Più di mezzo secolo dopo quel lontano 1952 e in entrambi i casi con le elezioni amministrative alle porte, si ripresenta oggi per la diocesi del papa un pericolo identico: che il suo governo civile cada in mani nemiche.
Ma le reazioni della Chiesa appaiono oggi molto diverse da allora.
Nel 1952 il papa e le autorità vaticane, allarmatissimi, si attivarono in prima persona. Temendo la vittoria elettorale, proprio sotto le mura vaticane, di comunisti e socialisti che all'epoca erano legatissimi all'impero di Mosca, Pio XII ordinò al partito cattolico – la Democrazia Cristiana guidata da Alcide De Gasperi, oggi in via di beatificazione – di far fronte comune con i partiti di estrema destra dentro una lista civica capeggiata dall'anziano sacerdote Luigi Sturzo – anche lui oggi incamminato agli altari – e pronta ad essere sostenuta dall'Azione Cattolica e dai suoi Comitati Civici.
De Gasperi rifiutò. Nelle elezioni amministrative di Roma tenne ferma l'alleanza con i partiti laici di centro, la stessa con cui era al governo in Italia. Aveva visto giusto e i numeri gli diedero ragione. A Roma i comunisti e i socialisti furono sconfitti.
Ciò non tolse che Pio XII punì De Gasperi per la disubbidienza, rifiutando di riceverlo in udienza con la moglie e la figlia Lucia in occasione dei suoi trent'anni di matrimonio e dei voti religiosi della figlia.
Oggi il quadro politico italiano è profondamente mutato. La DC non c'è più. I cattolici sono diluiti in tutti i partiti. Al governo nazionale c'è Silvio Berlusconi, che su vita, famiglia e scuola è il leader più vicino alle attese della Chiesa. Al governo della regione Lazio e quindi della diocesi del papa c'è un'amministrazione di sinistra, lontana e sbiadita erede del defunto partito comunista.
Questa amministrazione ha subito nei mesi scorsi un duro colpo con le dimissioni del suo presidente, Giuseppe Marrazzo, travolto da avventure a luci rosse con transessuali e cocaina. Privi di un proprio candidato alternativo, per riconquistare il governo del Lazio nelle elezioni regionali che si terranno tra due mesi i partiti di sinistra hanno accettato di appoggiare l'autocandidatura a presidente di un personaggio ad essi esterno, simbolo del radicalismo anticattolico più spinto, Emma Bonino (nella foto).
Emma Bonino è una veterana dei "diritti umani". Ma entro questi "diritti" – che ha difeso anche come incaricata della Commissione Europea – essa ha sempre incluso aborto, eutanasia, matrimoni omosessuali, libertà di droga, insomma l'intera panoplia di quella che Giovanni Paolo II definì "cultura della morte". Dagli anni Settanta circola un filmato che la ritrae, fiera, mentre pratica un aborto a una donna aiutandosi con un barattolo di latta e una pompa di bicicletta.
Ebbene, di fronte alla sfida rappresentata dalla candidatura Bonino, come reagisce la Chiesa? Sicuramente non come fece nel 1952. Anche perché oggi è impensabile che il papa in persona detti ai cattolici una precisa "macchina" politica per fronteggiare il pericolo.
Anche nella Chiesa infatti, oltre che in campo politico, tante cose da allora sono cambiate. La Chiesa italiana non ha più un partito cattolico di riferimento. Si muove libera a tutto campo. La sua battaglia è fatta di "cultura cristianamente orientata". E grazie a questa libertà e intraprendenza riesce a volte a essere più influente che in passato, nella sfera pubblica. È questo il modello Ruini, dal nome del cardinale che ha guidato la conferenza episcopale per sedici anni, fino al 2007.
Se e come questo modello stia operando oggi, con il caso Bonino, è materia vivacemente discussa.
Ad accendere la discussione è stato un intellettuale che non appartiene alla Chiesa ma è da anni vigoroso apologeta della visione di Karol Wojtyla, Joseph Ratzinger e Camillo Ruini: Giuliano Ferrara, direttore del quotidiano d'opinione "il Foglio".
La scintilla gliel'ha offerta un articolo – durissimo contro la Bonino – uscito il 20 gennaio su "Avvenire", il giornale della conferenza episcopale italiana. Domenico Delle Foglie, l'autore dell'articolo, è un cattolico di primo piano, ha organizzato per mandato dei vescovi il "Family Day" di due anni fa e dirige il sito "Più voce. Cattolici in rete". È stato vicedirettore di "Avvenire" e lo scorso autunno fu quasi sul punto d'essere chiamato a dirigerlo, al posto del dimissionario Dino Boffo e in continuità con lui, ruiniano a tutto tondo.
Ma prima ancora che Delle Foglie scrivesse il suo articolo, nel principale partito della sinistra italiana, il Partito Democratico, la candidatura Bonino aveva diviso i cattolici che ne fanno parte. Due di essi, Renzo Lusetti ed Enzo Carra, avevano abbandonato il partito, giudicandolo non più abitabile. Altri invece, come Franco Marini e Maria Pia Garavaglia, avevano salutato con favore la candidatura Bonino, addirittura raccomandandola come "capace di temi e programmi che stanno a cuore agli elettori cattolici".
Contro questi cattolici "arrendevoli" e "illusi", Delle Foglie ha invece scritto che la Bonino incarna almeno tre pericoli gravi.
Il primo è simbolico: uno "schiaffo alla comunità cristiana" da parte di "una testimone di militante inimicizia nei confronti della visione cristiana dell'uomo e del mondo".
Il secondo pericolo è che, qualora vincesse, la neopresidente Bonino si metterebbe all'opera per fare del Lazio "il laboratorio di tutti gli zapaterismi", dal nome del premier spagnolo iperlaicista.
Il terzo è la "sovrana ipocrisia" di cui la Bonino dà prova già nel corso della campagna elettorale, quando promette di operare "con e per i cattolici", lei che ha speso tutta una vita a lottare contro la Chiesa.
Ebbene, il giorno dopo l'uscita di questo articolo su "Avvenire", sulla prima pagina del "Foglio" Ferrara sottoscrisse in pieno quanto scritto da Delle Foglie. Ma nello stesso tempo si scagliò contro il giornale dei vescovi perché aveva nascosto quell'articolo a pagina 11, perché l'aveva declassato a opinione personale dello scrivente, perché insomma aveva dato prova di timidezza nell'affrontare una questione che riguarda non piani urbanistici o altre faccende opinabili, ma quei principi supremi definiti dallo stesso papa "non negoziabili".
Insomma, concludeva Ferrara alludendo a ciò che faceva la Chiesa nel 1952 e prima di quell'anno: "Meglio i Comitati Civici di una volta che il timido 'Avvenire' di oggi".
A Ferrara rispose il giorno successivo il direttore di "Avvenire" Marco Tarquinio. E Ferrara gli controrispose ventiquattr'ore dopo, confermando le sue critiche.
Intanto, però, "il Foglio" aveva fatto altro. Aveva mandato una sua valente inviata, Marianna Rizzini, a esplorare le diocesi della regione Lazio, per sentire cosa pensassero i preti e i fedeli della candidata Bonino.
Il responso della prima diocesi esplorata, quella di Viterbo, fu impietoso. Il titolo: "Chiesa di base con Emma. Inchiesta a Viterbo. Compatte opinioni cattoliche, in certi casi fervide, a favore della candidata abortista, divorzista, eutanasista, che definì l'embrione 'un grumo inerte'. Rari i distinguo, e timidi".
In effetti, nel reportage di Marianna Rizzini da Viterbo i soli che si schieravano contro la Bonino erano i "missionari" del Movimento per la Vita, quelli che dedicano la loro vita a far nascere i bambini, non a farli abortire.
Di poco più confortante è stato il secondo reportage della serie, dalla diocesi di Frosinone. E così un terzo, dalla città di Roma.
A questo punto sono entrati in campo i vescovi. Il primo, Angelo Bagnasco, è il cardinale che ha preso il posto di Ruini alla presidenza della conferenza episcopale. Nella prolusione con cui ha aperto il 25 gennaio la sessione invernale del consiglio permanente della CEI, Bagnasco ha detto di avere questo "sogno":
"Vorrei che questa stagione contribuisse a far sorgere una generazione nuova di italiani e di cattolici che, pur nel travaglio della cultura odierna e attrezzandosi a stare sensatamente dentro ad essa, sentono la cosa pubblica come importante e alta, in quanto capace di segnare il destino di tutti, e per essa sono disposti a dare il meglio dei loro pensieri, dei loro progetti, dei loro giorni. Italiani e credenti che avvertono la responsabilità davanti a Dio come decisiva per l’agire politico".
E ancora: "Vorremmo che i valori che costituiscono il fondamento della civiltà − la vita umana comunque si presenti e ovunque palpiti, la famiglia formata da un uomo e una donna e fondata sul matrimonio, la responsabilità educativa, la solidarietà verso gli altri, in particolare i più deboli, il lavoro come possibilità di realizzazione personale, la comunità come destino buono che accomuna gli uomini e li avvicina alla meta − formassero anche il presupposto razionale di ogni ulteriore impresa, e perciò fossero da questi cattolici ritenuti irrinunciabili sia nella fase della programmazione sia in quella della verifica".
Bagnasco non ha aggiunto nulla, a proposito del caso Bonino. Parecchio di più ha detto invece un presule che non fa parte del consiglio permanente ma non è di second'ordine: Luigi Negri, vescovo di San Marino e Montefeltro, milanese e stretto collaboratore in gioventù del fondatore di Comunione e Liberazione, don Luigi Giussani.
In un'intervista a Paolo Rodari su "il Foglio" del 26 gennaio, Negri ha detto che un limite della Chiesa italiana è di non saper sempre rendere operativo il pur chiarissimo magistero degli ultimi due papi: "Perché di fronte a una candidatura dichiaratamente contro la Chiesa una parte del mondo cattolico si mostra privo di atteggiamento critico? È la domanda che mi sono posto dopo aver letto l’inchiesta del 'Foglio' a Viterbo che ha evidenziato come per molti cattolici non fa difficoltà la candidatura della Bonino nel Lazio. Se facessimo la medesima inchiesta in altre regioni, vorrei dire in tutte le regioni d’Italia, il risultato sarebbe lo stesso di Viterbo. Perché il dato è uno e chiede d’essere guardato: stiamo crescendo generazioni assolutamente incapaci di giudizio critico sulle cose. Leggendo l’inchiesta del 'Foglio' mi è venuto in mente quel versetto della Bibbia, Geremia 31, dove si dice: ‘I padri hanno mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono allegati’. Mi domando: siamo stati capaci di favorire in questi anni l’espressione di una vera cultura della fede? Oppure è cresciuta tra noi, sotto i nostri occhi, una generazione per la quale il dialogo viene prima dell’identità? A volte sembra che il dialogo che impostiamo con chi non crede altro non sia che una resa senza condizioni. Nel nome del dialogo ci dimentichiamo chi siamo. E dimenticandoci chi siamo sono sempre gli altri ad avere ragione, ad avere la meglio”.
Per il vescovo Negri occorre ripartire da ciò che predicano Benedetto XVI e la conferenza episcopale italiana. "Sono dieci anni che i vescovi parlano di emergenza educativa. Occorre lavorare tutti su questa emergenza perché soltanto in questo modo i cattolici di oggi e di domani potranno imparare a giudicare e difendere la propria identità. Soltanto in questo modo i cattolici potranno capire che è arrivato il tempo di uscire dalla notte in cui tutte le vacche sono nere e tutte le identità hanno lo stesso colore. Un tempo, insomma, in cui anche il vaglio critico dei candidati alle elezioni sarà più semplice”.
Lo stesso giorno, su "Avvenire" un altro cattolico in vista, Pio Cerocchi, di nuovo criticava con severità quei politici cattolici presenti nel Partito Democratico che avevano accettato passivamente la candidatura Bonino. Anche questa volta in una pagina interna e come opinione personale.
(Fonte: Sandro Magister, www.chiesa, 28 gennaio 2010)
giovedì 28 gennaio 2010
Dan Brown, ovvero come vendere bufale preparate con competenza scolastica
Ho sempre istintivamente evitato di leggere i romanzi di Dan Brown. Dovendo intraprendere un lungo viaggio aereo e vagabondando tra gli scaffali della libreria dell’aeroporto mi sono detto che forse potevo cogliere l’occasione per leggerne uno e farmi un’idea non per sentito dire. In fondo, ho pensato, sarà un modo di passare il tempo: quantomeno la trama sarà accattivante. Così ho comprato il primo romanzo a portata di mano, Angeli e demoni, in inglese.
Trama animata e divertente? Non soltanto una mortale bufala, una broda allungata a forza pur di riempire un numero accettabile di pagine. Ma un’accozzaglia di assurdità da lasciare a bocca aperta. Non si tratta soltanto dell’inverosimiglianza della trama, del fatto che le costruzioni fantascientifiche sono assolutamente improbabili: per esempio, è difficile che un aereo sperimentale che viaggia a una velocità di una quindicina di volte quella del suono possa atterrare in un aeroporto normale senza essere notato. Non si tratta neppure soltanto del carattere malamente abbozzato dei personaggi, talvolta caricaturali fino al limite del ridicolo. Si pone una domanda più elementare: è mai possibile che uno scrittore di best-seller che guadagna quattrini a palate non abbia la possibilità di ingaggiare qualcuno che gli riveda il testo in modo da non propinare parole in italiano malamente storpiate? Non è un’usanza tipicamente americana quella di avvalersi dei “revisori stilistici”? Evidentemente Dan Brown è un pasticcione, un avaro o gli piace prendersi in giro da solo, visto che ci propina “Capella Sistina” con una “p” sola, fa dire che «non si può entrare perché… è chiusa temprano», fa intimare che «basta di parlare» e così di seguito. Sembra di sentire uno di quei turisti americani che parlano a mozziconi un italiano improbabile: il guaio è che quei mozziconi vengono messi in bocca a personaggi italiani. Ma dove Brown raggiunge un vertice è nella descrizione di Roma dall’alto dell’aereo: un dedalo caotico di viuzze che si avvolgono senza regola alcuna attorno a chiese e ruderi “in rovina” (sic) e nelle quali impazzano miriadi di auto Fiat. Un’immagine, osserva Brown, che è il simbolo dell’assenza di ordine. Insomma Roma è il caos allo stato puro. Che sensibilità artistica e culturale! Con spettacolare incoscienza Brown si presenta nella parte caricaturale del cow boy giunto dal profondo Midwest che si chiede perché non si butti giù quel rudere in rovina del Colosseo per rifarne uno nuovo in vetrocemento e non si spiani tutto il centro di Roma per sostituirlo con un sistema di strade ortogonali comprensibili.
È comunque indubbio che Brown è totalmente inconsapevole della propria ignoranza. Ad esempio, sapete quale religione si praticava nel Pantheon di Roma? Il culto di tutti gli dei pagani, ovvero… il panteismo… C’è poco da ridere. Milioni di persone si bevono queste boiate pazzesche e finiscono pure col credere che il panteismo sia il politeismo.
Alla fine di questa lettura mi sono chiesto quale giudizio potrebbe ottenere Dan Brown nei termini della fatidica triade conoscenze/competenze/abilità tanto cara ai patiti di valutazione scolastica. La risposta è semplice. A competenze se la cava benissimo: per esempio, «sa usare strumenti e materiali finalizzandoli al raggiungimento di uno scopo, in seguito a un proprio progetto». Difatti, è riuscito a finalizzare una massa di bufale e di castronerie al conseguimento di una montagna di quattrini. Ad abilità poi non ne parliamo: sta alle stelle. Più “abile” di lui difficile trovarne. Quanto a conoscenze sta a zero. Ma che importa? Quello che conta è che nella certificazione delle competenze se la caverebbe alla grande.
(Fonte: Giorgio Israel, Tempi, 27 Gennaio 2010)
Trama animata e divertente? Non soltanto una mortale bufala, una broda allungata a forza pur di riempire un numero accettabile di pagine. Ma un’accozzaglia di assurdità da lasciare a bocca aperta. Non si tratta soltanto dell’inverosimiglianza della trama, del fatto che le costruzioni fantascientifiche sono assolutamente improbabili: per esempio, è difficile che un aereo sperimentale che viaggia a una velocità di una quindicina di volte quella del suono possa atterrare in un aeroporto normale senza essere notato. Non si tratta neppure soltanto del carattere malamente abbozzato dei personaggi, talvolta caricaturali fino al limite del ridicolo. Si pone una domanda più elementare: è mai possibile che uno scrittore di best-seller che guadagna quattrini a palate non abbia la possibilità di ingaggiare qualcuno che gli riveda il testo in modo da non propinare parole in italiano malamente storpiate? Non è un’usanza tipicamente americana quella di avvalersi dei “revisori stilistici”? Evidentemente Dan Brown è un pasticcione, un avaro o gli piace prendersi in giro da solo, visto che ci propina “Capella Sistina” con una “p” sola, fa dire che «non si può entrare perché… è chiusa temprano», fa intimare che «basta di parlare» e così di seguito. Sembra di sentire uno di quei turisti americani che parlano a mozziconi un italiano improbabile: il guaio è che quei mozziconi vengono messi in bocca a personaggi italiani. Ma dove Brown raggiunge un vertice è nella descrizione di Roma dall’alto dell’aereo: un dedalo caotico di viuzze che si avvolgono senza regola alcuna attorno a chiese e ruderi “in rovina” (sic) e nelle quali impazzano miriadi di auto Fiat. Un’immagine, osserva Brown, che è il simbolo dell’assenza di ordine. Insomma Roma è il caos allo stato puro. Che sensibilità artistica e culturale! Con spettacolare incoscienza Brown si presenta nella parte caricaturale del cow boy giunto dal profondo Midwest che si chiede perché non si butti giù quel rudere in rovina del Colosseo per rifarne uno nuovo in vetrocemento e non si spiani tutto il centro di Roma per sostituirlo con un sistema di strade ortogonali comprensibili.
È comunque indubbio che Brown è totalmente inconsapevole della propria ignoranza. Ad esempio, sapete quale religione si praticava nel Pantheon di Roma? Il culto di tutti gli dei pagani, ovvero… il panteismo… C’è poco da ridere. Milioni di persone si bevono queste boiate pazzesche e finiscono pure col credere che il panteismo sia il politeismo.
Alla fine di questa lettura mi sono chiesto quale giudizio potrebbe ottenere Dan Brown nei termini della fatidica triade conoscenze/competenze/abilità tanto cara ai patiti di valutazione scolastica. La risposta è semplice. A competenze se la cava benissimo: per esempio, «sa usare strumenti e materiali finalizzandoli al raggiungimento di uno scopo, in seguito a un proprio progetto». Difatti, è riuscito a finalizzare una massa di bufale e di castronerie al conseguimento di una montagna di quattrini. Ad abilità poi non ne parliamo: sta alle stelle. Più “abile” di lui difficile trovarne. Quanto a conoscenze sta a zero. Ma che importa? Quello che conta è che nella certificazione delle competenze se la caverebbe alla grande.
(Fonte: Giorgio Israel, Tempi, 27 Gennaio 2010)
Se anche Benedetto XVI e Pio XII diventano vittime del pregiudizio
Bisognerebbe smetterla con la malafede, il partito preso e, per dirla tutta, la disinformazione, non appena si tratta di Benedetto XVI. Fin dalla sua elezione, si è intentato un processo al suo «ultraconservatorismo», ripreso di continuo dai mass media (come se un Papa potesse essere altra cosa che «conservatore»). Si è insistito con sottintesi, se non addirittura con battute pesanti, sul «Papa tedesco», sul «post-nazista» in sottana, su colui che la trasmissione satirica francese «Les Guignols» non esitava a soprannominare «Adolfo II».
Si sono falsificati, puramente e semplicemente, i testi: per esempio, a proposito del suo viaggio ad Auschwitz del 2006, si sostenne e - dal momento che col passar del tempo i ricordi si fanno più incerti - ancor oggi si ripete che avrebbe reso onore alla memoria dei sei milioni di morti polacchi, vittime di una semplice «banda di criminali», senza precisare che la metà di loro erano ebrei (la controverità è davvero sbalorditiva, poiché Benedetto XVI in quell’occasione parlò effettivamente dei «potenti del III Reich» che tentarono «di eliminare» il «popolo ebraico» dal «rango delle nazioni della Terra» Le Monde, 30/5/2006).
Ed ecco che, in occasione della visita del Papa alla sinagoga di Roma e dopo le sue due visite alle sinagoghe di Colonia e di New York, lo stesso coro di disinformatori ha stabilito un primato, stavo per dire che ha riportato la palma della vittoria, poiché non ha aspettato nemmeno che il Papa oltrepassasse il Tevere per annunciare, urbi et orbi, che egli non aveva saputo trovare le parole che bisognava dire, né compiuto i gesti che bisognava fare e che dunque aveva fallito nel suo intento...
Allora, visto che l’evento è ancora caldo, mi si consentirà di mettere qualche puntino su qualche «i». Benedetto XVI, quando si è raccolto in preghiera davanti alla corona di rose rosse deposta di fronte alla targa commemorativa del martirio dei 1021 ebrei romani deportati, non ha fatto che il suo dovere, ma l’ha fatto. Benedetto XVI, quando ha reso omaggio ai «volti» degli «uomini, donne e bambini» presi in una retata nell’ambito del progetto di «sterminio del popolo dell’Alleanza di Mosè», ha detto un’evidenza, ma l’ha detta. Di Benedetto XVI che riprende, parola per parola, i termini della preghiera di Giovanni Paolo II, dieci anni fa, al Muro del Pianto; di Benedetto XVI che chiede quindi «perdono» al popolo ebraico devastato dal furore di un antisemitismo per lungo tempo di essenza cattolica e nel farlo, ripeto, legge il testo di Giovanni Paolo II, bisogna smettere di ripetere, come somari, che egli è indietro-rispetto-al-suo-predecessore.
A Benedetto XVI che dichiara infine, dopo una seconda sosta davanti all’iscrizione che commemora l’attentato commesso nel 1982 dagli estremisti palestinesi, che il dialogo ebraico cattolico avviato dal Concilio Vaticano II è ormai «irrevocabile»; a Benedetto XVI che annuncia di aver l’intenzione di «approfondire» il «dibattito fra uguali» che è il dibattito con i «fratelli maggiori» che sono gli ebrei, si possono fare tutti i processi che si vuole, ma non quello di «congelare» i progressi compiuti da Giovanni XXIII. Quanto alla vicenda molto complessa di Pio XII, ci tornerò, se necessario.
Tornerò sul caso di Rolf Hochhuth, autore del famoso «Il vicario», che nel 1963 lanciò la polemica sui «silenzi di Pio XII». In particolare, tornerò sul fatto che questo focoso giustiziere è anche un negazionista patentato, condannato più volte come tale e la cui ultima provocazione, cinque anni fa, fu di prendere le difese, in un’intervista al settimanale di estrema destra Junge Freiheit, di colui che nega l’esistenza delle camere a gas, David Irving. Per ora, voglio giusto ricordare, come ha appena fatto Laurent Dispot nella rivista che dirigo, La règle du jeu, che il terribile Pio XII, nel 1937, quando ancora era soltanto il cardinale Pacelli, fu il coautore con Pio XI dell’Enciclica «Con viva preoccupazione», che ancora oggi continua ad essere uno dei manifesti antinazisti più fermi e più eloquenti.
Per ora, dobbiamo per esattezza storica precisare che, prima di optare per l’azione clandestina, prima di aprire, senza dirlo, i suoi conventi agli ebrei romani braccati dai fascisti, il silenzioso Pio XII pronunciò alcune allocuzioni radiofoniche (per esempio Natale 1941 e 1942) che gli valsero, dopo la morte, l’omaggio di Golda Meir: «Durante i dieci anni del terrore nazista, mentre il nostro popolo soffriva un martirio spaventoso, la voce del Papa si levò per condannare i carnefici».
E, per ora, ci si meraviglierà soprattutto che, dell’assordante silenzio sceso nel mondo intero sulla Shoah, si faccia portare tutto il peso, o quasi, a colui che, fra i sovrani del momento: a) non aveva cannoni né aerei a disposizione; b) non risparmiò i propri sforzi per condividere, con chi disponeva di aerei e cannoni, le informazioni di cui veniva a conoscenza; c) salvò in prima persona, a Roma ma anche altrove, un grandissimo numero di coloro di cui aveva la responsabilità morale. Ultimo ritocco al Grande Libro della bassezza contemporanea: Pio o Benedetto, si può essere Papa e capro espiatorio.
(Fonte: Bernard Henri-Lévy, Corriere della Sera, 20 gennaio 2010)
Si sono falsificati, puramente e semplicemente, i testi: per esempio, a proposito del suo viaggio ad Auschwitz del 2006, si sostenne e - dal momento che col passar del tempo i ricordi si fanno più incerti - ancor oggi si ripete che avrebbe reso onore alla memoria dei sei milioni di morti polacchi, vittime di una semplice «banda di criminali», senza precisare che la metà di loro erano ebrei (la controverità è davvero sbalorditiva, poiché Benedetto XVI in quell’occasione parlò effettivamente dei «potenti del III Reich» che tentarono «di eliminare» il «popolo ebraico» dal «rango delle nazioni della Terra» Le Monde, 30/5/2006).
Ed ecco che, in occasione della visita del Papa alla sinagoga di Roma e dopo le sue due visite alle sinagoghe di Colonia e di New York, lo stesso coro di disinformatori ha stabilito un primato, stavo per dire che ha riportato la palma della vittoria, poiché non ha aspettato nemmeno che il Papa oltrepassasse il Tevere per annunciare, urbi et orbi, che egli non aveva saputo trovare le parole che bisognava dire, né compiuto i gesti che bisognava fare e che dunque aveva fallito nel suo intento...
Allora, visto che l’evento è ancora caldo, mi si consentirà di mettere qualche puntino su qualche «i». Benedetto XVI, quando si è raccolto in preghiera davanti alla corona di rose rosse deposta di fronte alla targa commemorativa del martirio dei 1021 ebrei romani deportati, non ha fatto che il suo dovere, ma l’ha fatto. Benedetto XVI, quando ha reso omaggio ai «volti» degli «uomini, donne e bambini» presi in una retata nell’ambito del progetto di «sterminio del popolo dell’Alleanza di Mosè», ha detto un’evidenza, ma l’ha detta. Di Benedetto XVI che riprende, parola per parola, i termini della preghiera di Giovanni Paolo II, dieci anni fa, al Muro del Pianto; di Benedetto XVI che chiede quindi «perdono» al popolo ebraico devastato dal furore di un antisemitismo per lungo tempo di essenza cattolica e nel farlo, ripeto, legge il testo di Giovanni Paolo II, bisogna smettere di ripetere, come somari, che egli è indietro-rispetto-al-suo-predecessore.
A Benedetto XVI che dichiara infine, dopo una seconda sosta davanti all’iscrizione che commemora l’attentato commesso nel 1982 dagli estremisti palestinesi, che il dialogo ebraico cattolico avviato dal Concilio Vaticano II è ormai «irrevocabile»; a Benedetto XVI che annuncia di aver l’intenzione di «approfondire» il «dibattito fra uguali» che è il dibattito con i «fratelli maggiori» che sono gli ebrei, si possono fare tutti i processi che si vuole, ma non quello di «congelare» i progressi compiuti da Giovanni XXIII. Quanto alla vicenda molto complessa di Pio XII, ci tornerò, se necessario.
Tornerò sul caso di Rolf Hochhuth, autore del famoso «Il vicario», che nel 1963 lanciò la polemica sui «silenzi di Pio XII». In particolare, tornerò sul fatto che questo focoso giustiziere è anche un negazionista patentato, condannato più volte come tale e la cui ultima provocazione, cinque anni fa, fu di prendere le difese, in un’intervista al settimanale di estrema destra Junge Freiheit, di colui che nega l’esistenza delle camere a gas, David Irving. Per ora, voglio giusto ricordare, come ha appena fatto Laurent Dispot nella rivista che dirigo, La règle du jeu, che il terribile Pio XII, nel 1937, quando ancora era soltanto il cardinale Pacelli, fu il coautore con Pio XI dell’Enciclica «Con viva preoccupazione», che ancora oggi continua ad essere uno dei manifesti antinazisti più fermi e più eloquenti.
Per ora, dobbiamo per esattezza storica precisare che, prima di optare per l’azione clandestina, prima di aprire, senza dirlo, i suoi conventi agli ebrei romani braccati dai fascisti, il silenzioso Pio XII pronunciò alcune allocuzioni radiofoniche (per esempio Natale 1941 e 1942) che gli valsero, dopo la morte, l’omaggio di Golda Meir: «Durante i dieci anni del terrore nazista, mentre il nostro popolo soffriva un martirio spaventoso, la voce del Papa si levò per condannare i carnefici».
E, per ora, ci si meraviglierà soprattutto che, dell’assordante silenzio sceso nel mondo intero sulla Shoah, si faccia portare tutto il peso, o quasi, a colui che, fra i sovrani del momento: a) non aveva cannoni né aerei a disposizione; b) non risparmiò i propri sforzi per condividere, con chi disponeva di aerei e cannoni, le informazioni di cui veniva a conoscenza; c) salvò in prima persona, a Roma ma anche altrove, un grandissimo numero di coloro di cui aveva la responsabilità morale. Ultimo ritocco al Grande Libro della bassezza contemporanea: Pio o Benedetto, si può essere Papa e capro espiatorio.
(Fonte: Bernard Henri-Lévy, Corriere della Sera, 20 gennaio 2010)
Musica sacra: con il maestro, a Cremona se ne va anche il coro
Il terremoto musicale che ha scosso la cattedrale di Cremona con l’abbandono del maestro Fulvio Rampi ha avuto altre scosse. Col maestro si è dimesso l’intero coro, 45 cantori su 47, in piena sintonia col suo pensiero. E così Rampi ha ulteriormente motivato l’abbandono, in una sua lettera: «La vicenda è triste e per molti versi paradossale. In undici anni con la cappella musicale della cattedrale di Cremona abbiamo vissuto un’avventura esaltante nel segno della musica sacra, e abbiamo portato felicemente ad esecuzione alcuni fra i più importanti capolavori del repertorio corale sacro: dalle Messe di Mozart alla Missa solemnis di Beethoven, dai mottetti di Palestrina ai salmi di Vivaldi, dalla Messa di Bruckner al Magnificat di Bach e alla sua Messa in Si minore, dalle Messe di Haydn alle Messe di Bartolucci, Perosi e molti altri. Il tutto, però, senza che in cattedrale vi fosse un vero progetto liturgico nel segno della tradizione della Chiesa.
L’assemblearismo dilagante ha condizionato anche la nostra cattedrale, nella quale, ad esempio, al canto gregoriano nessuno si è mai sognato di “riservare il posto principale” (Sacrosanctum Concilium 116). Con l’impegno e il sacrificio di tutti si è dimostrato nei fatti che un’istituzione musicale ecclesiale può e deve tendere al bello mettendo in gioco tutte le professionalità necessarie. Ma si è anche dolorosamente dimostrato che senza un progetto liturgico-musicale ben radicato non si può andare da nessuna parte. La mediocrità non può essere un obiettivo: dunque ce ne siamo andati.
Credo che l’equivoco e il nocciolo della questione stiano, in buona sostanza, nella sciagurata separazione e nella voluta opposizione, oggi di moda, tra l’esemplarità musicale e l’esemplarità celebrativa: l’una vista come potenziale pericolo per l’altra. Come dire: più si pensa alla musica, soprattutto a “quella” musica, e meno si pensa alla liturgia.
Non è così: il canto gregoriano resta il paradigma della musica pensata nella sua essenza come forma di comunicazione e di esegesi della Parola che si fa puro atto liturgico. Per questo la Chiesa lo riconosce come “suo” e vuole che da lì si parta, oggi come sempre; non da altro. E partire da lì significa tendere all’esemplarità celebrativa anche attraverso l’esemplarità musicale, ossia attraverso ciò che l’uomo, in ogni tempo, sa produrre e realizzare di meglio nell’arte musicale. Il canto gregoriano e la grande tradizione della polifonia classica ci consegnano la forma e la sostanza del canto liturgico, fatto di arte sublime, bellezza e pertinenza liturgica assoluta.
La Chiesa, per la “sua” musica, pone da sempre e per sempre questi obiettivi. Non dice che bisogna eseguire sempre e solo il gregoriano e la polifonia classica, ma dice che bisogna fare “innanzitutto” questo e che bisogna partire da lì per il discernimento sulla forma e la sostanza di ogni nuovo repertorio per la liturgia.
Obiettivo molto alto, certo: dunque si fa quel che si può. Ma perché non fare quando si può? Io ho posto precisamente questo problema. Ma da lì non si vuol più partire, perché per decenni si è voluto di fatto contrapporre il patrimonio liturgico-musicale della Chiesa, se non alla “lettera”, almeno allo “spirito” dei documenti conciliari. Il concetto di partecipazione attiva è stato oggetto di una banalizzazione sconcertante, è stato retrocesso a puro attivismo liturgico e ha finito precisamente per dissociare le due “esemplarità”, liberandole da ogni vincolo reciproco. Le conseguenze, manco a dirlo, sono state devastanti. L’assemblea, ad esempio, è considerata tanto più “celebrante” quanto maggiormente si libera di tutto ciò di cui non sa immediatamente disporre, che non è a sua misura, che non comprende subito, che non la coinvolge perché non parla più il linguaggio del suo tempo. All’educazione si è preferita la distruzione, alla riflessione la rimozione, alla nuova sfida la resa.
Ancora a proposito del canto gregoriano, è quanto mai importante studiarlo in profondità per poi eseguirlo correttamente e bene. La sua difesa come “canto proprio della liturgia romana” passa anche attraverso la credibilità della proposta esecutiva, che faccia toccare con mano la sua vera e perenne bellezza per la liturgia di oggi. Purtroppo chi lo difende, anche a spada tratta, non sempre è credibile. Gli argomenti a favore di questo immenso patrimonio della Chiesa non possono limitarsi ad una sua difesa d’ufficio. Negli ultimi cinquant’anni sono stati compiuti passi enormi nella ricerca sulle fonti: al canto gregoriano è stato restituito il suo “valore ecclesiale”, anche se pochi se ne sono accorti perché già lo davano per defunto».
Dissolto il coro della cattedrale di Cremona, resta naturalmente vivo col maestro Rampi il coro dei Cantori Gregoriani, da lui fondato. Con questo coro Rampi ha inciso più di venti CD e ha tenuto centinaia di concerti in tutto il mondo. Con l’editore Rugginenti di Milano ha pubblicato nel 2006 il volume: “Del canto gregoriano. Dialoghi sul canto proprio della Chiesa”, a cura di Maurizio Cariani e Fabrizio Leonardi, pp. 272, euro 20,00.
(Fonte: Sandro Magister, Settimo cielo, 27 gennaio 2010)
L’assemblearismo dilagante ha condizionato anche la nostra cattedrale, nella quale, ad esempio, al canto gregoriano nessuno si è mai sognato di “riservare il posto principale” (Sacrosanctum Concilium 116). Con l’impegno e il sacrificio di tutti si è dimostrato nei fatti che un’istituzione musicale ecclesiale può e deve tendere al bello mettendo in gioco tutte le professionalità necessarie. Ma si è anche dolorosamente dimostrato che senza un progetto liturgico-musicale ben radicato non si può andare da nessuna parte. La mediocrità non può essere un obiettivo: dunque ce ne siamo andati.
Credo che l’equivoco e il nocciolo della questione stiano, in buona sostanza, nella sciagurata separazione e nella voluta opposizione, oggi di moda, tra l’esemplarità musicale e l’esemplarità celebrativa: l’una vista come potenziale pericolo per l’altra. Come dire: più si pensa alla musica, soprattutto a “quella” musica, e meno si pensa alla liturgia.
Non è così: il canto gregoriano resta il paradigma della musica pensata nella sua essenza come forma di comunicazione e di esegesi della Parola che si fa puro atto liturgico. Per questo la Chiesa lo riconosce come “suo” e vuole che da lì si parta, oggi come sempre; non da altro. E partire da lì significa tendere all’esemplarità celebrativa anche attraverso l’esemplarità musicale, ossia attraverso ciò che l’uomo, in ogni tempo, sa produrre e realizzare di meglio nell’arte musicale. Il canto gregoriano e la grande tradizione della polifonia classica ci consegnano la forma e la sostanza del canto liturgico, fatto di arte sublime, bellezza e pertinenza liturgica assoluta.
La Chiesa, per la “sua” musica, pone da sempre e per sempre questi obiettivi. Non dice che bisogna eseguire sempre e solo il gregoriano e la polifonia classica, ma dice che bisogna fare “innanzitutto” questo e che bisogna partire da lì per il discernimento sulla forma e la sostanza di ogni nuovo repertorio per la liturgia.
Obiettivo molto alto, certo: dunque si fa quel che si può. Ma perché non fare quando si può? Io ho posto precisamente questo problema. Ma da lì non si vuol più partire, perché per decenni si è voluto di fatto contrapporre il patrimonio liturgico-musicale della Chiesa, se non alla “lettera”, almeno allo “spirito” dei documenti conciliari. Il concetto di partecipazione attiva è stato oggetto di una banalizzazione sconcertante, è stato retrocesso a puro attivismo liturgico e ha finito precisamente per dissociare le due “esemplarità”, liberandole da ogni vincolo reciproco. Le conseguenze, manco a dirlo, sono state devastanti. L’assemblea, ad esempio, è considerata tanto più “celebrante” quanto maggiormente si libera di tutto ciò di cui non sa immediatamente disporre, che non è a sua misura, che non comprende subito, che non la coinvolge perché non parla più il linguaggio del suo tempo. All’educazione si è preferita la distruzione, alla riflessione la rimozione, alla nuova sfida la resa.
Ancora a proposito del canto gregoriano, è quanto mai importante studiarlo in profondità per poi eseguirlo correttamente e bene. La sua difesa come “canto proprio della liturgia romana” passa anche attraverso la credibilità della proposta esecutiva, che faccia toccare con mano la sua vera e perenne bellezza per la liturgia di oggi. Purtroppo chi lo difende, anche a spada tratta, non sempre è credibile. Gli argomenti a favore di questo immenso patrimonio della Chiesa non possono limitarsi ad una sua difesa d’ufficio. Negli ultimi cinquant’anni sono stati compiuti passi enormi nella ricerca sulle fonti: al canto gregoriano è stato restituito il suo “valore ecclesiale”, anche se pochi se ne sono accorti perché già lo davano per defunto».
Dissolto il coro della cattedrale di Cremona, resta naturalmente vivo col maestro Rampi il coro dei Cantori Gregoriani, da lui fondato. Con questo coro Rampi ha inciso più di venti CD e ha tenuto centinaia di concerti in tutto il mondo. Con l’editore Rugginenti di Milano ha pubblicato nel 2006 il volume: “Del canto gregoriano. Dialoghi sul canto proprio della Chiesa”, a cura di Maurizio Cariani e Fabrizio Leonardi, pp. 272, euro 20,00.
(Fonte: Sandro Magister, Settimo cielo, 27 gennaio 2010)
Un segno di luce ci chiama a fedele solidarietà
Mentre i titoli su Haiti scompaiono dalle prime pagine di molti quotidiani, uno scarno, inosservato lancio d’agenzia della americana Catholic News Agency aggiunge un particolare sul ritrovamento, sotto alla cattedrale di Port-au-Prince il 20 gennaio, del corpo del vicario generale Charles Benoit. Quando è stato dissepolto dalle macerie il vicario, afferma la Cna, stringeva fra le mani la pisside con le ostie consacrate. Dunque Benoit, colto in chiesa dal terremoto, prima di cercare di fuggire ha avuto il pensiero di portare in salvo ciò che gli era più caro: il corpo di Cristo custodito nel tabernacolo. Non ce l’ha fatta. Le volte gli sono crollate addosso in un fragore di tuono, in una apocalisse di urla e di pietre.
Come l’anziana donna trovata viva due giorni fa sotto la cattedrale, il corpo del vicario doveva essere così coperto di polvere da sembrare una statua. Una statua con quel vaso avvinto al petto, nell’irrigidimento della morte; in una stretta più forte della morte.
Che Chiesa viva dev’essere quella un cui pastore, faccia a faccia col proprio ultimo istante, rimane fisso col cuore al corpo di Cristo, fedele fino all’ultimo respiro. La Chiesa viva di Haiti ha pagato il suo tributo alla strage: ancora trenta seminaristi mancano all’appello. Il nunzio apostolico, Bernardito Auza, percorre le vie della città incenerita cercando di portare conforto, e a chi gli chiede di cosa c’è bisogno risponde umilmente: «Abbiamo un infinito bisogno di tutto».
Di tutto, anche se l’aeroporto della città è intasato di generi di prima emergenza, e accanto al Catholic Relief Services decine di agenzie di ogni parte del mondo cercano di curare e assistere la popolazione. C’è «un infinito bisogno di tutto», perché l’attenzione dei media si affievolirà presto, e assieme l’onda di emozione che questa strage ha sollevato. Spenti i riflettori, partiti i giornalisti, Haiti resterà con le sue moltitudini di senzatetto, con le sue migliaia di mutilati e orfani; sola con il suo lutto immane sepolto nel fragore delle ruspe nelle fosse comuni. Chi ricostruirà le case di Port-au-Prince, chi rieducherà chi ha perso una gamba a camminare, chi creerà lavoro per questa folla immensa che mangia solo grazie alla carità internazionale? Già i titoli scivolano dalle prime pagine, come è inevitabile che sia; ma la tragedia di Haiti, piombata su una antica miseria, su endemici mali, è una tragedia di lungo corso.
Ci vorrà molto tempo. Ci vorrà una pazienza infinita, una miriade di lunghe oscure dedizioni per questo popolo, che forse ora è il più povero del mondo. E così disgraziato che a qualcuno cinicamente può venire la tentazione di dire: lasciamo perdere laggiù, arrendiamoci. Passata l’emozione svegliata dagli occhi di quei bambini, il rischio è che il mondo si abitui a sapere di avere, nei Caraibi, una annichilita isola di disperati.
Ci vorrà molto tempo, e forze, e uomini, e denaro. La Chiesa italiana domani chiederà ai fedeli, a messa, un aiuto per questo: per una presenza che durerà negli anni, tenace. Per il tempo che occorre a un bambino mutilato a riprendere, con le stampelle, a camminare; ai padri, per tornare a dare da mangiare ai figli; a tanti, di ricominciare a sperare.
Perché la speranza, è cosa a cui bisogna essere fedeli. Cocciutamente, anche quando tutto sembra volerla negare. Fedeli come quel vicario che mentre la navata della cattedrale vacillava nel mugghio atroce del terremoto, è tornato indietro e ha afferrato la pisside con le ostie. Il corpo di Cristo. La Speranza, in persona. Dicendoci in quel gesto qualcosa di Haiti, del suo popolo, della sua fede, che nessuna tv ci ha raccontato. Quasi in una profezia per questa terra, quel corpo di Cristo sepolto insieme a quelli degli uomini – ma strappato alle macerie, e riportato alla luce.
(Fonte: Marina Corradi, Avvenire 23 gennaio 2010)
Come l’anziana donna trovata viva due giorni fa sotto la cattedrale, il corpo del vicario doveva essere così coperto di polvere da sembrare una statua. Una statua con quel vaso avvinto al petto, nell’irrigidimento della morte; in una stretta più forte della morte.
Che Chiesa viva dev’essere quella un cui pastore, faccia a faccia col proprio ultimo istante, rimane fisso col cuore al corpo di Cristo, fedele fino all’ultimo respiro. La Chiesa viva di Haiti ha pagato il suo tributo alla strage: ancora trenta seminaristi mancano all’appello. Il nunzio apostolico, Bernardito Auza, percorre le vie della città incenerita cercando di portare conforto, e a chi gli chiede di cosa c’è bisogno risponde umilmente: «Abbiamo un infinito bisogno di tutto».
Di tutto, anche se l’aeroporto della città è intasato di generi di prima emergenza, e accanto al Catholic Relief Services decine di agenzie di ogni parte del mondo cercano di curare e assistere la popolazione. C’è «un infinito bisogno di tutto», perché l’attenzione dei media si affievolirà presto, e assieme l’onda di emozione che questa strage ha sollevato. Spenti i riflettori, partiti i giornalisti, Haiti resterà con le sue moltitudini di senzatetto, con le sue migliaia di mutilati e orfani; sola con il suo lutto immane sepolto nel fragore delle ruspe nelle fosse comuni. Chi ricostruirà le case di Port-au-Prince, chi rieducherà chi ha perso una gamba a camminare, chi creerà lavoro per questa folla immensa che mangia solo grazie alla carità internazionale? Già i titoli scivolano dalle prime pagine, come è inevitabile che sia; ma la tragedia di Haiti, piombata su una antica miseria, su endemici mali, è una tragedia di lungo corso.
Ci vorrà molto tempo. Ci vorrà una pazienza infinita, una miriade di lunghe oscure dedizioni per questo popolo, che forse ora è il più povero del mondo. E così disgraziato che a qualcuno cinicamente può venire la tentazione di dire: lasciamo perdere laggiù, arrendiamoci. Passata l’emozione svegliata dagli occhi di quei bambini, il rischio è che il mondo si abitui a sapere di avere, nei Caraibi, una annichilita isola di disperati.
Ci vorrà molto tempo, e forze, e uomini, e denaro. La Chiesa italiana domani chiederà ai fedeli, a messa, un aiuto per questo: per una presenza che durerà negli anni, tenace. Per il tempo che occorre a un bambino mutilato a riprendere, con le stampelle, a camminare; ai padri, per tornare a dare da mangiare ai figli; a tanti, di ricominciare a sperare.
Perché la speranza, è cosa a cui bisogna essere fedeli. Cocciutamente, anche quando tutto sembra volerla negare. Fedeli come quel vicario che mentre la navata della cattedrale vacillava nel mugghio atroce del terremoto, è tornato indietro e ha afferrato la pisside con le ostie. Il corpo di Cristo. La Speranza, in persona. Dicendoci in quel gesto qualcosa di Haiti, del suo popolo, della sua fede, che nessuna tv ci ha raccontato. Quasi in una profezia per questa terra, quel corpo di Cristo sepolto insieme a quelli degli uomini – ma strappato alle macerie, e riportato alla luce.
(Fonte: Marina Corradi, Avvenire 23 gennaio 2010)
Sassari: indignazione per l’affissione di immagini blasfeme
L’associazione “Gioventù Cristiana” esprime sentimenti di indignazione dopo l’affissione di manifesti blasfemi ad opera del Movimento Omosessuale Sardo in varie parti della città di Sassari.
“Ancora una volta ci ritroviamo a denunciare situazioni di inaudita intolleranza nei confronti dei cattolici – commenta in una nota il dirigente dell’associazione giovanile cattolica Pietro Serra – da parte di un gruppo che rivendica diritti e pretende il rispetto per le proprie opinioni. Ci chiediamo se tale gruppo voglia realmente un dialogo con la parte cattolica, dopo aver affisso anche nei mesi scorsi immagini col Sacro Cuore di Gesù affiancato da due uomini completamente nudi ed una Madonna con alle spalle dei preservativi”.
“Chiediamo – continua Serra – l’immediata rimozione di queste immagini che offendono il sentimento religioso di centinaia di persone non solo di Sassari e chiediamo l’intervento tempestivo dell’Arcivescovo Mons. Atzei affinché questa ondata blasfema ed intollerante cessi al più presto”.
“Siamo passati – conclude la nota – dall’allarme omofobia a quello della cristianofobia. Per questo chiediamo anche al Sindaco Gianfranco Ganau che più volte ha patrocinato a nome del Comune eventi del Mos, di dissociarsi da questi attacchi nei confronti dei cattolici”.
(Fonte: Cattolici online, 15 gennaio 2010)
“Ancora una volta ci ritroviamo a denunciare situazioni di inaudita intolleranza nei confronti dei cattolici – commenta in una nota il dirigente dell’associazione giovanile cattolica Pietro Serra – da parte di un gruppo che rivendica diritti e pretende il rispetto per le proprie opinioni. Ci chiediamo se tale gruppo voglia realmente un dialogo con la parte cattolica, dopo aver affisso anche nei mesi scorsi immagini col Sacro Cuore di Gesù affiancato da due uomini completamente nudi ed una Madonna con alle spalle dei preservativi”.
“Chiediamo – continua Serra – l’immediata rimozione di queste immagini che offendono il sentimento religioso di centinaia di persone non solo di Sassari e chiediamo l’intervento tempestivo dell’Arcivescovo Mons. Atzei affinché questa ondata blasfema ed intollerante cessi al più presto”.
“Siamo passati – conclude la nota – dall’allarme omofobia a quello della cristianofobia. Per questo chiediamo anche al Sindaco Gianfranco Ganau che più volte ha patrocinato a nome del Comune eventi del Mos, di dissociarsi da questi attacchi nei confronti dei cattolici”.
(Fonte: Cattolici online, 15 gennaio 2010)
giovedì 21 gennaio 2010
Influenza suina, i vaccini servivano ma contro il giornalismo allarmista
Volete la prova che il giornalismo è la più antica professione del mondo (e che siamo noi a indicare che invece è… quell’altra)? Guardate allo “scandalo vaccini”. Quante pagine vi siete dovuti sorbire sulla “Spagnola” e i suoi milioni di morti? Quante paginate avete letto, quanti titoli cubitali sul ritardo dei vaccini contro la suina? Tonnellate.
Per sei mesi, da quando la “suina” è deflagrata in Messico, da quando Obama ha lanciato l’allarme negli Usa, tutti i media hanno martellato l’opinione pubblica con la PANDEMIA, termine terribile da anno mille, che evoca peste e colera, morti e monatti. Copione usuale, perché per anni abbiamo letto che saremmo morti tutti di Aids, di influenza aviaria, di Legionella e di altre pestilenze. Naturalmente, non era tutto inventato, perché il Messico era riuscito a frenare il contagio ad aprile solo con mezzi straordinari: chiusi locali pubblici, scuole, teatri, cinema, mezzi pubblici. Naturalmente il rischio c’era e altrettanto naturalmente le autorità sanitarie italiane ne hanno preso atto e hanno fatto quel che tutta, tutta la stampa li spronava a fare: produrre un vaccino.
Altrettanto naturalmente tutti sapevano, la Novartis che lo produceva e il governo che lo comprava, che i tempi a disposizione per una vaccinazione di massa, non erano sufficienti per una seria sperimentazione scientifica e quindi la Novartis –come è logico- ha preteso che i rischi di eventuali class action contro conseguenze dannose ricadessero non su sé stessa, ma sull’autorità politica che lo commissionava.
Poi… poi è successo che le misure di profilassi su scala mondiale hanno funzionato, è successo che il virus stesso si è mostrato meno aggressivo di quanto si temesse. E’ successo insomma quel che le persone di buon senso sanno: la scienza non è onnisciente, la medicina non possiede la Pietra Filosofale e non è in grado di controllare i cicli, quindi anche le patologie della natura. Risultato: su dieci milioni di dosi di vaccino commissionate ne è stata usata in Italia sono un milione. Ma allora ecco che monta giorno dopo giorno lo scandalo: al rogo chi ha speso denaro pubblico, chi ha firmato il contratto capestro con la Novartis, al rogo, insomma, il ministro Fazio. Quest’ultimo dice cose molto sagge: avevamo ragione di temere un terremoto e ho ordinato le case di legno che avrebbero contrastato l’emergenza. Le scosse sono state piccole, nessuna città è crollata e ora la case –pagate- sono inutilizzate. Potrebbe aggiungere: “E’ la democrazia, bellezza”. Una democrazia mediatica in cui il governo deve garantire la sicurezza contro i capricci della natura, in cui è costretto a prendere sul serio ogni allarme, perché se poi si verifica la catastrofe è pronta la gogna, l’infamia, la pattumiera della storia.
Non c’è nessuno scandalo dei vaccini se non negli articoli firmati spesso dagli stessi giornalisti che per mesi hanno chiesto a gran voce che fossero resi disponibili. Non c’è nessuno scandalo Novartis, perché solo l’industria privata può produrre milioni di dosi a costi contenuti e non le si può certo chiedere di assumersi il rischio di class action imperniate sulla scarsa affidabilità dei vaccini stessi legata all’impossibilità di testarla.
C’è solo un giornalismo scandalistico e impunito, che alza sempre il dito accusatore (quando non fa peggio) forte di una certezza granitica: giornalista non mangia giornalista e mai nessuno ci chiederà il conto degli allarmismi che lanciamo (spesso solo per vendere più copie)
(Fonte: Carlo Panella, L’Occidentale, 20 gennaio 2010)
Per sei mesi, da quando la “suina” è deflagrata in Messico, da quando Obama ha lanciato l’allarme negli Usa, tutti i media hanno martellato l’opinione pubblica con la PANDEMIA, termine terribile da anno mille, che evoca peste e colera, morti e monatti. Copione usuale, perché per anni abbiamo letto che saremmo morti tutti di Aids, di influenza aviaria, di Legionella e di altre pestilenze. Naturalmente, non era tutto inventato, perché il Messico era riuscito a frenare il contagio ad aprile solo con mezzi straordinari: chiusi locali pubblici, scuole, teatri, cinema, mezzi pubblici. Naturalmente il rischio c’era e altrettanto naturalmente le autorità sanitarie italiane ne hanno preso atto e hanno fatto quel che tutta, tutta la stampa li spronava a fare: produrre un vaccino.
Altrettanto naturalmente tutti sapevano, la Novartis che lo produceva e il governo che lo comprava, che i tempi a disposizione per una vaccinazione di massa, non erano sufficienti per una seria sperimentazione scientifica e quindi la Novartis –come è logico- ha preteso che i rischi di eventuali class action contro conseguenze dannose ricadessero non su sé stessa, ma sull’autorità politica che lo commissionava.
Poi… poi è successo che le misure di profilassi su scala mondiale hanno funzionato, è successo che il virus stesso si è mostrato meno aggressivo di quanto si temesse. E’ successo insomma quel che le persone di buon senso sanno: la scienza non è onnisciente, la medicina non possiede la Pietra Filosofale e non è in grado di controllare i cicli, quindi anche le patologie della natura. Risultato: su dieci milioni di dosi di vaccino commissionate ne è stata usata in Italia sono un milione. Ma allora ecco che monta giorno dopo giorno lo scandalo: al rogo chi ha speso denaro pubblico, chi ha firmato il contratto capestro con la Novartis, al rogo, insomma, il ministro Fazio. Quest’ultimo dice cose molto sagge: avevamo ragione di temere un terremoto e ho ordinato le case di legno che avrebbero contrastato l’emergenza. Le scosse sono state piccole, nessuna città è crollata e ora la case –pagate- sono inutilizzate. Potrebbe aggiungere: “E’ la democrazia, bellezza”. Una democrazia mediatica in cui il governo deve garantire la sicurezza contro i capricci della natura, in cui è costretto a prendere sul serio ogni allarme, perché se poi si verifica la catastrofe è pronta la gogna, l’infamia, la pattumiera della storia.
Non c’è nessuno scandalo dei vaccini se non negli articoli firmati spesso dagli stessi giornalisti che per mesi hanno chiesto a gran voce che fossero resi disponibili. Non c’è nessuno scandalo Novartis, perché solo l’industria privata può produrre milioni di dosi a costi contenuti e non le si può certo chiedere di assumersi il rischio di class action imperniate sulla scarsa affidabilità dei vaccini stessi legata all’impossibilità di testarla.
C’è solo un giornalismo scandalistico e impunito, che alza sempre il dito accusatore (quando non fa peggio) forte di una certezza granitica: giornalista non mangia giornalista e mai nessuno ci chiederà il conto degli allarmismi che lanciamo (spesso solo per vendere più copie)
(Fonte: Carlo Panella, L’Occidentale, 20 gennaio 2010)
Pio XII: Marcia indietro del settimanale francese “Marianne”
Dopo la pubblicazione di un articolo che evoca lo «scandalo della beatificazione di Pio XII», il settimanale francese “Marianne” ha fatto marcia indietro sull'argomento.
«Il nostro articolo del 2 gennaio “Il Papa che rimase in silenzio di fronte a Hitler”, che ha affrontato il tema della possibile beatificazione di Pio XII, ha suscitato reazioni» ─ osserva la redazione di “Marianne” ─ «anche tra i nostri cronisti abituali. Tra questi, Roland Hureaux considera che, di fronte all'Olocausto, Pio XII agì come un uomo responsabile anziché dare lezioni».
Nell'articolo, diffuso l'11 gennaio, Hureaux ricorda che i «dirigenti della Chiesa cattolica si situano dalla parte dell'etica della responsabilità. Perché, contrariamente a ciò che possono far pensare alcuni, i buoni cristiani non sono adolescenti tardivi, e la Chiesa cattolica ha responsabilità effettive: quella, tra il 1939 e il 1945, di milioni di cattolici ma anche di centinaia di migliaia di ebrei rifugiati nelle sue istituzioni!».
«È estremamente immaturo pensare che il Papa potesse parlare indiscriminatamente senza preoccuparsi di questa responsabilità», afferma. Secondo il giornalista di “Marianne”, «nulla permette di dire che, in relazione a quella situazione, il Papa avrebbe potuto, essendo meno “prudente”, migliorare l'equilibrio tra bene e male». «Serve una presunzione singolare da parte di coloro che non hanno vissuto le stesse circostanze né hanno mai esercitato analoghe responsabilità per presentare giudizi a questo proposito».
«Come ha detto Serge Klarsfeld, alcune parole solenni durante la retata degli ebrei di Roma avrebbero sicuramente migliorato la reputazione attuale di Pio XII. Ma che criminale sarebbe stato se, per forgiare la propria immagine davanti alla storia o anche per preservare l'onore dell'istituzione, avesse sacrificato la vita anche di uno solo delle migliaia di bambini ebrei rifugiati nei giardini di Castel Gandolfo e in tanti conventi!».
Roland Hureaux considera anche che bisognerebbe avere «una singolare ignoranza di quello che fu il regime nazista per immaginare che questo tipo di proclami avrebbero potuto commuoverlo». E aggiunge: «Come si può dire che il Papa non abbia detto nulla contro il nazismo, quando fu lo sherpa della redazione, dall'inizio alla fine, dell'Enciclica Mit brennender Sorge (1937)?».
Pio XII era «ossessionato dall'anticomunismo». «Come sono leggere queste parole! Dimenticano che tra l'agosto 1939 e il giugno 1941 Hitler e Stalin furono alleati, si portò a termine un piano di sterminio dei sacerdoti e delle élites polacche e centinaia di migliaia di cattolici polacchi vennero assassinate. Ma non ci fu alcuna protesta memorabile». «Perché? Non lo so».
«Egli sapeva che, di fronte alla “Bestia immonda”, non sarebbe servito a nulla cercare di intenerire. Bisognava limitare in modo prioritario i danni senza alimentare la sua ira».
«Di fatto – continua Roland Hureaux –, il vero mistero di Pio XII non è tanto il suo comportamento durante la guerra, ma la lettura che se ne è fatta 70 anni dopo. Com'è possibile che questo Papa, che era oggetto di elogi unanimi da parte del mondo ebraico (Ben Gurion, Golda Meir, Albert Einstein, Léo Kubowitski, segretario del Congresso Ebraico Mondiale, il Gran Rabbino di Roma, ecc.) e non era ebreo, possa essere oggi così vilipeso?».
(Fonte: Zenit, 19 gennaio 2010)
«Il nostro articolo del 2 gennaio “Il Papa che rimase in silenzio di fronte a Hitler”, che ha affrontato il tema della possibile beatificazione di Pio XII, ha suscitato reazioni» ─ osserva la redazione di “Marianne” ─ «anche tra i nostri cronisti abituali. Tra questi, Roland Hureaux considera che, di fronte all'Olocausto, Pio XII agì come un uomo responsabile anziché dare lezioni».
Nell'articolo, diffuso l'11 gennaio, Hureaux ricorda che i «dirigenti della Chiesa cattolica si situano dalla parte dell'etica della responsabilità. Perché, contrariamente a ciò che possono far pensare alcuni, i buoni cristiani non sono adolescenti tardivi, e la Chiesa cattolica ha responsabilità effettive: quella, tra il 1939 e il 1945, di milioni di cattolici ma anche di centinaia di migliaia di ebrei rifugiati nelle sue istituzioni!».
«È estremamente immaturo pensare che il Papa potesse parlare indiscriminatamente senza preoccuparsi di questa responsabilità», afferma. Secondo il giornalista di “Marianne”, «nulla permette di dire che, in relazione a quella situazione, il Papa avrebbe potuto, essendo meno “prudente”, migliorare l'equilibrio tra bene e male». «Serve una presunzione singolare da parte di coloro che non hanno vissuto le stesse circostanze né hanno mai esercitato analoghe responsabilità per presentare giudizi a questo proposito».
«Come ha detto Serge Klarsfeld, alcune parole solenni durante la retata degli ebrei di Roma avrebbero sicuramente migliorato la reputazione attuale di Pio XII. Ma che criminale sarebbe stato se, per forgiare la propria immagine davanti alla storia o anche per preservare l'onore dell'istituzione, avesse sacrificato la vita anche di uno solo delle migliaia di bambini ebrei rifugiati nei giardini di Castel Gandolfo e in tanti conventi!».
Roland Hureaux considera anche che bisognerebbe avere «una singolare ignoranza di quello che fu il regime nazista per immaginare che questo tipo di proclami avrebbero potuto commuoverlo». E aggiunge: «Come si può dire che il Papa non abbia detto nulla contro il nazismo, quando fu lo sherpa della redazione, dall'inizio alla fine, dell'Enciclica Mit brennender Sorge (1937)?».
Pio XII era «ossessionato dall'anticomunismo». «Come sono leggere queste parole! Dimenticano che tra l'agosto 1939 e il giugno 1941 Hitler e Stalin furono alleati, si portò a termine un piano di sterminio dei sacerdoti e delle élites polacche e centinaia di migliaia di cattolici polacchi vennero assassinate. Ma non ci fu alcuna protesta memorabile». «Perché? Non lo so».
«Egli sapeva che, di fronte alla “Bestia immonda”, non sarebbe servito a nulla cercare di intenerire. Bisognava limitare in modo prioritario i danni senza alimentare la sua ira».
«Di fatto – continua Roland Hureaux –, il vero mistero di Pio XII non è tanto il suo comportamento durante la guerra, ma la lettura che se ne è fatta 70 anni dopo. Com'è possibile che questo Papa, che era oggetto di elogi unanimi da parte del mondo ebraico (Ben Gurion, Golda Meir, Albert Einstein, Léo Kubowitski, segretario del Congresso Ebraico Mondiale, il Gran Rabbino di Roma, ecc.) e non era ebreo, possa essere oggi così vilipeso?».
(Fonte: Zenit, 19 gennaio 2010)
Libertà religiosa, ma non troppo...
La libertà religiosa, una di quelle fondamentali, riconosciuta come tale da tutte le carte internazionali, è oggi la più a rischio nel mondo. E’ quanto risulta dal rapporto del “Pew Forum on Religion & Public Life”, che presenta e discute i dati relativi a ben 198 paesi del mondo, raccolti in oltre due anni di indagini ed analizzati con criteri scientifici obiettivi. Pertanto, non un rapporto qualsiasi, ma una delle ricerche più autorevoli mai pubblicate sul tema dei diritti umani. Quel che si evince è che ben 5 miliardi di uomini vedono conculcato il proprio diritto ad una libera espressione religiosa, a causa di restrizioni legali oppure a causa di intimidazioni e violenze perpetrate da gruppi di intolleranti, spesso con la connivenza delle autorità. A fronte di un dato tanto negativo, sia sul piano qualitativo (interessa uno dei diritti fondamentali…) che quantitativo (riguarda oltre la metà degli abitanti del pianeta…), desta amarezza l’indifferenza, e talora la complicità, che si coglie ormai nel cosiddetto mondo libero, in particolare nella nomenclatura dei paesi europei e delle istituzioni comunitarie.
Lungi dall’esser parte della soluzione, l’Europa rischia di diventar parte del problema. Il rapporto non tace infatti riguardo alle crescenti restrizioni alla libertà religiosa anche all’interno di paesi insospettabili come la Francia od il Regno Unito, per non dire della tanto incensata Turchia che già partecipa alla Corte Europea, ma che resta a tutt’oggi uno dei paesi con le maggiori restrizioni legali nei confronti dei cristiani e delle altre minoranze religiose. I cristiani, neanche a dirlo, sono tra i gruppi religiosi più perseguitati nel mondo e ciò è vero soprattutto per quei paesi in cui la maggioranza della popolazione è di religione mussulmana o dove sopravvivono ancor oggi istituzioni politiche di tipo comunista. A questo proposito, la “World Watch List 2010” presenta un elenco dei 10 paesi al mondo in cui i cristiani sono maggiormente perseguitati, di questi 8 sono islamici e 2 comunisti.
Sono anche emblematici però i casi di Francia o Gran Bretagna, paesi di lunga tradizione democratica nei quali sembra crescere l’ostilità nei confronti della libertà religiosa, parte per le pressioni derivanti da gruppi culturali e sociali storicamente contrari alla libera espressione della fede, parte per la consistente immigrazione mussulmana degli ultimi anni. In Francia una legge del 2004 vieta ai cristiani di indossare i propri simboli religiosi (la croce o la medaglietta al collo) all’interno delle scuole, un’analoga proibizione esiste per il turbante dei sikh e per il fazzolettone sui capelli delle ragazze mussulmane. Tale restrizione si inserisce in un contesto già di per se problematico, rappresentato dalla controversa legge sul culto del 1905. Questa legge permise allo stato di incamerare tutti i beni della Chiesa, trasformando persino gli edifici di culto in beni museali da concedersi (eventualmente) in usufrutto ad “associazioni di fedeli”. La Chiesa venne allora assoggettata ad un rigido controllo statale, esteso anche alla designazione dei Vescovi, mentre la scuola fu riorganizzata in funzione di un progetto educativo nazionale incentrato sul rigido concetto di Laicitè d'État. Il significato parve evidente fin dal principio nelle parole degli stessi artefici di quella riforma: Jules Fleury si attribuì infatti il merito di aver fatto della scuola francese “la grande diocesi del libero pensiero” e non nascose affatto il fine che era quello di favorire l’avvento di “una nuova umanità senza Dio”.
Insomma, non il rispetto delle diverse fedi, ma il deragliamento dalla laicità al laicismo, per il quale la religione è costretta a sopravvivere in una dimensione unicamente privata, mentre all’irreligione è concessa piena facoltà di ostentazione dei propri simboli e dei propri assunti. Come è noto Nicolas Sarkozy, aveva caldeggiato il superamento di questo ordinamento ormai datato e dai forti tratti illiberali, ma ben poco finora è cambiato. In Gran Bretagna d’altra parte, dove il Sovrano deve necessariamente appartenere alla Chiesa d'Inghilterra (di cui formalmente è il capo), si sono moltiplicate negli anni le restrizioni legali ai danni dei cristiani. L’ultimo caso riportato è la sentenza che ha consentito ad un'azienda di imporre ai soli dipendenti cristiani di nascondere i simboli della loro fede (ancora la pericolosissima croce o la medaglietta al collo), lasciando tuttavia liberi i fedeli delle altre religioni di mostrare i loro. Questa sentenza non rispecchia semplicemente il crescente orientamento laicista delle istituzioni dei paesi europei, ma anche i gravi cedimenti del legislatore alle pressioni dei gruppi mussulmani più radicali. Purtroppo, in Europa, sempre più le istituzioni si mostrano forti con i deboli e deboli con i forti.
Naturalmente il rapporto non si occupa della libertà dei soli cristiani, ma della libertà religiosa in senso generale, e tuttavia balza agli occhi come le aree geo-politiche di maggior libertà per tutti i gruppi religiosi, indistintamente, siano proprio quelle in cui è storicamente più forte la presenza del Cristianesimo: molti paesi d’Europa, gli Stati Uniti, molti altri stati del continente americano e qualcuno dell’Africa non mussulmana... Tra i meglio classificati c’è infine l’Italia, significativamente in vantaggio anche rispetto ai nostri vicini d’oltre Alpe e d’oltre Manica.
Ciò si presta a qualche opportuna considerazione. Quasi ogni giorno infatti il nostro paese è messo alla gogna da una stampa molto aggressiva nei confronti della Chiesa, per un presunto inadeguato riconoscimento di ipotetici “nuovi diritti” dal contenuto discutibile e controverso (il diritto alla soppressione del figlio malato o presunto tale, il diritto al matrimonio gay, il diritto all’adozione di bambini da parte dei singles o di coppie del medesimo sesso…), al tempo stesso però, un’importante ricerca internazionale sulla disponibilità effettiva di uno dei più importanti tra i diritti umani, colloca invece il nostro paese tra i più liberi del mondo. Colpisce pertanto questa evidente difficoltà da parte del mondo laicista a cogliere il differente peso delle questioni e l’incapacità a trarne le dovute conseguenze. Speriamo, negli anni a venire, di non dover barattare la libertà (vera) in cambio di ambigui liberismi o libertarismi individualistici che, inseguendo il capriccio ed il mero desiderio soggettivo, sono non poche volte causa del decadimento delle libertà autentiche e fondamentali e del tramonto delle civiltà.
(Fonte: Stefano, La Cittadella, 14 gennaio 2010)
Lungi dall’esser parte della soluzione, l’Europa rischia di diventar parte del problema. Il rapporto non tace infatti riguardo alle crescenti restrizioni alla libertà religiosa anche all’interno di paesi insospettabili come la Francia od il Regno Unito, per non dire della tanto incensata Turchia che già partecipa alla Corte Europea, ma che resta a tutt’oggi uno dei paesi con le maggiori restrizioni legali nei confronti dei cristiani e delle altre minoranze religiose. I cristiani, neanche a dirlo, sono tra i gruppi religiosi più perseguitati nel mondo e ciò è vero soprattutto per quei paesi in cui la maggioranza della popolazione è di religione mussulmana o dove sopravvivono ancor oggi istituzioni politiche di tipo comunista. A questo proposito, la “World Watch List 2010” presenta un elenco dei 10 paesi al mondo in cui i cristiani sono maggiormente perseguitati, di questi 8 sono islamici e 2 comunisti.
Sono anche emblematici però i casi di Francia o Gran Bretagna, paesi di lunga tradizione democratica nei quali sembra crescere l’ostilità nei confronti della libertà religiosa, parte per le pressioni derivanti da gruppi culturali e sociali storicamente contrari alla libera espressione della fede, parte per la consistente immigrazione mussulmana degli ultimi anni. In Francia una legge del 2004 vieta ai cristiani di indossare i propri simboli religiosi (la croce o la medaglietta al collo) all’interno delle scuole, un’analoga proibizione esiste per il turbante dei sikh e per il fazzolettone sui capelli delle ragazze mussulmane. Tale restrizione si inserisce in un contesto già di per se problematico, rappresentato dalla controversa legge sul culto del 1905. Questa legge permise allo stato di incamerare tutti i beni della Chiesa, trasformando persino gli edifici di culto in beni museali da concedersi (eventualmente) in usufrutto ad “associazioni di fedeli”. La Chiesa venne allora assoggettata ad un rigido controllo statale, esteso anche alla designazione dei Vescovi, mentre la scuola fu riorganizzata in funzione di un progetto educativo nazionale incentrato sul rigido concetto di Laicitè d'État. Il significato parve evidente fin dal principio nelle parole degli stessi artefici di quella riforma: Jules Fleury si attribuì infatti il merito di aver fatto della scuola francese “la grande diocesi del libero pensiero” e non nascose affatto il fine che era quello di favorire l’avvento di “una nuova umanità senza Dio”.
Insomma, non il rispetto delle diverse fedi, ma il deragliamento dalla laicità al laicismo, per il quale la religione è costretta a sopravvivere in una dimensione unicamente privata, mentre all’irreligione è concessa piena facoltà di ostentazione dei propri simboli e dei propri assunti. Come è noto Nicolas Sarkozy, aveva caldeggiato il superamento di questo ordinamento ormai datato e dai forti tratti illiberali, ma ben poco finora è cambiato. In Gran Bretagna d’altra parte, dove il Sovrano deve necessariamente appartenere alla Chiesa d'Inghilterra (di cui formalmente è il capo), si sono moltiplicate negli anni le restrizioni legali ai danni dei cristiani. L’ultimo caso riportato è la sentenza che ha consentito ad un'azienda di imporre ai soli dipendenti cristiani di nascondere i simboli della loro fede (ancora la pericolosissima croce o la medaglietta al collo), lasciando tuttavia liberi i fedeli delle altre religioni di mostrare i loro. Questa sentenza non rispecchia semplicemente il crescente orientamento laicista delle istituzioni dei paesi europei, ma anche i gravi cedimenti del legislatore alle pressioni dei gruppi mussulmani più radicali. Purtroppo, in Europa, sempre più le istituzioni si mostrano forti con i deboli e deboli con i forti.
Naturalmente il rapporto non si occupa della libertà dei soli cristiani, ma della libertà religiosa in senso generale, e tuttavia balza agli occhi come le aree geo-politiche di maggior libertà per tutti i gruppi religiosi, indistintamente, siano proprio quelle in cui è storicamente più forte la presenza del Cristianesimo: molti paesi d’Europa, gli Stati Uniti, molti altri stati del continente americano e qualcuno dell’Africa non mussulmana... Tra i meglio classificati c’è infine l’Italia, significativamente in vantaggio anche rispetto ai nostri vicini d’oltre Alpe e d’oltre Manica.
Ciò si presta a qualche opportuna considerazione. Quasi ogni giorno infatti il nostro paese è messo alla gogna da una stampa molto aggressiva nei confronti della Chiesa, per un presunto inadeguato riconoscimento di ipotetici “nuovi diritti” dal contenuto discutibile e controverso (il diritto alla soppressione del figlio malato o presunto tale, il diritto al matrimonio gay, il diritto all’adozione di bambini da parte dei singles o di coppie del medesimo sesso…), al tempo stesso però, un’importante ricerca internazionale sulla disponibilità effettiva di uno dei più importanti tra i diritti umani, colloca invece il nostro paese tra i più liberi del mondo. Colpisce pertanto questa evidente difficoltà da parte del mondo laicista a cogliere il differente peso delle questioni e l’incapacità a trarne le dovute conseguenze. Speriamo, negli anni a venire, di non dover barattare la libertà (vera) in cambio di ambigui liberismi o libertarismi individualistici che, inseguendo il capriccio ed il mero desiderio soggettivo, sono non poche volte causa del decadimento delle libertà autentiche e fondamentali e del tramonto delle civiltà.
(Fonte: Stefano, La Cittadella, 14 gennaio 2010)
Da Israele agli Usa, l’occasione perduta dei media ebraici
Come hanno seguito gli ebrei che vivono in Israele la visita del Papa al Tempio Maggiore di Roma? Nonostante la presenza all’evento del vice-premier Silvan Shalom, l’attenzione dell’opinione pubblica è stata abba¬stanza limitata. Sui siti dei quotidiani di Gerusalemme si è dato spazio a una cronaca molto sobria e – soprattutto – rigidamente ristretta al dibattito sulla figura di Pio XII. Colpisce – in particolare – lo scarso interesse per le parole pronunciate da Benedetto XVI sul tema più generale del rapporto tra cristiani ed ebrei.
«Alla sinagoga di Roma il Papa difende il Vaticano dell’era nazista», è il titolo scelto dal quotidiano israeliano Haaretz . Dove nell’articolo la frase sull’«azione discreta e nascosta» della Santa Sede è l’unica a essere citata del lungo discorso del Pontefice. Ancora più radicale la scelta del sito di Yediot Ahronot , il più diffuso quotidiano israeliano, che dedica il titolo alle parole del presidente della Comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici: «Il leader degli ebrei romani in¬calza il Papa sul 'silenzio' di Pio XII » . Su Arutz Sheva , l’agenzia vicina alla destra religiosa, lo stesso episodio diventa addirittura: «Parole brusche per il Papa durante la storica visita in sinagoga » , un’immagine assolutamente lontana dalla realtà. «Il Vaticano si adoperò per salvare gli ebrei» è infine il titolo scelto dal Jerusalem Post , che curiosamente non pubblica nemmeno la foto di Benedetto XVI in sinagoga: preferisce ricorrere a un’immagine d’archivio, in cui il Papa compare accanto a una grande croce.
Nessuno, dunque, a Gerusalemme ha raccontato agli ebrei israeliani che a Roma il Pontefice domenica ha anche ripetuto le parole scritte da Giovanni Paolo II nel biglietto deposto al Muro Occidentale, ha condannato con parole nette l’antisemitismo, ha invitato i cristiani a conoscere più a fondo l’ebraismo e ha indicato nuove strade per un’amicizia più profonda tra ebrei e cristiani. Fino a ieri sera l’unica possibilità per scoprirlo era andare a consultare il sito del Patriarcato latino di Gerusalemme, che subito domenica sera ha rilanciato on line il testo integrale del discorso del Papa. Un segno della grande attenzione con cui la Chiesa cattolica di Terra Santa – al 99 per cento araba – ha guardato a questo passo nel dialogo con il mondo e¬braico. Date queste premesse non stupisce che tra i commenti inviati dai lettori ai siti dei quotidiani israeliani predominino i giudizi molto duri su Benedetto XVI. L’impressione è che – come purtroppo già successo a maggio, durante il viaggio in Israele – lo sguardo ristretto sulle «questioni calde» impedisca all’opinione pubblica israeliana di vedere tutto il resto.
Del resto la prospettiva non è che cambi molto se si analizzano le reazioni nell’altra maggiore comunità ebraica mondiale, quella degli Stati Uniti. Anche sul sito di Forward , la più importante rivista ebraica americana, sulla visita del Papa in Sinagoga non si va oltre un lancio di agenzia in cui l’unica frase citata di Benedetto XVI è sempre la stessa. E nonostante la condanna dell’antisemitismo sia stata tutt’altro che marginale nel discorso del Pontefice, non se ne trova traccia nemmeno nella sezione dedicata ai rapporti interreligiosi del sito dell’Anti defamation league , l’organismo che si occupa della lotta ai pregiudizi contro gli ebrei. Giornali e website hanno ristretto la loro attenzione al dibattito sul ruolo di Pio XII, restando alla superficie e trascurando gli altri temi toccati da Benedetto XVI e dagli ospiti ebrei
(Fonte: Giorgio Bernardelli, Avvenire, 19 gennaio 2010)
«Alla sinagoga di Roma il Papa difende il Vaticano dell’era nazista», è il titolo scelto dal quotidiano israeliano Haaretz . Dove nell’articolo la frase sull’«azione discreta e nascosta» della Santa Sede è l’unica a essere citata del lungo discorso del Pontefice. Ancora più radicale la scelta del sito di Yediot Ahronot , il più diffuso quotidiano israeliano, che dedica il titolo alle parole del presidente della Comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici: «Il leader degli ebrei romani in¬calza il Papa sul 'silenzio' di Pio XII » . Su Arutz Sheva , l’agenzia vicina alla destra religiosa, lo stesso episodio diventa addirittura: «Parole brusche per il Papa durante la storica visita in sinagoga » , un’immagine assolutamente lontana dalla realtà. «Il Vaticano si adoperò per salvare gli ebrei» è infine il titolo scelto dal Jerusalem Post , che curiosamente non pubblica nemmeno la foto di Benedetto XVI in sinagoga: preferisce ricorrere a un’immagine d’archivio, in cui il Papa compare accanto a una grande croce.
Nessuno, dunque, a Gerusalemme ha raccontato agli ebrei israeliani che a Roma il Pontefice domenica ha anche ripetuto le parole scritte da Giovanni Paolo II nel biglietto deposto al Muro Occidentale, ha condannato con parole nette l’antisemitismo, ha invitato i cristiani a conoscere più a fondo l’ebraismo e ha indicato nuove strade per un’amicizia più profonda tra ebrei e cristiani. Fino a ieri sera l’unica possibilità per scoprirlo era andare a consultare il sito del Patriarcato latino di Gerusalemme, che subito domenica sera ha rilanciato on line il testo integrale del discorso del Papa. Un segno della grande attenzione con cui la Chiesa cattolica di Terra Santa – al 99 per cento araba – ha guardato a questo passo nel dialogo con il mondo e¬braico. Date queste premesse non stupisce che tra i commenti inviati dai lettori ai siti dei quotidiani israeliani predominino i giudizi molto duri su Benedetto XVI. L’impressione è che – come purtroppo già successo a maggio, durante il viaggio in Israele – lo sguardo ristretto sulle «questioni calde» impedisca all’opinione pubblica israeliana di vedere tutto il resto.
Del resto la prospettiva non è che cambi molto se si analizzano le reazioni nell’altra maggiore comunità ebraica mondiale, quella degli Stati Uniti. Anche sul sito di Forward , la più importante rivista ebraica americana, sulla visita del Papa in Sinagoga non si va oltre un lancio di agenzia in cui l’unica frase citata di Benedetto XVI è sempre la stessa. E nonostante la condanna dell’antisemitismo sia stata tutt’altro che marginale nel discorso del Pontefice, non se ne trova traccia nemmeno nella sezione dedicata ai rapporti interreligiosi del sito dell’Anti defamation league , l’organismo che si occupa della lotta ai pregiudizi contro gli ebrei. Giornali e website hanno ristretto la loro attenzione al dibattito sul ruolo di Pio XII, restando alla superficie e trascurando gli altri temi toccati da Benedetto XVI e dagli ospiti ebrei
(Fonte: Giorgio Bernardelli, Avvenire, 19 gennaio 2010)
Il Papa in sinagoga
Credo sia utile riprendere sinteticamente i punti principali del discorso di Benedetto XVI nella visita alla Sinagoga di Roma. La lettura della stampa continua a non aiutare perché troppi articoli di presentazione dell’evento sono intossicati dal bisogno di trovare elementi polemici o comunque stravaganti, diversi da quelli che usciranno sugli altri quotidiani. È la logica del “dover stupire” a tutti i costi, per colpire il lettore in edicola, attraverso la lettura del titolo, e così indurlo a comprare la copia di quel quotidiano e non di un altro.
Sarà forse una logica di mercato, certamente non è un buon modo per capire le parole del Papa. Ascoltiamole.
1. Intanto il Pontefice si è rivolto ai suoi fedeli, per ricordare il “punto fermo” della dottrina del Concilio Vaticano II nel rapporto con gli ebrei: «un cammino irrevocabile di dialogo, di fraternità e di amicizia». Un cammino non facile, che ha comportato uno sguardo doloroso da parte della Chiesa su colpe commesse nel passato da «suoi figli e sue figlie», che hanno favorito «in qualche modo le piaghe dell’antisemitismo e dell’antigiudaismo».
2. Dopo aver guardato ad intra, il Papa getta lo sguardo sul XX secolo, dove si incontra la tragedia della Shoah. Quest’ultimo dramma è la conseguenza della diffusione di “ideologie terribili” che hanno sostituito il Creatore e la sua legge con altri idoli, l’uomo, la razza o lo Stato, così che il tentato genocidio degli ebrei non fu conseguenza della diffusione di una cultura cattolica ostile al giudaismo, ma il risultato della diffusione di ideologie anticristiane che con l’annientamento del popolo d’Israele «intendevano uccidere quel Dio che chiamò Abramo, che parlando sul Sinai stabilì i criteri orientativi dell’umanità che restano validi in eterno», così come disse Benedetto XVI ad Auschwitz il 28 maggio 2006.
3. Anche gli ebrei romani furono oggetto della violenza nazionalsocialista durante la seconda guerra mondiale. Ma se «molti rimasero indifferenti», ricorda il Papa che «molti, anche fra i Cattolici italiani, sostenuti dalla fede e dall’insegnamento cristiano, reagirono con coraggio, aprendo le braccia per soccorrere gli Ebrei braccati e fuggiaschi, a rischio spesso della propria vita». E anche «la Sede Apostolica svolse un’azione di soccorso, spesso nascosta e discreta», ha ribadito il Pontefice, senza nominare il venerabile Pio XII ma ricordandone l’azione forte e intelligente a favore degli ebrei, come del resto questi ultimi, fino all’inizio degli anni 1960, hanno sempre ricordato. La questione del silenzio di Pio XII, che continua a disturbare un dialogo che altrimenti potrebbe essere più fecondo, viene risolta dal Papa nel modo più elementare: il Papa Pacelli si comportò così perché in quel modo ritenne di essere più efficace nell’opera di salvezza degli uomini, e degli ebrei, minacciati dal nazionalsocialismo. Se i rappresentanti della comunità ebraica, ma questa è una mia stretta opinione personale, si trattenessero dall’intervenire con giudizi temerari sulla vita interna della Chiesa cattolica, come appunto l’intenzione di Pio XII o lo sviluppo della dottrina cattolica sul rapporto con le altre religioni, credo che il rapporto di amicizia e di collaborazione ne ricaverebbe soltanto benefici. Se accadesse il contrario, è facile immaginare quali potrebbero essere le reazioni.
4. Quindi Benedetto XVI arriva al punto che mi appare centrale in questa storica visita alla Sinagoga di Roma. Ossia l’appello a un dialogo fondato sul Decalogo o su quelli che il Papa altrove chiama i principi non negoziabili. Dopo aver ricordato le radici comuni, la storia e il ricco patrimonio spirituale «che condividiamo» con gli ebrei, scrutando il mistero del «profondo legame con gli Ebrei, scelti dal Signore primi fra tutti ad accogliere la sua parola» (come ricorda il Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 839), il Papa invita a guardare alle «Dieci Parole». Esse possono diventare il «comune messaggio etico di valore perenne per Israele, la Chiesa, i non credenti e l’intera umanità». Dai Dieci Comandamenti, derivano il «rispetto, la protezione della vita» perché ogni persona è creata a immagine e somiglianza di Dio, la «santità della famiglia», per cui il «sì personale e reciproco, fedele e definitivo dell’uomo e della donna» fondano quella famiglia che «continua a essere la cellula essenziale della società e il contesto di base in cui si imparano e si esercitano le virtù umane» e l’impegno a «esercitare, nel nostro tempo, una generosità speciale verso i poveri, le donne, i bambini, gli stranieri, i malati, i bisognosi».
Queste le parole del Papa. Ne esce un discorso semplice e chiaro, che ha l’obiettivo di favorire ulteriormente il dialogo e l’amicizia con il mondo ebraico nella chiarezza degli obiettivi, «consapevoli delle differenze che vi sono tra noi». Una grande alleanza per difendere la vita, la santità della famiglia, il dovere della solidarietà. Qualcosa di simile era accaduto a Regensburg nel settembre 2006 con i musulmani: anche lì si auspicava il dialogo sulla base della ragione, comune a tutti gli uomini di qualunque fede. Venne malinteso dalla stampa mondiale e ne nacque quasi un incidente diplomatico. Leggiamo bene le parole del Papa, se possiamo leggiamole integralmente, e non lasciamoci sopraffare da chi cerca soltanto occasioni di polemiche.
(Fonte: Marco Invernizzi, Il Timone, 19 gennaio 2010)
Sarà forse una logica di mercato, certamente non è un buon modo per capire le parole del Papa. Ascoltiamole.
1. Intanto il Pontefice si è rivolto ai suoi fedeli, per ricordare il “punto fermo” della dottrina del Concilio Vaticano II nel rapporto con gli ebrei: «un cammino irrevocabile di dialogo, di fraternità e di amicizia». Un cammino non facile, che ha comportato uno sguardo doloroso da parte della Chiesa su colpe commesse nel passato da «suoi figli e sue figlie», che hanno favorito «in qualche modo le piaghe dell’antisemitismo e dell’antigiudaismo».
2. Dopo aver guardato ad intra, il Papa getta lo sguardo sul XX secolo, dove si incontra la tragedia della Shoah. Quest’ultimo dramma è la conseguenza della diffusione di “ideologie terribili” che hanno sostituito il Creatore e la sua legge con altri idoli, l’uomo, la razza o lo Stato, così che il tentato genocidio degli ebrei non fu conseguenza della diffusione di una cultura cattolica ostile al giudaismo, ma il risultato della diffusione di ideologie anticristiane che con l’annientamento del popolo d’Israele «intendevano uccidere quel Dio che chiamò Abramo, che parlando sul Sinai stabilì i criteri orientativi dell’umanità che restano validi in eterno», così come disse Benedetto XVI ad Auschwitz il 28 maggio 2006.
3. Anche gli ebrei romani furono oggetto della violenza nazionalsocialista durante la seconda guerra mondiale. Ma se «molti rimasero indifferenti», ricorda il Papa che «molti, anche fra i Cattolici italiani, sostenuti dalla fede e dall’insegnamento cristiano, reagirono con coraggio, aprendo le braccia per soccorrere gli Ebrei braccati e fuggiaschi, a rischio spesso della propria vita». E anche «la Sede Apostolica svolse un’azione di soccorso, spesso nascosta e discreta», ha ribadito il Pontefice, senza nominare il venerabile Pio XII ma ricordandone l’azione forte e intelligente a favore degli ebrei, come del resto questi ultimi, fino all’inizio degli anni 1960, hanno sempre ricordato. La questione del silenzio di Pio XII, che continua a disturbare un dialogo che altrimenti potrebbe essere più fecondo, viene risolta dal Papa nel modo più elementare: il Papa Pacelli si comportò così perché in quel modo ritenne di essere più efficace nell’opera di salvezza degli uomini, e degli ebrei, minacciati dal nazionalsocialismo. Se i rappresentanti della comunità ebraica, ma questa è una mia stretta opinione personale, si trattenessero dall’intervenire con giudizi temerari sulla vita interna della Chiesa cattolica, come appunto l’intenzione di Pio XII o lo sviluppo della dottrina cattolica sul rapporto con le altre religioni, credo che il rapporto di amicizia e di collaborazione ne ricaverebbe soltanto benefici. Se accadesse il contrario, è facile immaginare quali potrebbero essere le reazioni.
4. Quindi Benedetto XVI arriva al punto che mi appare centrale in questa storica visita alla Sinagoga di Roma. Ossia l’appello a un dialogo fondato sul Decalogo o su quelli che il Papa altrove chiama i principi non negoziabili. Dopo aver ricordato le radici comuni, la storia e il ricco patrimonio spirituale «che condividiamo» con gli ebrei, scrutando il mistero del «profondo legame con gli Ebrei, scelti dal Signore primi fra tutti ad accogliere la sua parola» (come ricorda il Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 839), il Papa invita a guardare alle «Dieci Parole». Esse possono diventare il «comune messaggio etico di valore perenne per Israele, la Chiesa, i non credenti e l’intera umanità». Dai Dieci Comandamenti, derivano il «rispetto, la protezione della vita» perché ogni persona è creata a immagine e somiglianza di Dio, la «santità della famiglia», per cui il «sì personale e reciproco, fedele e definitivo dell’uomo e della donna» fondano quella famiglia che «continua a essere la cellula essenziale della società e il contesto di base in cui si imparano e si esercitano le virtù umane» e l’impegno a «esercitare, nel nostro tempo, una generosità speciale verso i poveri, le donne, i bambini, gli stranieri, i malati, i bisognosi».
Queste le parole del Papa. Ne esce un discorso semplice e chiaro, che ha l’obiettivo di favorire ulteriormente il dialogo e l’amicizia con il mondo ebraico nella chiarezza degli obiettivi, «consapevoli delle differenze che vi sono tra noi». Una grande alleanza per difendere la vita, la santità della famiglia, il dovere della solidarietà. Qualcosa di simile era accaduto a Regensburg nel settembre 2006 con i musulmani: anche lì si auspicava il dialogo sulla base della ragione, comune a tutti gli uomini di qualunque fede. Venne malinteso dalla stampa mondiale e ne nacque quasi un incidente diplomatico. Leggiamo bene le parole del Papa, se possiamo leggiamole integralmente, e non lasciamoci sopraffare da chi cerca soltanto occasioni di polemiche.
(Fonte: Marco Invernizzi, Il Timone, 19 gennaio 2010)
sabato 16 gennaio 2010
La visita del Papa in sinagoga e le polemiche montanti: basta!
Cari amici, avrete notato che, in vista della visita del Papa alla sinagoga di Roma, stanno aumentando, se non montando, tutta una serie di polemiche: dalle assurde affermazioni di qualcuno al forfait dell'ultimo minuto di questo o l'altro esponente della comunità ebraica che ci tiene a rendere partecipi i giornali della sua decisione.
Bene, anzi male, ma ho preso una decisione confortata anche, come sempre del resto, dal comportamento del Santo Padre. Mi ripropongo e propongo a voi, cari amici, di evitare le polemiche fino a domenica, giorno in cui il Papa si recherà in sinagoga.
Volontariamente o no c'è chi sta soffiando sul fuoco e non mi sembra giusto andare nella legnaia ed alimentarlo. Non si intende dare ulteriore pubblicità a provocazioni o offese gratuite nei confronti del Santo Padre.
È offesa giudicare il Papa solo perché è tedesco, è offesa continuare a paragonarlo ad altri non valorizzando la sua splendida unicità e via discorrendo.
Stop quindi! Forniremo tutte le news del caso ma basta con le provocazioni che avvelenano noi ed il prossimo. Perché non ispirarci al Santo Padre?
Pensiamo alla sua serenità, alla sua mitezza ed al suo coraggio! È offeso da più parti, ma non pretende da nessuno le scuse. Semmai è il prossimo a pretendere continuamente scuse, chiarimenti e spiegazioni.
È maltrattato dai media, ma non chiede rettifiche. Qualche solone offende persino la sua cultura teologica, eppure Benedetto non esibisce la sua erudizione e parla ai plurilaureati come al più semplice dei fedeli.
È stato persino aggredito fisicamente, ma non ha usato questo episodio per tenere desta l'attenzione dei media. Pubblicamente non ha mai parlato della caduta che poteva essere rovinosa. Non ha ringraziato Dio o la Vergine per averlo salvato, ma, da quanto abbiamo saputo, ha espresso la sua gratitudine ai suoi "angeli custodi": i Gendarmi e le Guardie Svizzere.
E oggi? Oggi è venuto dal Papa un insegnamento che mai dovremo dimenticare.
Ha ricevuto privatamente la ragazza che l'ha spinto, senza pompa magna, senza giornalisti, senza diretta televisiva. Sappiamo solo che Susanna gli ha chiesto scusa e che il Papa l'ha perdonata...così...semplicemente.
Che esempio! Il perdono non si esibisce, si concede.
Perché avvelenarci quando abbiamo davanti a noi un esempio così luminoso?
Ci sarà tempo e modo per commentare la visita del Papa in sinagoga, ma ora non lasciamoci condizionare dalle opinioni di alcuni che magari vogliono semplicemente un pò di visibilità.
Che cosa possiamo fare? Quello che il Santo Padre ci chiede, l'unico dono che gli fa veramente piacere: la preghiera. Preghiamo affinché la visita alla sinagoga di Roma porti i frutti che Benedetto si attende. E basta.
(Fonte: Raffaella, Amici di Papa Ratzinger 3, 13 gennaio 2010)
Bene, anzi male, ma ho preso una decisione confortata anche, come sempre del resto, dal comportamento del Santo Padre. Mi ripropongo e propongo a voi, cari amici, di evitare le polemiche fino a domenica, giorno in cui il Papa si recherà in sinagoga.
Volontariamente o no c'è chi sta soffiando sul fuoco e non mi sembra giusto andare nella legnaia ed alimentarlo. Non si intende dare ulteriore pubblicità a provocazioni o offese gratuite nei confronti del Santo Padre.
È offesa giudicare il Papa solo perché è tedesco, è offesa continuare a paragonarlo ad altri non valorizzando la sua splendida unicità e via discorrendo.
Stop quindi! Forniremo tutte le news del caso ma basta con le provocazioni che avvelenano noi ed il prossimo. Perché non ispirarci al Santo Padre?
Pensiamo alla sua serenità, alla sua mitezza ed al suo coraggio! È offeso da più parti, ma non pretende da nessuno le scuse. Semmai è il prossimo a pretendere continuamente scuse, chiarimenti e spiegazioni.
È maltrattato dai media, ma non chiede rettifiche. Qualche solone offende persino la sua cultura teologica, eppure Benedetto non esibisce la sua erudizione e parla ai plurilaureati come al più semplice dei fedeli.
È stato persino aggredito fisicamente, ma non ha usato questo episodio per tenere desta l'attenzione dei media. Pubblicamente non ha mai parlato della caduta che poteva essere rovinosa. Non ha ringraziato Dio o la Vergine per averlo salvato, ma, da quanto abbiamo saputo, ha espresso la sua gratitudine ai suoi "angeli custodi": i Gendarmi e le Guardie Svizzere.
E oggi? Oggi è venuto dal Papa un insegnamento che mai dovremo dimenticare.
Ha ricevuto privatamente la ragazza che l'ha spinto, senza pompa magna, senza giornalisti, senza diretta televisiva. Sappiamo solo che Susanna gli ha chiesto scusa e che il Papa l'ha perdonata...così...semplicemente.
Che esempio! Il perdono non si esibisce, si concede.
Perché avvelenarci quando abbiamo davanti a noi un esempio così luminoso?
Ci sarà tempo e modo per commentare la visita del Papa in sinagoga, ma ora non lasciamoci condizionare dalle opinioni di alcuni che magari vogliono semplicemente un pò di visibilità.
Che cosa possiamo fare? Quello che il Santo Padre ci chiede, l'unico dono che gli fa veramente piacere: la preghiera. Preghiamo affinché la visita alla sinagoga di Roma porti i frutti che Benedetto si attende. E basta.
(Fonte: Raffaella, Amici di Papa Ratzinger 3, 13 gennaio 2010)
Perché venite a sposarvi in Chiesa?
Questa è la domanda che un parroco saggio dovrebbe porre alla coppia che va a prender contatti per combinare una data utile alla celebrazione...
Oggi sarebbe forse più corretto chiedere perché si sceglie di sposarsi, visto che non è così scontato. Comunque, per non rischiare di naufragare in un mare in tempesta, restringiamo il campo e torniamo alla domanda iniziale, perché c’è qualcosa di curioso. E’ possibile che i Corsi Pre-matrimoniali in Parrocchia, ormai da anni e anni propinati ai promessi sposi, siano un continuo cantiere di cui non si riesce mai a valutarne l’efficacia? Sono state schierate truppe di psicologi, coppie di parrocchiani sposati da 35 anni, raduni di fidanzati, visione di film e documentari stile Quark, incontri con il Vescovo, ecc., ecc., eppure questo benedetto corso viene generalmente vissuto come un peso oltre che dagli aspiranti sposini, anche da molti parroci.
Se poi diamo un occhiata ai numeri sul matrimonio vediamo che le separazioni sono in continua ascesa, così come le convivenze. A proposito di queste ultime si deve notare come la stragrande maggioranza delle coppie che arrivano a sposarsi in Chiesa è passata da un più o meno lungo “periodo di prova”. “Vediamo l’effetto che fa – dicono - perché un conto è uscire per andare a ballare, un conto è levarsi i calzini ai piedi del letto tutte le sere”, questa è la filosofia pratica di gran moda, che in fin dei conti è di una banalità sconvolgente. Sì, perché è ovvio che tra “andare a ballare” e “levarsi i calzini insieme” c’è una certa differenza, ma – mi chiedo -durante il fidanzamento oltre che andare a ballare avete mai parlato un po’ di come intendete la vita? Se effettivamente avevate deciso di volervi semplicemente divertire, ma perché andate a convivere e poi in molti casi finite a dover frequentare il Corso Pre-matrimoniale? Bah!
Le risposte al quesito iniziale hanno varie sfumature, ma girano tutte intorno alla solita minestra: “Mi sposo in Chiesa perché credo in Dio, ma mica in quello proposto dalla Chiesa per i suoi interessi. Comunque c’è un certo fascino, insomma sposarsi in Chiesa è bello”. La variante meno impegnata è: “La mamma (o la nonna) ci tiene tanto.”
Vabbè, a parte le varie considerazioni direi che un delitto si è già compiuto da tempo e il cadavere è in uno stato di avanzata decomposizione, la vittima in questione è il periodo di fidanzamento. A tal proposito quante Parrocchie/Parroci prevedono una catechesi per fidanzati? E poi, nelle prediche quante volte vengono trattati con chiarezza e fedeltà i temi dell’enciclica Humanae Vitae o quelli di varie catechesi di Giovanni Paolo II sulla sessualità?
Si fa un gran dire sulla pastorale dei corsi pre-matrimoniali, ancor di più si discute nel campo assai “moderno” dell’accoglienza dei divorziati-risposati, ma mi pare di non sentire altrettanta enfasi per quel che riguarda la rivalutazione del periodo di fidanzamento. Credo, invece, che far comprendere la grazia del fidanzamento come il momento in cui imparare a “dare tutto di sé perché padroni di sé”, sia la via maestra su cui cercare di evitare il fallimento di futuri matrimoni.
Vanno bene gli psicologi, vanno bene i cineforum, ma è tutto contorno se poi non ci sono più coppie di fidanzati che pregano insieme, se la partecipazione alla S.Messa è una tantum (nel senso di una volta l’anno a Natale), se ci si confessa solo per accedere al rito e poi buonanotte ai suonatori. Crediamo più alla psicologia della coppia o alla forza della preghiera? Non che le due cose si escludano necessariamente, ma mi pare che il rischio oggi è di far pendere troppo la bilancia sul primo piatto.
Il corso pre-matrimoniale per essere un buon corso prematrimoniale deve poter mettere in crisi la coppia, deve poter suscitare in loro domande forti. Intendo domande quali chi è per te Dio?, Che significato ha il suo Amore?, Che senso ha la parola vocazione alla luce della chiamata che Egli ha per ognuno di noi? Di solito, invece, si propina la solita storia sulle dinamiche di coppia, su questioni anche importanti, ma appunto di contorno.
Nel contesto attuale se non si rifonda una vera e propria educazione all’affettività da dove partire per proclamare la bellezza del matrimonio? E questa educazione all’affettività non può prescindere dal fondamento del rapporto personale con il Signore, senza di Lui si resta in balia della nostra psicologia, della nostra sensualità, di ciò che dicono e pensano gli altri. L’alternativa è quella di lasciare l’educazione all’affettività ad altre agenzie, non ultime Grandi Fratelli, periodici e pubblicità, film e spettacoli vari, dove all’occorrenza il menù prevede baci saffici, allusioni a buon mercato, disimpegno come regola, divertimento estetico/emozionale come unico obiettivo.
Insomma preoccupiamoci innanzitutto di far capire davanti a chi ci sposa. C’è poco tempo? Il Corso pre-matrimoniale non è la giusta occasione? A me pare un’opportunità considerato che il livello medio di informazione religiosa oggi è estremamente basso. Forse la maggioranza di queste coppie viene regolarmente in Chiesa la domenica? Persone che magari non hanno più una coscienza del peccato e quindi dell’Amore di Dio, come potranno sposarsi davanti a Lui in piena consapevolezza? Dire no è sempre difficile, ma a volte si aiutano gli altri anche in questo modo. Non è di moda parlare di queste cose? Una ragione in più per farlo. Vanno beni i convegni, i Master in famiglia e dintorni, le conferenze, i libri, ma poi sul campo occorre buttare il cuore oltre l’ostacolo senza paura di impopolarità. Oddio, sono sempre troppo integralista!
(Fonte: Parati semper, 14 gennaio 2010)
Oggi sarebbe forse più corretto chiedere perché si sceglie di sposarsi, visto che non è così scontato. Comunque, per non rischiare di naufragare in un mare in tempesta, restringiamo il campo e torniamo alla domanda iniziale, perché c’è qualcosa di curioso. E’ possibile che i Corsi Pre-matrimoniali in Parrocchia, ormai da anni e anni propinati ai promessi sposi, siano un continuo cantiere di cui non si riesce mai a valutarne l’efficacia? Sono state schierate truppe di psicologi, coppie di parrocchiani sposati da 35 anni, raduni di fidanzati, visione di film e documentari stile Quark, incontri con il Vescovo, ecc., ecc., eppure questo benedetto corso viene generalmente vissuto come un peso oltre che dagli aspiranti sposini, anche da molti parroci.
Se poi diamo un occhiata ai numeri sul matrimonio vediamo che le separazioni sono in continua ascesa, così come le convivenze. A proposito di queste ultime si deve notare come la stragrande maggioranza delle coppie che arrivano a sposarsi in Chiesa è passata da un più o meno lungo “periodo di prova”. “Vediamo l’effetto che fa – dicono - perché un conto è uscire per andare a ballare, un conto è levarsi i calzini ai piedi del letto tutte le sere”, questa è la filosofia pratica di gran moda, che in fin dei conti è di una banalità sconvolgente. Sì, perché è ovvio che tra “andare a ballare” e “levarsi i calzini insieme” c’è una certa differenza, ma – mi chiedo -durante il fidanzamento oltre che andare a ballare avete mai parlato un po’ di come intendete la vita? Se effettivamente avevate deciso di volervi semplicemente divertire, ma perché andate a convivere e poi in molti casi finite a dover frequentare il Corso Pre-matrimoniale? Bah!
Le risposte al quesito iniziale hanno varie sfumature, ma girano tutte intorno alla solita minestra: “Mi sposo in Chiesa perché credo in Dio, ma mica in quello proposto dalla Chiesa per i suoi interessi. Comunque c’è un certo fascino, insomma sposarsi in Chiesa è bello”. La variante meno impegnata è: “La mamma (o la nonna) ci tiene tanto.”
Vabbè, a parte le varie considerazioni direi che un delitto si è già compiuto da tempo e il cadavere è in uno stato di avanzata decomposizione, la vittima in questione è il periodo di fidanzamento. A tal proposito quante Parrocchie/Parroci prevedono una catechesi per fidanzati? E poi, nelle prediche quante volte vengono trattati con chiarezza e fedeltà i temi dell’enciclica Humanae Vitae o quelli di varie catechesi di Giovanni Paolo II sulla sessualità?
Si fa un gran dire sulla pastorale dei corsi pre-matrimoniali, ancor di più si discute nel campo assai “moderno” dell’accoglienza dei divorziati-risposati, ma mi pare di non sentire altrettanta enfasi per quel che riguarda la rivalutazione del periodo di fidanzamento. Credo, invece, che far comprendere la grazia del fidanzamento come il momento in cui imparare a “dare tutto di sé perché padroni di sé”, sia la via maestra su cui cercare di evitare il fallimento di futuri matrimoni.
Vanno bene gli psicologi, vanno bene i cineforum, ma è tutto contorno se poi non ci sono più coppie di fidanzati che pregano insieme, se la partecipazione alla S.Messa è una tantum (nel senso di una volta l’anno a Natale), se ci si confessa solo per accedere al rito e poi buonanotte ai suonatori. Crediamo più alla psicologia della coppia o alla forza della preghiera? Non che le due cose si escludano necessariamente, ma mi pare che il rischio oggi è di far pendere troppo la bilancia sul primo piatto.
Il corso pre-matrimoniale per essere un buon corso prematrimoniale deve poter mettere in crisi la coppia, deve poter suscitare in loro domande forti. Intendo domande quali chi è per te Dio?, Che significato ha il suo Amore?, Che senso ha la parola vocazione alla luce della chiamata che Egli ha per ognuno di noi? Di solito, invece, si propina la solita storia sulle dinamiche di coppia, su questioni anche importanti, ma appunto di contorno.
Nel contesto attuale se non si rifonda una vera e propria educazione all’affettività da dove partire per proclamare la bellezza del matrimonio? E questa educazione all’affettività non può prescindere dal fondamento del rapporto personale con il Signore, senza di Lui si resta in balia della nostra psicologia, della nostra sensualità, di ciò che dicono e pensano gli altri. L’alternativa è quella di lasciare l’educazione all’affettività ad altre agenzie, non ultime Grandi Fratelli, periodici e pubblicità, film e spettacoli vari, dove all’occorrenza il menù prevede baci saffici, allusioni a buon mercato, disimpegno come regola, divertimento estetico/emozionale come unico obiettivo.
Insomma preoccupiamoci innanzitutto di far capire davanti a chi ci sposa. C’è poco tempo? Il Corso pre-matrimoniale non è la giusta occasione? A me pare un’opportunità considerato che il livello medio di informazione religiosa oggi è estremamente basso. Forse la maggioranza di queste coppie viene regolarmente in Chiesa la domenica? Persone che magari non hanno più una coscienza del peccato e quindi dell’Amore di Dio, come potranno sposarsi davanti a Lui in piena consapevolezza? Dire no è sempre difficile, ma a volte si aiutano gli altri anche in questo modo. Non è di moda parlare di queste cose? Una ragione in più per farlo. Vanno beni i convegni, i Master in famiglia e dintorni, le conferenze, i libri, ma poi sul campo occorre buttare il cuore oltre l’ostacolo senza paura di impopolarità. Oddio, sono sempre troppo integralista!
(Fonte: Parati semper, 14 gennaio 2010)
Eluana non era «devastata». Ma è stata straziata
Dagli atti della sentenza depositata, in cui si ribadisce la regolarità della procedura adottata nei confronti di Eluana, leggiamo e commentiamo:
«In data 9 febbraio il cadavere della signorina Eluana Englaro veniva trasferito all’obitorio della “Quiete” su barella in acciaio. Trattasi di cadavere femminile, della lunghezza di circa 171 centimetri, del peso di 53.5 chili, cute liscia ed elastica, capelli neri... Entrambi i lobi presentano un foro per orecchini. Indossa una camicia da notte in cotone rosa».
Il resto ve lo risparmiamo. Dura 133 pagine la “Relazione di consulenza tecnica medico-legale”, letta la quale il gip di Udine l’altro giorno ha definitivamente stabilito che il tutto è avvenuto “regolarmente”.
Un testo che si legge a fatica e che toglie il sonno, e non tanto nelle pagine dell’autopsia, quando ormai Eluana è morta, ma in quelle tragiche, disumane dell’agonia, quando era viva e nelle stanze udinesi della “Quiete” la si faceva morire.
Ora lo sappiamo: nei giorni e nelle notti in cui alla giovane donna venivano sottratti l’acqua e il nutrimento (il sostegno vitale, lo chiama il documento), l’équipe del dottor De Monte sedeva accanto a lei e la osservava, prendeva appunti, diligentemente compilava di ora in ora la “Scheda di rilevazione degli elementi indicativi di sofferenza”.
Una crocetta alla voce “respiro affaticato e affannoso” ne indica frequenza e durata, un’altra rileva “l’emissione di suoni spontanei”, un’altra ancora i singoli lamenti sfuggiti a Eluana “durante il nursing”, ovvero mentre le mani di medici e infermieri nulla “potevano” per salvarle la vita e dissetarla (il Protocollo parlava chiaro, e loro erano lì per applicarlo, volontari), ma sul suo corpo continuavano a operare quelle piccole attenzioni richieste dallo stesso Protocollo: “Si procederà all’igiene giornaliera di routine al fine di garantire il decoro...”. Il decoro. Sono pagine meticolose, capillari. Gelide.
Il 3 febbraio, primo giorno di ricovero alla “Quiete” di Udine (nel cuore della notte la giovane era stata prelevata da un’ambulanza e strappata alla clinica di Lecco dove viveva da quindici anni), la voce di Eluana si è sentita sette volte, e l’équipe solerte le ha annotate tutte. I suoni si moltiplicano il 4, e poi il 5, finché il 6 (all’alba di quel giorno si è smesso definitivamente di nutrire e dissetare la giovane) la mano di un’infermiera scrive per la prima volta: “Sembrano sospiri”. E forse lo sono, se il giorno 7 cessano anche quelli. Eluana morirà improvvisamente già il 9 febbraio alle 19 e 35, senza più la forza di gemere: “nessun suono”, ma ore e ore di “respiro affaticato e affannoso”. Nei palmi delle mani, strette, i segni delle sue stesse unghie.
Ancora più esplicite le pagine del diario clinico di quei sette giorni udinesi, racconto di un’agonia che inizia sull’ambulanza, quando il dottor De Monte annota la terribile tosse che scosse Eluana, e prosegue con asettico cinismo: Eluana si lamenta, Eluana non ha quasi più saliva, non suda nemmeno più, le mucose si asciugano, “iniziata umidificazione”, “idratata la bocca”, “frizionata su tutto il corpo con salviette rinfrescanti”. Il decoro. L’igiene.
C’è anche lo spasmo con cui la prima notte arrivò a espellere il sondino: allora lo scrivemmo e ci diedero dei bugiardi... “Non eseguito cambio pannolone perché non urina più”: è il giorno della morte. Tutto regolare, dicono i magistrati, tutto perfettamente annotato. A parte quella mezzoretta tra il decesso e la registrazione dell’elettrocardiogramma, un “ritardo dovuto alla difficoltà di reperimento dello strumento”, scrive il capo dell’équipe... A parte, ancora, quelle tre ore che l’8 febbraio, il giorno prima della morte, in piena agonia, una giornalista di Rai 3 Friuli e un fotografo trascorrono nella stanza di Eluana riprendendone gli affanni.
Ci avevano detto che Eluana non avrebbe sofferto, e veniamo a sapere che morì tra gli spasmi, con 42 di febbre. Che da molti anni pesava 65 chili. Che risultava «o¬biettivamente in buone condi¬zioni generali e di nutrizione, con respiro spontaneo e valido, vigile durante buona parte della giornata». Che da due anni aveva di nuovo «il mestruo». Che l’alimentazione col sondino «non aveva mai dato complicanze» e i «parametri vitali si erano sempre mantenuti stabili, la paziente non ha presentato mai patologie ad eccezione di sporadiche bronchiti-influenzali, prontamente risolte con antipiretici ». Ce l’avevano descritta come un corpo “inguardabile”, una vista “devastante, piagata dal decubito, magra come uscita da un campo di concentramento”.
È pure calva, aggiunse Roberto Saviano... “Ha capelli neri, cute liscia ed elastica, corpo normale, nessun decubito”, recita ora l’autopsia.
Ma lo attesta il perito: «Le disposizioni sono state minuziosamente seguite».
(Fonte: Lucia Bellaspiga, Avvenire 14 gennaio 2010)
«In data 9 febbraio il cadavere della signorina Eluana Englaro veniva trasferito all’obitorio della “Quiete” su barella in acciaio. Trattasi di cadavere femminile, della lunghezza di circa 171 centimetri, del peso di 53.5 chili, cute liscia ed elastica, capelli neri... Entrambi i lobi presentano un foro per orecchini. Indossa una camicia da notte in cotone rosa».
Il resto ve lo risparmiamo. Dura 133 pagine la “Relazione di consulenza tecnica medico-legale”, letta la quale il gip di Udine l’altro giorno ha definitivamente stabilito che il tutto è avvenuto “regolarmente”.
Un testo che si legge a fatica e che toglie il sonno, e non tanto nelle pagine dell’autopsia, quando ormai Eluana è morta, ma in quelle tragiche, disumane dell’agonia, quando era viva e nelle stanze udinesi della “Quiete” la si faceva morire.
Ora lo sappiamo: nei giorni e nelle notti in cui alla giovane donna venivano sottratti l’acqua e il nutrimento (il sostegno vitale, lo chiama il documento), l’équipe del dottor De Monte sedeva accanto a lei e la osservava, prendeva appunti, diligentemente compilava di ora in ora la “Scheda di rilevazione degli elementi indicativi di sofferenza”.
Una crocetta alla voce “respiro affaticato e affannoso” ne indica frequenza e durata, un’altra rileva “l’emissione di suoni spontanei”, un’altra ancora i singoli lamenti sfuggiti a Eluana “durante il nursing”, ovvero mentre le mani di medici e infermieri nulla “potevano” per salvarle la vita e dissetarla (il Protocollo parlava chiaro, e loro erano lì per applicarlo, volontari), ma sul suo corpo continuavano a operare quelle piccole attenzioni richieste dallo stesso Protocollo: “Si procederà all’igiene giornaliera di routine al fine di garantire il decoro...”. Il decoro. Sono pagine meticolose, capillari. Gelide.
Il 3 febbraio, primo giorno di ricovero alla “Quiete” di Udine (nel cuore della notte la giovane era stata prelevata da un’ambulanza e strappata alla clinica di Lecco dove viveva da quindici anni), la voce di Eluana si è sentita sette volte, e l’équipe solerte le ha annotate tutte. I suoni si moltiplicano il 4, e poi il 5, finché il 6 (all’alba di quel giorno si è smesso definitivamente di nutrire e dissetare la giovane) la mano di un’infermiera scrive per la prima volta: “Sembrano sospiri”. E forse lo sono, se il giorno 7 cessano anche quelli. Eluana morirà improvvisamente già il 9 febbraio alle 19 e 35, senza più la forza di gemere: “nessun suono”, ma ore e ore di “respiro affaticato e affannoso”. Nei palmi delle mani, strette, i segni delle sue stesse unghie.
Ancora più esplicite le pagine del diario clinico di quei sette giorni udinesi, racconto di un’agonia che inizia sull’ambulanza, quando il dottor De Monte annota la terribile tosse che scosse Eluana, e prosegue con asettico cinismo: Eluana si lamenta, Eluana non ha quasi più saliva, non suda nemmeno più, le mucose si asciugano, “iniziata umidificazione”, “idratata la bocca”, “frizionata su tutto il corpo con salviette rinfrescanti”. Il decoro. L’igiene.
C’è anche lo spasmo con cui la prima notte arrivò a espellere il sondino: allora lo scrivemmo e ci diedero dei bugiardi... “Non eseguito cambio pannolone perché non urina più”: è il giorno della morte. Tutto regolare, dicono i magistrati, tutto perfettamente annotato. A parte quella mezzoretta tra il decesso e la registrazione dell’elettrocardiogramma, un “ritardo dovuto alla difficoltà di reperimento dello strumento”, scrive il capo dell’équipe... A parte, ancora, quelle tre ore che l’8 febbraio, il giorno prima della morte, in piena agonia, una giornalista di Rai 3 Friuli e un fotografo trascorrono nella stanza di Eluana riprendendone gli affanni.
Ci avevano detto che Eluana non avrebbe sofferto, e veniamo a sapere che morì tra gli spasmi, con 42 di febbre. Che da molti anni pesava 65 chili. Che risultava «o¬biettivamente in buone condi¬zioni generali e di nutrizione, con respiro spontaneo e valido, vigile durante buona parte della giornata». Che da due anni aveva di nuovo «il mestruo». Che l’alimentazione col sondino «non aveva mai dato complicanze» e i «parametri vitali si erano sempre mantenuti stabili, la paziente non ha presentato mai patologie ad eccezione di sporadiche bronchiti-influenzali, prontamente risolte con antipiretici ». Ce l’avevano descritta come un corpo “inguardabile”, una vista “devastante, piagata dal decubito, magra come uscita da un campo di concentramento”.
È pure calva, aggiunse Roberto Saviano... “Ha capelli neri, cute liscia ed elastica, corpo normale, nessun decubito”, recita ora l’autopsia.
Ma lo attesta il perito: «Le disposizioni sono state minuziosamente seguite».
(Fonte: Lucia Bellaspiga, Avvenire 14 gennaio 2010)
Gli amari epiloghi sul caso Englaro: i rigurgiti anticlericali di Corrado Augias
Avevamo invitato Corrado Augias a scusarsi. Con le suore Misericordine, e con tutte le suore italiane che accudiscono malati, accusate di essere capaci di sopprimerli per cento euro sottobanco. Un grossolano e sprezzante esempio di anticlericalismo rigurgitato martedì in diretta sul servizio pubblico televisivo, durante il “Diario italiano” di Rai3.
Ieri, l’imperturbabile giornalista e conduttore ha aperto la trasmissione leggendo pubbliche scuse di questo genere: «Comincio con una precisazione doverosa. Nella puntata di martedì, ospite Gustavo Zagrebelsky, si accennava al caso di Eluana Englaro, diventata un caso nazionale e di coscienza. Riferendo le parole testuali di un medico di un ospedale romano, io ho detto: “Invece di fare tutto quel putiferio, il signor Englaro, avrebbe fatto meglio ad allungare cento euro alla monaca e a farla finita”. Non intendevo in alcun modo riferirmi alle religiose Misericordine che hanno assistito Eluana nel suo penoso decorso, e anzi dirò di più: mi dispiace del possibile equivoco. Quelle parole vanno intese come metafora, rimandavano e rimandano a un problema generale; e cioè che, sollevando il caso di principio, il signor Englaro ha consegnato un risultato contrario alle sue aspettative e a quelle di numerosi italiani. Una cattiva legge, come quella che si sta preparando, è peggio di quel tacito accordo che ogni giorno negli ospedali di tutto il mondo lascia agli interessati e ai medici la soluzione umana del problema». Prendiamo atto del «dispiacere» prontamente espresso da Augias. Ma notiamo con rinnovato dispiacere nostro – noi che la parola «monaca» la pronunciamo ed evochiamo con grato rispetto – che all’esercizio moderato delle scuse, Augias ha accompagnato – inesorabile e inelegante – l’enfasi della propaganda (fino a definire «umana» la mercanteggiata soluzione finale per malati e disabili gravissimi) e un increscioso arrampicarsi sugli specchi.
Una metafora la «monaca» cinica? Una metafora nella metafora il prezzo di una vita fissato in una “mancia” di cento euro? Ha detto molto, Augias, e infine troppo. Bastava dire: ho sbagliato.
(Fonte: Avvenire, 14 gennaio 2010)
Ieri, l’imperturbabile giornalista e conduttore ha aperto la trasmissione leggendo pubbliche scuse di questo genere: «Comincio con una precisazione doverosa. Nella puntata di martedì, ospite Gustavo Zagrebelsky, si accennava al caso di Eluana Englaro, diventata un caso nazionale e di coscienza. Riferendo le parole testuali di un medico di un ospedale romano, io ho detto: “Invece di fare tutto quel putiferio, il signor Englaro, avrebbe fatto meglio ad allungare cento euro alla monaca e a farla finita”. Non intendevo in alcun modo riferirmi alle religiose Misericordine che hanno assistito Eluana nel suo penoso decorso, e anzi dirò di più: mi dispiace del possibile equivoco. Quelle parole vanno intese come metafora, rimandavano e rimandano a un problema generale; e cioè che, sollevando il caso di principio, il signor Englaro ha consegnato un risultato contrario alle sue aspettative e a quelle di numerosi italiani. Una cattiva legge, come quella che si sta preparando, è peggio di quel tacito accordo che ogni giorno negli ospedali di tutto il mondo lascia agli interessati e ai medici la soluzione umana del problema». Prendiamo atto del «dispiacere» prontamente espresso da Augias. Ma notiamo con rinnovato dispiacere nostro – noi che la parola «monaca» la pronunciamo ed evochiamo con grato rispetto – che all’esercizio moderato delle scuse, Augias ha accompagnato – inesorabile e inelegante – l’enfasi della propaganda (fino a definire «umana» la mercanteggiata soluzione finale per malati e disabili gravissimi) e un increscioso arrampicarsi sugli specchi.
Una metafora la «monaca» cinica? Una metafora nella metafora il prezzo di una vita fissato in una “mancia” di cento euro? Ha detto molto, Augias, e infine troppo. Bastava dire: ho sbagliato.
(Fonte: Avvenire, 14 gennaio 2010)
venerdì 15 gennaio 2010
Razzismo & Laicismo
Mi sono imbattuto in questi giorni in una storia, riportata da alcuni quotidiani, che mi sembra un significativo segno dei tempi. Pare che alla scuola elementare “Jean Piaget” di Roma fosse in servizio, fino a poco tempo fa, un’insegnante buddista la quale era solita impartire in classe lezioni di yoga, far sdraiare i bambini in cerchio sul pavimento, far disegnare loro dei mandala e recitare dei mantra... Anche se queste pratiche religiose sono ben poco espressive del retaggio culturale del popolo italiano, non si erano mai registrate contestazioni di sorta da parte dei genitori cattolici (è proprio vero che i cattolici sono più tolleranti ed inclusivi…).
La suddetta insegnante però si veniva a trovare nella necessità di esser sostituita e le subentrava, con regolare procedura, Annalisa Falasco, una religiosa della Congregazione di S. Maria Consolatrice. La nuova maestra non aveva neppure il tempo di farsi conoscere che già un gruppetto di fanatici si organizzava e scatenava la gazzarra. Alla testa dei genitori democratici una signora che si definiva “cassaintegrata dell'Alitalia” e che rilasciava la seguente battagliera dichiarazione: “La nostra è una scuola pubblica, una scuola statale, perciò se serve faremo ricorso al Tar. (...) La suora sarà pure bravissima ma io contesto l'istituzione che rappresenta. Cioè la Chiesa. Voglio vedere cosa dirà la maestra a mio figlio quando le chiederà come è nato l'universo. Sono atea e credo che la scuola pubblica debba essere quantomeno laica. O no?”.
Strano concetto di laicità: la sorella sarà pure bravissima, ma dato che è cattolica non deve insegnare in una scuola pubblica, e poco importa se ne ha i titoli, e poco importa se è stata chiamata dalla regolare graduatoria cui attinge l’Ufficio Scolastico della Provincia di Roma! Per “scuola pubblica”, con ogni evidenza, si vuole intendere che l’istituzione è solo di lorsignori, dell’elitario gruppuscolo degli adoratori del nulla... Si precisa che la suora in questione era da poco arrivata, non aveva avuto modo di insegnare nulla sulle origini di alcunché ed entrava in classe rinunciando ad indossare quel piccolo crocefisso attorno al quale, pure tanto animatamente, si discute. Di conseguenza, fa riflettere il fatto che una persona dal comportamento così discreto si sia attirata addosso la fatwa da parte di chi non aveva avuto nulla da eccepire riguardo le pratiche religiose proposte ai bambini dall’insegnante precedente. A proposito, chissà cosa insegnano riguardo le origini dell’universo gli insegnanti buddisti… Esempi analoghi di intolleranza si possono individuare, al giorno d’oggi, solo in paesi dominati da forme di fondamentalismo religioso o di totalitarismo politico-ideologico e, in un suo articolo, Renato Farina ricordava come mobilitazioni di questo genere fossero assolutamente tipiche dei regimi comunisti, dove si incoraggiavano le denuncie nei confronti del finto compagno o dell’insegnante non sufficientemente in linea con la posizione ufficiale del partito. La cassintegrata Alitalia, naturalmente, si rappresenta come vestale della laicità e della democrazia, ma la sua battaglia pare piuttosto rivelatrice di una pericolosa vocazione totalitaria. E’ solo un caso?
E già che ci siamo, si deve sottolineare che la storia della scuola elementare "Jean Piaget" puzza in effetti di razzismo. Come ai tempi dell’America dei WASP (piena cittadinanza solo a chi fosse White, Anglo-Saxon and Protestant) a qualche sedicente democratico starebbe bene che, oggi come allora, l’identità cattolica tornasse a rappresentare una sorta di pregiudiziale negativa ai fini di un pieno inserimento nella vita sociale e di un pieno riconoscimento civile.
(Fonte: Stefano, La Cittadella, 10 gennaio 2010)
La suddetta insegnante però si veniva a trovare nella necessità di esser sostituita e le subentrava, con regolare procedura, Annalisa Falasco, una religiosa della Congregazione di S. Maria Consolatrice. La nuova maestra non aveva neppure il tempo di farsi conoscere che già un gruppetto di fanatici si organizzava e scatenava la gazzarra. Alla testa dei genitori democratici una signora che si definiva “cassaintegrata dell'Alitalia” e che rilasciava la seguente battagliera dichiarazione: “La nostra è una scuola pubblica, una scuola statale, perciò se serve faremo ricorso al Tar. (...) La suora sarà pure bravissima ma io contesto l'istituzione che rappresenta. Cioè la Chiesa. Voglio vedere cosa dirà la maestra a mio figlio quando le chiederà come è nato l'universo. Sono atea e credo che la scuola pubblica debba essere quantomeno laica. O no?”.
Strano concetto di laicità: la sorella sarà pure bravissima, ma dato che è cattolica non deve insegnare in una scuola pubblica, e poco importa se ne ha i titoli, e poco importa se è stata chiamata dalla regolare graduatoria cui attinge l’Ufficio Scolastico della Provincia di Roma! Per “scuola pubblica”, con ogni evidenza, si vuole intendere che l’istituzione è solo di lorsignori, dell’elitario gruppuscolo degli adoratori del nulla... Si precisa che la suora in questione era da poco arrivata, non aveva avuto modo di insegnare nulla sulle origini di alcunché ed entrava in classe rinunciando ad indossare quel piccolo crocefisso attorno al quale, pure tanto animatamente, si discute. Di conseguenza, fa riflettere il fatto che una persona dal comportamento così discreto si sia attirata addosso la fatwa da parte di chi non aveva avuto nulla da eccepire riguardo le pratiche religiose proposte ai bambini dall’insegnante precedente. A proposito, chissà cosa insegnano riguardo le origini dell’universo gli insegnanti buddisti… Esempi analoghi di intolleranza si possono individuare, al giorno d’oggi, solo in paesi dominati da forme di fondamentalismo religioso o di totalitarismo politico-ideologico e, in un suo articolo, Renato Farina ricordava come mobilitazioni di questo genere fossero assolutamente tipiche dei regimi comunisti, dove si incoraggiavano le denuncie nei confronti del finto compagno o dell’insegnante non sufficientemente in linea con la posizione ufficiale del partito. La cassintegrata Alitalia, naturalmente, si rappresenta come vestale della laicità e della democrazia, ma la sua battaglia pare piuttosto rivelatrice di una pericolosa vocazione totalitaria. E’ solo un caso?
E già che ci siamo, si deve sottolineare che la storia della scuola elementare "Jean Piaget" puzza in effetti di razzismo. Come ai tempi dell’America dei WASP (piena cittadinanza solo a chi fosse White, Anglo-Saxon and Protestant) a qualche sedicente democratico starebbe bene che, oggi come allora, l’identità cattolica tornasse a rappresentare una sorta di pregiudiziale negativa ai fini di un pieno inserimento nella vita sociale e di un pieno riconoscimento civile.
(Fonte: Stefano, La Cittadella, 10 gennaio 2010)
La chiesa cattolica contro Merkel: "cdu poco cristiana"
Il partito cristiano-democratico sotto la guida di Angela Merkel non rappresenta più i valori dei cattolici tedeschi. La durissima accusa arriva dall'arcivescovo di Monaco di Baviera, Reinhard Marx, il quale in un'intervista al settimanale 'Der Spiegel' accusa il cancelliere protestante di aver di fatto condotto il suo partito a dire addio ai principi cristiani.
"Nel programma della Cdu si parla genericamente di 'valori' cristiani', ma per me questo e' un concetto troppo nebuloso", spiega Marx, che attacca la politica della famiglia seguita dal cancelliere, poco impegnata in difesa del matrimonio e nell'educazione dei figli.
In particolare, l'arcivescovo di Monaco contesta la decisione del ministro della Famiglia di incitare le madri a mandare i figli all'asilo nido già all'età' di un anno, invece di accudirli ed educarli personalmente. "E' assolutamente fuorviante se il mondo politico vuole far credere alla gente che si puo' avere tutto allo stesso tempo, carriera, stipendi elevati e figli", tuona Marx, che prende di mira anche il ministro della Ricerca scientifica, Annette Schavan (Cdu), favorevole ad estendere a fini di ricerca l'uso delle cellule staminali embrionali. "E' una cosa che mi ha molto deluso", spiega il presule, secondo il quale per le gerarchie cattoliche "la ricerca con le cellule fecondate e' inaccettabile. E' molto deplorevole che la Cdu su questo argomento non abbia seguito le nostre indicazioni ed abbia addirittura ancora più ammorbidito la sua posizione". Durissimo è poi l'attacco alla Merkel per la critica da lei rivolta a suo tempo a Benedetto XVI sulle dichiarazioni del vescovo lefebvriano Williamson. "Siamo rimasti tutti indignati", spiega Marx, "poiché il Papa si era espresso in maniera inequivocabile sulle inaccettabili dichiarazioni di Williamson. A mio avviso non era opportuno che il cancelliere si immischiasse in questa polemica".
Fuoco di sbarramento nei riguardi della Merkel arriva anche da alti esponenti regionali della Cdu, che nell'edizione di domani della 'Frankfurter Allgemeine Zeitung' accusano il cancelliere di aver oscurato nella recente campagna elettorale le posizioni del partito in favore di un suo "stile presidenzialista". I presidenti dei gruppi parlamentari della Cdu nei laender di Assia, Sassonia e Turingia, rimproverano alla Merkel di essersi presentata "non come un candidato della Cdu, ma come cancelliere della 'Grosse Koalition'. Questo stile presidenziale ha prodotto un'elevata popolarità per il cancelliere, ma una scarsa identificazione con il partito". "E' stato solo un colpo di fortuna, se abbiamo vinto le elezioni", e' la conclusione dei tre esponenti della Cdu, mentre nel nuovo numero del settimanale 'Der Spiegel' il presidente della Cdu della Renania-Palatinato, Christian Baldauf, paventa la perdita in futuro di altri elettori tradizionali del suo partito, nel caso in cui la Merkel porti avanti la linea politica seguita finora. Pericolo intravisto anche da Josef Schlarmann, presidente dell'associazione dei piccoli imprenditori iscritti al partito cristiano-democratico, secondo il quale "se va perduto il contatto con la base, la Cdu è a rischio". Schlarmann sottolinea di non riconoscere più nel partito guidato dalla Merkel la Cdu "al governo a Bonn" ai tempi di Helmut Kohl.
(Fonte: Agi, 9 gennaio 2010)
"Nel programma della Cdu si parla genericamente di 'valori' cristiani', ma per me questo e' un concetto troppo nebuloso", spiega Marx, che attacca la politica della famiglia seguita dal cancelliere, poco impegnata in difesa del matrimonio e nell'educazione dei figli.
In particolare, l'arcivescovo di Monaco contesta la decisione del ministro della Famiglia di incitare le madri a mandare i figli all'asilo nido già all'età' di un anno, invece di accudirli ed educarli personalmente. "E' assolutamente fuorviante se il mondo politico vuole far credere alla gente che si puo' avere tutto allo stesso tempo, carriera, stipendi elevati e figli", tuona Marx, che prende di mira anche il ministro della Ricerca scientifica, Annette Schavan (Cdu), favorevole ad estendere a fini di ricerca l'uso delle cellule staminali embrionali. "E' una cosa che mi ha molto deluso", spiega il presule, secondo il quale per le gerarchie cattoliche "la ricerca con le cellule fecondate e' inaccettabile. E' molto deplorevole che la Cdu su questo argomento non abbia seguito le nostre indicazioni ed abbia addirittura ancora più ammorbidito la sua posizione". Durissimo è poi l'attacco alla Merkel per la critica da lei rivolta a suo tempo a Benedetto XVI sulle dichiarazioni del vescovo lefebvriano Williamson. "Siamo rimasti tutti indignati", spiega Marx, "poiché il Papa si era espresso in maniera inequivocabile sulle inaccettabili dichiarazioni di Williamson. A mio avviso non era opportuno che il cancelliere si immischiasse in questa polemica".
Fuoco di sbarramento nei riguardi della Merkel arriva anche da alti esponenti regionali della Cdu, che nell'edizione di domani della 'Frankfurter Allgemeine Zeitung' accusano il cancelliere di aver oscurato nella recente campagna elettorale le posizioni del partito in favore di un suo "stile presidenzialista". I presidenti dei gruppi parlamentari della Cdu nei laender di Assia, Sassonia e Turingia, rimproverano alla Merkel di essersi presentata "non come un candidato della Cdu, ma come cancelliere della 'Grosse Koalition'. Questo stile presidenziale ha prodotto un'elevata popolarità per il cancelliere, ma una scarsa identificazione con il partito". "E' stato solo un colpo di fortuna, se abbiamo vinto le elezioni", e' la conclusione dei tre esponenti della Cdu, mentre nel nuovo numero del settimanale 'Der Spiegel' il presidente della Cdu della Renania-Palatinato, Christian Baldauf, paventa la perdita in futuro di altri elettori tradizionali del suo partito, nel caso in cui la Merkel porti avanti la linea politica seguita finora. Pericolo intravisto anche da Josef Schlarmann, presidente dell'associazione dei piccoli imprenditori iscritti al partito cristiano-democratico, secondo il quale "se va perduto il contatto con la base, la Cdu è a rischio". Schlarmann sottolinea di non riconoscere più nel partito guidato dalla Merkel la Cdu "al governo a Bonn" ai tempi di Helmut Kohl.
(Fonte: Agi, 9 gennaio 2010)
Perché tanto interesse a confutare le tesi scontate di Odifreddi?
Non certo perché il suo pensiero rivesta francamente una grande importanza: sono posizioni – anche se rilanciate da grandi e potenti mezzi di stampa – vecchie e scontate, poco creative e povere di ragioni. Mi spiace dirlo, e non è per mancanza di rispetto. Tra l’altro nel confronto sono anche emerse note interessanti, tra cui una presa di distanza dello stesso Odifreddi (Presidente onorario) dall’UAAR. In un momento come questo in cui il desiderio di tale associazione è quello di farsi propaganda con tutti i mezzi (lo ha in qualche modo fatto capire sul suo sito), questa presa di distanza può fare pensare. Sarebbe bello capire su quali punti esiste una divergenza.
Ho iniziato, come dal professore onnipresente indicato, a leggere il suo libro «La Via Lattea», e le perplessità che avevo avuto leggendo due suoi libri precedenti, quello sul matematico impertinente e quello sulla sua impossibilità a dirsi cristiano, sono rimaste: in sintesi posso dire che del suo dio io sono ateo. Cioè mi sembra che quelle affermazioni che lui fa sul cristianesimo siano suoi pensieri, personali, leciti, per carità, ma che non colgono nel segno di quella che è la fede cristiana cattolica, quella del Papa, del Concilio, dei grandi santi. Quella che ho imparato da mio padre e da quel grande educatore che è stato don Giussani. Troppe volte nel suo testo il «naturalmente» significa che «è naturale perché lo penso io». C’è un ovvio che non è mai dimostrato (e non secondo la considerazione di Aristotele che sarebbe da pazzi voler dimostrare l’evidente), ed è l’ovvio della sua misura, della sua storia, dei suoi pregiudizi…
«La ragione è coscienza della realtà secondo la totalità dei suoi fattori», così mi è stata insegnata, e così cerco di viverla e comunicarla. E capisco che questa è una avventura che avvince ed esalta. Ad un certo punto il professore onnipresente dice, nel libro citato: «Tu sostieni che per l’uomo la verità non è mai conoscibile…». Beh, sarà la posizione del suo interlocutore (da lui preso comunque in qualche modo come campione della fede), ma certo non è posizione cattolica. Basterebbe una lettura del tanto deriso Chesterton e dei suoi racconti su Padre Brown per avere una smentita ironica e divertente di questo pregiudizio (Flambeau docet “What?” asked the thief, almost gaping. “You attacked reason,” said Father Brown. “It’s bad theology.”).
Credo che sia giunto il momento di guardare avanti, con realismo e speranza, senza ottusi schemi e pregiudizi, soprattutto se si ha di mira il bene degli uomini che così spesso incontriamo. È forse necessaria quella alleanza tra credenti non clericali e laici non laicisti che può consentire all’uomo del terzo millennio di guardare alla vita, alla realtà, agli uomini, alla storia con speranza e realismo, evitando il male possibile e aprendo a tutti lo spazio di una umanità libera e amica.
Ho ritrovato questi pensieri di don Giussani ai monaci buddisti: «La voce dell’universo, del tutto di cui noi siamo piccola, infinitesima parte, questa voce è il cuore dell’uomo.
Guardando le stelle o il mare, innamorandosi di una donna, guardando con tenerezza i figli, animosamente cercando di conoscere la natura e di usarla, l’uomo di tutti i tempi, di tutte le razze cerca la felicità: quello che è vero, quello che è giusto, quello che è bello. I nostri filosofi antichi dicevano: «Cerca l’essere». Qualunque cosa l’uomo veda nell’universo, nella realtà, gli suscita il desiderio della bellezza, della bontà, della giustizia, della felicità. Questa è la voce che l’universo, la totalità realizza: si chiama “cuore” dell’uomo.
Allora la grande alternativa culturale ed esistenziale è chiara: o questa voce è senza senso, senza realtà e il cuore dell’uomo non c’è, o tutto ha senso per il cuore dell’uomo. La nostra voce canta per un perché e la nostra lotta, se così si può dire, è per destare e per sostenere negli uomini il senso della positività ultima della vita e del cuore. È per questo rapporto ultimo, è per questo destino ultimo di felicità che l’uomo, consciamente o no, vive. È per questo sentimento ultimo di una giustizia reale che l’uomo può sostenere la fatica di oggi. Senza questa ipotesi sarebbe ingiusto far nascere.»
Da parte mia questo cammino ci sto a farlo, e sul mio cammino ho incontrato molti, anche su posizioni ideali e di fede diverse, che ci stanno. La partita è aperta. Per tutti.
(Fonte: Cultura cattolica, gennaio 2010)
Ho iniziato, come dal professore onnipresente indicato, a leggere il suo libro «La Via Lattea», e le perplessità che avevo avuto leggendo due suoi libri precedenti, quello sul matematico impertinente e quello sulla sua impossibilità a dirsi cristiano, sono rimaste: in sintesi posso dire che del suo dio io sono ateo. Cioè mi sembra che quelle affermazioni che lui fa sul cristianesimo siano suoi pensieri, personali, leciti, per carità, ma che non colgono nel segno di quella che è la fede cristiana cattolica, quella del Papa, del Concilio, dei grandi santi. Quella che ho imparato da mio padre e da quel grande educatore che è stato don Giussani. Troppe volte nel suo testo il «naturalmente» significa che «è naturale perché lo penso io». C’è un ovvio che non è mai dimostrato (e non secondo la considerazione di Aristotele che sarebbe da pazzi voler dimostrare l’evidente), ed è l’ovvio della sua misura, della sua storia, dei suoi pregiudizi…
«La ragione è coscienza della realtà secondo la totalità dei suoi fattori», così mi è stata insegnata, e così cerco di viverla e comunicarla. E capisco che questa è una avventura che avvince ed esalta. Ad un certo punto il professore onnipresente dice, nel libro citato: «Tu sostieni che per l’uomo la verità non è mai conoscibile…». Beh, sarà la posizione del suo interlocutore (da lui preso comunque in qualche modo come campione della fede), ma certo non è posizione cattolica. Basterebbe una lettura del tanto deriso Chesterton e dei suoi racconti su Padre Brown per avere una smentita ironica e divertente di questo pregiudizio (Flambeau docet “What?” asked the thief, almost gaping. “You attacked reason,” said Father Brown. “It’s bad theology.”).
Credo che sia giunto il momento di guardare avanti, con realismo e speranza, senza ottusi schemi e pregiudizi, soprattutto se si ha di mira il bene degli uomini che così spesso incontriamo. È forse necessaria quella alleanza tra credenti non clericali e laici non laicisti che può consentire all’uomo del terzo millennio di guardare alla vita, alla realtà, agli uomini, alla storia con speranza e realismo, evitando il male possibile e aprendo a tutti lo spazio di una umanità libera e amica.
Ho ritrovato questi pensieri di don Giussani ai monaci buddisti: «La voce dell’universo, del tutto di cui noi siamo piccola, infinitesima parte, questa voce è il cuore dell’uomo.
Guardando le stelle o il mare, innamorandosi di una donna, guardando con tenerezza i figli, animosamente cercando di conoscere la natura e di usarla, l’uomo di tutti i tempi, di tutte le razze cerca la felicità: quello che è vero, quello che è giusto, quello che è bello. I nostri filosofi antichi dicevano: «Cerca l’essere». Qualunque cosa l’uomo veda nell’universo, nella realtà, gli suscita il desiderio della bellezza, della bontà, della giustizia, della felicità. Questa è la voce che l’universo, la totalità realizza: si chiama “cuore” dell’uomo.
Allora la grande alternativa culturale ed esistenziale è chiara: o questa voce è senza senso, senza realtà e il cuore dell’uomo non c’è, o tutto ha senso per il cuore dell’uomo. La nostra voce canta per un perché e la nostra lotta, se così si può dire, è per destare e per sostenere negli uomini il senso della positività ultima della vita e del cuore. È per questo rapporto ultimo, è per questo destino ultimo di felicità che l’uomo, consciamente o no, vive. È per questo sentimento ultimo di una giustizia reale che l’uomo può sostenere la fatica di oggi. Senza questa ipotesi sarebbe ingiusto far nascere.»
Da parte mia questo cammino ci sto a farlo, e sul mio cammino ho incontrato molti, anche su posizioni ideali e di fede diverse, che ci stanno. La partita è aperta. Per tutti.
(Fonte: Cultura cattolica, gennaio 2010)
Meglio tardi che mai: anche l’Osservatore Romano si allinea
Finalmente anche l’Osservatore Romano pubblica oggi, dopo sei giorni dai funerali, l’annuncio della morte del confessore della fede mons. Leo Yao Liang, vescovo cinese della chiesa clandestina, condannato ai lavori forzati per il “crimine” di voler rimanere fedele al Sommo Pontefice e alla Chiesa universale. Infatti, dopo che AsiaNews aveva dato la notizia della morte e dei funerali di questo confessore della fede, era seguito un quasi generalizzato silenzio, anche nei mezzi di comunicazione cattolici, compreso l’Osservatore Romano. Silenzio interrotto il giorno 9 - due giorni dopo i funerali del compianto presule ed in seguito anche alle proteste circolate nella net - dal Foglio (Paolo Rodari, La politica vaticana in Cina è attendista e l’addio al vescovo Yao lo dice). Solamente ieri, 11 gennaio, dal Vaticano si dava ufficialmente notizia del decesso e si tracciava un commovente profilo del vescovo Yao (Mons. Yao è stato veramente il buon pastore che dà la vita per le sue pecore) con un comunicato dell’agenzia Fides (agenzia di informazione della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli), ripreso poi anche da Radio Vaticana e dal blog Settimo cielo di Sandro Magister.
Oggi è arrivato anche l’Osservatore Romano (meglio tardi che mai caro prof. Vian) che riprende il comunicato dell’Agenzia Fides:
Mons. Yao è stato veramente il buon pastore che dà la vita per le sue pecore
Il 30 dicembre 2009 è deceduto, all’età di 86 anni, Sua Ecc. Mons. Leo Yao Liang, Vescovo Coadiutore della diocesi di Siwantze (Chongli- Xiwanzi), nella provincia di Hebei (Cina Continentale).
Il Presule era nato l’11 aprile 1923 nel villaggio di Gonghui, nella contea di Zhangbei. Ordinato sacerdote il 1º agosto 1948, lavorò come viceparroco in varie parrocchie della diocesi fino a quando gli fu impedito di esercitare il ministero sacerdotale e fu costretto a guadagnarsi da vivere coltivando ortaggi e vendendo legna. Nel 1956 fu condannato ai lavori forzati per aver rifiutato di aderire al movimento d’indipendenza della Chiesa cattolica dal Papa. Due anni dopo gli fu inflitta la pena del carcere a vita sempre per lo stesso “crimine”, quello cioè di voler rimanere fedele al Sommo Pontefice e alla Chiesa universale. Fu liberato nel 1984 dopo quasi trenta anni di prigione. Ordinato vescovo il 19 febbraio 2002, nel luglio 2006 fu di nuovo sequestrato dalla polizia in seguito alla consacrazione di una nuova chiesa nella contea di Guyuan, e trascorse altri trenta mesi in prigione. Una volta liberato, ma sempre sotto stretta sorveglianza, ha potuto impegnarsi per gli affari della diocesi nonostante tutte le difficoltà. Alla Messa domenicale da lui celebrata partecipavano ogni settimana più di mille fedeli.
Dopo la morte di Mons. Yao, le Autorità civili hanno proibito alla comunità cattolica di onorarlo con il titolo di “vescovo”, imponendo che si usasse quello di “pastore clandestino”. La mattina del 6 gennaio corrente mese, migliaia di fedeli, provenienti da varie parti del Paese, hanno partecipato ai suoi funerali nonostante i controlli della polizia e l’abbondante nevicata, dimostrando così che Mons. Yao è stato veramente il buon pastore, che dà la vita per le sue pecore. In lui, come negli altri sei Vescovi cinesi che sono morti durante l’anno 2009, si sono compiute le parole del libro della Sapienza: “Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio, nessun tormento le toccherà. Agli occhi degli stolti parve che morissero; la loro fine fu ritenuta una sciagura, la loro partenza da noi una rovina, ma essi sono nella pace. Anche se agli occhi degli uomini subiscono castighi, la loro speranza è piena di immortalità. Per una breve pena riceveranno grandi benefici, perché Dio li ha provati e li ha trovati degni di sé: li ha saggiati come oro nel crogiuolo e li ha graditi come un olocausto” (3, 1-6).
(Fonte: Agenzia Fides, 11 gennaio 2010)
Oggi è arrivato anche l’Osservatore Romano (meglio tardi che mai caro prof. Vian) che riprende il comunicato dell’Agenzia Fides:
Mons. Yao è stato veramente il buon pastore che dà la vita per le sue pecore
Il 30 dicembre 2009 è deceduto, all’età di 86 anni, Sua Ecc. Mons. Leo Yao Liang, Vescovo Coadiutore della diocesi di Siwantze (Chongli- Xiwanzi), nella provincia di Hebei (Cina Continentale).
Il Presule era nato l’11 aprile 1923 nel villaggio di Gonghui, nella contea di Zhangbei. Ordinato sacerdote il 1º agosto 1948, lavorò come viceparroco in varie parrocchie della diocesi fino a quando gli fu impedito di esercitare il ministero sacerdotale e fu costretto a guadagnarsi da vivere coltivando ortaggi e vendendo legna. Nel 1956 fu condannato ai lavori forzati per aver rifiutato di aderire al movimento d’indipendenza della Chiesa cattolica dal Papa. Due anni dopo gli fu inflitta la pena del carcere a vita sempre per lo stesso “crimine”, quello cioè di voler rimanere fedele al Sommo Pontefice e alla Chiesa universale. Fu liberato nel 1984 dopo quasi trenta anni di prigione. Ordinato vescovo il 19 febbraio 2002, nel luglio 2006 fu di nuovo sequestrato dalla polizia in seguito alla consacrazione di una nuova chiesa nella contea di Guyuan, e trascorse altri trenta mesi in prigione. Una volta liberato, ma sempre sotto stretta sorveglianza, ha potuto impegnarsi per gli affari della diocesi nonostante tutte le difficoltà. Alla Messa domenicale da lui celebrata partecipavano ogni settimana più di mille fedeli.
Dopo la morte di Mons. Yao, le Autorità civili hanno proibito alla comunità cattolica di onorarlo con il titolo di “vescovo”, imponendo che si usasse quello di “pastore clandestino”. La mattina del 6 gennaio corrente mese, migliaia di fedeli, provenienti da varie parti del Paese, hanno partecipato ai suoi funerali nonostante i controlli della polizia e l’abbondante nevicata, dimostrando così che Mons. Yao è stato veramente il buon pastore, che dà la vita per le sue pecore. In lui, come negli altri sei Vescovi cinesi che sono morti durante l’anno 2009, si sono compiute le parole del libro della Sapienza: “Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio, nessun tormento le toccherà. Agli occhi degli stolti parve che morissero; la loro fine fu ritenuta una sciagura, la loro partenza da noi una rovina, ma essi sono nella pace. Anche se agli occhi degli uomini subiscono castighi, la loro speranza è piena di immortalità. Per una breve pena riceveranno grandi benefici, perché Dio li ha provati e li ha trovati degni di sé: li ha saggiati come oro nel crogiuolo e li ha graditi come un olocausto” (3, 1-6).
(Fonte: Agenzia Fides, 11 gennaio 2010)
lunedì 4 gennaio 2010
Fuga da Scientology
“Il coraggio di parlare”: 14 storie emblematiche, una decina di fuoriusciti italiani, le altre di stranieri. Il libro di Gardini-Laggia (in uscita per le Edizioni Paoline) offre per la prima volta la possibilità di conoscere queste storie di speranza e delusione. Speranza di aver pensato di trovare in Scientology una strada per migliorare sé stessi; delusione per essersi resi conto di aver buttato anni della propria vita, tanti soldi e spesso anche le relazioni umane più importanti.
«Quattordici storie diversissime», scrive Laggia nell’introduzione del libro, «per raccontare la stessa vicenda: quella di chi entra nel movimento, spesso con l’entusiasmo e la curiosità del neofita, spinto dalla speranza di migliorare la propria vita, di diventare un "vincente" o, piuttosto, di uscire dalla droga o da altre dipendenze, ma con il tempo scopre d’esser piombato dentro un incubo da cui è tremendamente difficile svegliarsi. Un’esperienza che, da deludente, diventa oppressiva e infine distruttiva per la propria persona e per i propri beni materiali».
È un racconto lucido e sconvolgente, quello dei fuoriusciti. Tanto che ci si rende conto, pagina dopo pagina, che non c’è voluto solo il coraggio di rendere pubblica la propria storia, ma che, prima ancora, hanno mostrato un coraggio ben maggiore ad andarsene, «perché, più della scelta scabrosa di raccontare in pubblico la propria storia di scientologist, è stato difficile decidere di abbandonare un’esperienza totalizzante e pervasiva, com’è quella della sequela alla Chiesa di Hubbard, vincendo pesantissime pressioni psicologiche», aggiunge Alberto Laggia. «Infatti, come ebbe a confessarmi la stessa Maria Pia Gardini, "quando ti allontani da un culto come Scientology, spesso ne sei uscita solo con le gambe, ma la testa è ancora dentro"».
Quanti sono gli adepti di Scientology? Centinaia di migliaia in tutto il mondo, stando a quanto dichiara la stessa Chiesa. E quanti gli "ex"? Tanti, anche se è un numero difficile da quantificare. «Basta navigare "in Rete" (cioè in Internet, ndr) per cogliere l’entità del fenomeno», scrivono gli autori del libro.
Serve raccontare queste storie? Alla domanda risponde una delle protagoniste, Bryce, nome di fantasia di un ex membro dello staff di Scientology piemontese: «Non credo», dice, «che le esperienze che noi raccontiamo qui possano far aprire gli occhi a uno scientologo felice. Servono invece a infondere coraggio a chi ha dei dubbi ma ancora non riesce ad andarsene. Servono a informare familiari e parenti su cosa sia realmente lo strano gruppo a cui ha aderito il congiunto e su cosa stia realmente facendo».
Di motivi, aggiungiamo noi, ce n’è almeno un altro: preavvertire dei rischi. Non solo del fatto che si mettono a repentaglio famiglia e affetti, ma anche di aspetti ben più concreti e penalmente rilevanti: è del mese scorso l’ennesima vicenda giudiziaria che coinvolge Scientology. Una pesante condanna della giustizia francese: 600 mila euro di multa e una pena di due anni per uno dei massimi responsabili della Chiesa transalpina di Hubbard. Condanna per sottrazione di decine di migliaia di euro a quattro anziani adepti, «approfittando della loro vulnerabilità», scrive il Tribunale di Parigi.
(Fonte: Luciano Scalettari, Il cattolico, 4 gennaio 2009)
«Quattordici storie diversissime», scrive Laggia nell’introduzione del libro, «per raccontare la stessa vicenda: quella di chi entra nel movimento, spesso con l’entusiasmo e la curiosità del neofita, spinto dalla speranza di migliorare la propria vita, di diventare un "vincente" o, piuttosto, di uscire dalla droga o da altre dipendenze, ma con il tempo scopre d’esser piombato dentro un incubo da cui è tremendamente difficile svegliarsi. Un’esperienza che, da deludente, diventa oppressiva e infine distruttiva per la propria persona e per i propri beni materiali».
È un racconto lucido e sconvolgente, quello dei fuoriusciti. Tanto che ci si rende conto, pagina dopo pagina, che non c’è voluto solo il coraggio di rendere pubblica la propria storia, ma che, prima ancora, hanno mostrato un coraggio ben maggiore ad andarsene, «perché, più della scelta scabrosa di raccontare in pubblico la propria storia di scientologist, è stato difficile decidere di abbandonare un’esperienza totalizzante e pervasiva, com’è quella della sequela alla Chiesa di Hubbard, vincendo pesantissime pressioni psicologiche», aggiunge Alberto Laggia. «Infatti, come ebbe a confessarmi la stessa Maria Pia Gardini, "quando ti allontani da un culto come Scientology, spesso ne sei uscita solo con le gambe, ma la testa è ancora dentro"».
Quanti sono gli adepti di Scientology? Centinaia di migliaia in tutto il mondo, stando a quanto dichiara la stessa Chiesa. E quanti gli "ex"? Tanti, anche se è un numero difficile da quantificare. «Basta navigare "in Rete" (cioè in Internet, ndr) per cogliere l’entità del fenomeno», scrivono gli autori del libro.
Serve raccontare queste storie? Alla domanda risponde una delle protagoniste, Bryce, nome di fantasia di un ex membro dello staff di Scientology piemontese: «Non credo», dice, «che le esperienze che noi raccontiamo qui possano far aprire gli occhi a uno scientologo felice. Servono invece a infondere coraggio a chi ha dei dubbi ma ancora non riesce ad andarsene. Servono a informare familiari e parenti su cosa sia realmente lo strano gruppo a cui ha aderito il congiunto e su cosa stia realmente facendo».
Di motivi, aggiungiamo noi, ce n’è almeno un altro: preavvertire dei rischi. Non solo del fatto che si mettono a repentaglio famiglia e affetti, ma anche di aspetti ben più concreti e penalmente rilevanti: è del mese scorso l’ennesima vicenda giudiziaria che coinvolge Scientology. Una pesante condanna della giustizia francese: 600 mila euro di multa e una pena di due anni per uno dei massimi responsabili della Chiesa transalpina di Hubbard. Condanna per sottrazione di decine di migliaia di euro a quattro anziani adepti, «approfittando della loro vulnerabilità», scrive il Tribunale di Parigi.
(Fonte: Luciano Scalettari, Il cattolico, 4 gennaio 2009)
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