lunedì 30 maggio 2011

Il Papa: Vogliono marginalizzare Dio dalla vita pubblica

Assistiamo ad una esultanza incontenibile di “vittoria”, alle amministrative testé ultimate, anche da parte di politici che si fregiano dell’etichetta di “cattolici”: ma di che dovete esultare signori miei? Del fatto che forse ora si è fatto un altro passo verso il progressivo stravolgimento dei nostri principi morali inderogabili? Più che esultare c’è da fare un buon esame di coscienza, fratelli politici cattolici, che per l’inconfessabile tornaconto personale, per la vostra pervicacia, non avete esitato a svendere le vostre coscienze (semmai ne avete ancora) coalizzandovi per un fantomatico “progresso” laico, con correnti di pensiero diametralmente in antitesi col vostro.
Il Papa, in questo frangente tanto tormentato e profondamente incoerente, coglie l’occasione per denunciare il «tentativo di marginalizzare» il cristianesimo «dalla vita pubblica» e rileva che l’attuale crisi «porta con sé i tratti della esclusione di Dio dalla vita delle persone, di una generalizzata indifferenza nei confronti della stessa fede cristiana».
Nell’udienza al dicastero per la Nuova evangelizzazione, nella sua prima assemblea plenaria, Benedetto XVI spiega che «l'annuncio nuovo» che i contemporanei attendono dai cristiani, presuppone uno «stile di vita dei credenti» che «ha bisogno di una genuina credibilità, tanto più convincente quanto più drammatica è la condizione di coloro a cui si rivolgono».
«La crisi che si sperimenta ─ spiega il Papa agli esponenti del dicastero da lui istituito neppure un anno fa e affidato alla guida di monsignor Rino Fisichella ─ porta con sé i tratti dell’esclusione di Dio dalla vita delle persone, di una generalizzata indifferenza nei confronti della stessa fede cristiana, fino al tentativo di marginalizzarla dalla vita pubblica. Nei decenni passati era ancora possibile ritrovare un generale senso cristiano che unificava il comune sentire di intere generazioni, cresciute all’ombra della fede che aveva plasmato la cultura». Oggi, spiega il Pontefice, «si assiste al dramma della frammentarietà che non consente più di avere un riferimento unificante; inoltre, si verifica spesso il fenomeno di persone che desiderano appartenere alla Chiesa, ma sono fortemente plasmate da una visione della vita in contrasto con la fede».
Ai membri del nuovo dicastero Benedetto XVI chiede di «delineare un progetto» che possa aiutare la Chiesa nella nuova evangelizzazione, di curare la «formazione, in particolare» dei giovani e di trovare «segni concreti» per la risposta della Chiesa alla crisi di senso. Ha concluso citando Paolo VI e la enciclica Evangelii nuntiandi, sulla necessità di evangelizzare mediante la testimonianza. «Mi auguro ─ ha detto il papa ─ che nel lavoro di questi giorni possiate delineare un progetto in grado di aiutare tutta la Chiesa e le differenti Chiese particolari, nell’impegno della nuova evangelizzazione; un progetto dove l’urgenza per un rinnovato annuncio si faccia carico della formazione, in particolare per le nuove generazioni, e sia coniugato con la proposta di segni concreti in grado di rendere evidente la risposta che la Chiesa intende offrire in questo peculiare momento. Se, da una parte, ─ aggiunge ─ l’intera comunità è chiamata a rinvigorire lo spirito missionario per dare l’annuncio nuovo che gli uomini del nostro tempo attendono, non si potrà dimenticare che lo stile di vita dei credenti ha bisogno di una genuina credibilità, tanto più convincente quanto più drammatica è la condizione di coloro a cui si rivolgono». «È per questo ─ conclude il Santo Padre ─ che vogliamo fare nostre le parole del Servo di Dio Papa Paolo VI, quando, a proposito della evangelizzazione, affermava: “è mediante la sua condotta, mediante la sua vita, che la Chiesa evangelizzerà innanzitutto il mondo, vale a dire mediante la sua testimonianza vissuta di fedeltà a Gesù, di povertà e di distacco, di libertà di fronte ai poteri di questo mondo, in una parola, di santità”».

(Mario, 30 maggio 2011)

  

giovedì 26 maggio 2011

La “garitta” di Giovanni Paolo II a Roma Termini

Il tempismo con cui Roma ha voluto rendere omaggio al neo beato Giovanni Paolo II posando una statua in suo onore e ricordo in una aiuola davanti all’ingresso principale della stazione ferroviaria di Termini, è indubbiamente encomiabile: non altrettanto il manufatto che lo dovrebbe testimoniare.
Sono stato sempre un benpensante. Ero convinto che certe cose non potessero mai succedere, soprattutto in ambienti religiosi, dove l’arte e l’amore del bello, dovrebbero essere a casa loro, come è sempre successo nei secoli passati.
E invece, ahimè, tutto viene travolto, tutto viene fagocitato da quell’orda di artisti intellettualoidi, le opere dei quali per essere capite dal pubblico necessitano di un manuale di istruzioni. L’arte è immediatezza, è colpo d’occhio, è armonia che esplode nell’anima e nel cervello di chi guarda, è amore a prima vista, è il classico colpo di fulmine.
Alludevo prima agli ambienti religiosi. Si, perché sono convinto che le parole del sindaco Alemanno secondo cui il bozzetto sarebbe stato approvato dalla competente commissione ecclesiastica corrispondano a verità. E costituirebbe un deplorevole “dejà vu”. Ho infatti già avuto modo in passato di esprimermi negativamente sulle illustrazioni inserite nell’ultima edizione del Lezionario Cei. “Capolavori dell’arte pittorica contemporanea” hanno strombazzato i responsabili, per dare man forte al battage pubblicitario sostenuto dalla suddetta commissione; “incomprensibili scarabocchi, di pessimo gusto, inconciliabili con la sacralità del loro contesto”, dico io. E non solo io, ma un numero plebiscitario di utenti, che preferiscono comunque mantenere l’anonimato.
Ma torniamo alla nostra “cosa”: un ammasso di bronzo inguardabile; un misto tra una garitta militare, più idonea per un posto di blocco, un “vespasiano” (mi si perdoni l’accostamento) e un grosso covone di paglia conico, dal quale il contadino ha già asportato parte del materiale con precisi tagli di falce (sul tipo del kebab esposto nelle vetrine delle rosticcerie, tanto per capirci). Infine, sulla sommità, una palla rotonda, tipo grossa anguria, con vaghi richiami ad una imprecisata fisionomia umana, fa da ciliegina sulla torta.
Certo l’intenzione dei promotori dell’opera, come ho detto, è quanto mai lodevole: avere un bel monumento, una statua riconoscibile del Beato Giovanni Paolo II proprio di fronte all’ingresso principale della stazione, che in qualche modo accogliesse i viaggiatori per dare loro il suo benvenuto e la sua benedizione, era e rimane, un progetto formidabile.
Ma è lo sgorbio l’autore non me ne voglia messo in opera, è l’attuazione di questo progetto che non solo non rende giustizia alla ieratica e prorompente figura di Woityla, ma costituisce un insulto  involontario per carità sia al Beato Papa che alla sensibilità estetica dei romani e dei visitatori. La colpa di ciò, a mio modesto parere, non è tanto ascrivibile all’artista che ha realizzato la scultura anche se evidentemente si è lasciato fuorviare da quell’assurdo principio, oggi diventato canone artistico, secondo cui un’opera è tanto più pregevole quanto più è incomprensibile quanto dei componenti di quella certa commissione di esperti che vigila sui progetti e che dovrebbe costituire una garanzia per il decoro e la bellezza del sacro, e che invece non si fa scrupolo di avallare entusiasticamente opere pittoriche, scultoree e architettoniche (vedi alcune recenti Chiese semplicemente orripilanti) che nulla hanno a che spartire con arte sacra, devozione, culto, pietà popolare.
Speriamo che quanto prima le autorità competenti provvedano a rendere giustizia e autentico onore al nostro beato Giovanni Paolo II.

(Mario, 25 maggio 2011)

Ma chi erano gli amici di don Seppia?

La triste vicenda di don Riccardo Seppia, il parroco della chiesa di Santo Spirito Sestri Ponente arrestato nei giorni scorsi perché accusato di aver fatto avances sessuali a un sedicenne e per cessione di cocaina, lascia aperte domande drammatiche.
Va dato atto all’arcivescovo di Genova, il cardinale Angelo Bagnasco, di essersi subito recato nella parrocchia, di aver pubblicamente dichiarato la propria vergogna, di aver immediatamente sospeso il sacerdote in attesa degli sviluppi dell’inchiesta. Inoltre, ogni cristiano sa bene che nonostante le norme antipedofilia, l’inasprimento delle pene canoniche, etc. etc., la natura umana continua a rimanere ferita dal peccato originale. Purtroppo questi episodi vergognosi e tremendi – che mostrano come la persecuzione più terribile per la Chiesa non arrivi dai nemici esterni, come ha spiegato Benedeto XVI, ma dal peccato dentro la stessa Chiesa – accadono ancora.
Quello che stupisce, nel caso di don Seppia, come nel caso dei preti gay oggetto di un’inchiesta di Panorama, poi trasformatasi in un libro, è da una parte la capacità di queste persone di costruirsi e gestire delle doppie vite, dall’altra la mancanza quasi totale di «controllo sociale» sulla vita del prete.
Qui non si tratta (solo) di peccati, ma di gravissimi reati. Non siamo di fronte alla caduta, alla debolezza vissuta con senso di colpa di un sacerdote che non riesce ad essere fedele all’impegno del celibato, e cede alla tentazione. Si tratta, invece, di vite parallele, dove la persona riesce a sdoppiarsi, predicando bene e razzolando malissimo perché compie dei crimini, usa droga e se ne serve per attirare le giovani "prede".
Ecco, ciò che stupisce è proprio questo: don Seppia era – ora lo si scopre – un prete chiacchierato, alcuni suoi parrocchiani sapevano delle sue assenze notturne (andava a Milano per rifornirsi di droga o per frequentare palestre e saune), sussurravano critiche per certi suoi atteggiamenti disinvolti. C’è da chiedersi come don Riccardo fosse inserito nel contesto della diocesi, in quali rapporti fosse con i confratelli preti, quali fossero le sue amicizie. Insomma, c’è da chiedersi come sia possibile che quanto leggiamo sia potuto accadere senza che nessun campanello d’allarme scattasse nelle persone più vicine al sacerdote ora accusato dell’abuso di un minore con una leggera disabilità mentale.
La Lettera circolare della Congregazione per la dottrina delle fede alle conferenze episcopali che detta le linee guida per codificare norme antipedofilia, insiste in un punto sulla formazione dei seminaristi e sulla formazione permanente del clero. La soluzione, però, non sta in una formula, o in nuovi schemi bacchettoni da introdurre nei seminari per riportare indietro di cinquant’anni l’orologio della storia: una volta usciti, i seminaristi diventati preti si troveranno comunque a fare i conti con la società in cui tutti viviamo. La questione vera, ancora una volta, è quella che riguarda il tessuto di relazioni e di amicizie che sostiene il sacerdote, quella che riguarda la sua maturità affettiva, oltre che lo spessore della sua vita spirituale.

(Fonte: Andrea Tornielli, La Bussola quotidiana, 17 maggio 2011)

Ancora contro De Mattei: ma la Civiltà Cattolica, svegliatasi all’improvviso, fa una brutta figura!


Penso che i lettori ricorderanno  bene il caso del prof. Roberto de Mattei, il quale dopo una trasmissione a Radio Maria, fu oggetto di attacchi furiosi e di richieste di dimissioni dalla sua carica di vicepresidente del CNR da parte della solita rappresentanza della cultura sinistrorsa, da parte dei radical chic della UAAR (Unione Atei e Agnostici Razionalisti) e simili, nonché, udite udite, da parte di Avvenire, accorso incredibilmente a dare man forte e appoggio a quanti diffamavano uno dei nostri studiosi più illustri, cattolico esemplare.
Abbiamo ripetutamente parlato delle contestate argomentazioni sul mistero del dolore e del male del Prof. De Mattei, esternate a commento della violenta catastrofe che ha colpito il Giappone nel recente terremoto; ci permettiamo di riproporle per sommi capi, a beneficio di chi le avesse dimenticate: “De Mattei giustamente distingueva riferendosi alla barbara uccisione del ministro pakistano cattolico Shahbaz Bhatti   un dolore procurato dall’uomo con la persecuzione (da combattere) e un dolore che l’uomo non provoca ma che inerme subisce (da accettare e a cui rassegnarsi). Questo ha imbestialito tanti. Che c’entra Dio con quel dolore inerme, quale il terremoto giapponese, che con proporzioni spaventose ed impreviste ha provocato morte e sconquassi ed una radiazione nucleare allarmante? Se così è, il Dio cristiano allora è un dio crudele, hanno detto. Altri invece: se il terremoto è affare di Dio, che permette il disastro per punire il male del peccato e salvare gli uomini dalla miseria più grave, allora de Mattei non ha diritto di cittadinanza nell’universo scientifico (meglio scientista). Porterebbe una questione di fede (?) nel mondo dei terremoti, e banalizzerebbe (?) il terremoto che ha una causa naturale verificabile in una distruzione così massiccia.
Il vero problema, che sta a monte di tutto e che invece è stato volutamente banalizzato, è il seguente: in una distruzione così massiccia, Dio dov’è? Sta semplicemente a guardare? Chiude gli occhi per non vedere? Sono queste le domande che il Prof. de Mattei poneva ai credenti, ma che guarda caso ha insospettito i non credenti e i diversamente credenti. Domande a cui la fede cattolica, illuminata da una ragione forte, aveva già riposto da tempo, da molti secoli: Dio non è la causa del male, di nessun male, né di quello morale (il peccato) né di quello fisico (la malattia, terremoto, ecc.). La causa del male morale è la perversa volontà dell’uomo peccatore; la causa del male fisico è nella contingenza della natura umana (ferita dal peccato). Ma siccome Dio è Padre e Provvidenza d’amore, sa trarre da ogni male un bene: mentre non ha nessun legame col male: essendo però la Causa prima e necessaria di tutto, tollera o permette il male (morale o fisico) per un fine di bontà; e questo in ragione del fatto che le cause seconde (le cause dipendenti nell’essere da Colui che è l’Essere e la Vita: gli uomini, gli eventi naturali, ecc.) sarebbero incapaci di agire senza la Causa prima, la quale tutto governa. Il vero male da temere è il peccato dell’uomo, punibile col castigo eterno. Per sfuggirlo, Dio che è Padre, permette ad esempio un male fisico, affinché l’uomo si ravveda. Ma né dell’uno né dell’altro è la causa”. Questa in estrema sintesi la materia del contendere.
Nel silenzio (purtroppo) di tante gerarchie, abbiamo proposto il pensiero di illustri teologi, che hanno spiegato e ribadito l’assoluta correttezza dottrinale dell’intervento del prof. De Mattei a Radio Maria (Cito a titolo di esempio . Padre Serafino Lanzetta, Padre Giovanni Cavalcoli, Mons. Antonio Livi, Padre Paolo Siano, il prof. Corrado Gnerre ecc. A dare manforte alle critiche si univa apertamente al coro dissonante anche il Padre Cantalamessa, nella sua omelia pronunciata alla presenza del Papa il venerdì santo; e anche di questo abbiamo dato riscontro.
Sembrava infine che la questione fosse chiusa una volta per tutte quando, improvvisamente, si sveglia Civiltà Cattolica che, con un articolo di Padre Giandomenico Mucci, riprende argomentazioni già trite e ritrite. Ecco alcuni stralci: «Pur ammettendo che il Signore voglia punire le colpe degli uomini non riusciamo a capire con quale giustizia egli potrebbe aver punito un popolo a prevalenza scintoista e non, poniamo, l'Europa che ha dimenticato e misconosciuto la sua vocazione cristiana e sembra avviarsi a un'ampia scristianizzazione»; e sottolinea che «in realtà, la sofferenza umana ha qualcosa di incomprensibile che può placarsi soltanto pensando e credendo che Dio non è indifferente al dolore degli uomini, tanto che vi ha preso parte nel Figlio» e, di conseguenza, per il credente la sofferenza è «non castigo, ma misteriosa elezione». Più in generale, il gesuita afferma che alle «opinioni private» di De Mattei «la stampa laica ha reagito con eccessiva enfasi, quasi si trattasse del pensiero della Chiesa». L'intenzione dell'articolo, che appare sul prossimo numero di Civiltà cattolica, è invece quello di «riparare allo scandalo provato da coloro che, nella Chiesa e fuori di essa, sono meno informati sulla sua dottrina che ci vuole “pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza” cristiana purché “questo sia fatto con dolcezza e rispetto”». Conclude padre Mucci: «La dottrina cattolica può essere accettata o respinta, ma, in tutte le sue parti, come non manca di nobiltà, così non è priva di coerenza, e non merita di essere derisa e incautamente esposta a essere diffamata».
Insomma, secondo la Rivista dei Gesuiti il prof. Roberto de Mattei ha addirittura provocato uno “scandalo” al quale ora, meno male!, provvedono loro a riparare.
Il prof. De Mattei ha prontamente battuto il seguente comunicato stampa: «In risposta all’articolo diffuso oggi dalla Civiltà Cattolica dal titolo “La verità e lo scandalo” a firma del padre Giandomenico Mucci s.j., il prof. Roberto de Mattei, vice-presidente del CNR, dichiara quanto segue: “La Civiltà Cattolica è stata smentita dal Papa nello stesso giorno in cui mi attacca». Il prof. de Mattei cita in proposito il discorso di Benedetto XVI sulla preghiera di intercessione di Abramo per Sodoma e Gomorra tenuto all’udienza generale del 18 maggio. “In questo discorso il Papa ha affermato tra l’altro che “non è il castigo che deve essere eliminato, ma il peccato, quel rifiuto di Dio e dell’amore che porta già in sé il castigo”. «L’esistenza di un castigo, sia sul piano individuale che su quello collettivo, come manifestazione di un Dio infinitamente misericordioso ma anche infinitamente giusto, sta nel cuore della rivelazione biblica e cristiana», aggiunge il prof. de Mattei, affermando che «probabilmente il padre Giandomenico Mucci non conosce il testo dei miei interventi a Radio Maria: tutto ciò che ho affermato, infatti, è basato, parola su parola, sul Catechismo della Chiesa Cattolica, sulla teologia di sant’Agostino e di san Tommaso d’Aquino e sulle parole di innumerevoli santi. Se c’è qualcuno che deride ed espone incautamente ad essere diffamata la dottrina cattolica, è quindi proprio l’estensore dell’articolo della Civiltà Cattolica».
Non aggiungiamo una riga alle parole del prof. Roberto de Mattei, più che chiare e sufficienti. Però ci poniamo una domanda legittima: perché mai Civiltà Cattolica si è svegliata all’improvviso dal letargo per intervenire sull’argomento? Cui prodest? Di sicuro non hanno avuto bisogno di due mesi per meditare e stendere le poche righe sopra pubblicate, non molto impegnative, visti poi gli argomenti trattati dalla rivista (cito tra gli altri: Islam e democrazia, Variazioni sul tema Gesù, i 50 anni di Amnesty International, Immigrati e ricchezza dell’Italia, Alcuni aspetti della società italiana). C’era forse qualche altro motivo “politico”? Non vogliamo fare strane dietrologie; è solo un’ipotesi, dettata dall’abitudine di chiederci il perché delle cose… È comunque una vicenda assai triste, e al prof. Roberto de Mattei, allo studioso illustre e cattolico esemplare, non possiamo che ribadire la nostra affettuosa e totale solidarietà. Sappiamo che saprà sopportare questo ulteriore e inutile attacco, con la stessa serenità con cui ha affrontato a testa alta i laicisti urlacchianti, alleati, ahimè, con alcuni cattolici un po’ confusi.

(Rielaborazione da: Paolo Deotto, Riscossa cristiana, 19 maggio 2011)
 

P. Lorenzo van den Eerenbeemt: frate dal cognome impronunciabile, infaticabile operaio di Dio, innamorato del “suo” Carmelo

La santità non è un bene personale. È un patrimonio di tutta la Chiesa. E in tempi come questi, in cui il paganesimo sta portando avanti la sua lotta senza quartiere per soffocare finanche le radici cristiane della nostra civiltà, penso sia molto consolante ed istruttivo proporre all’attenzione del grande pubblico personaggi sconosciuti, che pur nell’umiltà del cuore e con grande disponibilità alla chiamata di Dio, hanno saputo innestare sul tronco millenario della Chiesa nuovi virgulti, nuove vitali realtà, come la fondazione di nuovi istituti di vita religiosa.
È il caso di Padre Lorenzo van den Eerenbeemt, un frate carmelitano dal cognome impronunciabile ─ cofondatore con la Beata Maria Crocifissa Curcio delle Suore Carmelitane missionarie di santa Teresa del Bambino Gesù ─ la cui santa vita, spesa al servizio di Dio, ben volentieri ci accingiamo a tratteggiare, con l’intento di opporre alla valanga giornaliera di sporcizia, di immoralità, di violenza, con cui i media ci ricoprono quotidianamente, una piccola ma significativa resistenza.
Padre Lorenzo nacque a Roma il 3 maggio 1886: il padre, Pietro Van den Eerenbeemt, olandese, era un volontario nel reggimento degli Zuavi Pontifici, che nel 1870 aveva combattuto per la difesa di Roma; caduto lo Stato Pontificio, si era stabilito nella città eterna, sposando la contessa Giovanna Negri. Undicesimo figlio di quel matrimonio, venne battezzato nella chiesa di S. Giovanni dei Fiorentini con il nome di Ettore.
Compiuti gli studi elementari presso il collegio S. Giuseppe dei Fratelli delle Scuole Cristiane, venne spinto dal padre ad entrare nel Seminario dell’Apollinare, dei Padri della Missione, presso il quale frequentò brillantemente come seminarista i primi tre anni di studi ginnasiali; non completò il quarto poiché, scoprendosi particolarmente portato per l’arte, la letteratura e gli studi in genere, pensò di non essere votato al sacerdozio e quindi abbandonò il seminario. Ettore si trasferì quindi a Parigi presso il fratello Ubaldo, e poi, nel 1902, in Olanda. Qui, nella sua patria, trovò anche un impiego lavorativo e tutto gli parve più congeniale: ben presto però, proprio qui in Olanda, Ettore sentì la chiamata del Signore che lo invitava a seguirlo nella vita consacrata, volendolo tutto per Sé. Maturata, tra le comprensibili difficoltà, questa sua vocazione alla vita religiosa e sacerdotale decise, tra lo stupore di parenti e amici, di entrare nell’Ordine Carmelitano, che lo accolse ben volentieri. Fece il noviziato sempre in Olanda, nel convento di Boxmeer, prendendo il nome religioso di Lorenzo.
Superate le prove della vita austera con l’aiuto della grazia e della sua ferrea volontà, il 30 settembre 1907 emise i voti temporanei; quindi, dopo aver completato gli studi di Filosofia e di Teologia, il 15 ottobre 1910, emise la professione solenne. Ricevuta l’ordinazione presbiterale il 1 giugno 1912, fu destinato a Roma per gli studi accademici di Teologia e Sacra Scrittura. Qui, nel 1915 conseguì il dottorato in Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana, e nel 1919 la licenza in Sacra Scrittura nel Pontificio Istituto Biblico. Nel frattempo, fu vice-parroco della parrocchia di S. Maria in Traspontina e aiutante d’archivio nella Segreteria di Stato Vaticano. Il 7 luglio del 1917 veniva nominato priore del Collegio Internazionale di S. Alberto, incarico che lasciò il 26 settembre 1919, perché chiamato dai Superiori ad insegnare nella facoltà teologica di Oss in Olanda. In questa comunità strinse una profonda amicizia con il confratello Tito Brandsma, vittima del nazismo nel 1945 a Dachau e beatificato nel 1985.
Nel settembre del 1920 fu richiamato a Roma con l’incarico di professore di Sacra Scrittura e di lingua ebraica presso lo Studentato Generale dell’Ordine Carmelitano in Roma. Insegnamento che tenne fino a tutto l’anno accademico 1929-30. Fu anche esaminatore del Clero romano dal 1922 al 1930.
Il grande sogno di Padre Lorenzo erano comunque le missioni. Quando nel 1922 venne aperta la missione carmelitana a Giava (Indonesia), egli fece domanda per essere inviato, ma non fu accettata, urgendo a Roma la sua presenza di professore. Ma fu in questi anni che egli mise a punto il suo progetto di costituire un Terz’Ordine femminile regolare per le Missioni. Andati a vuoto gli inviti per una collaborazione in tal senso, rivolti a congregazioni già avviate, mise il tutto sotto la protezione dell’allora beata Teresa del bambino Gesù, per riuscire, tramite la sua intercessione, a realizzare quel desiderio missionario che lei stessa aveva coltivato nella sua vita e che le avrebbe poi meritato il titolo di Patrona delle Missioni.
Nel 1924, tramite il confratello P Alberto Grammatico, venne in contatto con M. Crocifissa Curcio, condividendo con lei l’ideale di fondare un Carmelo Missionario. La Madre, in Sicilia, nel paese natale di Ispica, e successivamente a Modica, aveva peraltro già in essere alcuni esperimenti di vita religiosa, coinvolgendo diverse giovani locali a livello parrocchiale, aderenti al terziariato carmelitano, in attesa di poter avere il riconoscimento vescovile e l’incardinamento ufficiale all’ordine carmelitano.
Fu così che con il permesso del Priore Generale, P. Elia Magennis, Padre Lorenzo iniziò  ad occuparsi fattivamente di questo progetto, intessendo con la Curcio una fitta corrispondenza, con scambio di opinioni, esperienze e direttive utili allo scopo.
Il giorno 17 maggio 1925, canonizzazione di santa Teresa di Gesù Bambino, offrì a Padre Lorenzo l’occasione di incontrare personalmente a Roma madre Crocifissa e di gettare le basi concrete della futura fondazione: il giorno successivo, infatti, Padre Lorenzo e madre Crocifissa si recarono a S. Marinella, un paesino sul mare in prossimità di Civitavecchia, luogo che egli conosceva molto bene per l’attività pastorale che svolgeva colà, nella Chiesa di Nostra Signora delle Vittorie, durante il periodo estivo; una località che Padre Lorenzo vedeva favorevolmente come culla del suo progetto missionario. Insieme visitarono il villino “Persichetti” su Capo Linaro, una costruzione che si prestava egregiamente ai loro progetti, di cui Madre Crocifissa si innamorò immediatamente, al punto da decidere concordemente di sceglierla immediatamente come prima temporanea dimora. Quindi Padre Lorenzo si occupò di svolgere le trattative necessarie con l’Ordinario della diocesi Suburbicaria di Porto-S. Rufina, il Card. Antonio Vico, e il 3 luglio 1925, la Madre Crocifissa insieme ad altre tre sue compagne terziarie si stabilirono a Santa Marinella, dando inizio ufficiale al nuovo Istituto accogliendo le giovani vocazioni orientate da P. Lorenzo. P. Lorenzo intanto si occupò dell’acquisizione del terreno e la costruzione della prima residenza delle Suore in Santa Marinella, cercando di bussare tutte le porte per ottenere i fondi necessari. Il 16 dello stesso mese ricevettero l’affiliazione all’Ordine Carmelitano. Padre Lorenzo, per offrire maggior collaborazione a Madre Crocifissa nella nuova opera, ebbe il permesso dai Superiori di trasferirsi a S. Marinella, fissando la sua dimora presso la chiesetta delle Vittorie, pur continuando a Roma il suo impegno di professore ed esaminatore del clero.
Questa doppia possibilità fu però di breve durata. Subentrato nel mese di luglio del 1929 al defunto Card. Vico alla guida della diocesi di Porto-Santa Rufina, il Card. Tommaso Pio Boggiani, dell’Ordine dei Predicatori, rilevò immediatamente, in questa soluzione di compromesso a favore dell’opera di Padre Lorenzo, una irregolarità canonica, nel senso che il frate ormai viveva fuori dal suo convento, anche se con il permesso dei Superiori e per una nobile causa: una irregolarità che il cardinale non intendeva avallare. Per questo motivo, dopo aver contattato i competenti Superiori dell’Ordine Carmelitano, e averli perentoriamente richiamati al loro dovere, mise Padre Lorenzo di fronte ad una scelta dolorosa: o rientrare immediatamente in convento, abbandonando la sua residenza e ogni legame con santa Marinella e le sue Suore, oppure, se voleva continuare ad occuparsi della sua opera, abbandonare l’Ordine Carmelitano e incardinarsi come semplice prete alla diocesi di Porto Santa Rufina. Fu così che Padre Lorenzo, per grande carità verso queste sue figlie, che avrebbero sofferto in maniera dirompente la sua dipartita, necessitando ora più che mai della sua opera, dei suoi consigli, della sua concreta collaborazione, si vide costretto a scegliere questa soluzione, anche se dolorosissima: il 18 febbraio 1930 ottenne l’esclaustrazione dall’Ordine e il 21 febbraio dello stesso anno veniva incardinato nella diocesi di Porto-S. Rufina. Padre Lorenzo amava profondamente il suo Ordine, ne era attaccatissimo, e questa prova gli causò molta sofferenza e amarezza, un vero e proprio trauma; riuscì comunque a superarla grazie all’aiuto della Vergine del Carmelo, alla sua profonda umiltà, e al convinto spirito di sottomissione al volere di Dio. Tuttavia nella sua vita e nel suo cuore egli conservò intatto l’attaccamento ai carismi dell’ideale carmelitano, mantenendo comunque invariati i rapporti che quotidianamente intratteneva con i Superiori e i confratelli carmelitani di Roma e dell’Olanda.
Il 13 aprile 1930 l’istituto delle Carmelitane Missionarie di S. Teresa del Bambino Gesù riceveva l’approvazione diocesana, e il 10 luglio successivo quella delle Costituzioni.
Da allora, oltre alla direzione spirituale e pratica della Congregazione, per guidarla nella sua espansione mondiale e nel suo consolidamento, Padre Lorenzo lavorava, sempre disponibile e caritatevole, anche per quella parte della popolazione di S. Marinella che frequentava la chiesa di Nostra Signora delle Vittorie, in particolare per i ragazzi, dapprima nella veste di vicario curato e poi, dal 1949 al 1953, a seguito della erezione della chiesetta in Parrocchia col titolo di Nostra Signora del Monte Carmelo, come parroco infaticabile.
Stimato e ben voluto, ricoprì anche in Diocesi vari e importanti uffici, tra cui: canonico della Collegiata di Castel Nuovo di Porto, convisitatore nella visita pastorale diocesana del 1939-41 e del 1948, vicario foraneo di S. Marinella, canonico teologo, esaminatore prosinodale e censore dei casi morali, membro di varie commissioni e uffici diocesani e infine giudice sinodale. Fu onorato delle nomine: nel 1942 da Pio XII di cameriere segreto soprannumerario, e nel 1959, da Giovanni XXIII, di prelato domestico.
Intanto la Congregazione delle Suore Carmelitane, dopo essersi consolidata in Italia, nel 1947 iniziava la sua espansione anche oltre oceano, come in Brasile, in supporto alle locali missioni Carmelitane.
Padre Lorenzo e Madre Crocifissa, avevano lavorato molto bene e con grande fervore per il regno di Dio: grande fu quindi la gioia del Padre, quando il suo sogno divenne realtà, quando cioè le «sue figlie missionarie carmelitane», come lui le chiamava, furono in grado di affiancare attivamente nel lavoro pastorale sia lui, nella sua piccola parrocchia, ma soprattutto i suoi ex confratelli carmelitani, che operavano nelle loro missioni sparse nel mondo.
Dopo la morte di Madre M. Crocifissa, avvenuta nel 1957, Padre Lorenzo continuò per circa dieci anni nella sua opera di sostegno e di assistenza spirituale alle Suore, rallentando però gradualmente il suo impegno, fino a scomparire lentamente e silenziosamente dalla guida della Congregazione che, diventata un organismo robusto e vitale, era ormai in grado di muoversi autonomamente.
Un unico, grande sogno, era rimasto radicato nel cuore di Padre Lorenzo: quello di riunirsi alla sua comunità, al suo Ordine Carmelitano. Fu nel 1968, rimasto finalmente libero da ogni impegno nei confronti della Congregazione, la cui gestione era passata definitivamente in mano alle Suore, che egli poté finalmente coronare questo sogno. La sua domanda di reintegrazione nell’Ordine venne benevolmente accolta dall’allora Priore Generale, che lo riammise ufficialmente il 5 ottobre 1969, concedendogli comunque, a causa della sua salute, di rimanere presso le Suore a S. Marinella, accanto alla “sua” parrocchia carmelitana. Qui, nel silenzio e nella preghiera ha trascorso gli ultimi anni della sua vita, illuminando con il suo esempio di padre il cammino di tutti i suoi figli e figlie.
Il 7 ottobre 1977 passò serenamente, con i conforti religiosi, alla casa del Padre.
Scrisse di lui un confratello carmelitano: “L’ho sempre considerato tra gli uomini migliori del nostro Ordine e sono contento che la sua devozione alla Madonna sia stata coronata dall’incontro col Padre Celeste, proprio nel giorno liturgico del S. Rosario”.
Tra le innumerevoli lettere e circolari indirizzate alle “sue” Suore, mi piace riportare queste poche righe, molto significative: «Sì, mie buone suore, dovete rientrare sempre più in voi stesse e domandarvi: "ma sono veramente una suora dedicata completamente alla vita missionaria? Oppure passo il mio tempo in passatempi da nulla, in vane conversazioni, senza occuparmi affatto della vita missionaria, molto necessaria anche qui pur restando nelle nostre contrade? La nostra vita è quella attiva: ovunque viviamo dobbiamo cercare anime, anime, anime. Senza questo spirito cadiamo in una materialità senza limiti e ci prepariamo per entrare nell'eternità con un piccolissimo cestino di poche preghiere, fatte con sonnolenza e superficialità. Svegliamoci tutte e lavoriamo meglio che possiamo per guadagnare la gioventù. Quanto bene possiamo fare nel mondo? Prima di tutto dovete essere suore con grande fede alla nostra missione: dovete essere apostole, non accoccolate e contente di non stare in mezzo al mondo. Lavoriamo per le anime; cerchiamo la gioventù: aumentiamo in carità: non lasciamoci trascinare da affetti troppo terreni. Che la nostra anima, pur amando la gioventù, sia libera da lacci appiccicaticci che sono una rovina per le anime consacrate completamente al Signore» (Lettera alle Suore, luglio 1964).
Ora le sue “figlie” si stanno muovendo alacremente per superare i primi adempimenti sulla via lunga e laboriosa prevista per le cause dei santi. Perché una vita tanto umile e preziosa, ricca di insegnamenti e di generosità, possa venire finalmente riconosciuta e additata ufficialmente alla venerazione della Chiesa.
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(Mario 22 maggio 2011)

giovedì 19 maggio 2011

Sai Baba: un santone controverso, una dottrina inconciliabile col cattolicesimo

L’uomo ha da sempre avuto un grande bisogno di soprannaturale. La storia è piena di insigni studiosi e filosofi che hanno creato filoni di pensiero su tale argomento. Oggi però, passando attraverso la negazione di Dio, il pensiero della nostra società dei consumi è giunto ad un radicale pragmatismo, con il risultato che declassando decisamente tutto ciò che sa di teologia, di trascendente, di fede in Dio e dell’idea stessa di Dio, si è arrivati ad ammirare e a seguire sempre più diffusamente, la degenerazione stessa del soprannaturale, ossia l’esoterismo e la magia.
Che oggi obiettivamente ci sia bisogno più che mai di una cura rigenerante e rinvigorente per il nostro cristianesimo “di maniera”, soprattutto per quanto riguarda la fede, è cosa risaputa, non c’è nulla da eccepire. Ma se si pensa, come lascia intendere una nota rivista cattolica, di far arrivare questa cura ricostituente ricorrendo a soluzioni “mistiche” e miracolanti importate direttamente dall’oriente, anzi più precisamente da Puttaparthi (India), patria del celebre guru Sai Baba, recentemente scomparso, beh, allora di cose da eccepire ce sono parecchie.
Prima di tutto perché corrisponderebbe a riconoscere come utile e valida quella moda oggi decisamente molto “in”, di importare e seguire qualunque forma di esperienza religiosa, contrabbandandola tout court per eccellente e miracolosa, soltanto perché “orientale”: un marchio di origine di assoluta garanzia.
Assistiamo infatti al deplorevole andazzo, in nome di un falso e improponibile “irenismo”, con cui, anche tra preti e religiosi cattolici, vengono propagandati e proposti come “esempi” da seguire, personaggi che al contrario dovrebbero essere guardati, proprio dai suddetti pastori, con maggiore spirito critico,maggiore oculatezza e prudenza.
E uno di questi personaggi molto controversi è proprio il santone Sai Baba.
Il quale, senza troppi problemi, afferma "Io sono Dio" e dice di essere la reincarnazione del suo predecessore Shirdi Sai Baba. Naturalmente, nessun problema per Mario Mazzoleni il sacerdote colpito da scomunica per “eresia”, avvenuta nel settembre del 1992 in quanto autore e convinto assertore del suo pensiero, con il libro “Un prete incontra Sai Baba” il quale nel 1991 in una intervista diceva: «... Se dovessimo chiamare idolatra la persona che scopre il Divino in Sai Baba, dovremmo dire che lo è anche chi ha trovato il Divino in Cristo.....».
Niente male! Ma in fondo questo modo di pensare è in linea con quel movimento orientalista, sorto all’epoca della Rivoluzione francese, che ha portato alla forte irruzione nell’Occidente cristiano di temi religiosi e filosofici orientali, il più delle volte, come in questo caso e come dimostra la dottrina di molti nuovi movimenti religiosi di matrice orientale, mediati e rimpastati con idee tipicamente occidentali.
Il tutto, naturalmente, all’insegna del sincretismo, che si potrebbe dire essere una versione religiosa del relativismo che domina nella nostra epoca post-moderna. Certamente dispiace il fatto che siano proprio riviste cattoliche a fare confusione nel Popolo di Dio. Speriamo almeno che i cristiani di sicura e indiscussa fede nella Chiesa, non restino confusi di fronte ad una credenza vaga e fumosa, in cui il ruolo e la figura di Gesù Salvatore lasciano il posto alla figura ambigua di un guru come Sai Baba, autoproclamatosi “avatar” (incarnazione) di Dio.
Affrontiamo ora in maniera un più sistematica la questione e cerchiamo di contrapporre all’"entusiamo" di alcuni cattolici per Sai Baba i punti fermi di alcune verità oggettive e innegabili, soprattutto alla luce della Dottrina della Chiesa, su cui è impossibile scendere a compromessi, pena la rinuncia allo stesso “essere cattolici”.
1. "Profezie" sull’avvento di Sai Baba
I seguaci di Sai Baba hanno fatto il possibile per scoprire riferimenti al loro guru nelle profezie e nelle credenze delle varie religioni, dandone particolari interpretazioni. Vale la pena di soffermarsi su qualche affermazione, proponendo alcune considerazioni critiche.
a) Al contrario di quanto affermano i sostenitori di Sai Baba, nell’Apocalisse non vi è predizione alcuna in questo senso; si parla piuttosto di due personaggi: Cristo e Satana.
b) Viene fatto riferimento anche alle profezie di Nostradamus. Questo è il nome latinizzato di Michel de Notredame (Saint Rémy de Provence 1503 - Salon de Provence 1566), medico e astrologo francese di origine ebraica, autore di una celebre raccolta di profezie in quartine, le “Centuries et prophéties”. Tale opera si occupa di eventi che hanno una vaga collocazione nel tempo e nello spazio ed è caratterizzata da un linguaggio nebuloso, che come tale richiede un grosso sforzo interpretativo, periodicamente affrontato da vari commentatori, con risultati comunque fallimentari e contraddittori.
c) Le profezie attribuite a san Malachia (vescovo irlandese), invece, come storicamente dimostrato, sono un falso, perché scritte poco prima del 1595 (anno della loro pubblicazione) e comunque almeno 460 anni dopo la decorrenza di quanto “profetizzato”; ne è prova il fatto che l’estensore di queste pseudo-profezie copiò pari pari gli errori dello storico Panviniri, da cui sono dedotte anche la maggior parte delle notizie esatte sui Papi. Le profezie riguardanti i Sommi Pontefici dopo tale data, invece, sono generalmente sbagliate.
d) Maometto, sempre secondo le affermazioni dei seguaci di Sai Baba, avrebbe descritto in una presunta profezia la venuta del "Maestro del Mondo", e questi, guarda caso, corrisponderebbe “somaticamente” a Sai Baba. Nella stessa profezia, Maometto affermerebbe inoltre che verso la fine della sua vita (cioè dal 2001 al 2021, data fissata per la sua morte!) Sai Baba verrà riconosciuto come "Re dei Re".
e) Dire poi che un papa avrebbe fatto parte del movimento dei Rosacroce (setta massonica pseudo religiosa di esoterismo, magia, alchimia e gnosticismo) è semplicemente assurdo. Sostengono comunque, nel loro delirio, che Giovanni XXIII, quando era vescovo in Turchia, avrebbe dettato, come adepto rosacroce, delle profezie in cui avrebbe descritto un personaggio definito come il "santo scalzo", che i fedeli del guru indiano fanno coincidere con Sai Baba stesso.
f) Infine, le profezie del Bab, che citò ed usò Baha’u’llàh per fondare la Fede Baha’ì, sono attribuite dai seguaci di Sai Baba allo stesso Sai Baba, anziché al successore di Bab, che tralasciano semplicemente di considerare.
2. Sincretismo e contraddizioni
Sathya Sai Baba, il cui nome completo significa " verità, santo, padre", annuncia una dottrina che in fondo è riconducibile a quella induista, con la particolarità data dal sincretismo. Sai Baba, infatti, ritenendosi il bhagavan (colui che possiede le sei qualità divine), dovrebbe riunire le principali religioni in maniera definitiva. Krishna 5000 anni fa, Buddha 3000 anni fa, Gesù 2000 anni fa ed infine Maometto, profeta di Allah, sarebbero semplicemente degli Amsha Avatar (secondo l’Induismo: incarnazioni divine che possiedono alcuni poteri divini e la visione di Dio), che hanno preparato e profetizzato l’avvento del Purna Avatar in persona, cioè di Sai Baba.
Nel tentativo di fondere in maniera sincretistica nella sua persona le grandi tradizioni religiose dell’umanità, è possibile osservare che il suo messaggio può subire adattamenti a seconda delle caratteristiche culturali dell’uditorio. Ad esempio, il 3 settembre 1988, in occasione della ricorrenza della natività di Krishna, Sai Baba disse che gli "avatar" non scendono in terra né per risolvere i piccoli problemi famigliari, né per dare felicità transitoria, poiché le infelicità fanno parte della legge karmica, per cui ognuno ha esattamente ciò che ha seminato nelle vite precedenti (cfr. "Mother Sai", Bollettino dei Centri Sri Sathya Sai Baba, ottobre 1988, p. 21). In un’altra occasione invece affermò esattamente il contrario: infatti il 5 agosto dello stesso anno nel discorso rivolto agli stranieri, per lo più occidentali, disse ("Mother Sai", ottobre 1988, p. 10): «Appena vi sarete garantiti l’amore di Swami [“Insegnante di dottrina religiosa”, il nome con cui Sai Baba è chiamato dai suoi fedeli] potete ottenere tutto, fare ogni cosa, avere salute, ricchezza, tutto". In questo caso l’accento non è certo posto sulla legge del karma; nei riguardi della cultura del mondo occidentale, infatti, è più facile far leva sull’aspetto materiale ed economico che non su quello spirituale!
Il simbolo della religione di Sai Baba mostra bene il clima sincretistico che caratterizza la sua dottrina: un fiore di loto a sei petali ha al centro il lingam (simbolo fallico). Sui petali sono raffigurati rispettivamente l’OM o AUM, simbolo della religione induista, la ruota buddhista, la fiamma di Zoroastro, la stella di David, la mezzaluna mussulmana e la croce cristiana.
3. Alcune considerazioni conclusive
Spesso alle critiche mosse da alcuni osservatori (senza entrare in merito alle accuse di omosessualità, di vere e proprie violenze sessuali cui sottoponeva maschi e femmine, ospiti del Centro di Puttaparthi, durante gli incontri “spirituali” privati, di cui esiste una nutritissima documentazione in siti appositi, come questo: ExBaba.it.) si oppone l’idea di un Sai Baba “benefattore” di molte persone attraverso i suoi “poteri” che consistono in doti di chiaroveggenza, apparizioni, guarigioni, risurrezione di morti, capacità di produrre gioielli, vibhuthi, lingam come fossero ectoplasmi ed altri “prodigi”.
In realtà occorre notare che il miracolismo di Sai Baba è per lo più ripetitivo e fine a se stesso. La sua “beneficienza” è mossa perlopiù dalla ricerca di un cospicuo ritorno in termini di ricchezza personale, di potere, di notorietà. Perciò il guru di Puttaparthi è, all’opposto di Gesù, un ricercatore della vanagloria terrena, del successo e della realizzazione egoistica. Tutta la vita di Gesù è permeata di pietà e di amore verso l’umanità; spogliatosi di tutta la sua regalità il Figlio di Dio è stato fedele alla sua missione fino alla morte di Croce (cfr. Fil 2,6-11). Gesù proclama che il Suo Regno non è di questo mondo e chiede di scegliere tra la Sua Croce e i valori mondani, promettendo la vera Vita Eterna. Anche Sai Baba, in particolare nel suo piano educativo, fa uso di temi umani e spirituali per lo più comuni a tutte le grandi religioni come l’idea di verità, rettitudine di azione, pace, amore e non-violenza. Dunque, anch’egli utilizza gli argomenti sull’amore proposti da Cristo, ma contrariamente a Cristo, il Sai Baba non si mette al servizio di nessuno; anzi pretende devozione ed adorazione. Se Gesù, il Buon Pastore, lascia il gregge per andare in cerca dell’unica pecorella smarrita (cfr. Mt 18,12-14), Sai Baba terrorizza chi vuole allontanarsi dal suo “gregge”. Si può citare ad esempio la testimonianza della psicologa Paola Alessandra ("Presenza Cristiana", dossier n. 11): «Il prezzo pagato per lasciare Sai Baba consiste in sofferenze incredibili... dolori in tutto il corpo, desiderio di suicidarsi senza motivi reali, perdita del lavoro, perdita di soldi, perdita di affetti, sensazione di diventare pazzi e psicotici... ho dovuto ricorrere a esorcisti, senza i quali non avrei mai potuto uscire dall’influsso di Sai Baba».
I poteri di Sai Baba non sono mai stati sottoposti a controlli sulla loro genuinità per espresso rifiuto dello stesso guru, e fra gli studiosi in proposito vi è un dibattito aperto; occorre comunque notare che la tradizione dello yoga prevede come effetto dello stesso cammino dello yogin la manifestazione di siddhis, cioè di segni straordinari, fra cui alcuni simili a quelli che si manifestano con Sai Baba (cfr. Patanjali, Aforismi dello Yoga [Yogasutra], a cura di P. Magnone, Promolibri, Torino 1991, in particolare il Libro III che tratta della "facoltà sovrannaturali"). Una interpretazione rigorosa deve portare a dire che, se non si tratta di semplici giochi di prestigio e pare che in effetti, almeno per alcuni fenomeni, si possa dire chiaramente questo (alcuni illusionisti riproducono tranquillamente alcuni presunti “miracoli” di Sai Baba) si potrebbe trattare di fenomeni paranormali, cioè di fenomeni naturali che, essendo poco conosciuti, sono oggetto di interpretazione soprannaturale. Tuttavia, uno sguardo cristiano non può neppure escludere che all’origine di questi “prodigi” vi sia una possibile causa demoniaca, la stessa che potrebbe determinare alcuni eventi in ambito occultistico, come peraltro ha spiegato in proposito Padre Amorth, esorcista cattolico, ed esperto in campo demonologico. Va detto, comunque, che in questo settore si deve procedere molto cautamente per non cadere in facili e ingenue "demonizzazioni" per dei casi in cui le spiegazioni possibili potrebbero anche essere altre. Certamente alcuni elementi come la testimonianza sopra ricordata invitano il cattolico a tenere aperta anche questa ipotesi.
Non si deve poi confondere la Risurrezione con la “reincarnazione”: Cristo è risorto dai morti al terzo giorno, e non è la reincarnazione di un sedicente “uomo di Dio” indiano, poco conosciuto all’infuori dell’India. Su questo punto esiste molta confusione negli stessi ambienti cristiani, per questo è necessario fare chiarezza per non cadere nell’inganno dei falsi profeti che si presentano come angeli di luce. L’idea della reincarnazione, insieme al forte sincretismo che pretende di affermare che tutti possono continuare a seguire la propria religione pur diventando discepoli di Sai Baba e la sua pretesa di essere “dio”, rendono chiaramente incompatibile la dottrina del guru indiano con la Fede in Gesù. Si può così a tal proposito citare uno stralcio della Lettera Pastorale “Nuova religiosità e nuova evangelizzazione” di Mons. Giuseppe Casale, arcivescovo di Foggia-Bovino (Piemme, Casale Monferrato Alessandria 1993, pp. 52-53), per ribadire che solo in Cristo “abita corporalmente la pienezza della divinità” (Col 2,9), la Sua incarnazione è un fatto unico e irrepetibile: «Un concetto proveniente dalla tradizione indù e che è abbastanza presente in modo esplicito o implicito nella nuova religiosità, ci può aiutare a mettere meglio a fuoco questo punto importantissimo: si tratta del concetto di “avatar” (o “avatara”). È un termine sanscrito che significa letteralmente: discesa. Si applica alla Divinità e alla sua manifestazione condiscendente nella sfera del sensibile (non solo umano). Molti indologi e occultisti lo traducono semplicemente con “incarnazione”. Ecco allora che il dogma centrale del Cristianesimo si trova qui ricondotto a una categoria storico-religiosa più ampia. Frequenti sarebbero state le “discese” del dio Vishnu. L’ultima sua apparizione umana sarebbe stata Krishna. L’evento di Cristo diventa così solo il caso particolare di una categoria più generale. Un caso nuovamente ripetibile, come per esempio si pretende per il guru indiano Sathya Sai Baba. In realtà un esame più attento un esame teologico, come richiede la materia evidenzia subito che i concetti di “avatara” e di “incarnazione” possono essere accomunati solo in forza di un grave equivoco. A parte la inconsistenza storica della figura di Krishna, la manifestazione umana del dio si risolve nell’assunzione di un corpo apparente. Chi applica questa concezione a Cristo ricalca in modo più o meno cosciente le orme di un’antica eresia, il docetismo (dal greco dokw, “apparire, sembrare”) e certamente non esprime le fede cristiana. L’incarnazione cristiana, che implica la verità e la completezza della umanità di Gesù, emerge da questo confronto come evento unico e irripetibile, vero “segno di contraddizione” (Lc 2,34) che non sopporta nessuna omologazione sincretistica o pseudognostica, ma esige una presa di posizione chiara e decisiva». Infine, possiamo ricordare che la Parola stessa di Dio invita ad avere un solo Dio, Signore e Padre: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo» (Dt 6,4).

(Mario, 19 maggio 2011)

La riforma liturgica tra passività e attivismo

Mi riferisco ad un articolo apparso sul numero 2/2011 de “La Nuova Europa”, la rivista del Centro Russia Cristiana. L’articolo, dal titolo “L’evoluzione liturgica al cambio di millennio”, è stato scritto da Antonij Lakirev, parroco ortodosso a Mosca. In esso si parla della questione, a lungo dibattuta, se fosse opportuno procedere a una riforma liturgica anche all’interno della Chiesa Ortodossa Russa. La tesi dell’autore è: «La riforma liturgica, della cui necessità hanno parlato tutti tante volte, si è già realizzata da tempo de facto. È stata la grande misericordia di Dio nei nostri confronti, perché se un cambiamento qualsiasi fosse avvenuto in seguito agli sforzi intenzionali dell’autorità, sicuramente ci sarebbero state conseguenze dolorose, sicuramente avremmo avuto scismi, odi reciprochi, accuse, eccetera. Invece la nostra vita liturgica oggi è radicalmente cambiata, rispetto a quella di venti trent’anni fa, senza troppi sconquassi».
Si tratta di un articolo interessante, che dovrebbe andar letto; innanzi tutto perché riflette il diverso atteggiamento che caratterizza le Chiese orientali e la Chiesa latina. Non so se avete notato che fra gli ortodossi è presente un atteggiamento che potremmo definire “passivo”: si lascia che trascorra il tempo, e nel frattempo i problemi si risolvono da soli. Un atteggiamento che ha sempre contraddistinto l’Oriente cristiano. Noi occidentali istintivamente rifiutiamo un atteggiamento del genere. Certamente, all’origine di tale diversità c’è una differenza di carattere; ma va anche riconosciuto il fondamento teologico di tale “passività”, vale a dire la consapevolezza della dipendenza dall’azione di Dio: «È stata la grande misericordia di Dio nei nostri confronti…». Noi, al contrario, siamo tentati di pensare che tutto dipenda dalla nostra iniziativa.
Come si può vedere, la testimonianza di P. Lakirev ci stimola a recuperare un aspetto importante del cristianesimo. Ovviamente, ciascuno conserverà il proprio carattere; non possiamo pretendere che anche gli occidentali abbraccino la “passività” orientale (anche perché non sarebbe giusto); però è quanto mai opportuno ridimensionare il nostro “attivismo”, rendendoci conto che chi conduce la Chiesa non siamo noi, ma Dio.
Per venire alla questione della riforma liturgica: ci sono studiosi che sostengono che al momento del Concilio, era già in corso una riforma liturgica. Forse si sarebbe potuto proseguire su quella strada (fondamentalmente condivisa da tutti), senza mettere in moto la grande macchina della “Riforma liturgica” postconciliare. Non so se tale ipotesi sia del tutto valida. Non solo perché la storia non si fa con i “se”, ma per vari altri motivi. Innanzi tutto perché quella riforma, iniziata prima del Concilio, aveva le sue pecche. Come in altri casi, il Concilio ha rappresentato un “riequilibrio” di tendenze piuttosto discutibili apparse durante il pontificato di Pio XII. Tanto per fare un esempio (ma non è l’unico), la nuova traduzione del Salterio, che rompeva completamente con la tradizione latina.
In secondo luogo, su un piano teologico, per quanto sia giusto sottolineare che è Dio a guidare la Chiesa, ciò non significa che l’autorità in essa legittimamente costituita debba astenersi da qualsiasi intervento. Altrimenti, che ci stanno a fare il Papa e i Vescovi? Sono o non sono i Vicari di Cristo, i pastori a cui il Signore ha dato l’incarico di pascere il suo gregge?
Infine, su un piano più pratico, la Chiesa cattolica non può essere paragonata a una qualsiasi, seppur consistente, Chiesa ortodossa. Certe riforme non possono essere lasciate al caso: è impensabile abbandonare una riforma liturgica alla spontaneità della “base”. Proprio perché la liturgia è azione di Cristo e della Chiesa, è inevitabile che ci sia una “norma” che tutti sono tenuti a seguire.
Ma allora quale errore abbiamo commesso? Secondo me, l’errore non sta nel fatto che il Concilio abbia dato delle indicazioni su come la liturgia avrebbe dovuto essere rivista. L’errore è stato nell’atteggiamento con cui quelle direttive sono state applicate; un atteggiamento che è proprio l’opposto di quello dei nostri fratelli ortodossi; un atteggiamento che potremmo in qualche modo definire “titanico”: l’atteggiamento di chi pretende di ricominciare tutto da capo, di fare qualcosa di radicalmente nuovo, convinto di avere in tasca la soluzione a tutti i problemi, una soluzione frutto di elaborazioni puramente umane e pertanto “ideologica”. È ovvio che tale atteggiamento non ha caratterizzato solo la riforma liturgica, ma tutto il rinnovamento postconciliare.
L’atteggiamento giusto mi pare che sia quello contenuto nel bellissimo discorso rivolto da Benedetto XVI, ai partecipanti al convegno promosso dal Pontificio Istituto Liturgico “Sant’Anselmo”, in occasione del 50° della sua fondazione: «La Liturgia della Chiesa va al di là della stessa “riforma conciliare” (cfr. Sacrosanctum Concilium, n. 1), il cui scopo, infatti, non era principalmente quello di cambiare i riti e i testi, quanto invece quello di rinnovare la mentalità e porre al centro della vita cristiana e della pastorale la celebrazione del Mistero Pasquale di Cristo. Purtroppo, forse, anche da noi Pastori ed esperti, la Liturgia è stata colta piú come un oggetto da riformare che non come soggetto capace di rinnovare la vita cristiana, dal momento in cui “esiste un legame strettissimo e organico tra il rinnovamento della Liturgia e il rinnovamento di tutta la vita della Chiesa. La Chiesa dalla Liturgia attinge la forza per la vita” … La Liturgia, teste privilegiato della Tradizione vivente della Chiesa, fedele al suo nativo compito di rivelare e rendere presente nell’hodie delle vicende umane l’opus Redemptionis, vive di un corretto e costante rapporto tra sana traditio e legitima progressio, lucidamente esplicitato dalla Costituzione conciliare al n. 23. Con questi due termini, i Padri conciliari hanno voluto consegnare il loro programma di riforma, in equilibrio con la grande tradizione liturgica del passato e il futuro. Non poche volte si contrappone in modo maldestro tradizione e progresso. In realtà, i due concetti si integrano: la tradizione è una realtà viva, include perciò in se stessa il principio dello sviluppo, del progresso. Come a dire che il fiume della tradizione porta in sé anche la sua sorgente e tende verso la foce».
Penso che, se ci libereremo delle opposte ideologie (progressista e tradizionalista), che hanno caratterizzato e continuano a caratterizzare la Chiesa postconciliare, e recupereremo un po’ dello spirito dei nostri fratelli ortodossi, la riforma liturgica, forse con qualche piccolo ritocco, possa andar bene così com’è.

(Liberamente tratto da: Padre Giovanni Scalese, Senza peli sulla lingua, 8 maggio 2011)

Castità per i preti. C’è chi non condivide la lezione del Card. Piacenza

“Vi sono altri che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli. Chi può capire, capisca” dice Gesù in Matteo 19,12. Io ho sempre pensato di essere uno di quelli che, sull’argomento, ha poche idee ma chiare; adesso però ho scoperto qualcuno che riesce a superarmi abbondantemente sia nella pochezza di idee che nell’ottusità contrapposta alla mia chiarezza, ovvero Alberto Melloni, storico della chiesa e punta avanzata del cattoprotestantesimo italiano. Mi sarei risparmiato di leggere il discorso del cardinale Piacenza ai seminaristi piemontesi che è dispiaciuto a Melloni così come a cattoprotestanti minori quali Marco Politi e Massimo Faggioli. Io vorrei comportarmi come quei figli di Noè che, essendosi il padre addormentato nudo, lo coprono con un mantello però camminando all’indietro, per non disonorarlo. Vorrei distogliere lo sguardo dalle problematiche relative al celibato sacerdotale, in quanto già parlarne fa capire che esistono mentalità e teorie contrarie, dove non dovrebbero essercene, ma non posso, poiché leggendo riviste e giornali e commentando quel che leggo, devo a volte rischiare di disonorare e disonorarmi. Perciò mi sono letto e riletto l’intervento intitolato “La formazione affettiva al sacro celibato nel tempo del Seminario”.
Innanzitutto non mi è sembrato un intervento così anormale e se a tanti è sembrato tale allora magari è vero che nei seminari la norma è l’apostasia. “L’aver separato, all’interno della sessualità, l’aspetto unitivo da quello fecondo ha prodotto conseguenze devastanti”. Come si fa a dubitare di una simile affermazione? Non vedete gli italiani estinguersi, la gente sposarsi a quarant’anni anzi non sposarsi affatto, le donne fare un figlio a testa, mezzo figlio, nessun figlio? Non è forse questa una conseguenza devastante degli anticoncezionali di massa? Il più giovane cardinale italiano, appunto Mauro Piacenza ─ non casualmente ordinato sacerdote dal gigantesco cardinal Siri che sempre a Genova ordinò un altro campione, Gianni Baget Bozzo ─ a giudicare da quello che scrive ha letto Fabrice Hadjadj, il filosofo ebreo che dopo essersi convertito ha formulato il concetto di “masturbazione assistita” per definire l’eros programmaticamente infecondo. Un altro passaggio importante riguarda quella che Piacenza, purtroppo prodigo di parole astratte come suole l’alto clero, chiama la caduta del significato della affettività e della sessualità come “definitività” o meglio il suo rifiuto nel nostro contesto socioculturale: insomma il crollo della durata, il non riuscire più nemmeno a concepire vocazioni a vita, quali sacerdozio e matrimonio.
Qui lo scherno di Melloni si capisce bene, il cattivo soggetto propugna una religione liquida ovvero una non-religione, uno spiritualismo intellettualistico senza legami, e gli piace, gli piace dichiaratamente, da apostata senza vergogna quale è, il protestantesimo americano più ameboide i cui seguaci passano da un predicatore all’altro, da un gruppo all’altro, come si passa da un supermercato all’altro a caccia di promozioni e sconti.
Nulla da eccepire quindi sulla diagnosi di Piacenza dei problemi affettivi dei sacerdoti: è sulle terapie proposte che avrei gradito una maggiore incisività pratica; poiché quelle elencate, pur buone e ovvie che siano, non è che facciano proprio saltare sulla sedia: il primato della grazia, e ci mancherebbe altro; fuggire le occasioni di peccato, e questo mi sembra il minimo; l’ora di adorazione eucaristica quotidiana, buonissima cosa se non ci fosse la maligna controtendenza di alcuni vescovi ipocredenti (probabili lettori di Melloni) sempre impegnati a decentrare, emarginare, occultare i tabernacoli… Tutte cure ragionevoli, talmente ragionevoli da risultare spesso insufficienti. Ma è pur sempre una terapia. Agli esperti in materia gli spunti non mancheranno di certo. Alla faccia di chi si lamenta sempre e comunque.

(Rielaborazione da: Camillo Langone, il Foglio, 17 maggio 2011)


martedì 17 maggio 2011

Il card. Mauro Piacenza: La dura battaglia della chiesa per la castità dei sacerdoti

Pubblichiamo il testo magistrale della lezione tenuta il 10 u.s. dal cardinale prefetto della Congregazione per il Clero alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale di Torino.

La situazione attuale.
Sarebbe quanto meno imprudente approcciare l’importante tema della formazione affettiva, senza considerare la vera e propria rivoluzione accaduta nella società occidentale e, per letale contagio, un po’ in tutto il mondo, dagli anni Settanta in poi. L’aver separato, all’interno della sessualità, l’aspetto unitivo da quello fecondo, e aver, pertanto, ridotto uno degli atti antropologicamente più rilevanti al suo aspetto meramente istintivo, ha prodotto conseguenze devastanti, non soltanto sul piano morale – il che già sarebbe di inaudita gravità –, ma, con il passare dei decenni, anche sul piano psicoantropologico.
E’ impensabile affrontare il tema della formazione affettiva in seminario, senza partire dalla lucida consapevolezza che, anche indipendentemente dalla loro volontà, tutti coloro che sono nati dopo gli anni Settanta-Ottanta, sono cresciuti in un clima culturale pansessualista e ipereroticizzato, nel quale i poteri forti del mondo, che intendono piegare la libertà degli uomini a vari indecorosi interessi, non hanno risparmiato alcun mezzo, inclusi i messaggi subliminali, instillati fin dalla più tenera età, perfino in taluni cartoni animati, per ottenere la “destrutturazione” dell’aspetto psicoaffettivo della personalità umana e, con essa, la sottomissione dell’uomo ai propri istinti. A quella che potremmo chiamare la rivoluzione sessuale post sessantottina, deve essere sommata, poi, l’invadenza dei mezzi di comunicazione sociale, soprattutto la televisione e, più recentemente, Internet, i quali hanno portato in ogni casa, anzi in ogni stanza e luogo, immagini prima mai visibili che rimangono impresse, fin dalla più tenera età, nella memoria, nella fantasia e perfino nell’inconscio delle persone, le quali si ritrovano ad agire in maniera molto più difficilmente controllata e controllabile.
Se il peccato delle origini ha reso sempre particolarmente fragile la dimensione psicosessuale dell’uomo, tali recenti gravi mutazioni ne hanno determinato il vero e proprio stravolgimento, inserendosi non più soltanto nella sfera privata o della tentazione, ma divenendo costume diffuso, perfino cultura condivisa, al punto da far apparire come “estraneo” al giudizio comune ogni altro comportamento. Tale situazione, che potrebbe, a un primo impatto, apparire come “apocalittica”, descrive, in realtà, non tanto gli atteggiamenti morali, quanto piuttosto la reale situazione culturale, nella quale, anche coloro che sentono la chiamata al celibato e al sacerdozio ministeriale, sono profondamente immersi e dalla quale, in fondo, provengono.
Ancora, in tale contesto socioculturale, è purtroppo necessario riconoscere quella che definirei la “caduta di significato” della affettività, in generale, e della sessualità, in particolare. Mi spiego. L’aver artificialmente svincolato l’aspetto unitivo da quello fecondo, ha irrimediabilmente ridotto l’ampia sfera dell’affettività al solo esercizio della genitalità, privandola di quel contesto di definitività che le è proprio e, per conseguenza, ne ha prima, semplicemente, “alleggerito” l’importanza e oggi, ormai, l’ha decisamente banalizzata. Tale situazione è riscontrabile soprattutto nella superficialità con cui, non di rado, vengono compiuti determinati atti o gesti, i quali, per loro natura, presupporrebbero una maturità e una definitività che, nella stragrande maggioranza dei casi, non sono riscontrabili, e ciò senza il ben che minimo turbamento delle coscienze. Non è un mistero che, in taluni ambiti, alcuni giovani vivano un esercizio completo della genitalità, con la disinvoltura con cui ci si può stringere una mano, presentandosi!
Emerge con chiarezza come una tale situazione culturale esiga l’attento discernimento dei formatori, i quali sono chiamati a distinguere, in maniera netta, tra chi proviene da un’educazione tradizionalmente cristiana e consapevolmente impegnata, nella retta comprensione dell’affettività e della sessualità, e chi, invece, proviene dal mondo-mondo, vi è totalmente immerso, e perciò non è immaginabile, pur con l’aiuto della Grazia, che improvvisi atteggiamenti radicalmente diversi.

Tale giudizio non implica necessariamente la creazione di percorsi formativi differenziati, né comporta l’impossibilità di giungere a quello stabile equilibrio richiesto dall’impegno celibatario, previo alla sacra Ordinazione, ma certamente domanda una progressiva e radicale assunzione di consapevolezza, sia da parte del candidato, sia da parte dei formatori, non disgiunta da una buona dose di umile realismo e da un cammino quanto mai serio e impegnato, poiché non si tratta soltanto di vincere dei vizi e di acquisire delle virtù, ma di combattere e vincere, in se stessi, quella che è una struttura antropologica mutuata dalla cultura dominante e da essa continuamente riproposta. Bisogna essere veramente liberi! Si crea una situazione di osmosi con tale cultura dominante e, se non si è vigili si finisce con l’essere anestetizzati attraverso una sorta di flebo che “goccia-goccia” mondanizza.
Un tale contesto disorientato e disorientante non ha conseguenze unicamente nella sfera psicosessuale, ma investe l’intero ambito relazionale delle persone. Il crescere in un contesto iper eroticizzato, nel quale, quasi inconsciamente, si respira una sessualità disordinata, ha conseguenze anche sull’agire quotidiano delle persone e sul loro ordinario relazionarsi.
Il vero dramma, poi, in questo contesto è costituito dal fatto che anche gli stessi soggetti, vittime, consapevoli o meno, della generale deriva psicoaffettiva, vivono in una radicale insoddisfazione, unicamente determinata proprio dalla distonia tra ciò per cui l’uomo è stato creato, con il conseguente profondo significato della sua affettività, e quanto egli attualmente vive.
Il cuore dell’uomo è fatto per la definitività. Qualunque sia la vocazione, verginale o sponsale, a cui Dio lo chiama, è unicamente la definitività a determinarne il reale appagamento. Immagine e somiglianza di Dio Amore infinito, l’uomo avverte, tra i propri bisogni elementari, quello della verità, della libertà, della bellezza, della giustizia, dell’amore e, sintesi di tutti – oggi così poco adeguatamente compreso, anche se tentativamente cercato, e talora perfino preteso –, quello della felicità! Ciascuno percepisce come il soddisfacimento di questi bisogni domandi, anzi postuli, la totalità. Nessuno accetterebbe, serenamente e supinamente, di essere “un po’” giusto, o “un po’” libero. Ciascuno domanda che tali bisogni antropologici universali abbiano compimento pieno, sia esperienzialmente, sia cronologicamente parlando; tale pienezza è ciò che, nel linguaggio condiviso, si descrive con il termine “definitività”. La Scrittura ci insegna a resistere “saldi nella fede” a colui che “come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare” (1Pt 5,8-9), anche quando tale esperienza fosse quella del nostro uomo vecchio. La fragilità, talvolta estrema, delle unioni matrimoniali e l’incapacità di tanti giovani ad assumere decisioni definitive, non hanno radici differenti dalla difficoltà a vivere un’affettività ordinata e a maturare l’accoglienza serena della Vocazione verginale. Se, in ogni epoca, è stato complesso vivere la perfetta continenza per il Regno dei Cieli e il conseguente celibato, a causa della fragilità della natura umana, paradossalmente, nella nostra epoca, appare particolarmente arduo, poiché la rete delle comunicazioni veicola un pansessualismo violento, capace di distorcere la percezione stessa della sfera affettiva, sessuale e relazionale.
La formazione affettiva al sacro celibato
Come immaginare un percorso formativo efficace per candidati al sacerdozio, che giungano da un tale contesto culturale? Da dove partire e verso dove andare per evitare, per quanto sia umanamente possibile, errori, che potrebbero rivelarsi drammaticamente fatali per il futuro sacerdote? Dopo una premessa di metodo, articolerò questo secondo punto della conferenza, che è quello centrale del tema assegnatomi, in tre sottopunti, dinamicamente integrati tra loro, ma che, per efficacia didattica, preferisco distinguere, per poi mostrarne l’intima relazione. Prenderemo in esame, successivamente, le dimensioni: 1. della purificazione della memoria, 2. dell’educazione del presente vissuto affettivo e, infine, 3. dell’attesa orante del dono del sacerdozio e della relativa grazia di stato da esso derivante, così essenziale per vivere il sacro celibato. Quanto fin qui detto, se ancora ce ne fosse bisogno, ci ricorda l’importanza della formazione affettiva e la radicale serietà con la quale essa domanda di essere affrontata.
Non è tollerabile che, nel tempo della formazione, si censuri o si affronti, solo tangenzialmente e superficialmente, la questione affettiva. Nel rispetto più rigoroso della necessaria e canonicamente riconosciuta distinzione tra foro interno e foro esterno, è necessario che la dimensione affettiva sia messa a tema esplicitamente con i superiori del seminario e, nel caso ciò non avvenga spontaneamente, dai superiori del seminario. Certamente ciò implica che essi siano persone affettivamente mature, riconciliate con se stesse e con la propria dimensione psicoaffettiva, non frustrate e, perciò, almeno non tendenti a proiettare sugli altri i propri nodi non risolti. E’ necessario che abbiano integrato i propri eventuali problemi psicoaffettivi, per poter accompagnare gli altri in questo cammino di maturità. Pertanto, è necessario che la scelta dei formatori sia particolarmente ponderata e tenga conto, non solo, delle competenze teologiche e pastorali, ma anche, e forse soprattutto, della maturità psicoaffettiva e dell’equilibrio armonico generale della persona.
Pur nel riconoscimento dell’indispensabile dimensione della responsabilità personale nel percorso educativo, è sempre necessario mantenere chiara la distinzione tra educatori ed educandi, tra coloro ai quali è stato chiesto, dal Vescovo, di occuparsi della formazione dei futuri sacerdoti, e i candidati all’ordinazione. Ogni equivoco, in tale ambito, sarebbe foriero di gravi conseguenze, non da ultime, l’inefficacia della stessa azione educativa.
La purificazione della memoria
Accennavo, prima, a come sia indispensabile distinguere, tra i candidati, coloro che provengono da una formazione motivatamente cristiana, e dunque sono stati presumibilmente educati al reale significato dell’affettività umana, e quelli che, totalmente immersi nel mondo e nelle sue abitudini affettivo sessuali, si sono convertiti, sono stati chiamati e hanno bussato alla porta del seminario. Per entrambi, è tuttavia necessario compiere un veritiero e integrale percorso di purificazione della memoria, sia dal punto di vista spirituale, sia sotto il profilo morale e psicologico.
Non è possibile purificare la memoria, senza “fare memoria”. Evitando il rischio di rimanere impantanati nelle paludi dei ricordi e delle conseguenti reazioni sensibili a essi, è necessaria, almeno nel foro interno, una disarmata narrazione della propria storia affettiva, per presentarla a Dio, nella sua bellezza e nella sua problematicità, nei suoi frutti e nelle sue cadute, nei suoi errori sporadici e accidentali, o nei suoi limiti strutturali e reiterati. “Fare memoria” significa favorire quel sano realismo, senza il quale è semplicemente impossibile ogni autentico cammino di guarigione! “Fare memoria” significa permettere, almeno al superiore di foro interno – il direttore spirituale –, di conoscere realmente la storia personale del candidato, di raccogliere quanti più elementi possibile sul suo percorso, per poter impostare un cammino spirituale davvero efficace, cioè capace di accompagnare a una sufficiente integrazione della dimensione affettiva e ad una presumibile fedeltà all’impegno celibatario. Cari amici, piuttosto che tacere aspetti fondamentali e rilevanti delle proprie esperienze affettive, è meglio parlarne con qualcuno, anche di esterno al seminario, con i cosiddetti confessori invitati o con un sacerdote di propria fiducia, i quali, se necessario, possano progressivamente aiutare a mettere a tema, eventualmente, fosse opportuno esplicitare, onde evitare che l’aver taciuto su elementi essenziali, arrivi ad inficiare la stessa rettitudine di intenzione.
La purificazione della memoria, che ha una sua fase iniziale e fondamentale nel tempo della formazione seminaristica, ma che dura per l’intera esistenza terrena, domanda e, in certo modo, implica una radicale umiltà. Sant’Ignazio di Loyola, nei suoi Esercizi spirituali, ci è maestro nell’arte del discernimento degli spiriti, intimamente legata alla purificazione della memoria. Ciascuno può fare esperienza di come la fragilità della natura umana e il limite della memoria possano permettere, talvolta perfino in maniera ostinata, il permanere di immagini e di ricordi, che, anche se sottoposti al “potere delle chiavi” e alla divina Misericordia, e perciò distrutti da Dio, continuano a insidiare e talvolta ad assediare la vita spirituale.

La cultura contemporanea, poi – come detto – tende letteralmente a “imbottire” i giovani di immagini, e dunque di “memorie” un tempo inimmaginabili. E’ sufficiente passeggiare per le vie di qualunque città, per essere sottoposti a un vero e proprio linciaggio di immagini, per non parlare, poi, della televisione e, ancor più, di Internet. Dall’esperienza dello studio delle tristi cause di dispensa dagli oneri decorrenti dall’ordinazione, mi pare di poter evincere che, nel cattivo uso per mezz’ora di Internet, si possa vedere ciò che, in passato, nemmeno in un’intera esistenza, era dato di incontrare! Se i candidati al sacerdozio provengono da questo tipo di esperienza, è indispensabile che essi stessi scelgano e siano aiutati a compiere un taglio davvero radicale, ma che è indispensabile, anche solo per immaginare la possibilità di una fedeltà all’impegno celibatario. Tutte le memorie non purificate nel tempo della formazione e le cattive abitudini non vinte, tornano al pettine, determinando seri problemi di equilibrio psicoaffettivo e, talvolta, dolorosissime situazioni spirituali, morali e psicologiche.
La purificazione della memoria potrebbe apparire, così, un’opera impossibile, ma noi sappiamo, cari amici, che nulla è impossibile a Dio! In tal senso, l’opera essenziale di tale purificazione, compiuta e fermamente perseguita dall’intelligenza, dalla libertà e dalla volontà umane, è perfezionata dalla grazia soprannaturale, che giunge a noi specialmente attraverso un’intensa vita spirituale e sacramentale. Ciò che potrebbe apparire impossibile ai nostri occhi, è reso possibile dall’intervento costante ed efficace di Dio, il Quale, se cava dei figli di Abramo anche dalle pietre, può plasmare uomini equilibrati, integrati, riconciliati con la memoria del proprio passato e casti, anche in questo tempo, così disorientato e disorientante dal punto di vista psico-affettivo!
Educazione del presente vissuto affettivo
L’Esortazione apostolica “Pastores dabo vobis”, al n. 44, afferma: “Poiché il carisma del celibato, anche quando è autentico e provato, lascia intatte le inclinazioni dell’affettività e le pulsioni dell’istinto, i candidati al sacerdozio hanno bisogno di una maturità affettiva capace di prudenza, di rinuncia a tutto ciò che può insidiarla, di vigilanza sul corpo e sullo spirito, di stima e di rispetto nelle relazioni interpersonali con uomini e donne”. Con un linguaggio straordinariamente realistico e, per certi versi, “nuovo” ai documenti pontifici, il Beato Giovanni Paolo II ci ha consegnato un pilastro della formazione affettiva al celibato. Le inclinazioni dell’affettività e le pulsioni dell’istinto non vengono cancellate o modificate dal carisma del celibato, il quale – afferma il testo – le lascia intatte! E’ pertanto necessario educare il proprio presente affettivo, sia nella dimensione delle inclinazioni, sia in quella delle pulsioni, perché non accada di immaginare un futuro sacerdotale che, sotto il profilo psicoaffettivo-sessuale, sia radicalmente differente dal proprio presente seminaristico. E’ necessario perciò comprendere come l’importantissimo tempo del seminario sia dato anche per lavorare sul proprio equilibrio psicoaffettivo, per integrarne inclinazioni e pulsioni, e per scegliere e affilare quelle “armi” essenziali alla lotta, che dura tutta la vita. La consapevolezza che il carisma del celibato è un dono soprannaturale dello Spirito, impone che, nella formazione a esso, si riconosca il primato assoluto della grazia.
Se è necessario riconoscere e prudentemente utilizzare gli apporti delle scienze umane, in particolare la psicologia, a patto che facciano riferimento a una concezione antropologica veramente cristiana, è doveroso ammettere non pochi errori compiuti, in tale ambito, nei decenni passati.
Si è talvolta pensato di poter delegare alla scienze umane ciò che, invece, competeva ai formatori, essenziali mediatori dell’azione misteriosa e soprannaturale di Dio; si è pensato che la psicologia potesse essere la panacea di “tutti” i mali per “tutti” i candidati al sacerdozio, imponendo, talora senza discernimento, indiscriminatamente a tutti, di farvi ricorso, senza la doverosa distinzione tra le cosiddette nevrosi fisiologiche – che tutti abbiamo – e quelle patologiche, che domandano un intervento di carattere clinico; si è creduto di poter far internalizzare i valori evangelici, incluso il celibato, non grazie all’incontro personale, affascinante e vivificante con Cristo – come è ovvio –, ma attraverso vari processi di destrutturazione della personalità e presunte, mal riuscite sue ristrutturazioni, inclusive dei supposti menzionati valori…
Le cause di dispensa dagli oneri derivanti dalla sacra Ordinazione, incluso il celibato, documentano questi tragici errori nell’abuso o nell’uso errato delle scienze umane, nella formazione al sacerdozio ministeriale. Se usate con i dovuti criteri e laddove si mostrasse utile, allora tali scienze umane risulterebbero provvide.
Il dono del carisma celibatario fiorisce, è progressivamente accolto e matura, fino a definire la stessa personalità psicologica del sacerdote, unicamente nel rapporto intimo, prolungato, reale e interpersonale con Gesù di Nazaret, Signore e Cristo! Solo l’intimità orante con il Signore, la progressiva immedesimazione con la Sua Vita, con le Sue parole, con i Suoi pensieri – “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fil 2,5) – permette di accogliere e di vivere il celibato, non come un elemento estraneo alla propria persona, da sopportare faticosamente, ma come la ridefinizione di sé, che nasce dall’incontro con Cristo e dal cambiamento e dalla vita nuova, che tale incontro genera.
Il celibato è, per eccellenza, quel nuovo orizzonte, che forse mai prima avevamo immaginato, e che l’incontro con Cristo ha radicalmente disvelato.

Tra l’altro – tutti ne facciamo esperienza – alla vocazione sacerdotale corrisponde, misteriosamente ma realmente, una straordinaria fioritura dell’umano. Che cosa sarebbe, infatti, la nostra umanità senza Cristo, senza la vocazione che Egli ci ha donato? Insieme alla chiamata al sacerdozio ministeriale, il Signore permette una fioritura della nostra umanità, una sua purificazione, un’inattesa e straordinaria dilatazione, perché essa diventi progressivamente capace di accogliere, definitivamente, un tale straordinario carisma e di viverlo come suprema testimonianza a Cristo, nella quotidianità dell’esistenza ministeriale.
Il mondo – anche nel tempo drammatico degli scandali, vergognosi e contro i quali è necessario agire con tutte le nostre forze, sia dal punto di vista della formazione, che sotto il profilo della penitenza e preghiera riparatoria, come pure e seriamente sotto il profilo disciplinare e penale – non attacca il nostro agire “sociale”, né le nostre opere caritative; esso non può tollerare la testimonianza della castità per il Regno dei Cieli e la conseguente azione educativa, che da essa scaturisce.
Se sempre ricca di fascino è, poi, la vita monastica, quando è veramente tale, non dimentichiamo mai, cari amici, che, paradossalmente, la testimonianza di un sacerdote secolare, cioè immerso nel suo tempo e nella sua società, per certi aspetti può essere ancora più dirompente. Noi non siamo monaci separati dal mondo, ai quali guardare con occhio sentimentalista, siamo uomini pienamente inseriti nel nostro tempo, “nel” mondo ma non “del” mondo, e testimoniamo, con la nostra scelta celibataria, che Dio c’è, che chiama a Sé gli uomini, che può dare significato all’intera esistenza e che vale la pena spendere, per Lui, la nostra vita!
L’intimità divina, condizione imprescindibile della formazione celibataria, si coltiva, innanzitutto – dicevo – nella orazione, nella quale dobbiamo essere totalmente immersi; “Conversatio nostra in Coelis est”; diversamente in terra ci si agita ma si realizza nulla! Formarsi a una radicale fedeltà alla santa Messa quotidiana, all’Ufficio divino, all’adorazione eucaristica, all’orazione mentale anch’essa quotidiana, alla preghiera del santo Rosario, che quotidianamente affida a Maria il proprio sacerdozio, è il “quoziente minimo” per poter anche solo sperare di vivere il celibato. Un sacerdote che non preghi, che non avverta l’urgenza di celebrare quotidianamente l’Eucaristia, superando le infondate teorie del “digiuno eucaristico” e gli scandalosi “giorni liberi”, nei quali pare di essere liberi anche dal rapporto con Cristo – che cosa triste per un sacerdote liberarsi da Cristo! –, ben difficilmente potrà vivere serenamente ed efficacemente il proprio celibato. Nel tempo del seminario è necessario formarsi a queste dimensioni indispensabili della vita presbiterale, domandando alla grazia soprannaturale che esse non siano soltanto delle buone e virtuose abitudini, ma divengano vera e propria struttura psico-antropologico-spirituale, nella quale la stessa identità personale è definita. Il sacerdote non solo celebra la santa Messa, ma in essa si identifica, poiché, progressivamente ma realmente, la santa Messa diviene la sua vita, ed egli “è” la santa Messa che celebra! In questa dimensione chiaramente soprannaturale, alla quale progressivamente ci si educa e si viene educati, ogni pensiero, ogni parola e, ovviamente, ogni atto in distonia con la grandezza della propria vocazione, devono essere evitati, certamente, per la loro valenza peccaminosa, ma anche – e direi soprattutto – per l’infelicità che generano nella loro totale inadeguatezza alla verità, sia del sacerdozio, sia delle azioni ministeriali che il sacerdote compie.
Le scienze umane possono costituire un valido aiuto per conoscere, almeno a grandi linee, le fondamentali dinamiche della psiche e dell’affettività, ma il più bravo degli psicologi può dire quali problemi ci sono, può prestare un aiuto veramente prezioso, ma certamente non può risolverli. Solo Cristo salva l’uomo nella sua interezza!
Due elementi mi paiono ancora essenziali nell’educazione del proprio presente affettivo: il rapporto con il mondo e il ruolo della formazione intellettuale.
Nel rapporto col mondo – già ampiamente descritto nel primo punto della presente relazione –, appare con preoccupante evidenza come, troppo spesso, nella formazione seminaristica si verifichino impressionanti ingenuità. Se negli anni Cinquanta-Sessanta era, per certi versi e per taluni, necessario aprirsi al mondo o, per lo meno, mostrare nuovamente, in modo comprensibile al mondo, tutta la bellezza del cristianesimo, oggi si è immersi nel rischio diametralmente opposto: quello di essere totalmente immersi nel mondo.
Ritengo che, nelle attuali circostanze, sia semplicemente impossibile percorrere un serio e impegnato cammino di formazione alla perfetta castità per il Regno dei Cieli, se non si è capaci di vivere quel taglio radicale con il mondo, che è, soprattutto e innanzitutto, un taglio con la sua mentalità. Del resto solo così si può servire la società. Può un seminarista avere le stesse identiche abitudini di quando era un giovane animatore della parrocchia o un giovane universitario nel mondo? Può, in quelle fughe che a volte diventano i tirocini pastorali, frequentare gli stessi luoghi, con gli stessi atteggiamenti?
Non si tratta, qui, carissimi amici, di irrigidirsi in atteggiamenti bacchettoni o incapaci di autentiche relazioni interpersonali; si tratta semplicemente di fuggire le occasioni prossime di peccato e di non esporre sistematicamente e reiteratamente la propria psiche, la propria emotività e il proprio corpo a situazioni che, inevitabilmente, rendono ancora più difficile la perfetta continenza per il Regno dei Cieli.
L’ultimo aspetto riguarda l’importanza della formazione teologica, anche nel cammino di educazione al celibato sacerdotale. Una sana cristologia, fedele al dato scritturistico, alla Tradizione e al Magistero ininterrotto, deve porre in luce la straordinarietà dell’umanità di Gesù Cristo e la bellezza dell’essere configurati a Lui, e quindi anche alla Sua umanità perfettamente casta, con l’Ordinazione sacerdotale. Una ecclesiologia che non voglia tradire la verità, non può ridurre i sacerdoti a “funzionari di Dio”, ma deve riconoscerne, all’interno di un contesto tutto soprannaturale, il misterioso e necessario compito distinto, essenzialmente e non soltanto per grado, da quello battesimale e in relazione alla promozione di questo.
Sono profondamente persuaso che una certa fragilità teologica, diffusa in non pochi ambiti accademici, abbia ben gravi responsabilità, anche nella tenuta delle Vocazioni sacerdotali, le quali, senza adeguate ragioni – come è logico –, non reggono l’urto violento e persistente del mondo.
E concludo questo approfondimento sull’educazione del presente vissuto affettivo, sottolineando ancora una volta il primato assoluto e incontrovertibile della grazia nella formazione al celibato. Guardiamo alla Misericordia, compresa, celebrata nel sacramento della Riconciliazione e continuamente invocata. Essa è la prima “medicina” per guarire dai limiti della concupiscenza e vivere, in modo progressivamente sempre più perfetto, quella continenza per il Regno dei Cieli, così strettamente legata al ministero presbiterale, tanto da indurre la chiesa a scegliere i suoi sacerdoti solo tra coloro che ne hanno ricevuto il carisma. Ciò che appare impossibile alle sole forze umane, è reso sperimentalmente possibile dalla grazia, alla quale continuamente senza limiti, è necessario affidarsi.
L’attesa orante del dono del sacerdozio
La comunità del seminario ha il suo modello supremo nel Cenacolo di Gerusalemme, nel quale gli Apostoli, fatta l’esperienza di Gesù Risorto e stretti intorno a Lui, vivono in attesa orante del dono dello Spirito, uniti alla Beata Vergine Maria. Se il momento dell’Ordinazione sacerdotale è l’effusione dello Spirito, che rende capaci di parlare lingue nuove, di annunciare il Regno efficacemente, di guarire con la potestà sacramentale e di compiere ogni altro atto di Ministero autentico, allora il Seminario vive, si nutre, cammina e cresce come vero e proprio Cenacolo. Come, nel Cenacolo, tutti gli Apostoli hanno fatto l’esperienza di un rapporto personale con Gesù e Lo hanno visto Risorto, così ciascun seminario deve essere una comunità di uomini che hanno incontrato Gesù Cristo e la cui vita è stata cambiata da quell’incontro; uomini che hanno fatto l’esperienza del Risorto, che vivono la chiesa come il popolo eletto da Dio e come il Suo vero Corpo, che oggi cammina nel tempo e nella storia.
Quel gigante di santità e anche di sapienza umana che è San Benedetto, nella sua Regola, invita, senza dubbio alcuno, ad allontanare dal monastero chiunque vi entrasse per ragioni diverse dalla ricerca di Dio. Credo che la stessa chiarezza e fermezza debba essere utilizzata nel discernimento sull’ingresso e sulla permanenza nella comunità del Cenacolo che è il seminario.
Tutti i limiti possono essere abbracciati, sopportati e supportati dalla comunità del seminario, che è, per sua natura, una comunità formativa e di transizione – anche gli Apostoli non sono rimasti tutta la vita nel Cenacolo –, ma la mancanza di retta intenzione e il permanere in seminario per ragioni differenti da quella di cercare e servire Dio e la sua chiesa, non può essere tollerata, perché impedisce ogni autentico cammino di conversione e reale formazione. La comunità del Cenacolo, e quindi il seminario, è una comunità orante. Il sacerdote è e deve essere un uomo orante! Una comunità seminaristica che non avesse al proprio centro la dimensione della preghiera, ben difficilmente riuscirebbe ad assolvere al proprio compito.
La preghiera non è un’interruzione delle cose da fare, ma, al contrario, si interrompe talvolta la preghiera per fare delle cose, e anche nelle altre opere è necessario custodire uno spirito orante. La riforma del clero, da più parti auspicata, non potrà che essere frutto della radicale riscoperta della dimensione soprannaturale del Ministero e del conseguente primato del rapporto orante con Dio. Primato che, nella stessa preghiera ufficiale del seminario, deve trasparire chiaramente: per la fedeltà alla Liturgia, così come la chiesa determina che venga celebrata, per la cura di ogni gesto, atteggiamento. In ciò non ci può essere nulla di formalistico. La giusta forma, inoltre, aiuta la custodia e la veicolazione della sostanza.
Accanto alla preghiera della chiesa, costituita non solo dalla santa Messa e dall’Ufficio divino, ma anche dall’Adorazione eucaristica, dal santo Rosario e da ogni pio esercizio, che sostenga e alimenti la fede, la comunità del seminario è chiamata a educare i futuri sacerdoti anche alla preghiera personale, al silenzio, alla meditazione e agli spazi di reale intimità divina.
Trattandosi di una “educazione”, essa non può essere lasciata unicamente alla responsabilità o alla creatività personali, ma devono essere proposti momenti di silenzio e di Adorazione eucaristica, che, pur conservando il carattere della libertà, in ordine all’adesione, sono sistematicamente inseriti nel cammino quotidiano o ebdomadario. La mia personale esperienza è che l’inserimento di un’ora di adorazione eucaristica quotidiana nel percorso formativo, ha straordinari effetti sul cammino dei seminaristi, crea una consuetudine con il Signore che, nel tempo del ministero, sostiene e aiuta ad avvertire la nostalgia dello “stare con Gesù”, sospingendo la libertà a ricercare costantemente tali momenti.
L’attesa orante del dono del sacerdozio, poi, orienta l’intera preghiera. Non si prega indipendentemente dalla vocazione ricevuta, ma, partendo da essa, ci si pone davanti al signore quasi pregustando le dolcezze del ministero. Pregustando la celebrazione della santa Messa, l’amministrazione della divina Misericordia, pregustando quell’intimità divina che, con l’ordinazione presbiterale, diviene ontologica e alla quale siete chiamati a prepararvi interiormente. Dal punto di vista umano nulla s’improvvisa e dal punto di vista divino nulla si anticipa. In tal senso devono essere superati quei timori, anch’essi datati anni Settanta, di eccessiva “prossimità” alle cose di Dio. E’ necessario svegliarsi, la storia è andata avanti! Se oggi c’è un autentico problema, da tenere sempre ben presente, è quello della fragilità e dell’identità sacerdotale che, anche a causa di non poche fluttuazioni teologiche, non è sufficientemente delineata e, soprattutto, solo raramente coincide con la stessa identità psicologica del candidato.
San Giovanni Maria Vianney, modello dei sacerdoti, che abbiamo imparato a conoscere meglio anche grazie all’Anno Sacerdotale, è esemplare proprio per la totale immedesimazione con il proprio ministero. Condizione – questa – dell’efficacia apostolica, ma anche della pace interiore, della serenità e, soprattutto, del senso di piena realizzazione del sacerdote, al servizio di Dio, della chiesa e degli uomini.
Conclusioni
Al termine di questo lungo percorso, possiamo trarre alcune conclusioni, che, sebbene non definitive, possono orientare il percorso della formazione affettiva nel tempo del seminario. Per semplicità e chiarezza, le delineerò a mo’ di elenco.
1. La memoria tematizzata del proprio concreto vissuto psicoaffettivo e sessuale, costituisce un elemento fondamentale di un cammino, che voglia realmente essere fruttuoso, soprattutto nella coscienza vigilante e costruttivamente critica della contemporanea, problematica situazione culturale, nella quale lo spostamento dall’oggettività della conoscenza al più arbitrario soggettivismo, con il relativismo che ne deriva, è all’ordine del giorno.
2. Nella formazione affettiva, è necessario riconoscere il primato assoluto della Grazia, senza la quale non è nemmeno immaginabile una vita realmente casta. Tale primato si riconosce e si vive nel primato della dimensione spirituale, fatta di preghiera e di vita sacramentale, e nella progressiva delineazione, anche psicologica, della personalità presbiterale.
3. E’ necessario che la comunità del seminario trovi il giusto equilibrio tra l’anelito missionario, che non deve trasformarla in una comunità centrifuga, e l’essere realmente, come il Cenacolo di Gerusalemme, stretta intorno a Gesù, con Maria, in attesa del dono dello Spirito per la missione, ma mai chiusa su se stessa.
4. L’identificazione, fin dal tempo del seminario, con il Ministero che, a suo tempo, verrà affidato, favorisce il giusto orientamento della formazione affettiva. A differenza delle epoche precedenti, oggi il seminarista è la figura giuridicamente più fragile dell’intero corpo ecclesiale, poiché non è chierico fino al diaconato – per una giusta salvaguardia della sua libertà –, pur vivendo tutti i doveri di disciplina e obbedienza propri dello stato clericale. Tale debolezza giuridica non deve determinare una situazione d’incertezza, come se l’essere seminaristi non coincidesse già, in maniera prospettica, con un determinato stato di vita, impegnato, per lo meno, a rendere testimonianza a Cristo con l’impegno di formazione e di offerta della propria vita, nella perfetta continenza per il Regno dei Cieli.
5. La formazione teologica, ha un ruolo fondamentale anche nella formazione affettiva. Deve evitare di perdersi tra le opinioni dei vari teologi, restando fedele a quanto chiesto da Sapientia christiana, nella quale si indica lo studio delle Sacre Scritture, della Tradizione bimillenaria della chiesa e dell’ininterrotto Magistero, come ossatura irrinunciabile del ciclo istituzionale. Evitare il relativismo teologico e proporre la dottrina certa, contribuisce in modo determinante alla configurazione di una stabile personalità presbiterale e, con essa, a una motivata formazione affettiva.
Anche la corretta ermeneutica dei testi del Concilio Vaticano II, secondo quella riforma nella continuità, più volte indicata sia dal Beato Giovanni Paolo II, sia dal Santo Padre Benedetto XVI, è indispensabile fattore per una crescita ecclesiale serena e autentica, capace di superare, eliminandoli sul nascere, i motivi delle contrapposizioni (tutte mondane e politiche) tra “innovatori” e “conservatori”, che tanta infezione hanno portato e portano al corpo ecclesiale.
6. Il seminarista di oggi sarà il sacerdote di domani! Se è vero che, dal giorno dell’Ordinazione sacerdotale in poi, si impara a essere e a vivere da sacerdoti, è altrettanto vero che, soprattutto dal punto di vista della formazione affettiva, nulla può essere improvvisato. E’ più prudente, e moralmente esigibile da se stessi, attendere qualche tempo in più per domandare l’Ordinazione presbiterale, piuttosto che attentare a essa, senza aver risolto questioni fondamentali della propria affettività. In questo campo, come in quello dottrinale, occorre provata maturazione e non semplicemente assenza di impedimenti. Affido alla Beata Vergine Maria, Madre tenerissima dei sacerdoti, queste riflessioni, nella sicura speranza che, guardando a Lei, esempio sublime di affettività riconciliata, capace di autentico, profondo e fecondo amore, nella perfetta castità, possiamo camminare nella via splendida del Sacerdozio, che ci fa, a titolo del tutto speciale, suoi figli.

(Card. Mauro Piacenza, 10 maggio 2011)