fatto gli spiritosi, intitolando "Impasticcati" un fondo contro papa e vescovi, i quali avrebbero travisato completamente il messaggio del Fondatore. “Non fu l’etica – spiegano questi nuovi teologi – la priorità del fondatore” e aggiungono che questioni “morali” sono la fame nel mondo e l’immigrazione. C’è uno strano corto circuito, nel ragionamento. Prima si dice che non conta l’etica, poi si indicano questioni morali prioritarie. Ma insomma, che cosa voleva veramente il Fondatore? Glielo spieghiamo semplicemente noi: che l’uomo non pretenda di sostituirsi a Dio, perché quando lo fa si rende subito responsabile di orridi delitti, che siano l’aborto, lo sfruttamento della povera gente e, insomma, tutti i mali che combiniamo sulla terra.
La Chiesa ricorda alle donne e ai medici che fanno ricorso alla pillola abortiva che anche in quel modo ci si attira addosso la scomunica? Ebbene, il Manifesto risponde: “Viviamo in uno stato democratico e la scomunica può essere reciproca”. Passando così da un provvedimento essenzialmente spirituale e interno alla Chiesa ad un minacciato intervento nella sfera pubblica, politica. L’hanno fatto i loro progenitori lo scorso secolo, lo rifaranno loro.
Su Libero, adesso, dove Giancarlo Lehner [nella foto, giornalista, deputato di centrodestra, già condannato per diffamazione aggravata] inizia il suo pezzo così: “Il 20 settembre Roma fu strappata allo Stato pontificio. E la Città eterna potè diventare capitale d’Italia. La breccia di Porta Pia segnò anche la fine del potere temporale dei Papi, ma non è bastato per affrancare il Vaticano dalle risorgenti tentazioni talebane”. Ora, di fronte ad un incipit di tale grandezza epica, di tale sincero entusiasmo per la Roma umbertina, di tanta storica capacità di giudizio, cosa si deve dire? Davanti alla garibaldina invocazione di una “nuova breccia di Porta Pia” per “rischiarare le idee ai nostalgici del Papa Re”, cosa aggiungere? Lehner cita un pezzettino delle dichiarazioni rilasciate da Mons. Fisichella, una battuta: “Non possiamo restare passivi” e ci scherza su con un umorismo da grande giornalista: “A che tanta muscolarità? Ci scatenerà contro le guardie svizzere?”. Me lo vedo mentre ride tronfio e imbecille.
Questi due esempi tanto per dire il livello della controffensiva laicista. Ovviamente non pretendete che gente dal cervello tanto ristretto riesca a confrontarsi seriamente con certi passaggi molto più serie e impegnativi che c’erano nell’articolata posizione di mons. Fisichella (che non è proprio l’ultimo arrivato), tipo il seguente: “L'assunzione della Ru486 non rende meno traumatico l'aborto, solo lo rinchiude ancora di più nella solitudine del privato della donna e lo prolunga nel tempo”; oppure: “L'aborto è un male in sé perché sopprime una vita umana; questa vita anche se visibile solo attraverso la macchina possiede la stessa dignità riservata a ogni persona. Il rispetto dovuto verso l'embrione non può essere da meno di quello riservato a ognuno che cammina per la strada e chiede di essere accolto per ciò che è: una persona”; o anche il passaggio in cui si richiama l’urgenza educativa “perché i giovani comprendano l'importanza di fare propri dei valori che permangono come patrimonio di cultura e di identità personale”. Non sono proprio delle cretinate su cui sorvolare ridendo come un beota.
Infine, ieri leggo sul Giornale il pezzo di tal Filippo Facci [giornalista e opinionista politico di Unità, Repubblica, Avanti] che, riassumo, comincia così: la pillola Ru486 è stata inventata in Francia dove la usano da 22 anni; è in uso in quasi tutta l’Unione Europea; da dieci anni ce l’hanno anche gli USA; è stata oggetto di “infinite sperimentazioni”, ma l’Italia, per qualche ragione (poi si capirà che la ragione è la presenza del Vaticano) fa “storia a parte”. E’ un po’ come dire: c’è una nuova bomba che è stata inventata e che funziona benissimo, molti già ce l’hanno, perché non la adottiamo anche noi?
L’accusa del Facci è che certi politici nostrani, succubi del Vaticano vogliono in realtà che “l’aborto resti una pratica il più possibile pubblica, ospedaliera e traumatica culturalmente e fisicamente”. Se ne deduce che lui vuole un aborto il più possibile privato (se la veda la donna col problema), casalingo e facile, culturalmente e fisicamente. Tanto l’aborto (chirurgico o chimico che sia) mica lo fa lui. Lui ci mette solo il pisellino. Il resto lo fa la donna.
Avrete notato che nessuno di costoro si pone il problema dell’aborto in sé e per sé. Tutti hanno rimosso la realtà dell’aborto, ciò che è, il male che è. Che lo si faccia bene, presto, da soli e senza troppi problemi morali. Così lo Stato sarà finalmente laico.
Se non è demenza questa...

(Fonte: Gianluca Zappa, La Cittadella, 11 agosto 2009)

venerdì 7 agosto 2009

La pillola 486: Viva la morte !!

Gioite ed esultate. Anche in Italia abbiamo fatto il passo in più verso la barbarie, verso l’omicidio sempre più libero, verso l’appannamento totale delle coscienze. Per non essere da meno nel festival dell’incoscienza che rallegra il mondo, anche in Italia potrà essere usata legalmente la pillola RU486. Un vero passo da gigante sul cammino della civiltà.Adolf Eichmann, efficientissimo organizzatore dello sterminio del popolo ebraico, ebbe occasione di esternare la sua preoccupazione perché le fucilazioni di ebrei o, peggio ancora, l’uccisione uno ad uno con un colpo di pistola alla nuca, rischiavano di “turbare” le SS, se non addirittura di “imbarbarirle”. È infatti noto che questo corpo militare-politico era costituito per lo più da spiriti candidi, sensibili e delicati. La soluzione si trovò nell’omicidio che potremmo chiamare “tecnicamente indiretto”. Qualche centinaio di prigionieri ebrei stipati nella camera a gas, una leva da abbassare per aprire le valvole del letale gas “Zyklon B”, e poi lo sgombero dei cadaveri veniva effettuato da altri prigionieri a ciò comandati. Precdentemente eran stati sperimentati anche gli autobus sigillati, in cui i passeggeri venivano uccisi usando lo stesso gas di scarico del motore, ma il sistema era lungo e malpratico.Quindi nessuno uccideva. C’era chi mandava nelle camere a gas, c’era chi abbassava la leva. Ognuno di questi atti “allontanava” la vittima dal carnefice, rendendo più facile il compito di quest’ultimo. In criminologia si parla di “neutralizzazione” del crimine, quando il criminale riesce a trovare l’escamotage psicologico per sentirsi estraneo al delitto che invece la legge gli addebita. Per assurdo, potremmo avere l’omicida che si difende asserendo che in verità chi ha ucciso la vittima non è stato lui, bensì il proiettile uscito dalla pistola che lui impugnava…La RU486 è un ottimo strumento di neutralizzazione del crimine di omicidio. Io credo che anche al più freddo dei medici abortisti possa fare qualche impressioncella dover alle volte estrarre pezzi di cadavere dall’utero materno. Molti aborti infatti avvengono così, anche perché il feto, poverello, né è molto robusto, né ha la possibilità di difendersi. Spesso lo si accoppa nell’utero materno e poi lo si tira fuori a pezzi. Ora tutto questo turbamento viene superato. Una pillolina, e via!Francamente, questi “progressisti” (che non fanno progredire un bel nulla) li capisco sempre di meno. Si direbbe che vivano di due ossessioni. La prima, tutto sommato inoffensiva nella sua infantile stupidità, è quella di distruggere politicamente Silvio Berlusconi. Il governo Prodi è stato da molti rimosso dai ricordi, comprensibilmente, perché più che un governo era un casino. E allora è bene ricordare che l’accozzaglia di gente (chiamarli ministri mi sembra eccessivo) che componeva quel governo trovò un po’ di concordia principalmente nello smontare i provvedimenti presi dal governo Berlusconi che li aveva preceduti. Ora che sono tornati del tutto in minoranza, anziché far politica, cercano di continuo di soffiare sul fuoco di scandali e scandaletti più o meno inventati per la loro eterna e maniacale guerra a Berlusconi. Ma qui, come dicevamo, sono inoffensivi, come tutti gli scemi.Ma la seconda ossessione è invece terribile: è la morte. E qui appare chiaro come ormai la nostra “politica” vada letta in chiave psichiatrica. La morte, mi si scusi la banalità, è l’opposto della vita, è la sua fine, la sua negazione. Ripeto, mi rendo conto di aver detto una banalità enorme, ma qui se non si torna al banale buon senso comune, si finisce tutti in malora. Pochi mesi fa, in febbraio, è stata celebrata la grande festa dell’eutanasia, ottenendo anche il sovvertimento logico terribile di indurre un genitore, Beppino Englaro, chiaramente debole mentalmente, a voler dare la morte a una propria creatura. E questo è un atto contro natura, perché è normale, ripeto normale, che un genitore difenda la vita del figlio, anche contro ogni logica. Si è praticata una forma di eutanasia di una crudeltà senza pari (far morire per fame e sete) e tutti gioivano. Ora si può gioire perche viene ulteriormente facilitata quella forma di omicidio volontario che non bisogna neanche più chiamare “aborto” ma “interruzione volontaria della gravidanza”, in attesa che i falsi pudori degli ipocriti trovino ancora un altro nome.Fantastica invenzione la pillola RU486. perfetta neutralizzazione del crimine. Un sorso d’acqua, e, oplà, è fatta!Quanti fastidi in meno, quanto tempo risparmiato!Ergo, uccidiamo i malati, perché danno fastidio (eutanasia); uccidiamo i bambini, perché danno fastidio (aborto). Signori, tutto questo è fanatismo per la morte. Siamo alla deriva mentale completa, perché questa gente sogna un avvenire che sarebbe perfetto realizzando la profezia finale di Zeno Cosini. Immagino che per i nostri amici progressisti, ammesso che seguano il mio blog, questo voglia dire ben poco. Loro leggono Repubblica, che aggiorna sulle memorie della puttana di turno. Vadano a leggersi Italo Svevo, e sapranno di cosa sto parlando.Comunque, viva la RU486, che porterà con sé, oltre a un bel numero di morti ammazzati in più, un aumento di disordine nella vita affettiva dei giovani, la cui età media per il primo accoppiamento è già paurosamente bassa. Chiedo scuse alle orecchie delicate, ma parlo di accoppiamento, perché ormai siamo al puro soddisfacimento dell’istinto sessuale. Come le bestie.Il disordine affettivo non potrà che aumentare, perché chi già si accoppia nei cessi delle discoteche con la massima indifferenza, lo farà ancora di più, perché la società laica, progressista, eccetera eccetera ha ulteriormente facilitato l’iter per sbarazzarsi dell’eventuale “incidente”. Chi vorrà accoppare il bambino magari perché la nascita coinciderebbe con la partenza per le vacanze, sarà ulteriormente facilitato. Chi vorrà accoppare il bambino perché teme nuove smagliature sul pancino, che renderebeero imbarazzante mettersi in costume da bagno, è ulteriormente facilitato. Eccetera.Viva la RU486, ulteriore strumento per rendere sempre più facile l’omicidio! E viva l’eccezionale business che le aziende farmaceutiche realizzeranno, nonché le ricche royalties che spetteranno all’inventore di questa fantastica pillola che, ovviamente, ha detto che a lui interessa solo difendere la libertà della donna.Curioso concetto di libertà, che passa attraverso la soppressione di un essere umano innocente e indifeso.La Chiesa cattolica ha subito chiarito che l’uso della RU486 è assolutamente inaccettabile, poiché la pillola in questione altro non è che un abortivo, e pertanto chi ne fa uso, come chi la prescrive, è soggetto alla scomunica. Non credo che la scomunica interessi molto il nostro mondo “progressista”, ma comunque interessa protestare perché la Chiesa “interferisce” con la libertà dello Stato laico, e altri bla bla del genere. E invece, ancora una volta, la Chiesa è l’unico baluardo a difesa della vita, né i suoi ammonimenti sono rivolti solo ai fedeli, ma a tutti gli uomini che non abbiano ancora smarrito il senno, che ancora siano in grado di ricordare che la morte è la negazione della vita, né potrà mai essere definito “esercizio di un diritto” il fatto di dare la morte a un innocente. Questo, signori, è puro buon senso, quello che già richiamavo prima e senza il quale una Società è destinata a disfarsi.Un’ultima noterella: con quale schifosa faccia di tôla (per non dir di peggio) ci si dà tanto da fare per sbraitare contro la pena di morte, e poi ogni anno accoppare con assoluta indifferenza decine di migliaia di bambini?

(Fonte: Paolo Deotto, www.blogspot.com, 5 agosto 2009)

Pakistan: l’Islam colpisce i cristiani

Hanno tirato pietre, bruciato le case, inseguito i fuggiaschi sparando all'impazzata. Alla fine i morti sono nove. Sette hanno per cognome Hamid e sono dello stesso clan familiare di padre Hussein Younis, francescano. Tra essi vi sono due bambini (nella foto di Saqib Khadim, le bare). La loro unica colpa è d'essere cristiani.È accaduto in Pakistan, a Gojra, provincia di Faisalabad, nel Punjab orientale. In tutto il Pakistan i cattolici sono un milione e trecentomila, e altrettanti i cristiani di altre denominazioni, su una popolazione di 160 milioni quasi tutti musulmani. Ma l'intolleranza contro questa minoranza piccola, povera e pacifica è ormai un dato costante, che a tratti esplode in sanguinose aggressioni.L'ultima ha avuto per scintilla un'innocente festa di matrimonio tra cristiani, a Koriyan, un piccolo villaggio vicino a Gojra. Era il 30 luglio. Racconta padre Younis, intervistato da Lorenzo Cremonesi per il "Corriere della Sera" del 3 agosto:"Come è usanza, alla fine della cerimonia in chiesa gli invitati hanno tirato verso la coppia fiori, riso, alcune monete per augurare prosperità e biglietti con frasi di saluto o preghiere. Il guaio è che dei musulmani hanno cominciato a sostenere che i biglietti erano pagine del Corano strappate, un'offesa gravissima per l'islam e oggi ancora più grave in questi tempi di fanatismo. Ben presto sono volati insulti, accuse, poi pietre. Nel pomeriggio erano già state date alle fiamme alcune abitazioni. Ma la violenza più grave è esplosa sabato mattina 1 agosto a Gojra, attorno al quartiere cristiano."La nostra gente ha contato otto autobus carichi di estremisti arrivati da fuori. Volti sconosciuti di gente armata sino ai denti. Il loro slogan era che noi cristiani abbiamo la stessa religione dei soldati americani e dunque siamo nemici, meritiamo la morte. Prima hanno tirato pietre, poi hanno sparso benzina e infine mitra e bombe. Qui attorno a me è tut­to bruciato, carbonizzato. Il bilancio di sangue poteva essere molto peggiore se i cristiani non fossero fuggiti subito. I miei familiari non sono stati abbastanza lesti e sono bruciati vivi, intrappolati tra le fiamme".Il vescovo di Faisalabad, Joseph Coutts, anche lui intervistato dal "Corriere della Sera", ha così commentato: "È chiaro che questi pogrom sono stati organizzati da gruppi che col fine di sconvolgere il Pakistan, oltre che l'Afghanistan, fanno di tutto per seminare violenza. Ci hanno provato con gli attentati nelle maggiori città pakistane e ora passano agli attacchi ai cristiani. Il fatto più grave è che adesso riescono a mobilitare grandi folle di fedeli contro di noi. Trovo che sia un fenomeno allarmante, peggiore che gli attentati isolati con bombe nelle chiese che hanno terrorizzato i cristiani sin dall'inizio nel 2001 della guerra in Afghanistan".Il vescovo ricorda almeno quattro pogrom anticristiani che hanno visto la mobilitazione di larghe masse di manifestanti pronte ad usare violenza: "La prima volta in anni recenti è stato nel 1997, nel villaggio di Shanti Nagar. Otto anni dopo l'attacco si è ripetuto nella cittadina di Sangla Hill. Il 30 giugno scorso è avvenuto nel villaggio di Bahmani Wala, nella regione di Kasur, non troppo lontano da qui. E ora a Koriyan e Gojra hanno dato fuoco a decine di case".Quasi sempre il pretesto delle violenze e delle persecuzioni è la legge 295, che in nome della sharia commina pene pesantissime, fino all'ergastolo, a chi offende il Corano o Maometto. "Il problema è che questa legge viene utilizzata in modo del tutto arbitrario. Spesso basta la parola di un cittadino musulmano per far mettere in carcere un cristiano senza alcuna prova concreta", prosegue monsignor Coutts. L'ultimo processo si è concluso lo scorso 17 aprile a Lahore con l'assoluzione di due anziani cristiani, James e Buta Masih. I due innocenti avevano passato più di due anni in prigione. Dal 1986 a oggi è stato calcolato che l'accusa ha colpito 982 cristiani. Di essi, 25 sono stati uccisi da musulmani fanatici.Dopo l'ultimo massacro, il primo ministro del Punjab, Shahbaz Sharif, ha nominato una commissione d'inchiesta e ha annunciato un risarcimento di 500.000 rupie, poco più di 4.000 euro, ai familiari delle vittime.Lo scorso 6 luglio un compenso di 20.000 rupie era stato dato a ciascuna delle 57 famiglie che avevano avuto la casa distrutta nel pogrom anticristiano del 30 giugno a Bahmani Wala. La consegna è stata fatta alla presenza di tre preti cattolici e di altri leader cristiani, davanti alla chiesa del villaggio utilizzata dalle diverse confessioni.Prima ancora, la Chiesa cattolica aveva subito danni anche in conseguenza dell'attentato suicida del 27 maggio contro un edificio della polizia a Lahore. L'edificio fu interamente distrutto, con 35 morti. Ma subirono crolli anche quattro edifici adiacenti: la libreria delle Figlie di San Paolo e tre scuole medie superiori cattoliche.Nel marzo del 2008 anche la cattedrale di Lahore aveva subito danni, per una bomba contro un vicino edificio del governo.Per tre giorni, dopo l'ultimo pogrom, tutte le scuole cattoliche del Pakistan sono state chiuse in segno di lutto.I vescovi e il nunzio apostolico Adolfo Tito Yllana hanno chiesto a più riprese alle autorità pakistane di agire in difesa delle minoranze religiose aggredite. La loro convinzione è che sia in atto un vero e proprio martirio, con i cristiani eletti a "capro espiatorio" dell'odio di musulmani fanatici. Analoghi pogrom hanno per vittima, in Pakistan, anche una corrente islamica messa al bando come "eretica", che conta circa tre milioni di seguaci, gli Ahmadi.In un telegramma inviato il 3 agosto al vescovo di Faisalabad, Joseph Coutts, e firmato dal segretario di Stato vaticano, Benedetto XVI ha espresso il suo dolore "per l'insensato attacco alla comunità cristiana di Gorjan", con la "tragica uccisione di bambini, donne e uomini innocenti". E ha fatto appello ai cristiani del Pakistan perché non desistano dallo sforzo di "costruire una società che, con un profondo senso di fiducia nei valori umani e religiosi, sia caratterizzata dal mutuo rispetto fra tutti i suoi membri".In un'intervista alla Radio Vaticana, il nunzio in Pakistan si è detto "consolato dalle parole di perdono di un cristiano che ha avuto la casa bruciata e che ha detto: 'Speriamo soltanto che Dio dia loro la luce di vedere la giusta via'".Il nunzio ha commentato: "Questo è più potente di qualsiasi omelia io possa fare. C’è lo spirito cristiano che regna sempre fra questa gente che soffre".

(Fonte: Sandro Magister, Settimo cielo, 5 agosto 2009)