Il libro
“L'anima e il suo destino” (Cortina, 2007) ha purtroppo imposto all'attenzione
del pubblico Vito Mancuso come «teologo cattolico».
Dico
«purtroppo» perché il caso è emblematico di quanto la cultura di oggi
disconosca (volutamente o per mera ignoranza) lo statuto epistemologico (cioè
la natura e i compiti) della teologia cristiana. L'autore è teologo nel senso
che insegna Teologia moderna e contemporanea alla Facoltà di Filosofia
dell'Università San Raffaele (Milano), ma l'effettivo contenuto e l'impianto
metodologico del suo libro sono in netta contraddizione con l'idea stessa di
teologia.
Il suo
saggio vorrebbe essere un «moderno» trattato di escatologia, e infatti i nove
capitoli che compongono il libro trattano dell'esistenza dell'anima, della sua
origine e della sua immortalità, della speranza di salvezza, della morte e del
giudizio, dell'aldilà (purgatorio, paradiso, inferno) e infine della «parusia»
(la seconda venuta di Cristo alla fine della storia) e del giudizio universale.
Gli
argomenti di per sé sono certamente suscettibili di una trattazione teologica,
ma l'autore li affronta in un modo che non è quello della teologia, come non è
quello della filosofia né di alcuna altra scienza. Da un punto di vista
formale, Mancuso non rispetta le più elementari esigenze della logica in
generale e in particolare dell'epistemologia; da un punto di vista materiale,
poi, dimostra una superficialità scandalosa nel trattare temi ai quali un
teologo dovrebbe accostarsi con rispetto, con attenzione e soprattutto con le
dovute competenze storiografiche, esegetiche e critiche. È facile pensare di
poter «ridefinire» o «riproporre in termini nuovi" le verità rivelate che
sono oggetto della dottrina della Chiesa: occorre però intenderle nel loro vero
senso e accettarle come verità rivelate da Dio, sapendo che hanno come premesse
le verità che l'uomo può raggiungere con le sue forze naturali.
La
questione della verità è la questione essenziale, non solo in filosofia ma
anche e soprattutto in teologia, e chi pretende di fare teologia deve scoprire
le proprie carte, facendo vedere da quali presupposti di verità parte,
altrimenti le sue argomentazioni sono dei veri e propri sofismi, utili non a
fare scienza, ma a imporre in altri modi la ben nota «dittatura del
relativismo».
Non si
può ignorare, ora che siamo già nel terzo millennio del cristianesimo, che la
teologia cristiana è la riflessione scientifica di un credente sulla propria
fede, assunta non come ipotesi da «verificare» ma proprio come verità rivelata
da Dio, nei termini precisi con i quali essa è proposta dalla Chiesa, che ha
l'autorità e il dovere di custodire e interpretare la Rivelazione. Quando il
discorso su Dio e su temi religiosi cristiani non è svolto a partire dalla fede
come verità creduta, non si fa più teologia cristiana ma filosofia della
religione cristiana o semplicemente filosofia di Dio, cioè «teologia» nel senso
aristotelico, come culmine della metafisica. È lo stesso Mancuso a squalificare
il suo lavoro fin dall'inizio quando spiega che esso mira alla «costruzione di
una "teologia laica", nel senso di rigoroso discorso su Dio, tale da
poter sussistere di fronte alla scienza e alla filosofia». Che significato può
avere l'aggettivo «laico» applicato alla teologia? Se per «laico» si intende un
fedele cristiano che non è membro della gerarchia, l'aggettivo non aggiunge nulla
allo statuto epistemologico della teologia, che oggi è coltivata con frutto da
tanti laici, uomini e donne. Se invece per La buona filosofia ha saputo
dimostrare, fin dall'antichità (Platone), la natura spirituale, cioè
immateriale, dell'anima umana, in quanto capace di atti (le intuizioni
intellettive e le volizioni libere) che trascendono i limiti della materialità.
La
Chiesa ha poi fatto proprie queste acquisizioni della filosofia, non in quanto
legate a una particolare epoca storica o a una particolare scuola filosofica, e
nemmeno in quanto sostenute dalle indagini delle scienze empiriche, ma solo
perché la loro evidenza appartiene alla retta ragione, cioè al senso comune.
Ignorando
sia il senso comune e la filosofia, sia il significato del dogma, Mancuso parla
di «materia» riferendosi alla corrispondente nozione einsteiniana, senza
accorgersi che quest'ultima è in funzione della teoria fisico-matematica e
nulla ha a che vedere con la nozione metafisica di «materia», incomprensibile
senza quella di «forma». Già in Aristotele, infatti, la materia è il sostrato
della forma, è ciò che ha la capacità di ricevere la forma e quest'ultima è ciò
che configura e organizza la materia, è il principio di organizzazione e di
configurazione della materia intrinseco alla materia stessa.
Ma,
anche a proposito di "forma", egli ignora che essa costituisce l'uomo
singolo come «sostanza», tanto che arriva invece a scrivere che la dottrina
cattolica concepisce l'anima come «sostanza»; in realtà, per la dottrina
cattolica, come per la metafisica classica, sostanza è la persona, nell'unità
di corpo (materia) e anima (forma).
D'altronde,
Mancuso aveva dichiarato nelle premesse la sua incondizionata adesione
all'ideologia dell'evoluzionismo cosmico (Teilhard de Chardin), che è quanto di
più lontano dalla vera filosofia e - proprio per questo - quanto di più
incompatibile con la verità rivelata, sia nei capisaldi teoretici che nelle
conseguenze morali, specialmente bioetiche. Basti pensare che, da un principio
scientificamente errato come quello che Mancuso enuncia dicendo che «non c'è
più (nel caso di una vita colpita da una grave malattia o da senilità acuta)
l'anima razionale-spirituale» (p. 107), deriva niente meno che la legittimità
dell'eutanasia indiscriminata di malati e di anziani; Mancuso non capisce che
la facoltà di intendere e di volere (ciò che ci fa vedere che c'è l'anima
immateriale) è permanente e costituisce la persona umana con i suoi
inalienabili diritti, anche quando il suo esercizio attuale è accidentalmente
impedito da fattori materiali di vario genere. Anche in questo caso, la
mancanza di categorie metafisiche (che sono le uniche compatibili con il senso
comune e con la Rivelazione) non consente né di intendere né di rispettare la
verità sull'anima, che è innanzitutto verità dell'uomo che si sa creato da Dio
«a sua immagine e somiglianza», e poi verità di Cristo che «rivela pienamente
l'uomo all'uomo».
(Fonte: Antonio Livi,
Il Timone, n. 75)