venerdì 31 ottobre 2008

È ora di riscoprire la sobrietà

Quando andavo a scuola la maestra ci insegnava che il 31 ottobre era la giornata del risparmio. Una giornata di sensibilizzazione per essere parsimoniosi e sobri, vivere bene il nostro rapporto con il denaro, non spendere oltre le nostre capacità, mettere da parte i nostri soldi per costruire qualcosa di grande. Insomma, non sperperare per le inutilità.
Poi venne la ‘finanza creativa’, per cui valeva il concetto che chi più spendeva, più aveva fortuna. Era la finanza creativa, che affermava che occorreva fare prestiti per togliersi ogni ‘sfizio’. E la cultura del risparmio divenne un retrogrado ritorno al passato. Oggi tutta la pubblicità è incentrata sul consumo a tutti i costi e chi parla di educazione alla sobrietà è tacciato di oscurantismo. Vittorio Pelligra, ricercatore di economia politica presso l’Università di Cagliari, sottolinea la necessità di ritornare alla fiducia nei risparmi.
Oggi, il problema è educativo: non insegniamo ai nostri ragazzi il bisogno del risparmio e della parsimonia. Eppure è una delle virtù. Il catechismo della Chiesa cattolica al n. 1089 recita: "La temperanza è la virtù morale che modera l’attrattiva dei piaceri e rende capaci di equilibrio nell’uso dei beni creati… La persona temperante orienta al bene i propri appetiti sensibili, conserva una sana discrezione, e non segue il proprio istinto e la propria forza assecondando i desideri del proprio cuore… Nel nuovo testamento è chiamata moderazione o sobrietà. Noi dobbiamo vivere con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo". Il prof. Luigino Bruni, docente di Economia Politica all’Università Bicocca di Milano, afferma: "Dietro questa crisi c'è anche una crisi morale, che riguarda anche il nostro rapporto con i beni e gli stili di vita. L'indebitarsi (negli USA ma sempre più in tutto il mondo opulento) ben oltre le possibilità reali di reddito, è una forma di doping simile a quella di cui sono preda i ‘giocatori d’azzardo’ della finanza. Indebitarsi per il consumo è atto ad altro rischio, poiché mentre l’indebitamento per un investimento è sano e naturale, fondato sull’ipotesi che se l’investimento è buono il valore aggiunto remunererà anche l’interesse bancario, indebitarsi per vacanze esotiche o case di lusso può essere un atto simile a quello di Pinocchio che, seguendo i consigli del Gatto e la Volpe, seminava denaro sperando di vederlo un domani crescere moltiplicato sugli alberi. Nessuno, ovviamente, vuol negare che entro certi limiti il debito delle famiglie possa essere virtuoso per l'economia e per il bene comune. Ma è ancora più vero che la banca che presta troppo e alle persone sbagliate non è meno incivile di quella che presta troppo poco alle persone giuste. Se banchieri e consulenti finanziari si comportano come novelli Gatto e Volpe, tutti alla fine vivranno, diversamente dalle favole, ‘infelici e scontenti’. Un’ultima considerazione. C'è un aspetto importante in tutta questa "bufera" che non viene mai sottolineato dai media. Chi in questi anni ha fatto investimenti etici (in Banca Etica, ad esempio, ma anche in tante banche cooperative) oggi si ritrova con un risultato al tempo stesso etico, economicamente vantaggioso e molto sicuro". E ancora: "Questa crisi sta rimettendo in discussione il sistema degli incentivi e dei valori in gioco, anche puramente economici. Come è avvenuto tante volte nella storia, un cambiamento climatico può determinare l'estinzione di grossi mammiferi e lo sviluppo di organismi più piccoli e agili, che nel precedente clima apparivano svantaggiati. Se questa crisi, nonostante la sua gravità e il grande dolore che sta procurando (i soldi sono importanti quando servono per poter vivere), può servire a dar vita ad un nuovo patto sociale planetario per una economia più etica, amicale e aperta alla gratuità, allora sarà stata una felix culpa. Se invece guardiamo nelle nostre comode case i dibattiti televisivi sulla crisi, alternando le notizie sui crolli di banca all’attesa per le colossali vincite all’enalotto, convinti che la colpa è soltanto dei cattivi Gatto e Volpe di Wall Streat o di Piazza Affari, allora tra qualche mese dimenticheremo tutto, e ci ritufferemo nel doping del consumo".Forse oggi non siamo più abituati al risparmio perché abbiamo voluto fare a meno della saggezza di chi consigliava una vita di ‘duro lavoro’; abbiamo ingannato i giovani dicendo che tutto si può ottenere con minimo sforzo e senza sudore; ma il risparmio è legato inscindibilmente al sudore; il sudore va a braccetto con la prudenza e la temperanza. Infatti nel lontano 1973 (altro anno memorabile di crisi economica) l’economicista e sociologo Ernst F. Schumacher scriveva molto sapientemente: "Nel contesto dell’intera tradizione cristiana, non c’è forse corpo dottrinale che sia più rilevante e appropriato alla pericolosa situazione moderna delle dottrine meravigliosamente sottili e realistiche delle quattro Virtù Cardinali: prudenza, giustizia, fortezza, temperanza… (Prudenza) significa l’opposto di un atteggiamento verso la vita piccolo, mediocre, calcolatore, che rifiuti di vedere e valutare qualsiasi cosa la quale non riesca a promettere un immediato vantaggio utilitario". (Simone Baronia, Korazym.org, 26 Ottobre 2008 )

Decreto Scuola: e non è finita qui!

Il decreto Gelmini era solo un aperitivo. La vera rivoluzione della scuola cova in un progetto di legge firmato Valentina Aprea. Che non piacerà affatto ai paladini della mediocrità.
Ce n’est qu’un debut. Cioè il bello deve ancora venire. Il contestatissimo decreto Gelmini, infatti, contiene solo alcune misure urgenti, necessarie per far fronte alle distorsioni più gravi del sistema d’istruzione. Ma la vera rivoluzione si aggira silenziosa nei meandri della Camera, sotto le spoglie della proposta di legge 953, recante “Norme per l’autogoverno delle istituzioni scolastiche e la libertà di scelta educativa delle famiglie, nonché per la riforma dello stato giuridico dei docenti”, proposta dal presidente della commissione Cultura della Camera dei deputati, Valentina Aprea. Scuole trasformate in fondazioni, risorse distribuite secondo il principio “i soldi seguono gli studenti”, carriera per i docenti, albi regionali degli insegnanti e un contratto ad hoc per la categoria: quando la 953 sarà approvata, la scuola italiana non sarà più quella che abbiamo sempre conosciuto. Vediamo perché.Autonomia degli istituti scolastici. È la madre di tutte le riforme. Basta col papocchio postsessantottino dei Consigli d’istituto, parlamentini scolastici che giocano alla finta democrazia mentre le decisioni che contano rimangono saldamente nelle mani di viale Trastevere: dando piena attuazione al titolo V della Costituzione (riscritto, per chi avesse la memoria corta, dal fu governo D’Alema), le scuole verranno affidate a veri e propri consigli di amministrazione, responsabili in tutto e per tutto della gestione degli istituti e dell’amministrazione dei fondi che lo Stato affiderà loro. Composizione dei Consigli? Una novità inaudita nel monolitismo dello Stato italiano: ciascun Consiglio, di «non più di undici membri», «delibera il regolamento relativo al proprio funzionamento, comprese le modalità di elezione, sostituzione e designazione dei suoi membri». Tradotto: non sarà il ministro a decidere se in tutte le scuole della Repubblica dovranno esserci due o tre insegnanti, due o tre genitori, due o tre bidelli, con le relative infinite di-scussioni che negli anni passati hanno bloccato ogni iniziativa analoga; ma ciascuna scuola valuterà la composizione del proprio Consiglio, che potrà comprendere anche «rappresentanti delle realtà culturali, sociali, produttive, professionali e dei servizi». Come a dire: siete maggiorenni, siete in grado di valutare da soli quale sia l’assetto più funzionale. E magari di cambiarlo, in tempi ragionevoli, senza attendere quelli biblici del Moloch di viale Trastevere. Accanto al Consiglio di amministrazione, il Collegio dei docenti, che si dota da sé di un regolamento che ne determini il funzionamento, e un «nucleo di valutazione dell’efficienza, dell’efficacia e della qualità complessive del servizio scolastico», composto da «docenti esperti» e anche da «membri esterni». Anche qui la composizione è lasciata alle singole scuole. Chissà se sapranno usare bene tutta questa libertà? E chissà se gli insegnanti troveranno il modo di lamentarsi anche di questa?Le risorse seguono gli alunni. Tanto più decisiva la riforma degli organi di governo in quanto la legge prevede che le risorse necessarie al funzionamento delle scuole – tutte, da quelle per riparare il tetto a quelle per pagare i docenti – siano conferite tramite le Regioni a ciascun istituto, «sulla base del criterio principale della “quota capitaria”, individuata in base al numero effettivo degli alunni iscritti a ogni istituzione scolastica, tenendo conto del costo medio per alunno, calcolato in relazione al contesto territoriale, alla tipologia dell’istituto, alle caratteristiche qualitative delle proposte formative, all’esigenza di garantire stabilità nel tempo ai servizi di istruzione e di formazione offerti, nonché a criteri di equità e di eccellenza». I protagonisti, cioè, sono gli istituti, lo Stato fa un passo indietro: qui ci sono le risorse, nessuno ha ricette magiche, ciascuno provi la sua ipotesi, sarà la realtà delle cose (la soddisfazione di studenti e famiglie) a indicare quali sono le migliori, e a dirottare automaticamente con la propria scelta le risorse verso le soluzioni più efficaci.Da istituti a fondazioni. Recita il Pdl 953: «Ogni istituzione può – a beneficio di tutti quelli che in questi giorni sbraitano che “le università diventeranno fondazioni”, sottolineiamo la parola “può”: ha la possibilità, può decidere, in base a una valutazione delle circostanze che è lasciata a ciascuna realtà – costituirsi in fondazione, con la possibilità di avere partner che ne sostengano l’attività», partecipando anche ai suoi organi di governo. È quel che nei paesi che ci sorpassano nelle classifiche Ocse-Pisa avviene abitualmente, è quel che già oggi le scuole più attente al rapporto col territorio, cioè al futuro vero dei propri studenti, cercano di fare, aggirando i mille bastoni che la normativa attuale mette tra le ruote della collaborazione col mondo reale. I soliti okkupanti abbaieranno che così si svende la scuola ai privati. Studenti, famiglie e insegnanti attenti alla realtà dei fatti sanno bene che il rapporto col mondo imprenditoriale significa miglioramento della qualità dell’offerta formativa.Docenti in carriera. Non c’è cosa più frustrante, oggi, per un’insegnante, di vedersi trattato allo stesso modo di tutti gli altri, qualunque sia il proprio impegno. Dovunque – negli altri settori e nelle scuole di altri paesi – chi lavora bene viene premiato. Solo nella scuola italiana questo non avviene. In omaggio a un dogma sovietico, gli insegnanti sono tutti uguali. Con la nuova legge la professione docente è articolata in tre livelli (docente iniziale, docente ordinario e docente esperto) a cui corrisponde un distinto riconoscimento giuridico ed economico della professionalità maturata. La formazione degli insegnanti avviene nei corsi di laurea magistrale e nei corsi accademici di secondo livello, con la previsione di un periodo di tirocinio e la creazione di un albo regionale da cui attingere. Sono previste valutazioni periodiche dei docenti, in base all’efficacia dell’azione didattica. Che non è certo facile da valutare, ma se altri paesi ci riescono, noi siamo forse più stupidi?Un contratto ad hoc. Dulcis in fundo, viene istituita un’area contrattuale della professione docente. Vale a dire: il contratto degli insegnanti sarà scorporato da quello di segretari e bidelli, mestieri indispensabili ma di natura differente. E scompariranno le attuali rappresentanze sindacali d’istituto (le famigerate Rsu) in cui sono sovente appunto degnissimi bidelli a decidere come vanno ripartite anche fra gli insegnanti le (poche) risorse aggiuntive. Forse anche l’Italia diventerà un paese moderno. (Roberto Persico,Tempi, 30 ottobre 2008)

"Ero gay, mi hanno curato e ora sogno di avere un figlio"

«È successo tutto dopo un festino. Un amico stava preparando un esame di psicologia e ha dimenticato un mucchio di appunti sulla scrivania della mia stanza. Ho cominciato a leggere e ho scoperto della terapia riparativa. È iniziato tutto da lì». Party notturni, alcol, sesso facile e promiscuo. Fino ai 27 anni Luca viveva di «festini» - come li chiama lui - di rapporti occasionali, consumati anche all'aperto, o come si dice in gergo di «cruising». «Questa era la mia vita e quella dei gay come me. Fino a quel momento», racconta disinvolto davanti a una tazza di tè, in un bar nel centro di Milano, dopo una giornata di lavoro. «Non ho fretta, no, ma poi devo prendere un treno per raggiungere mia moglie - dice sorridente -. Abitiamo fuori Milano. Stiamo così bene lontano dalla città».
Non è una doppia vita quella che Luca ha deciso di raccontarci. È una nuova vita. Fino a qualche anno fa Luca di Tolve - che ora di anni ne ha 36 - faceva public relations per i locali omosex, era un attivista dell'Arcigay: si occupava di turismo e organizzava viaggi per la comunità. Un omosessuale convinto, insomma. «Convinto sì, credevo che quella fosse la mia condizione, irreversibile. Ero un egocentrico, palestrato, schiavo dei locali notturni, ossessionato dai soldi, convinto di provare attrazione unicamente per i maschi e finito nel vortice del sesso compulsivo». «Fino a quel momento». Cioè fino a che Luca non si è imbattuto nella “terapia riparativa” dell'americano Joseph Nicolosi. Da allora, dopo un percorso lungo cinque anni, lo scorso agosto è arrivato il matrimonio con Lisa (il nome è di fantasia), è nato il gruppo di auto-aiuto che Luca dirige, il gruppo Lot, di ispirazione cattolica, è esplosa l'idea di scrivere un'autobiografia e la convinzione che come lui molti potrebbero «riscoprire la loro parte maschile, ma soprattutto smetterla di soffrire».«Sì, perché - racconta Luca - quando ero omosessuale ero un infelice. Credevo di essere io lo sfortunato che non trovava l'anima gemella. Poi mi sono reso conto che attorno a me tutto era impostato in modo frivolo, superficiale, che ero circondato da infelici, molti dei quali ossessionati dalla pornografia e dal sesso. E poi la morte: l'ho vista consumarsi negli amici attorno a me e alla fine ho dovuto farci i conti anch'io dopo aver scoperto di essere sieropositivo». L'incubo Hiv Luca lo ha scoperto sulla sua pelle a 25 anni. «Altro che gaiezza tra gli omosessuali - dice ricordando gli anni della trasgressione -. Dopo quelle nottate estreme, tra cocaina e popper, torni a casa con un carico emozionale enorme ma con un senso di solitudine infinito. E oggi pago con la mia salute il peso enorme di quei comportamenti».Così Luca si presenta alla libreria Babele di Milano, specializzata nelle tematiche gay. «Gli appunti lasciati quella sera da un amico parlavano delle teorie di Nicolosi, del fatto che le pulsioni nei confronti dell'altro sesso spariscono se smetti di idolatrare gli uomini perché tu non riesci ad essere come loro, che l'omosessualità può nascere da un senso di rivalsa di un bimbo che vorrebbe avere più attenzioni da un padre assente. Insomma sono entrato in libreria ma il libro di Nicolosi non l'ho trovato. E lì ho capito che c'era una realtà che il mio mondo omosessuale cercava di tenere nascosta». Così Luca comincia a incuriosirsi, si indispone anche di fronte alle teorie di Nicolosi («insisto, ero un gay convinto, non è stato facile mettermi in discussione»), fino a che non decide di provare la terapia riparativa.
«Non ero felice e volevo capire il perché. Ci ho messo cinque anni per realizzare di avere sofferto dell'assenza di un padre, di aver idealizzato i maschi perché li sentivo più forti di me e per cominciare a incuriosirmi dell'universo femminile», racconta Luca. Ma guai a parlargli di lavaggio del cervello: «Non ci sto. Sono una persona in grado di intendere e di volere come lo ero quando ero un gay. La vera violenza è dire che è impossibile uscire dall'omosessualità», si difende. E insiste: «Basta con questa accusa di omofobia. Chi discrimina è chi pensa che gay si nasce. Non esiste certo un gene. La mia scelta ha richiesto coraggio, anche perché non ho dovuto lottare solamente contro le mie abitudini, praticare l'astinenza per un periodo, ma ho dovuto rinunciare anche ai privilegi di una società in cui essere gay è trendy, ti serve a trovare un lavoro più facilmente e a fare soldi più in fretta», dice Luca attaccando la comunità omosessuale. Poi precisa: «Certo che ci sono gay che vivono la loro condizione con naturalezza e in tranquillità. Ma io voglio dire a tutti quelli che invece vivono il disagio che ho attraversato io che non devono vergognarsi, che possono rivolgersi a strutture che li aiutano e che alla fine possono trovare la felicità». Luca ci crede davvero: «Le strade sono tante, non c'è solo la terapia riparativa, ci sono i gruppi e i corsi living waters, la cristoterapia per chi - com'è successo a me - vuole trovare conforto e motivazione nella preghiera. Io voglio solo che si sappia che c'è un'omosessualità che è il frutto di un disagio e che può essere curata come si fa con la depressione o con i disturbi alimentari. Lo scriva, è importante», dice serio Luca. Che si addolcisce quando comincia a parlare di sua moglie: «L'idea di poter avere un bambino da una ragazza di cui sono innamorato mi elettrizza e mi commuove. L'ho conosciuta a Medjugorie. È stato come ricevere una grazia. Lisa mi ha accettato per quello che sono, col mio passato, senza pregiudizi e con grande amore. È bello che un rapporto si fondi sulla diversità. La favola della famiglia gay è politica, un modo per ottenere un riconoscimento. Ma i figli devono crescere con una madre e un padre, con degli esempi. Anch’io ora voglio pensare al futuro. Sono sieropositivo ma posso sottopormi a un trattamento, previsto dalla nostra legislazione e accettato anche dalla Chiesa, per avere un figlio sano. È la mia nuova vita. Non vedo l'ora». (Cesare Gaia, Il Giornale, 25 ottobre 2008)

Ecco quanto ci guadagnano speculando sulle paure del riscaldamento globale

Ambiente e inquinamento, certo. Ma quello delle emissioni di C02 nell'atmosfera sembra essere diventato prima di tutto un business, sul quale un numero sempre più crescente di aziende si sta lanciando. Una gara al virtuosismo ambientale che nel 2007 ha fruttato oltre 47 miliardi di euro. Stando al rapporto che annualmente viene redatto dalla Banca Mondiale, l'istituto guidato da Robert Zoellich, lo scorso anno lo scambio di quote di emissioni sul mercato della C02 ha praticamente raddoppiato il giro d'affari, attestandosi a 64 miliardi di dollari, cioè 47 miliardi di euro, dei quali ben 37 riguardano transazioni effettuate in Europa. Sono obbligate a partecipare al mercato dell’emission trading (previsto per ridurre l'inquinamento atmosferico) tutte le aziende che rientrano nelle categorie energetiche, o che abbiano a che fare con idrocarburi, metalli ferrosi e prodotti minerali. Ma sono sempre di più le aziende che decidono spontaneamente di entrare a far parte di questo mercato. Il quale ogni anno assegna delle quote (ciascuna quota corrisponde a 1 milione di tonnellate di anidride carbonica) di C02 che si possono immettere nell'aria.A fine anno l'azienda che abbia superato queste quote ha tre modi per rimediare: costruire impianti per la riduzione delle emissioni nei Paesi industrializzati, costruirli nei Paesi in via di sviluppo oppure, terza scelta, acquistare sul mercato le quote di C02 eccedute con la produzione. E proprio quest'ultima scelta, sempre più gettonata, sta facendo lievitare il mercato che, nel 2006, si era attestato a poco più di 30 miliardi di dollari. In Europa - dove secondo il rapporto State and trends of the carbon market 2008 il mercato ha fatto registrare un incremento del 100% - a farla da padrone è l'Inghilterra, che detiene il 59% delle quote scambiate. L'Italia è ferma a circa il 4%, per una spesa complessiva che, nel 2007, è stata di circa 3 miliardi di euro. Sono sempre di più, inoltre, le aziende private che iniziano a partecipare allo cambio di emissioni, a scapito delle controllate pubbliche. Scambio di emissioni e progetti che, in Europa, sono destinati a crescere sempre di più, grazie al pacchetto 20-20-20 varato dalla Commissione e che ha imposto all'Italia - e quindi alle imprese che operano sul nostro territorio un taglio del 20% delle emissioni nei prossimi 12 anni. (Piergiorgio Liberati, Libero Mercato)

giovedì 23 ottobre 2008

Giordano Bruno: un mito da rivedere

Questo è un pezzo che avrei voluto scrivere già qualche tempo addietro.
Anche a Viterbo, la mobilitazione dei cultori locali del “libero pensiero” ha ottenuto, dopo lunga battaglia, che una post-risorgimentale lapide commemorativa di Giordano Bruno tornasse a campeggiare nella piazza Mario Fani. Poiché siamo un popolo buonista e non diciamo di no a nessuno, entrambe le lapidi ora troneggiano su di un muro al centro della piazza: il nolano Giordano Bruno, campione del libero pensiero, accanto al viterbese Mario Fani, fondatore dell’Azione Cattolica… Ma siamo anche un popolo di organizzatori di manifestazioni e di conseguenza non poteva mancare una bella manifestazioncina indetta (testualmente) per “commemorare e ricordare il grande filosofo e scienziato che ebbe il solo torto di non allinearsi ai dogmi della fede sostenuti dalla Chiesa cattolica”.
Se desta nell’animo un moto di orrore la triste fine del grande filosofo e mago del rinascimento, intristisce anche non poco il secolare stravolgimento della sua figura, diventata (lui che fu alchimista e mago…) la bandiera addirittura del pensiero razionalista.
Odiava le donne, che reputava idiote, e si riferiva agli ebrei come agli “escrementi d'Egitto”, ma per la vulgata corrente resta il campione del libero pensiero e l'anticipatore dell'epoca dei lumi. E’ che la tragica morte lo ha sottratto alla verità del suo tempo, un tempo oscuro e tragico per molti e dimenticati aspetti.
Se allarghiamo lo sguardo oltre i ristretti confini nazionali, vediamo, ad esempio, lo scatenarsi della persecuzione contro i cattolici inglesi, che travolgerà una figura straordinaria come sir Thomas Moore e tantissimi altri meno conosciuti. Della maggior parte di queste vittime e delle circostanze per le quali furono spedite al patibolo è stata accuratamente cancellata persino la memoria. Enrico VIII e sua figlia Elisabetta I recidono il legame della Chiesa inglese con Roma e danno vita ad una chiesa nazionale (anglicana, appunto) sottoposta all’autorità del sovrano e per questo docile strumento della sua volontà.
Un’epoca a lungo celebrata come un periodo di splendore (“the golden age”), mentre ora una generazione di giovani storici inglesi mette in discussione i dogmi del passato. Anzi, gli studi più recenti hanno praticamente smontato, pezzo per pezzo, l’immagine propagandistica di un paese felice di accogliere la Riforma. Si trattò di un passaggio estremamente violento, oggi si direbbe rivoluzionario, che pur se pilotato dalla corona e pertanto dietro l’apparenza della continuità istituzionale e della legalità, ebbe il significato di una rottura radicale con il passato (non solo cattolico) del paese.
Ma cosa c’entrano le vicende dell’Inghilterra di Enrico VIII e di Elisabetta I con il filosofo nolano? Per capirlo ci si deve riferire all’opera di uno dei suddetti storici, John Bossy, professore emerito presso l’Università di York, il quale scavando nei retroscena dello scisma anglicano e della persecuzione religiosa che ne seguì, ha finito per imbattersi proprio nella figura di Giordano Bruno. Perché Giordano Bruno trascorse parte della propria vita in Inghilterra e proprio a Londra scrisse alcuni dei suoi più celebrati capolavori: “La cena delle Ceneri” e “Gli eroici furori”.
A Londra Bruno incontrò John Dee, considerato il più grande negromante di tutti i tempi. A Londra conobbe la regina Elisabetta I, celebrata da una scelta cerchia di intellettuali e collaboratori come una sorta di triplice dea: “Astrea”, dea della giustizia e dell’età dell’oro; “Diana”, vergine cacciatrice e bianca dea della luna; “Gloriana”, regina delle fate… Chi ha visto il film “Elizabeth”, del regista anglo-indiano Shekar Shapur, avrà colto la forza della scena finale della pellicola, quando in una cappella abbandonata, di fronte ad un collaboratore in atteggiamento di deferenza, Elisabetta si mostra con il viso bianco del colore della luna. In disparte, si nota la statua di marmo danneggiata della Vergine Maria. Astrea venerata al posto di Maria... un’immagine che riassume da sola il programma ideologico e propagandistico del suo regno. I tempi erano quelli che erano ed Elisabetta non si fece scrupolo di far assassinare la cugina Maria Stuarda per garantirsi la propria successione al trono. I nemici della regina furono sterminati con il ricorso ad ogni sistema, dalla tortura alle spie.
Una di queste spie fu tal Henry Fagot, le cui rivelazioni costarono la vita a numerosi cattolici inglesi. Era un suo confidente il segretario dell’ambasciatore francese a Londra, Michel de Castelnau, e grazie a ciò, Fagot potè trasmettere a Sir Francis Walsingham documenti di notevole importanza, comprese le lettere che Castelnau inviava alla regina Maria Stuarda. Ciò portò all’arresto di una figura chiave per la resistenza cattolica, sir Francis Throckmorton, il quale, sottoposto a crudeli torture, rivelò i dettagli di una congiura.
E’ curioso il fatto che anche Giordano Bruno fosse ospite a Londra presso la residenza di Michel de Castelnau e che il primo rapporto di Fagot a Walsingham sia di poco successivo all’arrivo in quella casa del filosofo nolano… ufficialmente il suo ruolo doveva essere più o meno quello di un ambasciatore di pace, ma su questo punto Bossy scrive: “Non credo affatto che Bruno sia stato inviato in Inghilterra dal re di Francia Enrico III, allo scopo di favorire una riconciliazione politica e religiosa tra i due Stati. Non esistono prove a conforto di questa teoria che oltretutto è alquanto improbabile. Sono ben pochi, se ce ne sono, gli storici seri che oggi l'accetterebbero”.
Qual era allora la missione che aveva condotto a Londra il noto filosofo italiano? E’ noto che a quell'epoca Giordano Bruno avesse stretto amicizia con sir Philip Sidney, un fanatico assertore dell’idea che si dovesse condurre una crociata protestante per sradicare il Cattolicesimo. E Sidney era il genero di sir Francis Walsingham, stretto collaboratore della regina, l’uomo che teneva le fila di tutto l’apparato repressivo dello stato, il destinatario delle informazioni trasmesse dalla misteriosa spia “Fagot”. Strane coincidenze…
Ma a questo punto è importante indagare riguardo all’identità del misterioso Fagot. Henry Fagot infatti non è un personaggio reale, il nome corrisponde ad uno pseudonimo che nell’inglese del tempo si sarebbe tradotto più o meno come “Enrico il chiacchierone”. Dalla sua corrispondenza con Walsingham, ben conservata negli archivi britannici, e dottamente commentata da Bossy, si capisce che Fagot era in realtà un italiano, uno che conosceva il francese parlato, ma non altrettanto bene quello scritto, un sacerdote cattolico, sebbene accesamente antipapista… insomma più o meno il ritratto di Giordano Bruno. Last but not least, Fagot, ospite di De Castelnau ed intimo del suo segretario, pur scrivendo i suoi rapporti dall’interno della residenza dell’ambasciatore francese, non menziona mai Bruno il quale era anche lui ospite illustre di quella stessa casa… un silenzio carico di significato.
Per il suo libro del 1991 “Giordano Bruno and the Embassy Affair” Bossy è stato insignito del prestigioso Wolfson Award ed in questo libro dimostra ciò che per certi aspetti è sempre parso evidente, ma mai era stato oggetto di approfondimento, soprattutto in Italia, che Giordano Bruno, ovvero, fosse la spia al soldo di sir Francis Walsingham responsabile della rovina dei Cattolici inglesi e che Fagot e Bruno fossero in realtà la stessa persona.
Non necessita di spiegazioni il fatto che Bruno, in quanto spia, dovesse servirsi di uno pseudonimo, d’altra parte questa doppia identità doveva riuscirgli congeniale dato che è noto che amasse fregiarsi di strani soprannomi al punto da esser definito “l’uomo dagli infiniti soprannomi”. Bruno era inoltre una spia preziosa, una pedina importante: conosciuto a Londra come prete cattolico poteva avere accesso a confidenze da parte degli esponenti fedeli a Roma dell’isola; la lettera di presentazione di Enrico III poi lo poneva al di sopra di ogni sospetto presso l’ambasciatore francese con i suoi protetti e collaboratori…
Cade così (anzi per la verità era già caduta da diversi anni) l’immagine idealizzata di Giordano Bruno, martire del libero pensiero. Resta il fascino della sua riflessione, le sue notevoli intuizioni sulla psiche o sul cosmo… ma ciò non toglie che si trattasse di una figura oscura, una personalità tanto brillante quanto ambigua. Al tempo stesso, come ha scritto lo storico Alberto Leoni, “era sincero quando rivendicava la libertà di ricerca e di pensiero, ma solo per se stesso, giacché anche Giovanni Gentile ammise che Bruno non aveva mai creduto nell'autonomia della coscienza individuale”. (Stefano, La Cittadella, 20 ottobre 2008)

E adesso anche i “silenzi” di Papa Ratzinger…

Cari amici, come sapete ieri Benedetto XVI è andato in pellegrinaggio al santuario della Madonna di Pompei. Sul Giornale racconto la cronaca della giornata e ciò che il Papa ha detto. Molti quotidiani oggi titolano non su ciò che Ratzinger ha detto, ma su ciò che non ha detto, vale a dire sul fatto che non ha parlato di camorra. Il Papa, insomma, non può fare un pellegrinaggio, un viaggio, un discorso senza che ci sia “notizia” in grado di sostenere un titolo. E se non c’è, per farlo si punta su ciò che non ha detto. Credo che Benedetto XVI debba avere la libertà di fare un pellegrinaggio mariano senza per questo essere obbligato, nei suoi discorsi, a parlare di tutte le piaghe sociali della terra che lo ospita. Piaghe che, del resto, erano presenti in alcuni accenni della sua omelia, anche se mancava la camorra chiamata per nome. Di questo tema, del resto, Ratzinger aveva parlato esattamente un anno fa, in occasione della sua visita a Napoli. Il 21 ottobre 2007, infatti, aveva parlato del “deprecabile numero dei delitti di camorra, ma anche che la violenza tende purtroppo a farsi mentalità diffusa, insinuandosi nelle pieghe del vivere sociale, nei quartieri storici del centro e nelle periferie nuove e anonime, col rischio di attrarre specialmente la gioventù, che cresce in ambienti in cui prosperano illegalità, sommerso e cultura dell’arrangiarsi”. Non credete che il vescovo di Roma, il successore di Pietro, debba avere il diritto e la libertà di fare un pellegrinaggio e tenere un’omelia parlando di Maria, del rosario, della carità senza preoccuparsi dei titoli dei nostri giornali? (Andrea Tornielli, Sacri Palazzi, 20 Ottobre 2008)

Classi ponte: ma quale razzismo!

Siamo ormai al parossismo. "Dilaga la protesta nelle scuole", recita a memoria la giornalista del Tiggì Tre. Quanto poi questa protesta sia veramente consapevole, o quanto sia strumentalizzata (fidatevi, vedo quello che accade dalle mie parti), in fondo è poco importante per un giornalista.
Come accade di solito, in questi casi la vera assente è la scuola. Cioè, la gente va in piazza, fa casino, occupa, ma gratta gratta il problema vero non è la scuola in sé, ma la conservazione dei posti di lavoro (allora è un altro discorso!). Perché poi, se vai a parlare magari con i ragazzi che aderiscono agli scioperi, anche quelli più consapevoli (o meno indifferenti di altri) concordano sul voto in condotta (evidentemente c'è un'esigenza generale che la Gelmini ha intercettato), oppure sul fatto che nel corpo docente deve cominciare ad esserci qualità, più che quantità (che è appunto quello che dice la Gelmini).
Quelli che difendono il sistema delle tre maestre s'incartano da soli. Dicono che il segmento delle elementari è quello che, storicamente, in Italia funziona meglio. E allora non si capisce perché nel 1990 lo stravolsero loro, imponendo (unici in Europa) le tre maestre. In fin dei conti la Gelmini rimette in piedi il sistema che, storicamente, ci ha dato grossi risultati. Mentre dagli anni Novanta in poi abbiamo perso molte posizioni. Ma di questo abbiamo già parlato.
Oggi si parla dell'altra questione spinosa e "scandalosa": la proposta delle "classi ponte". In pratica è questo: gli studenti stranieri, che si rivolgono al nostro sistema scolastico, e che non conoscono una parola una d'italiano, prima di essere immessi in una classe devono fare un percorso personalizzato. Devono imparare a comprendere, parlare e scrivere l'italiano, per poi continuare il regolare percorso di studi. Per chi conosce la scuola, per chi lavora nella scuola, e non cammina coi paraocchi dell'ideologia, si tratta di una proposta intelligente, efficace, utilissima. L'unico vero problema è che ha un marchio "infamante" d'origine: è stata avanzata da quei "razzisti" di destra. Dunque, anche in questo caso l'efficacia scolastica passa in secondo piano. In primo piano c'è la polemica politica, la strumentalizzazione politica, lo sciopero contro la Gelmini, la manifestazione di piazza di Veltroni contro il governo.
Tant'è che anche l'intellettuale di sinistra serio e riflessivo, se prova ad uscire da questo infernale tifo politico, confessa amaramente che il "problema stranieri" nella scuola esiste. Giorni fa in un'intervista del Corriere della Sera, lo scrittore Sandro Veronesi (quello di "Caos calmo") confessava candidamente che "la classi separate ci sono già, solo che non sono gli stranieri ad essere mandati via".
Già, proprio così. Sono gli italiani ad andarsene, per non essere abbandonati in una classe a maggioranza straniera, che ha altri problemi, altri ritmi, altre esigenze. Ma voi ce lo mettereste vostro figlio ad aspettare tutto l'anno che il bimbo cinese impari a parlare quella lingua che lui sa già? Veronesi abita a Prato, e lì la gente ha a che fare con i cinesi. I genitori prendono i propri figli e li portano altrove, "perché in effetti quel caso crea problemi: le prime classi dell'obbligo sono fondamentali, si rischia di restare indietro". Detto da un intellettuale di sinistra, uno che non è razzista per definizione.
Allora, come la mettiamo? Che senso ha montare su un gran casino solo perché qualcuno dice: la scuola italiana offrirà ai bimbi stranieri che non conoscono l'italiano una classe dedicata a colmare le lacune linguistiche? Una classe-ponte dove magari troveranno dei docenti specializzati nell'insegnamento dell'italiano agli stranieri (perché questo tipo d'insegnamento non s'improvvisa e non lo si può pretendere da tutti) e magari (aggiungo io) potrebbero anche essere avviati ad una comprensione degli usi, dei costumi, della tradizione, della cultura di un paese così diverso dal loro?
La realtà ce l'ho avuta sotto gli occhi. Il ragazzo che non conosce l'italiano è un emarginato, un isolato. Per forza di cose. L'insegnante (che ha già tanti problemi con gli italiani) non riesce a seguirlo come meriterebbe. E il ragazzo tende a fare ghetto con i suoi connazionali. Questa è la realtà. Non è ideologia, né propaganda politica.
Non capisco dove sia il vantaggio di questo sistema. Non capisco dove sia lo scandalo di proporre qualcosa di nuovo. E poi, scusate, ma cosa diavolo c'entra il razzismo? Qui si sta parlando di "dedicare" delle classi e degli insegnamenti personalizzati a degli studenti stranieri, a spese del sistema pubblico d'istruzione, per poi immetterli nelle classi degli italiani una volta che abbiano acquisito il possesso sicuro della lingua, principio di ogni integrazione.
Non sarà certo l'isterico richiamo al razzismo (che non c'entra niente) a farci portare il cervello all'ammasso, e a non farci riconoscere che la proposta è buona e sensata. (Gianluca Zappa, La Cittadella, 23 ottobre 2008)

L’uso dei bambini nella protesta tradisce le vere intenzioni

Le diffuse proteste delle scuole e delle università contro i provvedimenti che il governo si appresta a varare in Parlamento, sono state paragonate a un nuovo ’68. Un accostamento generico ed inesatto, e per questo decisamente fuorviante soprattutto quando a farsene interpreti sono i grandi media.
Le differenze tra le proteste delle ultime settimane e quelle del ’68, sono notevoli e vanno sommariamente richiamate. La battaglia del 'Movimento Studentesco' ebbe tra i suoi iniziali pretesti, l’opposizione al disegno di legge di riforma dell’università, dell’allora ministro della Pubblica Istruzione, Luigi Gui, la famosa '23-14', come comunemente era chiamata. Ma quella riforma fu solo il pretesto che fece esplodere un sommovimento culturale che covava da tempo, e che aveva dimensioni in tutti i sensi 'globali'. Un aggettivo questo, che definì l’intero processo del 'movimento', sotto la dicitura: 'contestazione globale'. I benpensanti di allora con il minimalismo che sempre li contraddistingue, chiamarono quell’evento epocale, semplicemente 'rivolta studentesca', solo perché essa trovò il proprio luogo naturale per manifestarsi all’interno degli atenei. Ma in realtà quello che noi oggi diciamo ’68, fu – nella sua distribuzione temporale e geografica – una vera e propria rivoluzione nel senso che, al pari di altri grandi eventi, ha fatto da spartiacque tra due epoche, definendo un 'prima' e un 'dopo' tra due diversi modi di intendere lo sviluppo, le relazioni internazionali e tra i popoli, la ricerca, la cultura, le relazioni tra le generazioni e il senso stesso della vita di ciascuno.
La sconfitta pratica ('effettuale' avrebbe detto Guicciardini) di quel movimento direttamente collegata alla sua carica utopistica, non ha impedito la messa in circuito di tanti atteggiamenti nuovi che da semplici provocazioni di élite, divennero a poco a poco (nel bene e nel male), il motore di un diffuso cambiamento dei comportamenti di massa. Nessun settore della società, uscì indenne da quella rivoluzione culturale. Oltre alla scuola e all’università, basterebbe pensare a quanto avvenne nel sindacalismo, nelle relazioni familiari, per non dire del dissenso interno alle nostre Chiese, e dell’onda crescente dei movimenti dei cosiddetti 'diritti civili', e poi nei media, nella letteratura, nel cinema e nello spettacolo. Insomma tutto fu messo in discussione in modo così totalitario, che da allora, almeno in Italia, non può esservi alcuna protesta che possa esimersi dal paragone con quel movimento. Ecco, dunque, la differenza: le proteste di oggi non sono alimentate dal motore ideologico della rivoluzione; di essa, infatti, non vi è alcuna traccia. Anche se poi nelle piazze – come è accaduto ieri a Milano – il pericolo dei tafferugli è sempre dietro l’angolo.
I ragazzi delle scuole, gli universitari, i maestri e i professori, fino ai ricercatori e ai docenti delle università, si sono organizzati per una protesta settoriale, su pochi obbiettivi e con un alto tasso di frammentazione. Oggettivamente essi rappresentano – in un insieme confuso – le difficoltà particolari di tutti, senza alcuna possibilità, né voglia, di farne una rivoluzione. Non raramente, poi, nelle azioni di questi giorni (si pensi solo ai bambini delle elementari incredibilmente accompagnati a una marcia politica) assistiamo a un alto tasso di strumentalizzazione dei grandi (per età) verso i più piccoli. Ed è questa metodologia, quanto mai infelice, che sta facendo perdere agli 'strateghi' di certo movimentismo favori e consensi. Alle famiglie non piace veder usati i figli per fini anche rispettabili ma di politica scolastica, se non di politica tout court.
Per questo, l’unica parvenza di rivoluzione è rappresentata dall’impossibilità di trovare forme di protesta non ripetitive degli antichi stereotipi di quaranta anni fa. E questa forma, forse, fa velo alla ricerca di una composizione in un equilibrato (e necessario) confronto tra le parti.
(Pio Cerocchi, Avvenire, 22 ottobre 2008)

Scuola: una protesta per mantenere lo sfascio

Ragazzini che, utilizzati dai loro genitori, passano notti in bianco a fianco alle loro maestre; quattro gatti all'università che gridano "occupazione occupazione" e che "okkupano" le aule; studenti delle medie superiori in piazza perché bigiare la scuola e gridare qualche slogan è figo e varia un po' il tran tran quotidiano (ma mica sanno davvero quello che fanno)…
Potremmo continuare con l'elenco, ma è meglio fermarsi qui (per un minimo di decenza).
Tutta questa gente, che se ne renda conto o no, sta difendendo lo sfascio, la rovina della scuola italiana.
Facciamo subito un esempio? Eccolo. Mia moglie ha una supplenza in una scuola media. E' una cosa da non augurare nemmeno al peggior nemico. A volte si entra in classe e si è ostaggio di una banda di maleducati, strafottenti, sfrontati teppisti, bulli, cretini, davanti ai quali il docente è impotente. Il preside della scuola in cui insegna mia moglie è stato chiaro: non mettete le note sul registro, sennò violate la privacy e rischiate una denuncia anche per aver destabilizzato psicologicamente il povero ragazzino.
E questi scendono in piazza contro il ritorno del voto in condotta, capite?
Ma come, con tutto il bullismo che c'è in giro, con tutta la microcriminalità, con lo sfascio giovanile che è sotto gli occhi di tutti, dobbiamo continuare a buttare nelle classi dei poveri docenti che non hanno più nemmeno gli strumenti per sanzionare un comportamento sbagliato e negativo? E dove va a finire il loro ruolo, la loro autorità?
Ma lo sanno, questi idioti che protestano, che esistono ragazzini che subiscono quotidianamente violenze e vessazioni (soprattutto nella scuola media) e pagano dolorosissime conseguenze (in termini di depressione, di fobie, di somatizzazioni), senza che nessuno li difenda?
Veniamo al secondo problema: il famigerato maestro unico. Non ci crederete, ma la proposta del Ministro ritorna ad allineare la nostra scuola con l'Europa. Perché in Europa il maestro unico è la regola, mentre le nostre tre maestre sono l'eccezione. Una pessima eccezione, introdotta nel 1990 per immettere più gente dentro quel grande ammortizzatore sociale che è la scuola italiana. In barba ad ogni vera esigenza educativa, di cui oggi tanto ci si riempie la bocca.
E se in questi ultimi vent'anni siamo caduti ancora più in basso nelle classifiche Ocse, forse c'entra qualcosa anche il sistema che abbiamo creato. Abbiamo tolto dei sicuri punti di riferimento ai nostri bambini, a vantaggio dell'ingresso di un "team" di insegnanti "specializzate".
Una roba moderna, direte. Altrove (in Austria, Belgio, Francia, Germania, Grecia, Inghilterra, Malta, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna, Svezia e Ungheria) vige invece il maestro unico o il maestro prevalente. Una figura di riferimento, attorno alla quale ruotano gli insegnanti di materie specialistiche (lingua, educazione fisica, musica, arte, religione…). Saranno più antichi, ma sono tutti più avanti di noi nelle classifiche.
I nostri partner europei hanno capito che è più che sufficiente un docente preparato, professionista, e sostenuto da un certo prestigio sociale, per assicurare ai bambini ciò di cui hanno bisogno a quell'età: saper leggere, scrivere, far di calcolo, relazionarsi correttamente con gli altri.
E questi vanno in piazza per difendere un sistema cervellotico, introdotto solo per moltiplicare i posti di lavoro. Posso capire che molti genitori abbiano una paura tremenda che si riduca il tempi pieno, perché c'è l'effettivo bisogno di parcheggiare i bambini da qualche parte se padre e madre (come purtroppo è sempre più necessario) lavorano e arrivano tardi a casa. Ma allora lo si dica chiaro e tondo che serve un'assistenza sociale. E si eviti di entrare in considerazioni di tipo educativo, perché questo problema non ha niente a che vedere con il maestro unico.
Poi ci sono gli universitari nostalgici di quel Sessantotto di cui gli hanno imbottito la testa, che difendono un'università squalificata, ingolfata da corsi e corsetti di laurea sulle materie più astruse, dove si inventano posti di lavoro per docenti e assistenti amici degli amici, quando non parenti dei vari baroni.
Poi ci sono anche quelli che protestano contro i "fondi alle non statali" (argomento ideologico che non guasta mai), cioè contro un sistema di scuole che ogni anno fa risparmiare allo Stato qualcosa come sei miliardi di euro. A spese di quei contribuenti che pagano due volte per l'istruzione dei figli.
Tutti costoro parlano di futuro, mentre difendono ostinatamente un presente fallimentare, un'immensa montagna che ogni giorno partorisce topolini. Un'immensa Alitalia. Tra l'altro nel bel mezzo di una crisi gravissima. Farebbero pena, se non fosse che fanno rabbia. (Gianluca Zappa, La Cittadella, 17 ottobre 2008)

Cattolici e centri sociali in lotta: questione di odio metafisico

Questa volta il sindaco di Verona Flavio Tosi non c’entra direttamente. E nemmeno c’entra la sentenza della Corte d’Appello di Venezia che, l’altro ieri, l’ha condannato a due mesi con l’accusa di «propaganda di idee razziste». Questa volta c’entra soltanto Verona, la città dove l’odio, di fatto «metafisico», tra gruppi di diverse fazioni politiche sembra sempre pronto a manifestarsi.Tutto è cominciato qualche giorno fa. Da una parte il centro sociale La Chimica. Dall’altra uno dei gruppi cattolici più tradizionalisti esistenti in Italia: la sezione veronese Una Voce, quelli che tempo addietro, quando ancora il motu proprio del Papa che ha liberalizzato l’antico rito (diciamo la messa in latino) non era in vigore, per protesta andavano a dire il Rosario sul sagrato del Duomo. Quelli che, mesi fa, hanno appoggiato la protesta dei fedeli della parrocchia di San Pietro Martire che la curia decise di affidare agli «eretici» luterani.Tra i due gruppi le diatribe si susseguono da tempo. Per quelli del centro sociale, Verona è troppo di destra, leghista e razzista. E, per questi motivi, un gruppo di fedeli cattolici tradizionalisti (e dunque, secondo loro, “di destra”) come Una Voce è da combattere. Per Una Voce, invece, le polemiche di quelli del centro sociale esprimono una deriva «cattocomunista» alla quale, spesso, anche la diocesi veronese governata da monsignor Giuseppe Zenti non sa rispondere adeguatamente.L’ultimo scontro, rimasto verbale soltanto grazie alla discesa in strada dei carabinieri e della Digos, è avvenuto domenica scorsa. Una Voce aveva organizzato, col consenso della diocesi, una messa pontificale in rito latino in onore del beato imperatore Carlo d’Asburgo nella chiesa di Santa Toscana. La messa doveva essere celebrata da un vescovo argentino, monsignor Juan Rodolfo Laise. «Tre giorni prima del pontificale il quotidiano L’Arena - si legge in un comunicato di Una Voce -, per la penna di Enrico Santi, già corrispondente dell’agenzia cattocomunista Adista, intraprende una feroce campagna diffamatoria contro il vescovo Laise: mescolando fonti indirette, inverificate e parziali». In sostanza, L’Arena ha accusato Laise (secondo Una Voce senza prove) di legami con i militari argentini, al tempo in cui i montoneros insanguinavano il paese. I centri sociali hanno cavalcato la polemica e la diocesi ha fatto retrofront inviando un altro vescovo alla messa.E domenica, per l’ennesima volta i due gruppi si sono affrontati in piazza. Fuori dalla chiesa, separati dai carabinieri, quelli di Una Voce festeggiavano le cresime. Quelli della Chimica li guardavano con striscioni di questo tenore: «Tradizione uguale sangue». (il Riformista, 22 ottobre 2008)

Zio Berlicche scrive a Malacoda: Potremo mai competere col Papa?

Mio caro Malacoda, devo confessarti che ogni tanto sono imbarazzato per la banalità delle dichiarazioni che noi stessi suscitiamo. Niente di particolarmente grave, ma trasudano facile e vecchio anticlericalismo, sono scontate, impacciate, visibilmente astiose… Quello che mi preoccupa è che nella sfida col Nostro Nemico è cambiato l’atteggiamento dei giocatori in campo, dopo secoli passati all’attacco i nostri sono in difesa a subire l’iniziativa dell’avversario.
Considera, ad esempio, l’ultima sortita di Benedetto XVI sulla scienza.
Rileggine alcuni passaggi: «Non possiamo nasconderci, tuttavia, che si è verificato uno slittamento da un pensiero prevalentemente speculativo a uno maggiormente sperimentale. La ricerca si è volta soprattutto all’osservazione della natura nel tentativo di scoprirne i segreti. Il desiderio di conoscere la natura si è poi trasformato nella volontà di riprodurla… Avviene, tuttavia, che non sempre gli scienziati indirizzino le loro ricerche verso questi scopi. Il facile guadagno o, peggio ancora, l’arroganza di sostituirsi al Creatore svolgono, a volte, un ruolo determinante. È questa una forma di hybris della ragione, che può assumere caratteristiche pericolose per la stessa umanità. La scienza, d’altronde, non è in grado di elaborare princìpi etici; essa può solo accoglierli in sé e riconoscerli come necessari per debellare le sue eventuali patologie».
Ecco, in altri tempi noi avremmo rivendicato questa hybris; avremmo attaccato il Papa là dove dice che «l’intelligibilità della creazione non è frutto dello sforzo dello scienziato, ma condizione a lui offerta per consentirgli di scoprire la verità in essa presente»; noi avremmo citato a sostegno della scienza «la filosofia e la teologia»; noi, non lui, avremmo innalzato il vessillo dell’eticità del progresso…
Cos’hanno fatto, invece, i nostri manutengoli? Si sono offesi come un politico qualsiasi per l’accenno al denaro, al «facile guadagno», hanno mandato allo sbaraglio qualche ricercatore universitario a piangere miseria sui giornali: «Il Papa non sa di che cosa parla».
Ma si può essere più puerili? L’ipocrisia è una grande arma solo se usata con misura, abusarne presta il fianco al ridicolo. Credono così di convincere qualcuno, oltre al giornalista che ha raccolto le loro dichiarazioni?
Pensano che la gente non sia mai stata a un convegno medico-scientifico (quelli sponsorizzati dalle case farmaceutiche)? Credono che non sia mai entrata in una farmacia? Che non sappia delle battaglie sanguinose fra accademici per procurarsi i fondi per la ricerca? Sul serio vogliono far bere al popolo il loro disinteresse per il denaro? E allora perché si lamentano del loro stipendio?
Il problema, caro nipote, è che siamo a corto di argomenti per rispondere all’accusa che una volta avremmo giudicato un vanto, a quel “peggio” che rivela il vero pensiero del Papa: «Il facile guadagno o, peggio ancora, l’arroganza di sostituirsi al Creatore». Un tempo ne andavamo fieri, ora ce ne vergogniamo. Deboli di ragioni, la buttiamo in caciara e parliamo di soldi, dello sterco del demonio… Noi! Non può andare avanti così. Tuo affezionatissimo zio Berlicche. (© Copyright Tempi, 22 ottobre 2008)

Ecco perchè non possiamo tacere

"Siamo veramente missionari di Cristo?"
"Il cristiano per sua natura è missionario". Con queste, o simili parole, si espresse l’indimenticabile ed indimenticato Pontefice Paolo VI per definire l’incoercibile bisogno che ogni battezzato deve portare nel cuore: ovvero l’annuncio della buona novella, Cristo Gesù. Ci risuonano alle orecchie e al cuore le parole: “Noi non possiamo tacere”.
“Noi non possiamo tacere” che Gesù è l’inviato del Padre, ricco di misericordia, venuto in mezzo a noi a portare il suo annuncio di liberazione. “Noi non possiamo tacere” che Gesù ha dato senso e compimento alla nostra esistenza; che rallegra la nostra giovinezza, e colora di speranza il nostro avvenire. “Noi non possiamo tacere” che Gesù è e resta l’unico amico vero e sincero; il punto di riferimento del nostro andare, l’ancora sicura a cui aggrapparsi nei momenti di sconforto della vita. “Noi non possiamo tacere” che Gesù è la ragione prima ed ultima del nostro impegno quotidiano: del nostro lavoro, del nostro studio, del nostro apostolato; perché è in lui che queste azioni acquistano valore e significato. “Noi non possiamo tacere” che Gesù sarà la nostra piena e copiosa ricompensa. “Noi non possiamo tacere” che Gesù è l’unico redentore del mondo, ieri, oggi e sempre. Tutto questo vogliamo gridarlo con il massimo della gioia che ci arde nel cuore nell’ordinarietà del nostro quotidiano che insieme con Gesù - alla scuola di Teresa di Lisieux - vogliamo rendere straordinario. Sì, così vogliamo e dobbiamo essere missionari: inviati ad annunciare!
Pensiamo a tutto questo e non riusciamo a trattenere nel cuore, e diremmo persino in gola, un altro grido che quasi fa eco alle parole della Via Crucis del 2005 - purtroppo vere - dell’allora Cardinale Joseph Ratzinger che denunciavano, senza preamboli e diplomazie, “l’immondizia nella Chiesa”. Sì, “noi non possiamo tacere” che nella Chiesa di Gesù tanti inviati (laici e preti) hanno trasformato il kerigma in un’ideologia fatta di principi inaccettabili da proporre ai fedeli alla ricerca di Dio. Sì, “noi non possiamo tacere” che nella Chiesa di Gesù tanti inviati sembrano brancolare nel vuoto e inebetiti dal niente che appare albergare nel loro animo, funzionari del sacro che guardano la realtà, che devono fermentare della presenza di Cristo, come un qualcosa di estraneo ed alienante. Sì, “noi non possiamo tacere” che nella Chiesa di Gesù tanti inviati preferiscono intessere “amicizie” salde e durature con il potente di turno; con l'autorità, magari mitrata, che più conta; tanti inviati che hanno eletto quale “stella polare” del loro svolazzare non più Cristo Redentore ma qualcuno che, fingendosi suo amministratore delegato, lo scimmiotta. Sì, “noi non possiamo tacere” che nella Chiesa di Gesù tanti inviati lavorano, studiano, pseudo-evangelizzano, per il loro personale tornaconto, alla spasmodica ricerca di un podio o di un trampolino di lancio verso sempre più alte… nomine. Il loro agire, per essi, ha ragione di esistere soltanto in funzione degli apprezzamenti dei capi, delle autorità o dei personaggi più in vista. Sì, “noi non possiamo tacere” che nella Chiesa di Gesù tanti inviati non attendono alcuna ricompensa dal Signore, a cui si rivolgono soltanto perché interceda affinché venga concessa loro la vacua ricompensa cui tanto aspirano. Sì, “noi non possiamo tacere” che nella Chiesa di Gesù tanti inviati credono che tutto sommato oltre a Cristo - regnante nei cieli - ci sia bisogno anche di qualche altro redentore, ed eccoli pronti ad intrupparsi tra le fila di qualche pseudo-potente, qualche papavero pettoruto. In verità, ce ne sono persino altri di inviati che strada facendo hanno pensato che in fin dei conti, poiché siamo tutti fratelli, un redentore può portare qualsiasi nome: Gesù, Allàh, Budda, ecc…
Oh, povera Chiesa di Cristo! Di immondizia ce n’è davvero tanta… “Quando il Figlio dell’Uomo tornerà sulla terra, troverà ancora la fede?”. Malgrado tutto, noi siamo convinti di sì, perché nella Chiesa di Gesù c’è tanto bene, ci sono tante persone sante, si fa tanto bene, si riceve tanto bene. Continui il buon Dio ad assistere questa Chiesa con la sua grazia, con la protezione dei Santi Teresa del Bambin Gesù e Francesco Saverio, Patroni delle missioni e di chiunque voglia annunciare con la sua vita, in semplicità, ogni giorno, la gioia di aver incontrato Cristo. (Da: Petrus, 29 settembre 2008)

giovedì 16 ottobre 2008

Il movimento “Noi Siamo Chiesa”: di che si tratta?

“Noi Siamo Chiesa” (NSC) è la sezione italiana del movimento cattolico progressista International Movement We Are Church (IMWAC), fondato nel novembre del 1996 a seguito di una raccolta di firme in appoggio ad un "Appello dal popolo di Dio" a Giovanni Paolo II con cui si chiedeva il rinnovamento ecclesiale della Chiesa cattolica poiché le "speranze aperte nella chiesa dal Vaticano II sono andate in gran parte deluse a causa del tentativo di imprigionarne lo spirito rinnovatore". Sebbene riunisca fedeli cattolici, non è un gruppo ecclesiale riconosciuto e non ha mai ricevuto alcuna approvazione canonica.
Nascita del movimento
L'appello, partendo dall'Austria e dalla Germania, raccolse (come dichiara il sito ufficiale) oltre 2.500.000 firme in tutta Europa, di cui 36.000 in Italia; le firme raccolte, furono presentate in Vaticano nel corso di un incontro internazionale nell'ottobre del 1997. I promotori dell'Appello, non avendo ottenuto l'attenzione sperata, hanno proseguito il loro impegno strutturandosi in un coordinamento internazionale dei singoli gruppi nazionali, allo scopo di continuare la "sensibilizzazione nella Chiesa cattolica" delle istanze di rinnovamento e di impegno sulle questioni più importanti della riflessione teologica ed etica postconciliare.
Scopo del movimento
Le richieste avanzate sono:
- coinvolgimento delle comunità diocesane nella nomina dei vescovi;
- accesso ai ministeri ordinati per le donne;
- superamento della divisione tra clero e laicato;
- modifica delle indicazioni, in campo etico e pastorale, sulla sessualità, valorizzando la libertà di coscienza del singolo e della coppia;
- accettazione nella Chiesa e nella società della condizione omosessuale a pari dignità di quella eterosessuale;
- eliminazione dell'obbligo di celibato per i presbiteri e riammissione al ministero dei preti sposati che lo richiedano;
- maggiori sforzi per l'ecumenismo con le altre Chiese cristiane;
- promozione nel mondo della pace fondata sulla giustizia.
Nei primi dieci anni di attività, "Noi Siamo Chiesa" si è pronunciata su vari scottanti problemi dell'attualità ecclesiale e sociale, ovviamente in contrasto con l'insegnamento del magistero cattolico, con lo scopo dichiarato di “sensibilizzare l'opinione pubblica sulla necessità di una Chiesa semper reformanda”. Quanto poi nei fatti si tratti veramente di "sensibilizzazione" o non piuttosto di "turbativa e scompiglio", si può facilmente intuire.
"Noi Siamo Chiesa" in Italia ha, in modo continuativo, con convegni e documenti, approfondito e diffuso i contenuti generali delle proposte di riforma della Chiesa cattolica tipici del movimento. È anche intervenuto sulle principali questioni dell'attualità per quanto riguarda i rapporti tra la Chiesa e le istituzioni, difendendo la laicità dello Stato.
Le critiche
Per le tesi sostenute, in aperto contrasto con quello che è il pensiero e la dottrina della Chiesa Cattolica, il movimento ha incontrato l'aperta opposizione da parte di alcune Conferenze Episcopali nazionali, come ad esempio in Spagna, il cui ufficio informazioni ha rilasciato una nota che dichiara: «La Corrente “Noi siamo Chiesa” propone affermazioni e rivendicazioni che si separano chiaramente dagli insegnamenti della Chiesa Cattolica, feriscono e vanno a detrimento della comunione ecclesiale» (Madrid, 10 luglio 2002).
In Italia la Conferenza Episcopale Italiana (CEI) ha sempre ignorato “Noi Siamo Chiesa” ma nell'ottobre 2007, per la prima volta, il Presidente della CEI Angelo Bagnasco ha ricevuto il portavoce del movimento Vittorio Bellavite che gli ha esposto i punti di vista e le iniziative del movimento: del resto la carità impone di ascoltare le ragioni di tutti, se esposte con umiltà e con lo spirito di sottomissione alle decisione dell’autorità, anche se contrarie: spirito di cui non ci risulta essere animato il movimento, che continua imperterrito a difendere i propri punti di vista con la virulenza di chi si ritiene unico detentore della verità.
Lo stesso papa Benedetto XVI ha criticato l'interpretazione di “Noi Siamo Chiesa” secondo cui il Concilio Vaticano II "è stato un Concilio di discontinuità" nella storia della Chiesa cattolica. In proposito il Papa ha detto: «L'ermeneutica della discontinuità rischia di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare. Essa asserisce che i testi del Concilio come tali non sarebbero ancora la vera espressione dello spirito del Concilio. [...] In tal modo, ovviamente, rimane un vasto margine per la domanda su come allora si definisca questo spirito e, di conseguenza, si concede spazio ad ogni estrosità. Con ciò, però, si fraintende in radice la natura di un Concilio come tale. In questo modo, esso viene considerato come una specie di costituente, che elimina una costituzione vecchia e ne crea una nuova. Ma la costituente ha bisogno di un mandante e poi di una conferma da parte del mandante, cioè del popolo al quale la costituzione deve servire. I Padri non avevano un tale mandato e nessuno lo aveva mai dato loro; nessuno, del resto, poteva darlo, perché la costituzione essenziale della Chiesa viene dal Signore e ci è stata data affinché noi possiamo raggiungere la vita eterna e, partendo da questa prospettiva, siamo in grado di illuminare anche la vita nel tempo e il tempo stesso.» (Discorso alla Curia vaticana del 22 dicembre 2005). Non è mistero per nessuno che le principali innovazioni pretese dal movimento, hanno già avuto decise e definitive risposte negative da parte del magistero cattolico. Allora vien da chiederci: cosa si cela esattamente dietro a questo argomentare così ostile e critico nei confronti del Papa e dei Vescovi? Forse il bene della Chiesa? Forse la pace, la fraternità universale, la tranquillità del popolo di Dio, la preoccupazione per la sua salvezza? Oppure esso maschera più semplicemente personali interessi cercando di coprire meschine velleità? Pensiamoci.

Granbassi: "Lascio l'Arma dei Carabinieri per la tv"

Così Margherita Granbassi annuncia il congedo dall'Arma dei Carabinieri. La schermitrice triestina, che ha vinto due medaglie di bronzo alle recenti Olimpiadi di Pechino 2008, ha deciso di lasciare i Carabinieri per proseguire l'avventura televisiva ad “Anno Zero”.
«Lascio per evitare situazioni di imbarazzo per me e per i Carabinieri», ha detto la fiorettista in una conferenza stampa organizzata presso l'Hotel Melià, a Roma. L'atleta ha smentito le dichiarazioni riportate oggi da un quotidiano: «Non ho concesso nessuna intervista, ieri non ho parlato con nessuno».
«Si è venuta a creare una situazione imbarazzante tra me e l'Arma, non voluta da nessuna delle due parti. Ho deciso di presentare la domanda di congedo prima che a decidere fossero i Carabinieri", ha aggiunto la Granbassi. "L'ho fatto anche per sollevare l'Arma da questa decisione. Non è stata una scelta facile, non sono contenta di aver preso questa strada: è stata una vicenda portata avanti troppo a lungo e con troppe polemiche».
«Continuerò a partecipare alla prossime puntate di Anno Zero a titolo gratuito», ha aggiunto prima di soffermarsi sulla propria situazione agonistica. Sono entrata nei Carabinieri nel 2004 per titoli sportivi. Sono già in un club, il Terni. Non ho ancora parlato con nessuno, non ho considerato l'ipotesi di partecipare a concorsi per altri corpi militari. Non credo che li farei e non credo di rientrare nei termini di età. Sia chiaro: la mia priorità resta lo sport, prima di tutto io sono un'atleta. Partecipo ad Anno Zero e ho tutto da imparare nel campo dell'informazione. Quando sarà finita la mia carriera di atleta, vorrei occuparmi di giornalismo». (Il Quotidiano.net, 15 ottobre 2008).
Annoto: "Se veramente lo scopo è di imparare, non aveva altre scuole di giornalismo? Non mi pare che Santoro rifulga per un giornalista obiettivo, imparziale, che nelle sue inchieste si attenga strettamente ai fatti, in modo equanime. È arcinoto che la sua è una trasmissione precostituita, che si basa su tesi e vedute personali, a senso unico. Il contrario, a mio avviso, di un sano giornalismo. Direi che "Anno zero" è più uno spettacolo (a volte addirittura sgradevole, non di rado diseducativo), un modo insomma di fare TV, peraltro oggi molto in voga. Allora mi chiedo: per Granbassi la questione primaria è “imparare” o piuttosto “apparire”?

Benedetto XVI “ignorato” da Bruno Vespa?

«Cari amici, ieri non ho visto la puntata di "Porta a Porta", ma due fonti diverse (di cui mi fido ciecamente) sono rimaste un po' allibite di fronte all'atteggiamento di Vespa: e' disposto a parlare di tutti i Pontefici, da Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, ma non se la sente proprio di dedicare mezza puntata a Benedetto XVI.
Non solo: non appena il discorso di qualche ospite cade, anche per sbaglio, su Papa Benedetto ecco che il Nostro trova sempre il modo di cambiare argomento. L'ho notato io stessa in molte occasioni e, proprio di recente, nel corso della puntata dedicata a Lourdes.
Non mi e' sfuggito che in questi tre anni e mezzo Vespa abbia dedicato pochissimi speciali all'attività di Papa Benedetto così come era impossibile non notare che egli ha confezionato un puntatone sugli ottant'anni della regina Elisabetta ma lungi dal fare la stessa cosa a Joseph Ratzinger, di un anno più giovane della sovrana.
Strano, vero? Pazienza...probabilmente ci sarà chi non si capacita del fatto che Papa Benedetto sia circondato da tanto interesse pur non godendo del favore dei salotti televisivi.
Eh sì...sembra che Papa Ratzinger sfugga anche a questi schemi...
Detto questo, sia chiaro che non auspico una maggiore attenzione da parte di Bruno Vespa. Semplicemente ho voluto evidenziare una "stranezza». (Raffaella, Papa Ratzinger blog, 15 ottobre 2008).

Belgio: Re Baldovino non si dimise, fu esautorato

Da Monza, Paolo Picco rimprovera Sandro Magister d’aver ripetuto acriticamente la vulgata corrente, a proposito della mancata firma di re Baldovino del Belgio alla legge che nel 1989 autorizzò l’aborto in quel paese. In un servizio del 27 agosto scorso, il giornalista scrisse che “il cattolicissimo re Baldovino del Belgio si dimise temporaneamente dal trono per non firmare la legge sull’aborto”.
Invece, sostiene Picco, le cose andarono diversamente: “Re Baldovino né si dimise né abdicò temporaneamente. Al contrario, fu esautorato per una giornata dalle sue prerogative”.
E spiega: “Durante la seconda guerra mondiale il Belgio, in seguito all’invasione tedesca del 1940, si era trovato con il re espatriato o imprigionato, che non poteva comunicare in alcun modo con il suo paese. La costituzione non prevedeva il caso di assenza del re, e quindi, finita la guerra, per colmare tale lacuna, fu emendata, inserendo la norma che nel caso di ‘impossibilità’ del re a svolgere le sue funzioni sarebbe stato il parlamento a supplire.
“Nel 1989 il parlamento, visto l’assoluto rifiuto di Baldovino di promulgare una legge che liberalizzava l’aborto, dichiarò che il re era nella ‘impossibilità morale’ di svolgere le sue funzioni. In questo modo si sostituì a Baldovino per una giornata, reintegrandolo subito dopo. Cioè dopo aver promulgato la legge che Baldovino mai avrebbe sottoscritto.
“Ma nella costituzione il concetto di ‘impossibilita’ è privo di qualsiasi aggettivo, e si riferisce a un’impossibilità reale e attuale, come quella occorsa nel 1940. Inserire l’aggettivo ‘morale’ è stato uno stravolgimento evidente dello spirito della costituzione.
“È giusto, quindi, parlare non di abdicazione, ma di esautorazione del re. La figura di Baldovino non merita d’essere coperta da un’ombra di ipocrisia che – in quell’occasione e su un argomento di quella importanza – ricade invece sul parlamento e sugli organi costituzionali del Belgio”.

Brutte notizie (ma una buona)

Apri il giornale e ti viene lo sconforto. Non tanto e non solo per le notizie relative alla crisi economica mondiale, quanto per quelle che vengono da casa nostra e in particolare dalla Lombardia. Ce ne sono un paio che si sono conquistate la prima pagina. In entrambe sono protagonisti i giudici, le nuove autorità massime dello Stato italiano. Credevate che fosse la politica a governare? No. Sono loro, i giudici, che decidono chi governa e chi no, cosa deve fare e cosa non deve fare, perfino chi è degno di vivere e chi deve morire.
Ma andiamo con la prima notizia. Succede che la Regione Lombardia abbia emanato delle linee guida in materia di aborto, con le quali si consente l'interruzione della gravidanza solo fino alla ventiduesima settimana. La legge 194 non fissa limiti di settimane, dice solo che l'aborto "terapeutico" è vietato dal momento in cui il "feto" è in grado di sopravvivere in modo autonomo. Per convenzione, finora, la settimana numero 24.
Ora, molti medici della Lombardia (gente che conosce il proprio mestiere, che ogni giorno è sulla breccia per aiutare i pazienti, che si aggiorna, ricerca, insomma, aiuta la scienza nel suo cammino) assicurano, grazie ai progressi scientifici e tecnologici, che i "feti" possono vivere di vita autonoma già dalla 22° settimana. Stando così le cose, ed essendo lasciata al medico la possibilità di decidere (perché la ricerca scientifica va sempre avanti, non si è fermata a 25 anni fa) la Regione ha deciso di portare a 22 le settimane entro le quali si può fare aborto terapeutico.
Otto (diconsi otto!) medici milanesi supportati dalla CGIL hanno fatto ricorso e… tanto il Tar che il Consiglio di Stato gli hanno dato ragione! Il commento dei "vincitori": "E' una splendida giornata per le donne, i loro diritti, la loro libertà di scelta" (!!!). Il commento del Presidente Formigoni: "L'ideologia si illude di aver vinto contro l'evidenza scientifica, che viene invocata solo quando fa comodo". Già, qui a rimetterci è la scienza, oltre alla morale e alla ragione.
L'autorità giudiziaria non si ferma davanti a nessuno, nemmeno davanti al progresso scientifico. Quei bimbi possono vivere? E chissenefrega! Il Consiglio di Stato ha pontificato: vanno eliminati.
A fianco, l'altra notizia, sempre dalla Lombardia, sempre coi giudici protagonisti. Stavolta quelli della Corte Costituzionale, che hanno rigettato un altro ricorso fatto dalla politica, quello contro la sentenza dei giudici milanesi che in pratica autorizzavano il signor Beppino Englaro ad eliminare la propria figlia Eluana. La casta si autodifende e si autoassolve.
Camera e Senato avevano accusato la Cassazione e i Giudici d'Appello di Milano di avere in pratica sostituito il Parlamento, "legiferando" in materia di diritto alla vita. La Corte Costituzionale ha risposto lavandosene le mani. Complimenti! Del resto era la soluzione migliore (per loro): c'è un padre che ha montato su un casino del diavolo per portare alla morte la figlia, in stato vegetativo dal 1992; ci sono dei colleghi che hanno fatto già il lavoro "sporco" di decidere per l'esecuzione; c'è un Parlamento che, nel caso in cui legiferasse in materia, farebbe una legge dove di sicuro non verrebbe ammessa la sospensione dell'alimentazione e dell'idratazione (in quanto aiutare tramite sondino un paziente a mangiare e a bere non è accanimento terapeutico)… insomma, c'erano tutti i motivi buoni (per loro) per lasciare le cose come stanno.
Anche qui un commento, quello del padre: "Ha prevalso la ragione. Adesso ho un ostacolo in meno. Diciamo che è il massimo" (!!!). Eluana ha fatto, grazie ai nuovi Pilati, un altro passo verso il patibolo. Grazie ai giudici, che hanno ormai potere di vita e di morte.
Per fortuna sul giornale trovi anche una notizia e una foto che ti riconciliano con la vita. E qui, guarda caso, i giudici non c'entrano niente. C'è la foto dell'ex calciatore Stefano Borgonovo, steso su una carrozzina, malato di un'atroce malattia, la Sla, che entra nello stadio di Firenze, spinto da Roberto Baggio. Si è radunato un intero stadio per lui, c'è la nazionale in tribuna, in campo c'è gente come Ronaldinho, Gullit, Evani, Tassotti, Costacurta, Antognoni, Sacchi, Prandelli, Ancelotti… Tutti a fare festa per lui, con un grande abbraccio. Tutti intorno ad un povero handicappato, ad una larva d'uomo, che però sorride felice.
Ecco, vedi questo e capisci che la vita può essere accolta, deve essere accolta.
Quella del "feto" che può sopravvivere all'aborto; quella di Eluana che è in stato vegetativo; quella di Stefano, che ormai non è più di un fagotto buttato su una carrozzina.
La vita deve essere accolta e sostenuta, perché è più grande delle condizioni o delle circostanze.
La vita non ha confini, se non quelli che gli pone il nostro egoismo, o il nostro amore. (Gianluca Zappa, La Cittadella, 10 ottobre 2008)

venerdì 10 ottobre 2008

Il Nobel, vietato ai cattolici?

Premiati due scienziati giapponesi per una scoperta del prof. Nicola Cabibbo.
Grande scalpore ha suscitato in Italia l’assegnazione del Nobel per la Fisica ai giapponesi Makoto Kobayashi e Toshihide Maskawa. Gli scienziati italiani sono in rivolta perché il premio è stato assegnato per la scoperta indicata genericamente, in ambito scientifico ed universitario, con il nome Matrice Cabibbo-Kobayachi-Maskawa (o matrice Ckm, dalle iniziali dei tre ricercatori).
Il vero padre della scoperta, che non è stato neanche menzionato, è il prof. Nicola Cabibbo, già professore di fisica delle particelle elementari all'Università di Roma, nonché Presidente dell'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare dal 1983 al 1992 e dell'Enea, e dal 1993 Presidente della Pontificia Accademia delle Scienze.
In merito alla vicenda, Roberto Petronzio, Presidente dell'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn), ha dichiarato di “essere lieto che il premio Nobel sia stato attribuito a questo settore della fisica che sta avendo sempre più attenzione da tutto il mondo e dal quale ci aspettiamo fondamentali scoperte che aumenteranno la nostra comprensione sull'Universo”.
“Tuttavia – ha sottolineato – non posso nascondere che questa particolare attribuzione mi riempie di amarezza”, perché Kobayashi e Maskawa “hanno come unico merito la generalizzazione, peraltro semplice, di un'idea centrale la cui paternità è da attribuire al fisico italiano Nicola Cabibbo che, in modo autonomo e pionieristico, ha compreso il meccanismo del fenomeno del mescolamento dei quark, poi facilmente generalizzato dai due fisici premiati”.
Critico anche il Presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr), il fisico Luciano Maiani, il quale ha ricordato che “il lavoro di Cabibbo ha rappresentato una svolta storica per l’Europa”, ed ha commentato che "non c’è confronto con il lavoro svolto da Kobayashi e Maskawa: il loro contributo è stato indubbiamente importante, ma la strada era stata aperta dal lavoro di Cabibbo".
Per Enzo Boschi, fisico e presidente dell'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), "il premio Nobel per la fisica andava assegnato solo ed esclusivamente a Nicola Cabibbo, che nel 1963 ha aperto il più grande filone della fisica moderna”.
Secondo il Presidente dell’INGV, l’esclusione di Cabibbo dal Nobel è “probabilmente la più grande ingiustizia che l'Accademia Svedese delle Scienze abbia mai fatto in tutta la sua storia".
Intervistato da Zenit, Fabio Malaspina, docente di fisica al master di Scienze Ambientali della Università Europea di Roma, si è chiesto se l’esclusione di Cabibbo non sia dovuta al suo essere cattolico.
“Speriamo che nel futuro il Comitato renda note le motivazioni della sorprendente scelta – ha precisato Malaspina – altrimenti sarebbero confermate le voci che vedono, dopo la premiazione di Madre Teresa di Calcutta, i cattolici ‘estromessi’ a priori dalla competizione”.
Altri due, infatti, i casi eclatanti di esclusione di illustri cattolici dall'ambito premio svedese: il professor Jerome Lejeune, il medico che scoprì e cercò di curare la trisomia 21 (sindrome down), escluso dal Nobel perché si opponeva all’aborto; e Papa Giovanni Paolo II a cui fu negato il Premio Nobel per la Pace, perché a capo di uno stato, la Città del Vaticano, che, secondo la commissione giudicatrice dei Nobel, “discriminerebbe le donne”.
Alla domanda sul perché i cattolici sarebbero discriminati, Malaspina ha riposto: “La premiazione di Cabibbo forse avrebbe messo di nuovo in luce che tanti credenti sono stati grandi scienziati e che scienza e fede non sono in contrapposizione come alcuni matematici, che hanno ampi spazi sui mass-media, cercano di farci credere”.
“Forse e purtroppo – ha osservato –, sono gli stessi atteggiamenti mentali, le stesse incrostazioni culturali, ad aver tenuto il Papa fuori da 'La Sapienza' ed il fisico Cabibbo lontano dal premio Nobel”. (Antonio Gaspari, Zenit, 10 ottobre 2008)

giovedì 9 ottobre 2008

Liturgia e proclamazione della Parola. Bando al “fai-da-te”

Comunicare la Parola. Quando Bibbia e Messa non vanno d'accordo.
Una volta l’effetto eco era riservato solamente al papa: arrivavi in piazza San Pietro e la sua voce si poteva sentire provenire da numerosi altoparlanti direzionati verso gli ascoltatori. "Cari fratelli –elli -elli…, care sorelle –elle –elle…". Ora non più. Ora l’effetto eco (e non solo quello) lo trovi ovunque, nelle migliaia di chiese e parrocchie del nostro paese. Non per una scelta liturgica, ma per ben più prosaici motivi: microfoni vecchi, impianti di amplificazione mal funzionanti, altoparlanti che cigolano, gracchiano, fischiano e chi più ne ha più ne metta. Un vero e proprio inquinamento acustico che fa il paio con un’altra caratteristica diffusissima nelle nostre parrocchie.
Stiamo parlando della lettura "fai-da-te", il dilettante allo sbaraglio inviato a proclamare la prima lettura, il salmo, la seconda lettura, e che troppo spesso non solo non aiutano ma anche impediscono una vera comprensione della liturgia della Parola. Una delle emergenze liturgiche più diffuse e meno considerate dell’universo cattolico. A volte c’è (solamente) un problema tecnico: la posizione degli altoparlanti e la loro direzionalità, l’architettura della chiesa, la presenza di colonne o di cappelle che rende più difficile una diffusione uniforme del suono. Questione di acustica, con un ronzio sempre in sottofondo e l’impressione di non capire praticamente nulla di quanto viene detto. Altre volte però non si tratta di una questione tecnica, ma umana, e ha a che fare con il dilettantismo dei lettori e la loro approssimazione.
Quante volte il microfono resta troppo lontano dalla bocca di chi legge, con il risultato di intuire solo in lontananza ciò che si sta "proclamando"? E quante altre invece il microfono è posto a distanza millimetrica dalle labbra, con il risultato di rimbombi, stridolii e di seri danni ai timpani dei fedeli a causa dei troppi decibel in uscita? Non si tratta qui di criticare per il gusto di farlo. Si tratta di sottolineare l’importanza assoluta, nella celebrazione eucaristica, della Liturgia della Parola, e il dovere – che pende anzitutto sul capo dei parroci – di consentire ai fedeli di poter gustare, comprendere, assaporare quella che - fino a prova contraria così viene detto – è "Parola di Dio". Il ruolo dei lettori è dunque importante, fondamentale, e la qualità della loro performance deve essere considerata. Con tutto il rispetto, leggere una lettura non può essere visto come una ricompensa data ad alcune pie donne per l’impegno profuso in parrocchia, né come risarcimento dato alle suore dopo essersi viste negare altri ruoli liturgici: proclamare la Parola è un compito essenziale che deve essere dato solamente a chi ne ha le qualità.
Non che non si possa sbagliare, sia chiaro, non che occorra essere esperti in doppiaggio o laureati all’Accademia della recitazione. Semplicemente, però, bisogna fare in modo che chi legge ascolti e comprenda, ne abbia il tempo e le possibilità. Servono lettori dunque che non pensino di essere in autostrada inseguiti da chissà quale banda di malviventi (andare di fretta, della serie "leviamoci il prima possibile il dente", è uno degli atteggiamenti più diffusi), e che non pensino neppure di essere ad un provino teatrale (soprattutto fra le religiose sono molte quelle che declamano la Parola, generalmente con voce acutissima, condendola di così tanti sospiri e intonazioni pseudo-spirituali da far sperare che si fermino alla fine del secondo versetto). Lettori che sappiano darsi "una regolata", dunque, ma che ci mettano anche un po’ di tono e di anima, senza quel tono monocorde e sonnolento che non verrebbe utilizzato altrove neppure per la lettura integrale di un elenco telefonico.
Non si tratta allora di fare la "casta" dei lettori, né di emettere giudizi e lanciarsi in promozioni e bocciature, anche perché di un servizio al popolo si tratta, e non di una gara a chi si mostra migliore. Umiltà e chiarezza restano le caratteristiche fondamentali del buon lettore, che non può però essere scelto né sempre fra le stesse due o tre persone (un po’ di ricambio, please, non sono poche le persone che sanno leggere bene!) né sempre all’ultimo minuto prima dell’inizio della messa, con il sacerdote o chi per lui a girare per i primi banchi chiedendo la disponibilità a prestare la propria voce. Preparazione dunque anche per le Letture: del resto, buona regola per chi legge in pubblico è sempre quello di conoscere e aver compreso il testo che si porgerà alle altrui orecchie. E una preparazione, per definizione, deve durare più di una rapida occhiata di trenta secondi prima del canto d’ingresso.
Se dunque la Messa è un momento fondamentale per la vita del cristiano, è doveroso e giusto che i parroci facciano tutto ciò che è in loro potere perché uno dei momenti più importanti, quello della Liturgia della Parola, non si trasformi nella sagra dell’incomprensibile. Anche perché, spesso, una buona lettura dei passi dell’antico e del nuovo Testamento rende molto ma molto più facile l’omelia. Talvolta non bisogna davvero aggiungere nulla. Insomma, leggere bene e poter ascoltare bene alla fin fine conviene. Davvero a tutti. Per questo è necessario promuovere e incentivare nelle Parrocchie la nascita di gruppi di volontari che, debitamente seguiti, oltre alla preparazione tecnica sappiano unire anche l’approfondimento spirituale del testo che andranno a proclamare. (Elab. editoriale, Korazym.org, 6 ottobre 2008)

Il rabbino invitato al Sinodo attacca Pio XII

Leggo sul blog di Andrea Tornielli un fatto strano. Al Sinodo sulla Parola di Dio che si svolge in questi giorni c'è una novità assoluta e interessante: la presenza di un rabbino e in particolare del rabbino capo di Haifa Shear Yashuv Cohen. Fin qui tutto bene, anzi un bel momento di confronto e avvicinamento. Poi Cohen intervistato dal Vaticanista della Reuters attacca Pio XII dicendo che la chiesa non deve beatificare Pio XII e che se avesse saputo che Benedetto XVI stava per celebrare il cinquantesimo anniversario della morte di Papa Pacelli (con la messa che ha presieduto questa mattina in San Pietro), lui non sarebbe nemmeno venuto al Sinodo. A parte il fatto che la data di morte di Pio XII (9 ottobre 1958) non è propriamente un segreto del Mossad, trovandosi in tutte le enciclopedie, a parte il fatto che il cinquantesimo rappresenta una scadenza importante, trovo del tutto fuori luogo che un esponente ebraico invitato a parlare ai vescovi cattolici ne approfitti per mettere in imbarazzo il Papa, per di più sulla base di leggende nere. Vi lascio immaginare che cosa sarebbe successo se un cardinale della curia romana fosse stato invitato a prendere la parola in un importante consesso religioso ebraico a Gerusalemme e poi uscendo, ai giornalisti, avesse fatto dichiarazioni di tenore simile… Al rabbino Cohen mi permetto sommessamente di ricordare le parole pronunciate da un illustre collega, il Gran rabbino di Gerusalemme, Isaac Herzog, nel 1944: «Il popolo di Israele non dimenticherà mai ciò che Sua Santità e i suoi illustri delegati, ispirati dai principi eterni della religione, che stanno alla base della autentica civiltà, stanno facendo per i nostri sventurati fratelli e sorelle nell’ora più tragica della nostra storia, una prova vivente della Divina Provvidenza in questo mondo». All’indomani della morte di Papa Pacelli, lo stesso Herzog ebbe a dichiarare: «La morte di Pio XII è una grave perdita per tutto il mondo libero. I cattolici non sono i soli a deplorarne il decesso».
Alle esternazioni del rabbino, fa seguito immediata la replica di esponenti della Santa Sede, a cominciare da quella del segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone.
Per il porporato, Pio XII "non fu silente né antisemita: egli fu prudente". In un testo pubblicato dall'Osservatore Romano, Bertone ricorda di aver già "fortemente contestato i critici che affermano come il Pontefice mancò di proteggere gli ebrei durante l'Olocausto". Del resto, "se avesse fatto un intervento pubblico, il papa avrebbe messo in pericolo la vita di migliaia di ebrei che, su sua disposizione, erano stati nascosti, soltanto in Roma, in 155 conventi e monasteri". E ancora: "E' chiaro che Papa Pacelli non era favorevole al silenzio ma, al contrario, era di una parola intelligente e strategica, come dimostrato nel radiomessaggio per il Natale del 1942 che fece infuriare terribilmente Hitler. Le prove sono negli archivi vaticani. Ricerche effettuate da storici indipendenti confermano che papa Pio XII fece passi straordinari per salvare vite di ebrei".
Dello stesso avviso, il cardinale Walter Kasper, presidente del Pontificio Consiglio per l'unità dei cristiani e della Commissione vaticana per i rapporti con gli ebrei, convinto che "Pio XII abbia fatto quanto gli era possibile in quelle circostanze molto difficili". ''Si può discutere - ha aggiunto - se una parola profetica avrebbe danneggiato o aiutato ma in pratica penso che il papa abbia fatto il possibile". In ogni caso, è la risposta al rabbino Cohen, "la beatificazione è comunque una causa interna della Chiesa cattolica".
Nella polemica è intervenuto anche padre Paolo Molinari, postulatore della Causa di Beatificazione. ''Direi che nonostante le falsità che sono state diffuse, e in questo il mondo mediatico ha delle responsabilità enormi, ormai grazie a Dio è più che evidente ed accettato da tutti coloro che vogliono accettare e che non vogliono rimanere nel buio, che Pio XII più di qualunque altra autorità si è dato da fare indefessamente per salvare la vita del più grande numero possibile di perseguitati, in modo particolare degli ebrei, e ciò non solo a Roma, ma in tutti i territori occupati dai nazisti. Ora è chiaramente provato, come egli abbia agito: con saggezza e responsabile prudenza, avvalendosi delle nunziature, dei vescovi, dei sacerdoti, dei laici, dei conventi, dei monasteri, per dare asilo e mantenere in vita migliaia e migliaia di persone''.

La profezia dell’Humanae vitae

Fu solo per un rigurgito di reazione anticonciliare che Paolo VI, il 25 luglio del 1968, pubblicò l'enciclica Humanae Vitae? A quarant'anni di distanza bisogna dire che quel testo non era in ritardo sui tempi, ma era troppo in anticipo, cioè guardava troppo avanti. Paolo VI fu un vero e proprio profeta, seppe antivedere dove andava a parare quella "liberazione sessuale" che fu il dogma del Sessantotto.
Oggi (che la fecondità femminile è crollata; che la popolazione è in fase di invecchiamento; che le gravidanze sono sottoposte a pressioni eugenetiche; che il sesso è banalizzato e sganciato da un rapporto profondo d'amore tra le persone), oggi possiamo davvero sperimentare come l'enciclica mettesse in guardia l'umanità intera dal rischio di una tragica deriva.
E provate solo a pensare se il Papa avesse ceduto a tutte le pressioni e le intimidazioni che dentro e fuori la Chiesa lo spingevano a scrivere qualcosa di "aggiornato", di "progressista", di "in linea coi tempi".
Se la Chiesa avesse ceduto, non avesse innalzato una sofferta barriera, non avesse scelto la strada difficile ed eroica della testimonianza di un modo diverso di amare, il mondo starebbe ancora peggio.
Si aspettavano che Paolo VI riconoscesse lecita la contraccezione, cioè la separazione, nell'unione coniugale, dei fini procreativo ed unitivo. Oggi sappiamo che la pillola ormonale non fa bene alla salute della donna; che la banalizzazione della contraccezione non fa diminuire il ricorso all'aborto; che i preservativi non sono totalmente affidabili; e che l'aborto fa male, molto male a chi lo fa.
Non c'è bisogno della fede, basta la ragione per vederlo.
L'altro giorno Benedetto XVI ha tenuto, su questo argomento, un bellissimo discorso nella sua visita al Pontificio istituto "Giovanni Paolo II" per studi su matrimonio e famiglia. Ha parlato dell'amore coniugale come un dono, che spinge a donarsi senza riserve. E ha detto che questo amore-dono ha un modo proprio per comunicarsi: generare dei figli, con la conseguenza che "escludere questa dimensione comunicativa mediante un'azione che miri ad impedire la procreazione significa negare la verità intima dell'amore sponsale", cioè non viverlo in pienezza. Nella luce dell'amore-dono, ha aggiunto, "i figli non sono più l'obiettivo di un progetto umano, ma sono riconosciuti come autentico dono".
Colpisce questa insistenza sul dono, sul'amore che si dona tutto, senza riserve. Colpisce soprattutto se lo si mette a paragone con lo svilimento dell'amore che invece sperimentiamo e sentiamo inculcato ogni giorno intorno a noi da tutte le agenzie d'informazione, dai media, dal grande giro d'affari che ruota intorno alla mercificazione del sesso. Al contrario, il Papa ha parlato di un amore maturo, di una maturità nell'amore "che non è immediata, ma comporta un dialogo e un ascolto reciproco e un singolare dominio dell'impulso sessuale in un cammino di crescita della virtù".
Potremo giudicare anche antiche, sorpassate, antidiluviane queste parole, ma non potremo negare che esse aprono spiragli di grande profondità e di umanità nel rapporto di coppia. Non possiamo non vedere quanto esaltino la responsabilità, la dignità della persona, la sua superiorità sulle bestie.
Certo, sarebbe molto più facile per la Chiesa "rinnovarsi" e accodarsi silenziosa al devoto stuolo dei servi della mentalità dominante. Tutti sarebbero più felici e contenti, tutti si sperticherebbero in lodi, si spellerebbero le mani in applausi.
Ma l'umanità avrebbe perso l'unica parola veramente amica, anche se apparentemente fastidiosa.
La posizione della Chiesa è difficile, è un martirio. Il Papa lo sa, e l'ha detto senza mezzi termini: "oggi il mondo, ed anche molti fedeli, trovano tanta difficoltà a comprendere il messaggio della Chiesa, che illustra e difende la bellezza dell'amore nella sua manifestazione coniugale".
Ma questo è perché oggi il mondo vola molto basso e non riesce a guardare oltre il proprio personale tornaconto e piacere. Si sceglie la strada corta, ci si affida alla tecnica, che sembra promettere risultati immediati e indolori. E non si vede che l'uomo si sta consegnando a delle terribili e illimitate prevaricazioni. La sterilità (spesso causata solo da un blocco psicologico), si cura con bombardamenti ormonali e le tecniche in vitro, che devastano le donne ed eliminano quantità industriali di embrioni. Le gravidanze s'impediscono artificialmente, attraverso i metodi anticoncezionali, la via più spiccia e impersonale che esista. Al di fuori di ogni legame, di ogni dialogo, di ogni attenzione paziente all'altro.
A rimetterci è la dignità dell'essere umano. Paolo VI l'aveva capito e profetizzato. Benedetto XVI lo annuncia oggi. Forse anche chi non ha fede e si affida solo alla ragione comincia a capirlo…
(Gianluca Zappa, La Cittadella, 8 ottobre 2008)