venerdì 28 dicembre 2018

La CEI: L'unico principio non negoziabile è cacciare Salvini


Intervenire sull'Ires e non sull'utero in affitto - come ha fatto il presidente Cei Bassetti - mostra chiaramente è in atto un cambiamento nella graduatoria dei principi non negoziabili: ai primi posti vengono messi temi privi di carattere assoluto e moralmente vincolante in quanto possono essere affrontati in vario modo, dato il loro carattere contingente e relativo. Ma ormai per i vescovi il principio non negoziabile cardine è diventato cacciare Salvini. 

Alla notizia dell’intervista di ieri su Repubblica del cardinale Bassetti, presidente dei vescovi italiani, mi è stornato in mente quando su quella sedia sedeva il cardinale Camillo Ruini. Allora egli veniva accusato un giorno sì e l’altro pure di fare politica, mentre avrebbe dovuto occuparsi di religione e fede. Quando compariva in pubblico insieme a Romano Prodi, le malelingue dicevano che il politico dalle fini strategie era Ruini e l’ecclesiastico dal passo felpato era Prodi. Quando poi, nel 2004, Ruini consigliò gli italiani di non andare alle urne per il referendum sulla legge 40, l’accusa di fare politica aumentò vertiginosamente. Fu allora che l’ecclesiastico dal passo felpato rimproverò il politico in porpora, rivendicando per sé di essere un “cattolico adulto”: la politica non aveva bisogno di vescovi che facessero politica.
È curioso però che dopo l’era Ruini, e specialmente nell’era di papa Francesco, i vescovi italiani si siano messi a fare politica diretta, e nessuno dice niente per il fatto che la fanno da una parte sola, dalla parte di coloro che contestavano il cardinale Ruini perché faceva troppa politica. Strane vicende della politica (ecclesiastica) italiana. Durante la segreteria CEI di Mons. Galantino i vertici episcopali andavano direttamente a cena con la Cirinnà e la Boschi, per altro non per cercare di evitare l’approvazione della legge sul riconoscimento delle unioni civili anche tra persone omosessuali, ma per concordarle insieme.  In cambio di qualcosa che non si sa. In premio il vescovo Galantino è stato promosso nientemeno che all’APSA, ove si gestisce il patrimonio della Santa Sede, di cui è diventato Presidente.
Ora il presidente della CEI se la prende con un provvedimento della finanziaria, lancia un guanto di sfida a Salvini e si mette a capo di un nuovo partito politico. Non entro qui nel merito della nuova tassazione che grava sugli enti non-profit. La questione è complessa, voci non di parte ne avevano già messo in evidenza l’inopportunità e lo stesso governo aveva fatto ammenda, promettendo di rivedere il punto a gennaio. Dico solo che il tema è strettamente politico e di amministrazione governativa e su questi temi sarebbe meglio che i vescovi non intervenissero, a meno che non vi fossero coinvolti principi morali non negoziabili.
Proprio su questo tema, in altre occasioni questo giornale aveva fatto notare che è in atto un cambiamento nella graduatoria dei principi non negoziabili. Ai primi posti vengono messi temi privi di carattere assoluto e moralmente vincolante in quanto possono essere affrontati in vario modo, dato il loro carattere contingente e relativo. Agli ultimi posti vengono collocati invece i temi che pongono le coscienze davanti a principi morali che non ammettono eccezioni. Anche nel caso dell’intervento del cardinale Bassetti è così. In questi stessi giorni, come documentato , il gruppo di lavoro incaricato dalla Conferenza Stato-Regioni di verificare l’applicazione della legge 40/2004 sulla fecondazione artificiale spinge perché lo Stato incentivi la donazione di gameti e, quindi, l’utero in affitto.
Al posto del cardinale Bassetti io sarei intervenuto su questo tema che, dal punto di vista antropologico (e teologico) è dirompente, assolutamente disumano, contrario ad alcuni principi fondamentali della legge naturale e divina e causa certa di enormi e durature ingiustizie. La tassazione degli enti no-profit è invece argomento politico, con molti aspetti tecnici e di valutazione empirica, sul quale ci si può legittimamente atteggiare in modo diverso pur partendo dagli stessi principi. Anche chi è contrario a questa riforma del governo vede comunque l’enorme disparità tra i due piatti della bilancia e si chiede perché i vescovi intervengano per quello che pesa di meno e tacciano sempre per quello che pesa di più. 
L’intervento di Bassetti è stato espresso poi con un linguaggio tipicamente politico: “Se la prenda con noi vescovoni ma lasci stare il patrimonio di umanità del popolo italiano”. Sembra una frase efficace da comizio. Il primo e forse unico (in questo momento) principio non negoziabile sembra essere la cacciata di Salvini dal governo. “Se la prenda con noi vescovoni” tocca retoricamente il tasto del vittimismo e la “difesa del patrimonio di umanità del popolo italiano” quello della compiacenza, due ingredienti fondamentali del linguaggio elettorale: noi difensori dei valori come vittime e loro demolitori dei valori come carnefici. Anche toccare un tema che fa leva sul sentimento, come è appunto il no-profit, e non uno fastidioso come l’utero in affitto, rivela una gestione politica dell’intervista: il politico dice sempre le cose che la gente vuol sentir dire e che ampiamente già condivide. 
Ci si chiede però se i vescovi debbano mettersi a polemizzare con un uomo politico in questi termini. Termini che, tra l’altro, invitano l’avversario a fare lo stesso o anche di più, e siccome di motivi per guerreggiare ce ne sono molti e la Chiesa in questo momento ha diversi ambiti scoperti, sembra proprio che Bassetti abbia inaugurato la campagna elettorale per le europee 2019. Per quale partito ancora non si sa. Certamente non per la Chiesa la quale non è un partito (o no?). 

(Fonte: Stefano Fontana, LNBQ, Editoriale, 28 dicembre 2018)
http://www.lanuovabq.it/it/lunico-principio-non-negoziabile-e-cacciare-salvini




domenica 25 novembre 2018

Quella partita sulla dottrina, dietro lo scontro sul Padre Nostro


In ballo c'è l'unità della Chiesa minacciata dalla liturgia "liquida" che piace a Bergoglio

C'è molto di più che la diversa interpretazione di una frase dietro la dura polemica che si è scatenata da quando lo scorso 15 novembre la Conferenza Episcopale Italiana (Cei) ha approvato la modifica del Padre Nostro sul Messale.
Come ormai tutti sanno il Non ci indurre in tentazione verrà sostituito dal Non abbandonarci alla tentazione, che i vescovi italiani ritengono più conforme al significato originale in greco. Opinione non condivisa da molti teologi ma anche da una parte consistente dei cattolici italiani, per i quali detto per inciso non è che la nuova formulazione risulti più immediata nel significato di quella tradizionale.
A rendere incandescente la materia ci sono motivi che raccontano delle profonde inquietudini e divisioni che segnano l'attuale momento della Chiesa cattolica, non solo italiana. Un primo motivo riguarda proprio la confusione che oggi regna nella Chiesa riguardo ai contenuti della fede e della morale, come in modo esemplare dimostra lo scontro non ancora risolto sulla comunione ai divorziati risposati seguito all'esortazione apostolica Amoris Laetitia (19 marzo 2016). Non c'è dubbio che negli ultimi anni si susseguono «novità» che vanno nella direzione di un cedimento alla mentalità del mondo: dalla discutibile rivalutazione di Martin Lutero alla condiscendenza verso la cultura omosessualista, dal primato della prassi sull'ortodossia alle aperture su donne diacono e preti sposati, è tutta una corsa al cambiamento che sembra condannare ciò che è stato vero in duemila anni di Chiesa. Non a caso tanti cantori del nuovo corso amano parlare della «Chiesa di Francesco» o della «nuova Chiesa», per indicare una rottura con il passato considerato ormai incapace di dire qualcosa che il mondo sia in grado di ascoltare.
Ammesso e non concesso che fosse giusto toccare l'unica preghiera insegnata da Gesù e all'interno della liturgia che è il cuore della vita della comunità cristiana, era proprio così necessario aggiungere ora un altro fattore di instabilità nel popolo di Dio? E come si concilia questa puntigliosità quando ogni domenica ci sono tanti preti che improvvisano cambiamenti della liturgia senza che nessuna autorità ecclesiastica intervenga?
In tutta questa vicenda è stato ignorato il Catechismo della Chiesa cattolica, che offre già la spiegazione del versetto «non ci indurre in tentazione» (nn.2846-2849); spiegazione che non collima con la nuova traduzione. Nel giro di pochi mesi è perciò la seconda volta che viene «toccato» il Catechismo, dopo il cambiamento sulla pena di morte che Papa Francesco ha introdotto nell'agosto scorso. Un segnale che la dottrina della Chiesa può cambiare nel tempo o anche che sia possibile ignorarla, rendendo ancora più «liquida» la consistenza attuale della Chiesa.
Ma c'è anche un motivo più profondo, ed è la battaglia delle traduzioni che sta dividendo i vertici della Chiesa cattolica. Il 9 settembre 2017 papa Francesco pubblicava il Motu Proprio Magnum Principium in cui introduceva dei cambiamenti nella procedura di approvazione da parte della Santa Sede di traduzioni e adattamenti dal latino dei testi liturgici preparati dalle singole Conferenze episcopali. Fatto rilevante è che la riforma era stata studiata da un gruppo ristretto di esperti, radunati alla Congregazione per il Culto divino ma tenendo all'oscuro il prefetto della stessa Congregazione, il cardinale guineano Robert Sarah, ritenuto troppo vicino alle posizioni di Benedetto XVI. Peraltro lo stesso Benedetto XVI pochi mesi prima, scrivendo la post-fazione al libro di Sarah, La forza del silenzio, aveva affermato che con lui «la liturgia è in buone mani».
Sebbene il testo si prestasse a diverse interpretazioni, i suoi estensori non facevano mistero che il vero significato dell'operazione era dare una maggiore libertà alle Conferenze episcopali in fatto di testi liturgici. Il cardinale Sarah non ha però tardato a reagire e in una lunga lettera inviata al Papa e pubblicata dal sito La Nuova Bussola Quotidiana il successivo 12 ottobre, si premurava di interpretare in modo ben più restrittivo il documento del Papa, con l'autorità che gli viene dal suo ruolo. Sarah temeva a ragione una deriva che portasse a una sorta di «federalismo liturgico» che mette in discussione la stessa unità della Chiesa cattolica. Ma la sortita del cardinale non era piaciuta a papa Francesco che infatti il successivo 22 ottobre con un'altra lettera smentiva il prefetto della Congregazione per il Culto divino e confermava l'intenzione di una devolution liturgica. Potrebbe sembrare una discussione accademica tra esperti, essa tocca invece il cuore della Chiesa cattolica, come ha chiarito anche il cardinale Gerhard Müller, ex prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, anche lui silurato da papa Francesco. In una intervista rilasciata a una rivista francese poco dopo lo scontro sulla Magnum Principium, Müller faceva sue le preoccupazioni del cardinale Sarah affermando: «La liturgia unisce, non deve dividere e fare scaturire contraddizioni. L'autorità finale in caso di dubbi non può risiedere nelle Conferenze episcopali perché questo vorrebbe distruggere l'unità della Chiesa cattolica e la comprensione della fede e della comunione e della preghiera». La vicenda del Padre nostro dunque, è solo un episodio di una battaglia più grande su cui si gioca l'unità della Chiesa, e si può star certi che non finirà con la pubblicazione del nuovo messale.

(Fonte: Riccardo Cascioli, Il Giornale, 25 novembre 2018)
http://www.ilgiornale.it/news/cronache/partita-sulla-dottrina-dietro-scontro-sul-padre-nostro-1606873.html




giovedì 22 novembre 2018

Cambiano il “Padre nostro” e il “Gloria”: alcune nostre considerazioni


In questi giorni si sta parlando delle modifiche apportate dalla CEI in merito alla preghiera del Padre Nostro e del Gloria.
Non siamo intervenuti finora, perché tutto sommato riteniamo che la questione non sia decisiva. Ovviamente se ne può discutere l’opportunità, visto che stiamo parlando di modifiche che toccano preghiere dalla vita secolare.
Visto però che se ne continua a parlare. Ci preme fare qualche considerazione. Come sempre breve e schematica, com’è nello stile che ci siamo scelti.
Iniziamo dal Padre nostro.
Va detto che l’espressione “…non ci indurre in tentazione” (è da decenni che se ne parla) può lasciare intendere una cosa che non è teologicamente esatta, ovvero che Dio possa direttamente (attenzione a questo avverbio) essere causa della tentazione. Ovviamente, ciò non può essere perché l’autore della tentazione è il Maligno, e non certo Dio che è costitutivamente buono.
Pertanto, la modifica di questa espressione poteva rientrare nelle possibilità (anche se -a nostro parere- se se ne doveva valutare l’opportunità) di rendere più chiaro il concetto in merito al rapporto tra l’uomo, la tentazione e l’azione provvidenziale di Dio. 
La questione però è un’altra. Ed è appunto di opportunità, che non solo è legata al consolidamento della recita della preghiera, ma anche ad una mentalità oggi diffusa. L’espressione che è stata scelta “non abbandonarci alla tentazione” potrebbe significare due cose che sono ugualmente inaccettabili teologicamente.
La prima è quella di credere che Dio possa abbandonare nella dinamica della tentazione, una volta invocato. Cosa che non è. Quando si cede alla tentazione, la responsabilità è sempre dell’uomo. L’uomo può abbandonare Dio, non Dio l’uomo. Tant’è che sant’Alfonso giustamente diceva: “Chi prega si salva, chi non prega non si salva”, per far capire -appunto- che se s’invoca Dio, Questi non può non donare la grazia necessaria e sufficiente per superare ogni tentazione.
La seconda è che Dio non possa provvidenzialmente servirsi della tentazione. Ecco perché bisogna stare attenti all’avverbio “direttamente”. Dio non può direttamente tentare, ma indirettamente, permettendola, si serve della tentazione per provarci. Il diavolo (ecco perché Dante ne descrive anche l’aspetto “comico”) diviene, nella prospettiva della Provvidenza, una sorta di “strumento” di Dio per la santificazione dell’uomo. Servire Dio quando non ci sono tentazioni, è facile. Servirlo, nelle tentazioni, è invece occasione di grande merito. Questo non significa che bisogna cercarsi le tentazioni (sarebbe un tentare Dio), ma se arrivano…

Veniamo al Gloria.
Qui la modifica -a nostro parere- è stata ancora più inopportuna. Infatti, la frase “uomini di buona volontà” è divenuta “uomini che Dio ama“. Una modifica che -al di là della correzione della traduzione- induce a sminuire la corrispondenza della libertà umana alla grazia salvifica di Dio. Tutto questo in clima di protestantizzazione della fede cattolica e della vita dei cattolici che è quella che è.

(Fonte: Blog Il cammino dei tre sentieri, 19 novembre 2018)
http://itresentieri.it/cambiano-il-padre-nostro-e-il-gloria-alcune-nostre-considerazioni/?fbclid=IwAR3AUHqd3t1_G_xXB-45upkf7MYVtel1wP3ADi62x4fD5mcrto5AZSwfVmY




mercoledì 10 ottobre 2018

È il momento dell'orgoglio catto-gay


Il Forum dei cristiani Lgbt ad Albano Laziale è solo uno degli episodi di questi giorni che promuovono l'agenda gay nella Chiesa, ma è particolarmente significativo per le sue implicazioni. Ci vorrebbe un intervento magisteriale autorevole per chiarire il giudizio sull'omosessualità, ma non c'è segno che questo possa avvenire. Tutt'altro.

Sarà pure una coincidenza, ma sembra che in occasione del Sinodo dei giovani si sia abbattuto sulla Chiesa uno tsunami gay. Solo per stare alle ultime ore: ad Albano Laziale è in corso di svolgimento il Forum dei cristiani Lgbt, sponsorizzato dal vescovo Marcello Semeraro, che è anche segretario del C9, il collegio dei nove cardinali che affiancano il Papa nel ridisegnare la Curia Romana. Contemporaneamente a Bari viene annunciato per il 13 ottobre un convegno su “Fede cristiana e omobitransessualità”, una giornata voluta dalle solite associazioni Lgbt cristiane, nella parrocchia di San Sabino, con previsto il saluto del vescovo Francesco Cacucci. Per oggi è poi annunciata la presentazione dei risultati di un sondaggio, fatto su scala mondiale, sul ruolo della Chiesa cattolica nei confronti delle persone Lgbt (intervengono i “cattolici” Monica Cirinnà e Nichi Vendola). E ancora: il vicario generale della diocesi di Monaco di Baviera, Peter Beer, ha dichiarato pubblicamente che l'arcidiocesi ha «preti omosessuali e dipendenti omosessuali», aggiungendo che «rendono un servizio importante e buono».
Saranno coincidenze, come dicevamo, però anche questo fa “clima culturale” mentre al Sinodo, come sappiamo, ha tenuto banco in questi primi giorni la questione del linguaggio Lgbt inserito nell’Instrumentum Laboris.
Insomma è chiaro che da Monaco a Bari, passando per Roma, c’è una forte spinta alla legittimazione dell’omosessualità, soprattutto nella sua versione ideologizzata e militante. Sappiamo infatti che usare il linguaggio Lgbt significa appunto sposare la rivendicazione di un orgoglio gay, la pretesa di una presunta normalità di qualsiasi orientamento sessuale. Per questo il movimento gay ci tiene molto al riconoscimento della Chiesa: si ripete quanto accaduto per la battaglia del matrimonio fra persone dello stesso sesso. Come dimostrano i numeri, quello che interessa non è lo sposarsi, ma il diritto a sposarsi perché così la società, lo Stato, riconosce la normalità di un certo stato di vita. Lo stesso vale per la Chiesa: il problema non è la fede in Dio, ma il riconoscimento di una condizione di vita. È la battaglia decisiva, perché la Chiesa cattolica rimane ormai l’ultimo bastione da conquistare, l’unica realtà che – essendo voluta da Dio – ci ricorda che «all’inizio non fu così»; che il progetto creatore di Dio prevede «maschio e femmina», destinati a completarsi; che l’omosessualità è un dis-ordine, cioè non conforme all’ordine creato da Dio.
Per questo è inquietante ciò che molti prelati stanno facendo non solo dal punto di vista morale personale (il che vista l’estensione del fenomeno è già inquietante), ma soprattutto per «cambiare le cose» nella Chiesa, per «aggiornare» la dottrina, per dettare legge a Dio che, evidentemente, al momento della Creazione si era sbagliato. Risulta perciò particolarmente grave, fra le varie iniziative e dichiarazioni citate in apertura, quanto accade ad Albano Laziale e che ci viene puntualmente riferito con grande evidenza da Avvenire. Qui infatti a sponsorizzare il “Forum nazionale dei cristiani Lgbt” non è un vescovo qualunque, ma monsignor Marcello Semeraro che, oltre ad essere il presidente della società editrice di Avvenire, è anche uomo di fiducia di papa Francesco, tanto da essere stato chiamato come segretario del C9. Semeraro, ci racconta un entusiastico Avvenire che vede avvicinarsi la meta dopo un lungo cammino, ha aperto i lavori con un «lungo, caloroso intervento». E il sempre presente “inviato sul fronte Lgbt” Luciano Moia ci racconta commosso tutti gli sforzi per far cambiare nella Chiesa la comprensione dell’omosessualità, finora impedita da una «sessuofobia introiettata».
Si tratta di linguaggio e obiettivi che ormai non dovrebbero più sorprendere quanti seguono l’evoluzione di Avvenire, ma anche i più restii a riconoscere la realtà devono arrendersi al fatto che la Conferenza Episcopale Italiana – di cui Avvenire è organo - si è schierata ormai apertamente, e non da oggi, a fianco della militanza catto-gay. Certo in privato non tutti i vescovi italiani la pensano così, anzi; ma in pubblico le voci di dissenso sono così flebili da non raggiungere le orecchie dei fedeli.
E così nel popolo cattolico si instilla un veleno che porta fino a considerare la ribellione al progetto di Dio (Benedetto XVI dixit) un “dovere” per i buoni cattolici. Come accade? Intanto corrompendo il linguaggio. Vedi la parola accoglienza, propinata così generosamente. Anche la pagina di Avvenire dedicata al Forum di Albano Laziale trasuda accoglienza da tutti i pori. Ma questa parola ormai non indica più il desiderio di abbracciare ogni persona per amore di Cristo, e perché possa incontrare o tornare a Dio; niente a che vedere con la figura del padre misericordioso che corre incontro al figlio che torna a casa pentito di essersi allontanato dal padre ed essersi perso in una vita dissoluta. No, qui accoglienza significa legittimare uno stile di vita, un comportamento morale che la Chiesa ha sempre considerato gravemente peccaminoso. Tanto che si chiede con forza un cambiamento della teologia morale e anche dell’esegesi biblica (sennò come si fa a conciliare l’orgoglio gay con Sodoma e San Paolo?).
Malgrado le apparenze non ci si fa carico delle ferite e delle sofferenze delle persone che sperimentano un’attrazione verso persone dello stesso sesso, e dei loro familiari, ma si pensa di curare le ferite e le sofferenze facendo finta che tutto sia normale, che vada bene così. Basta che la comunità parrocchiale sia accogliente e permetta alle persone che vivono una vita omosessuale di insegnare catechismo, di fare i lettori, di servire all’altare e magari di essere benedetti nelle loro unioni, e tutto si risolve. Questo passa come il farsi carico delle sofferenze, invece è proprio la normalizzazione e la legittimazione dell’omosessualità che impedisce che la sofferenza per una certa condizione venga espressa.
E si potrebbe continuare con gli esempi di questo rovesciamento del linguaggio.
Ciò che risulta chiaro è che nella Chiesa questo processo di ribaltamento della Parola di Dio è molto avanzato. E al momento non è neanche necessario che si ponga mano al Catechismo per cambiarlo, sebbene anche questo sia un obiettivo; per ora basta che chi ha l’autorità magisteriale non intervenga, non chiarisca il giudizio sull’omosessualità. Perché il problema è tutto qui: come giudicare l’omosessualità. Ci sarebbe bisogno di un intervento magisteriale autorevole che ribadisca e spieghi ciò che la Chiesa ha sempre creduto, ma non c’è traccia di questa volontà. Anzi, si pongono gesti che vanno proprio in senso contrario.


(Fonte: Riccardo Cascioli, La NBQ, 10 ottobre 2018)
http://www.lanuovabq.it/it/e-il-momento-dellorgoglio-catto-gay#.W73EPlkfLn4.facebook




Il papa, i giovani e la ferula biforcuta


Per la Santa Messa di apertura del sinodo dei giovani papa Francesco ha usato una ferula che gli era stata donata durante l’incontro con i giovani al Circo Massimo. È un bastone che termina con due punte, attraverso le quali passa un grosso chiodo.
Guardando la ferula più da vicino, si vede che alla confluenza dei due rami c’è una protuberanza, una specie di naso. Vuol forse dire che essi sono, o dovrebbero essere, due braccia, ovvero quelle di Gesù in croce? Ma il chiodo messo in quel modo?
Sui social media ovviamente sono fioccati i commenti. Francesco è stato paragonato a Harry Potter che va a un incontro di Quidditch, a Gandalf del Signore degli anelli, al Simon mago degli Atti degli apostoli.
A me è venuta in mente la bacchetta a due punte del rabdomante, ma anche una fionda.
Se devo essere sincero, il primo pensiero è stato però un altro: quelle due punte sembrano proprio corna. E vedere il papa che se ne va in giro tenendo in mano quell’aggeggio suscita sgomento oltre che orrore, indignazione e tristezza.
Sento già il commento: ecco, il solito profeta di sventura, il solito fariseo, tutto formalismo ed esteriorità.
Che volete che vi dica? Quella ferula (ma la possiamo ancora chiamare così?) mi inquieta: la trovo sconvolgente. Vedere il papa che si appoggia a un bastone che termina con due corna mi fa star male.
Nel suo blog il padre John Zuhlsdorf, che non le manda mai a dire, mostra la foto che ritrae il momento in cui la ferula fu donata al papa da una giovane, durante l’incontro al Circo Massimo. Oltre che sulle corna alla sommità del bastone, padre John si concentra sul braccio sinistro della ragazza e in particolare sul polso, dove si vede un braccialetto rosso. Ebbene, secondo padre John quello è un simbolo wiccano.
Ora, il sottoscritto non sa nulla di wicca, wiccani e wiccanesimo. Sa soltanto che queste definizioni, come la “ferula” biforcuta, gli mettono agitazione. Siamo nel campo dell’esoterismo, della magia, del neopaganesimo, tutta roba che, a quanto pare, riscuote un certo successo tra i giovani in questo nostro mondo che definiamo evoluto.
Quella ragazza di fronte al papa, indossando quel braccialetto, era consapevole di portare su di sé un simbolo wiccano? Non lo so, ma tendo a pensare che non lo fosse. Anzi, a dirla tutta credo che il padre John questa volta abbia esagerato: magari quello è semplicemente un braccialetto rosso e basta, senza bisogno di scomodare i culti esoterici.
Il punto è un altro. Il punto è che la ferula biforcuta qualcuno l’ha pensata e l’ha pure realizzata, e poi l’ha proposta al Vaticano (o alla Cei o a vattelapesca) e qualcuno l’ha accettata, e qualcuno nell’accettarla avrà detto “ma che bella”, e qualcuno poi ha deciso che donarla al papa sarebbe stata una grande idea, e poi il papa l’ha ricevuta e a sua volta accettata, e l’ha pure usata per la Santa Messa che ha segnato l’inizio del sinodo dei giovani.
Ecco, in tutto questo c’è qualcosa che non quadra. Possibile che, nel corso dell’intera catena, a nessuno sia venuto spontaneo dire che la ferula biforcuta non ha nulla di cristiano, ha invece molto di demoniaco ed è proprio orrenda? Oppure vogliamo pensare, il che forse è ancora peggio, che qualcuno l’obiezione avrebbe voluto farla, ma non ha detto nulla, per paura di passare come tradizionalista e conservatore?
A proposito di tradizionalisti e conservatori, un amico mi dice che forse il papa ha accettato la ferula biforcuta perché ha visto la possibilità di usarla per punzecchiare il didietro di quelli che considera i suoi avversari, da lui graziosamente definiti tempo fa “cani selvaggi”. Può essere.
Può anche essere, ha osservato qualcun altro, che la ferula biforcuta, con quella forma, sia utile come bastone per tenere su il filo per stendere il bucato, e magari a Casa Santa Marta c’era bisogno di un aggeggio simile. Ecco. Allora lasciamolo a Santa Marta.


(Fonte: Aldo Maria Valli, blog, 6 ottobre 2018)
https://www.aldomariavalli.it/2018/10/06/il-papa-i-giovani-e-la-ferula-biforcuta/




giovedì 27 settembre 2018

I silenzi di Francesco

In Vaticano “regna un clima di paura e di incertezza”. “Francesco è molto bravo nel mettere in moto le cose, ma alla fine ci sono solo oscillazioni”. “Fin dall’inizio non ho mai creduto a una sua parola”.
Sono voci uscite dal Vaticano. Voci anonime. Sappiamo solo che tra esse c’è anche quella di un cardinale. Il giornale che le pubblica è il tedesco Der Spiegel, che dedica al papato di Francesco una lunga inchiesta.
Dunque, stando a queste testimonianze, in Vaticano il clima sarebbe di paura ma anche di incertezza. Paura perché chi è critico si sente sotto controllo, non libero di esprimere le proprie valutazioni. Incertezza perché spesso, come nel caso della comunione per i coniugi protestanti dei cattolici (questione molto avvertita in Germania), non c’è una linea chiara.
Il quadro che emerge dall’inchiesta contrasta con l’immagine pubblica del papa argentino e del suo pontificato. A dispetto delle richieste, più volte avanzate da Francesco, di parresia, ossia di libertà e coraggio nell’esprimere le proprie idee, anche in contrasto con quelle del papa, nei sacri palazzi dominerebbe non la trasparenza, ma il sospetto. Il giornale riporta un giudizio di Marie Collins, ex membro della commissione vaticana per la tutela dei minori, secondo la quale alle “belle parole in pubblico” corrisponderebbero “azioni opposte a porte chiuse”.
Der Spiegel non è certamente noto per la pacatezza dei suoi giudizi. Tempo fa, per esempio, l’ambasciata d’Italia in Germania fu costretta a protestare per un articolo nel quale il giornale tedesco lanciava un durissimo attacco al nuovo governo italiano (“promette agli italiani il paradiso in terra ma vuol far pagare il conto ai vicini”, l’Italia è un “paese di scrocconi”), tuttavia i risultati dell’inchiesta coincidono con le valutazioni che, sia pure a mezza bocca e sempre dietro rigoroso anonimato, arrivano sempre più spesso dai sacri palazzi.
Uno dei problemi di maggiore portata, riferisce il giornale, è il silenzio dietro al quale il papa si trincera davanti a questioni che non possono essere ignorate. Ha taciuto di fronte alle critiche mosse dai quattro cardinali con i dubia, ha taciuto di fronte al memoriale dell’arcivescovo Viganò, ha taciuto di fronte alla petizione di migliaia di donne cattoliche che gli hanno scritto chiedendogli di rispondere chiaramente alle osservazioni dell’ex nunzio negli Usa. “Il papa – si chiede dunque il giornale – è ancora padrone della situazione?”.
Gli inviati dello Spiegel sono andati anche in Argentina e qui, a differenza che in Vaticano, hanno trovato persone disposte a parlare a viso aperto. Particolarmente rilevante è la testimonianza di una donna, Julieta Añazco, abusata sessualmente da un prete, Ricardo Giménez, quando aveva solo sette anni. L’abuso avvenne in una tenda, durante un campeggio di bambini, approfittando del sacramento della confessione.
Julieta, originaria di La Plata, non lontano da Buenos Aires, solo in seguito ha scoperto che padre Giménez era già stato trasferito a causa di precedenti accuse di abuso su minori.
Nel 2013, qualche mese dopo l’elezione di Bergoglio, Julieta e altre tredici vittime di padre Giménez decisero di scrivere una lettera al papa. Descrivevano i fatti, spiegavano quanto forte fosse ancora la loro sofferenza, raccontavano che alcuni soffrivano di depressione (fino al tentato suicidio) e che altri erano caduti nella tossicodipendenza, mentre il prete abusatore continuava a celebrare la messa ed a stare a contatto con bambini e giovani.
La lettera fu inviata a Francesco, per posta raccomandata, nel dicembre 2013. Tre settimane dopo, racconta Julieta, dall’Italia arrivò un avviso di ricevimento, ma dal papa solo silenzio. “Non abbiamo saputo più nulla”. E don Giménez nel frattempo è stato ancora trasferito: ora presta servizio in una casa di cura per anziani.
Secondo lo Spiegel, durante il periodo in cui Bergoglio fu arcivescovo molte delle vittime degli abusi a Buenos Aires si rivolsero a lui per chiedere aiuto, ma “a nessuno fu permesso di parlargli”. Julieta Añazco e altre vittime ora chiedono che contro i loro violentatori si arrivi a un processo da parte delle autorità argentine. Ben sessantadue, riferisce il giornale, sarebbero i processi di questo tipo in corso nel paese sudamericano.
Tuttavia, dice Julieta, “la situazione per noi resta difficile, perché nessuno ci crede; vorremmo raggiungere il papa, ma non è interessato a noi”.
Un altro testimone che parla senza rifugiarsi dietro l’anonimato è Juan Pablo Gallego, legale di alcune vittime di abusi, il quale arriva addirittura a sostenere che “Francesco è ora in esilio a Roma: lì, per così dire, ha trovato rifugio”.
Particolarmente scottante è la vicenda di padre Julio César Grassi, arrestato e chiuso in carcere per aver abusato di ragazzi nella fascia di età compresa tra undici e diciassette anni. Secondo Gallego, Bergoglio fu il confessore di Grassi e ordinò a uno studio legale un corposo rapporto, di 2.600 pagine, per difendere Grassi dalle accuse.
“Nel 2006 – riferisce Gallego – ebbi una conversazione con Bergoglio. Stava sulle sue, diffidente, e non disse nulla sul fatto che la Chiesa pagava gli avvocati di Grassi. L’immagine attuale, di un papa Francesco aperto e comprensivo, non combacia con quella dell’uomo davanti al quale mi trovai in quel momento”.
Di recente, all’interno di un documentario Intitolato Abusi sessuali nella Chiesa: il codice del silenzio
https://pjmedia.com/video/watch-pope-francis-gets-caught-in-gigantic-lie-regarding-a-sexual-abuse-case-in-argentina/
si vede una giornalista che, all’inizio di un’udienza in piazza San Pietro, pone al papa, a gran voce e in spagnolo, una domanda specifica sul caso Grassi: “Santità, circa il caso Grassi, lei ha cercato di influenzare la giustizia argentina?”. Il papa, che in un primo tempo sembra non cogliere la domanda, a un certo punto si ferma e guarda la giornalista con l’aria di chi non ha capito bene. Allora l’inviata ripete la domanda in modo ancora più chiaro, scandendo le parole, al che il papa, scuotendo la testa, e con un’espressione che è un misto di stupore e disprezzo, risponde: “Nada”. La giornalista tuttavia non demorde e chiede: “Perché ha commissionato una contro-inchiesta?”. E il papa, di nuovo, accompagnando le parole con un gesto della mano, risponde: “Non l’ho mai fatto”.
Nel documentario, realizzato dal giornalista Martin Boudot, si ricorda che Bergoglio nel libro Il cielo e la terra, scritto dal futuro papa con il rabbino Abraham Skorka, a proposito di abusi sessuali commessi da preti dice: “Non è mai accaduto nella mia diocesi” (siamo a pagina 55 dell’edizione italiana, Mondadori), ma le testimonianze raccolte da Boudot vanno in senso contrario a questa affermazione.
Circa il caso Grassi, risulta che effettivamente nel 2010 la Conferenza episcopale argentina commissionò una contro-inchiesta tesa a screditare le vittime, accusate di “falsità, menzogne, inganno e invenzione”. Scopo del documento era ribaltare il giudizio del tribunale di primo grado, che aveva condannato il prete a quindici anni di carcere. “Una sottile pressione sui giudici” la definì uno dei giudici della commissione d’appello.
Avvicinato da Boudot, un giovane, una delle vittime di Grassi, ha raccontato della sua paura di ritorsioni. Ha detto di aver ricevuto minacce e che qualcuno è entrato in casa sua per rubare materiale relativo al processo: “Alla fine il tribunale mi ha inserito in un programma di protezione dei testimoni. Non dimenticherò mai quello che padre Grassi continuava a ripetere durante il processo: Bergoglio, diceva, non ha mai lasciato la mia mano”.
Boudot ha chiesto di poter intervistare il pontefice, ma gli è stato negato.

(Fonte: Aldo Maria Valli, Blog, 23 settembre 2018)
https://www.aldomariavalli.it/2018/09/23/i-silenzi-di-francesco/




mercoledì 19 settembre 2018

Attacco del Vaticano alla vita monastica contemplativa

La pesantezza di questo attacco è stata avvertita con molta preoccupazione in tanti monasteri, ai quali ha dato voce il vaticanista Aldo Maria Valli in queste tre analisi concatenate, pubblicate pochi giorni fa:

1. Qualcuno vuole liquidare il monachesimo?
L’esortazione apostolica “Vultum Dei quaerere” e la sua Istruzione Applicativa “Cor orans”: ovvero come colpire l’autonomia dei monasteri
Nell’esortazione apostolica di Papa Francesco Gaudete et exsultate” sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo (19 marzo 2018) a un certo punto, nella sezione dedicata a L’attività che santifica, si legge: “Non è sano amare il silenzio ed evitare l’incontro con l’altro, desiderare il riposo e respingere l’attività, ricercare la preghiera e sottovalutare il servizio. Tutto può essere accettato e integrato come parte della propria esistenza in questo mondo, ed entra a far parte del cammino di santificazione. Siamo chiamati a vivere la contemplazione anche in mezzo all’azione, e ci santifichiamo nell’esercizio responsabile e generoso della nostra missione” (n. 26).
Come mi succede spesso con Francesco, ho letto e riletto più volte il passaggio, con crescente sconcerto. Il mio collega Marco Tosatti, di fronte a quelle parole, ha commentato: “Saranno felici le suore di clausura e i religiosi contemplativi. In cinque righe il Pontefice regnante liquida un paio di millenni di monachesimo contemplativo, maschile e femminile”.
Ciò che colpisce è la confusione unita alla superficialità, il tutto condito con il livore. Come sarebbe a dire che “non è sano amare il silenzio”? E come si può pensare che amare il silenzio voglia dire “desiderare il riposo”? E come si può pensare che “ricercare la preghiera” sia qualcosa da contrapporre al servizio? E perché mettere “l’incontro con l’altro” in cima a tutto quando, semmai, ciò che conta è l’incontro con Dio?
Tutto in quelle parole mi sembra sbagliato, frutto di una visione difficilmente comprensibile. In ogni caso non ci ho più pensato.
Poi, pochi giorni dopo l’uscita di Gaudete et exsultate (documento che non mi convince sotto molti altri aspetti), il Vaticano rende nota Cor orans, istruzione applicativa sulla vita contemplativa femminile, che porta la data del 1° aprile 2018 e le firme del cardinale João Braz de Aviz e di monsignor José Rodríguez Carballo, rispettivamente prefetto e segretario della Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica.
Testo prolisso (108 pagine nell’edizione della Libreria Editrice Vaticana), Cor orans è una sorta di manuale di applicazione di Vultum Dei quaerere, la costituzione apostolica sulla vita contemplativa femminile firmata da Francesco il 29 giugno 2016.
La cosa curiosa è che Vultum Dei quaerere (sempre nell’edizione della Libreria Editrice Vaticana) conta 62 paginette, contro le 108 del manuale che serve per applicarla. Perché tanto puntiglio? Che cosa c’è in  gioco?
Colpito negativamente dalle parole di Gaudete et exsultate riportate all’inizio, ho riletto Vultum Dei quaerere sotto una nuova luce e mi sono accostato a Cor orans con un certo sospetto. Mi sono chiesto: dove sta l’inganno? Vuoi vedere che davvero qualcuno è al lavoro, per usare il termine di Tosatti, per liquidare il monachesimo (in questo caso femminile)?
Vultum Dei quaerere all’apparenza è un documento che elogia coloro che compiono la scelta della vita contemplativa all’interno di comunità “poste come città sul monte e lampade sul lucerniere” (n. 2), ma, in concreto, come ha osservato Hilary White su The Remnant  (https://remnantnewspaper.com/web/index.php/fetzen-fliegen/item/3906-pope-francis-vs-contemplative-orders) se lo si legge con gli occhiali messi a disposizione da Cor orans si scopre che la costituzione è una sorta di “palla da demolizione” del monachesimo, almeno così come la Chiesa l’ha conosciuto fino a oggi.
Stiamo per entrare in un campo eminentemente giuridico e quindi complicato. In questi casi sembra che l’autorità cerchi di prendere i destinatari per sfinimento, così che a un certo punto dicano: va bene, avete ragione voi. Ma non bisogna arrendersi tanto facilmente.
Con Vultum Dei quaerere si fa piazza pulita di ciò che la Chiesa ha prodotto in precedenza in materia: articoli del Codice di diritto canonico, costituzione apostolica Sponsa Christi di Pio XII (1950), istruzione Inter praeclara della Sacra congregazione per i religiosi (1950), istruzione Verbi sponsa sulla vita contemplativa e la vita delle monache (1999). Nelle disposizioni finali il tono è perentorio: superare tutto. Ma perché? Con quale scopo?
Leggendo con attenzione si scopre che la questione è l’autonomia (a tutti i livelli) dei monasteri. È questa autonomia che si vuole colpire. È questa autonomia, antica e radicata, che si vuole superare. E di nuovo torna la domanda: perché?
Prima di rispondere occorre ricordare che cos’è un monastero e quale valore ha la sua autonomia.
All’interno di un ordine religioso (San Benedetto, San Domenico, Santa Chiara eccetera), ogni monastero nasce come piccola isola di un arcipelago, nel quale i collegamenti con gli altri monasteri sono spontanei e comunque blandi. Contrariamente alle case delle congregazioni religiose femminili, i monasteri di monache sono sui iuris: significa che, in relazione al regime interno, sono autonomi e indipendenti. Hanno quindi il diritto di governarsi da soli senza essere soggetti ad altri superiori oltre a quello interno, eletto dal capitolo. L’abbadessa, o priora, governa la comunità senza che i suoi atti siano verificati, moderati o confermati da un altro superiore maggiore. I monasteri non hanno tra loro relazione o subordinazione alcuna in quanto al regime, ma sono assolutamente e perfettamente indipendenti. Tra loro e con l’ordine religioso sono uniti da vincoli morali e spirituali, in quanto riconoscono tutti il medesimo fondatore o la medesima fondatrice, professano la stessa regola, godono degli stessi privilegi, si aiutano con suffragi e con la fratellanza di orazioni e comunicazioni spirituali. In base all’autonomia, i sudditi si aggregano per tutta la vita alla comunità e con la professione s’incorporano direttamente ad essa, prima ancora che all’ordine. Ecco perché ogni monastero ha il suo noviziato e lo spirito comune dell’ordine offre  in ciascuno di essi modalità particolari, con uno spiccato carattere familiare, così che i membri formino una famiglia permanente sotto il governo dell’abbadessa o priora.
Per ciò che riguarda l’esterno, i monasteri dipendono dal papa come loro superiore supremo, ma sono anche sottoposti alla vigilanza (non all’autorità) dell’ordinario del luogo o dei superiori dell’ordine maschile corrispondente, se sono ad esso collegati. L’autonomia e la mutua indipendenza dei monasteri, “ottenuta piuttosto di fatto che di diritto” (art. VII, par.2 degli Statuti generali delle monache di Pio XII, 1950), derivano dall’organizzazione e dal carattere particolare che la regola di San Benedetto diede all’istituzione monastica e in particolare, per i monasteri femminili, è la diretta conseguenza della stretta clausura e della vita contemplativa, alla quale le monache si dedicavano totalmente ed esclusivamente.
Le norme applicative della regola, ossia le costituzioni e gli eventuali altri codici, dopo aver ricevuto l’approvazione della Santa Sede, possono variare da un singolo monastero a un altro. Le differenze tra monasteri dello stesso ordine, pur poggiati sulla stessa regola, possono quindi essere notevoli. Ogni monastero, di solito radicato nella realtà locale, declina la propria spiritualità in modo originale, dando vita a tradizioni che attraverso i secoli rendono i monasteri stessi altrettanti universi completamente unici e diversi tra loro.
Ma ecco che a un certo punto entra in campo un nuovo soggetto: si tratta delle federazioni. Previste dalla costituzione apostolica di Pio XII Sponsa Christi (21 novembre 1950), che le incoraggia e raccomanda, ma non le impone, le federazioni vogliono essere uno strumento per l’aiuto reciproco. Siamo nel dopoguerra e moltissimi monasteri versano in condizioni critiche, anche per quanto riguarda i beni materiali. Le federazioni di monasteri nascono quindi come organizzazioni di supporto. Di fatto però, nel corso degli anni, finiscono col mettere a repentaglio l’autonomia attraverso continue intrusioni nella vita comunitaria e pressioni psicologiche perché tutte le comunità si uniformino alla linea dettata dalla maggioranza. Spesso ci sono conseguenze negative sulla vita spirituale delle singole monache. Inoltre l’alternanza tra due autorità (da una parte l’abbadessa, dall’altra la presidente della federazione) crea conflitti e confusione, esponendo le monache, almeno quelle più fragili e meno preparate a fronteggiare i drammi di coscienza, alla paura di mancare all’obbedienza e ai voti, senza contare le spaccature all’interno delle comunità e i continui disturbi alla vita di contemplazione.
Insomma, in base a questa esperienza devastante, un provvedimento sensato sarebbe stata l’abolizione delle federazioni, o per lo meno un loro deciso ridimensionamento, così da consentire il rispetto delle tradizioni religiose sotto ogni profilo (spirituale, liturgico) e il ritorno alla piena autonomia. Invece avviene esattamente il contrario. Con Vultum Dei quaerere, infatti, le federazioni sono rese obbligatorie e Cor orans, attraverso i suoi 289 punti, lo ribadisce nel dettaglio, inserendo i monasteri all’interno di una struttura burocratica che non ha nulla a che fare con la loro indipendenza ma, anzi, sembra fatta apposta per svilirla. Infatti oltre alle federazioni abbiamo le associazioni dei monasteri, le conferenze dei monasteri, le confederazioni, le commissioni internazionali e le congregazioni monastiche. Tutti organismi dotati di loro organi di governo, secondo una logica che sembra mutuata da quella dei partiti politici e dei sindacati.
Questa ossessione per l’organizzazione piramidale e il controllo oscura completamente il senso più profondo della vita monastica. Orazione e adorazione diventano quasi un dettaglio. In primo piano c’è invece la struttura, pensata per mortificare l’autonomia e “normalizzare” le comunità.
Ma è tutta l’impostazione ad apparire distorta. In Cor orans un campanello d’allarme suona subito, al punto 19, dove leggiamo: “Un monastero di monache, come ogni casa religiosa, viene eretto tenuta presente l’utilità della Chiesa e dell’Istituto”. Come sarebbe a dire “tenuta presente l’utilità”? Da quando in qua per una comunità di contemplative si pone come fondamentale il criterio dell’utilità? E in che modo, poi, si può determinare l’utilità di un monastero nel quale le suore, magari di stretta clausura, trascorrono la vita in preghiera? In che modo un monastero, per giustificare la propria esistenza, può dimostrare di essere “utile”?
Il criterio dell’utilità si collega a quello dell’azione. Sei utile se accogli il migrante, se curi il malato, se educhi il bambino, se aiuti il povero. Ma se sei un monastero di vita contemplativa, la tua “utilità” è di altro tipo.
Al documento però non sembra interessare più di tanto la qualità della vita di preghiera, che in fin dei conti corrisponde all’identità stessa di un monastero. Ciò che Cor orans fa con grande impegno è invece sottolineare la necessità della “continuità” con il Concilio Vaticano II e la sua teologia, alla luce delle mutate condizioni sociali. Dunque, se una comunità monastica, in virtù della sua spiritualità e di una tradizione secolare, volesse per esempio pregare e rendere gloria a Dio mediante il rito antico, sarebbe fuori legge?
Continueremo in un prossimo articolo l’esame dei nodi critici dell’istruzione applicativa Cor orans, che mettendo a rischio autonomia e indipendenza dei monasteri costituisce un attacco a un secolare e prezioso patrimonio di fede.

2. Se nel nome del rinnovamento si distrugge la vita contemplativa.
Vultum Dei quaerere e Cor Orans: tra ambiguità e incongruenze
Nel precedente paragrafo ci siamo occupati del rischio che i monasteri femminili stanno correndo, sotto il profilo della loro autonomia e quindi della loro stessa vita, a causa dei contenuti di Vultum Dei quaerere, la costituzione apostolica sulla vita contemplativa del 29 giugno 2016, e di Cor orans, l’istruzione applicativa sulla vita contemplativa femminile, documenti che rendono obbligatoria l’affiliazione dei monasteri alle federazioni.
Proprio in Cor orans, balza agli occhi la richiesta che i monasteri, tramite le federazioni, “superino l’isolamento” (n. 7). Ma il fatto che un monastero si isoli, vista la sua natura, dovrebbe essere un valore da promuovere, non un limite da superare.
Troviamo poi la richiesta che i monasteri, tramite le federazioni, “promuovano l’osservanza regolare e la vita contemplativa” (n. 7), ma l’esperienza ha dimostrato che le federazioni non hanno fatto questo. In realtà esse hanno imposto uscite continue e confronti, hanno introdotto disturbi e squilibri, e in tal modo non hanno favorito la vita contemplativa, ma l’hanno piuttosto minata, perché uscite, riunioni, discussioni e corsi sono fattori che nulla hanno a che fare con la spiritualità di chi decide di ritirarsi dal mondo per vivere nella preghiera.
Ma il documento, soprattutto, mette a repentaglio l’autonomia giuridica del monastero. Leggiamo infatti che “l’autonomia giuridica deve essere costantemente verificata dalla Presidente [della federazione], a suo giudizio” (n. 43). Inoltre (n. 45) se le monache sono meno di cinque perdono il diritto di eleggere la propria superiora e “in tal caso la Presidente federale è tenuta a informare la Santa Sede” in vista della nomina di una “Commissione ad hoc”.
Proseguiamo. Al n. 54 leggiamo che l’affiliazione alla federazione “è una particolare forma di aiuto che la Santa Sede viene a stabilire in particolari situazioni in favore della comunità di un monastero sui iuris che presenta un’autonomia solo asserita, ma in realtà assai precaria o, di fatto, inesistente”. Ma quali sarebbero queste “particolari situazioni”? Chi le stabilisce? Secondo quali criteri? E chi può dire che un’autonomia è “solo asserita”? Se la presidente di una federazione stabilisce che una comunità ha un’autonomia “solo asserita” chi può assicurare che il suo sia un giudizio imparziale?
In realtà la preoccupazione principale sembra non quella di fare di tutto per garantire la vita delle comunità, ma di arrivare, attraverso lo strumento della federazione, alla loro soppressione. Leggiamo al n. 55: “L’affiliazione si configura come un sostegno di carattere giuridico che deve valutare se l’incapacità di gestire la vita del monastero autonomo in tutte le sue dimensioni sia solo temporanea o irreversibile, aiutando la comunità del monastero affiliato a superare le difficoltà o a disporre quanto è necessario per addivenire alla soppressione di detto monastero”. Capolavoro di ipocrisia: quello che è detto un “sostegno” per il “monastero autonomo” è invece, in pratica, l’organismo che ha su di esso il potere di vita o di morte.
E il potere della federazione è confermato al n. 56, dove si stabilisce che nella “Commissione ad hoc”, in parole povere un tribunale, dovrà entrare la “Presidente della Federazione”.
Un’espressione ambigua si trova al n. 70, dove scopriamo che “fra i criteri che possono concorrere a determinare un giudizio riguardo alla soppressione di un monastero” c’è la “fedeltà dinamica” nel vivere e trasmettere il carisma. Che significa “fedeltà dinamica”? La fedeltà è fedeltà. Se non c’è la fedeltà c’è l’infedeltà, il tradimento. Essere “dinamici”, nell’ottica di Cor orans,  vuol dire forse adeguarsi al mondo? Cedere al modernismo? O piegarsi ai diktat della federazione?
Altra ambiguità al n. 72, dove, a proposito dei beni di un monastero soppresso, scopriamo che la Santa Sede può disporre di attribuirli “alla carità” oltre che alla federazione o alla “Chiesa locale”. Che significa “carità”? A chi andranno i beni? E in base a quali criteri?
Al n. 74 viene detto che la vigilanza “necessaria e giusta” sui monasteri deve essere “esercitata principalmente – se non esclusivamente – mediante la visita regolare di un’autorità esterna ai monasteri stessi”, e al n. 75 si precisa che tale compito spetta alla “Presidente della Congregazione monastica femminile”, “al superiore maggiore dell’Istituto maschile consociante” e “al vescovo diocesano”, ma al successivo n. 111 scopriamo che “la Presidente della Federazione, nel tempo stabilito, accompagna il Visitatore regolare nella visita canonica ai monasteri federati come convisitatrice”. In pratica, una supervisione che, ancora una volta, assegna un grande potere alla federazione.
Vediamola un po’ più di vicino, allora, questa federazione di monasteri. La sezione di Cor orans ad essa dedicata è la seconda, dove in primo piano viene messa (n. 86) l’esigenza che i monasteri “non rimangano isolati”, perché “valore irrinunciabile” è quello della “comunione”. Ma chi l’ha detto? La parola stessa, monastero, dal latino monastērĭum e dal greco antico μοναστήριον (monastrion), deriva da  μόνος (mónos: solo, unico), e μονακός (monakós) vuol dire solitario, eremita. Il vero valore irrinunciabile del monastero non sta certamente nella comunione, né con altri monasteri né con altre realtà religiose, ma nella sua unicità e anche nel suo isolamento.
Ma le contraddizioni non finiscono qui. Al successivo n. 87 si dice che “la federazione è costituita da più monasteri autonomi che hanno affinità di spirito e di tradizione e, anche se non sono configurate necessariamente secondo un criterio geografico, per quanto possibile, non devono essere geograficamente distanti”. Di nuovo viene da chiedersi: perché? Che importanza può avere tutto questo? L’unico disegno che si vede dietro tali indicazioni, ancora, è di affermare il ruolo e la funzione della federazione. Un ruolo che arriva fino a garantire “l’aiuto nella formazione iniziale permanente” e promuovere “lo scambio di monache e di beni materiali”, con tanti saluti all’autonomia del monastero!
E a proposito di autonomia, enunciata a parole ma nei fatti negata, ecco che al n. 93 il documento svela le carte: “A norma di quanto disposto nella Costituzione apostolica Vultum Dei quaerere, tutti i monasteri inizialmente devono entrare in una Federazione”. Quell’”inizialmente” dice tutto: di fatto si tratta di un obbligo inderogabile. E l’affiliazione ha un significato precipuo: amministrare i beni dei monasteri.
Al n. 98 leggiamo: “Per tenere viva e rafforzare l’unione di monasteri (di nuovo: come se fosse questo lo scopo decisivo del monastero, ndr), attuando una delle finalità della Federazione, viene favorita tra i monasteri una certa comunicazione di beni, coordinata dalla Presidente federale”.
“Una certa comunicazione di beni”? Che significa? L’unica cosa chiara è che se ne deve occupare la federazione, nella persona della sua presidente.
E che dire del successivo n. 99? Eccolo: “La comunicazione dei beni in una federazione si attua mediante contributi, doni, prestiti che i monasteri offrono per altri monasteri che si trovano in difficoltà economica e per le esigenze comuni della Federazione”. Contributi, doni, prestiti? E chi decide chi dona a chi, chi presta a chi? E in quale misura? E per quali motivi? Ovviamente decide la federazione, che così acquisisce un ulteriore potere. Con tanti saluti, di nuovo, all’autonomia dei singoli monasteri.
Con gli esempi si potrebbe continuare a lungo. A un certo punto, sempre a proposito di beni (argomento principe), si stabilisce che presso la federazione dovrà essere costituito “un fondo economico (cassa federale)” il cui scopo è quello di “realizzare le finalità federative”. Quali? Non è chiaro. Molto chiaro è invece che il fondo sarà amministrato dalla presidente della federazione, specie per quanto riguarda (n. 109) “l’alienazione dei beni dei monasteri totalmente estinti”.
La presidente della federazione ha un potere enorme. Ma chi la controlla? Chi ha autorità su di lei? Al n. 110 scopriamo che sarà eletta “dall’Assemblea federale” e che “non è una Superiora maggiore”. Di fatto, la presidente della federazione sta al di sopra anche delle superiori maggiori, il che determina, di nuovo, un vulnus per l’autonomia e l’indipendenza del monastero, tanto è vero che (n. 141) ci saranno norme che le suddite saranno tenute ad osservare anche contro la volontà della propria abbadessa, e la presidente della federazione potrà addirittura decidere in merito al passaggio di una monaca da un monastero all’altro, anche a fronte di un rifiuto da parte della superiora maggiore (n. 122).
Pure a proposito delle visite (di ogni tipo: canoniche, materne, sororali) la discrezionalità della presidente della federazione (“ogni volta che la necessità lo richiede”) è totale. In più, al termine delle visite la presidente “indica per iscritto alla Superiora maggiore del monastero le soluzioni più adatte ai casi e alle situazioni emerse durante la visita e ne informa la Santa Sede” (n. 115). Insomma, la presidente comanda e la superiora esegue. E l’autorità del vescovo che fine ha fatto?
Nel successivo punto (n. 116) scopriamo poi che la presidente della federazione, durante la visita canonica, verifica che siano osservate “le norme applicative” stabilite da Vultum Dei quaerere. Ecco che cosa interessa. Non la vita di preghiera, non la penitenza, non il digiuno, non la qualità della vita fraterna, non le relazioni tra sorelle, non la fedeltà al carisma, ma l’aderenza alle nuove norme.
Circa, in particolare, la formazione iniziale, se la presidente scopre che, a suo insindacabile giudizio, qualcosa non va, come procede? Informa la superiora? Ne parla con le monache? No, “informerà la Santa Sede” (n. 117).
Che si tratti di un intervento dal significato punitivo lo si desume dall’uso ripetuto del verbo “deferire”. Se il monastero non si mostra disponibile e pronto ad accogliere tutti i comandi nel campo della formazione, la presidente “deferisce la cosa alla Santa Sede”, e lo stesso avviene “per coloro che sono chiamate a esercitare il servizio dell’autorità”. Insomma, controllo e dominio totali.
Interessante è poi scoprire che il potere della presidente della federazione arriva fino al punto di scegliere “i luoghi più adeguati” nei quali tenere i corsi di formazione (i monasteri non vanno bene? Pare di no. Infatti attualmente le federazioni scelgono luoghi “adeguati” quali alberghi e resort) e stabilire la durata dei corsi stessi. Quanto deve durare un corso? Una settimana? Un mese? Un anno? Non si sa. Ma niente paura: ci pensa la presidente della federazione.
Un’altra conseguenza chiara è che le monache dovranno uscire piuttosto spesso dal monastero. Stabilito (n. 133) che l’assemblea federale ha il compito di “promuovere un adeguato rinnovamento” (ma perché? Chi lo dice che il rinnovamento sia un valore?), il documento prevede ben tre tipi di assemblea: ordinaria, intermedia e straordinaria. In una logica che sembra appartenere più a un partito politico o a un sindacato che alla vita contemplativa, le monache sono coinvolte in un tourbillon di incontri assembleari che si aggiungono a tutte le altre uscite, per i corsi, le riunioni, le visite eccetera. Uno strano modo di tutelare e promuovere la vita di preghiera e contemplazione.
Molti altri sono i punti che negano nei fatti l’autonomia dei monasteri e ne mettono a rischio la vita religiosa. Si pensi alla figura della segretaria della federazione (che, come la presidente, dura in carica sei anni, contro i tre della maggior parte delle superiore dei monasteri), la quale può risiedere in un monastero di sua scelta, circostanza che ha determinato danni immensi: intrusioni, sotterfugi, confronti, conflitti tra segretaria e abbadessa.
In Cor orans la sezione dedicata alla separazione dal mondo (l’aspetto più significativo nella vita delle monache) è la terza, dove vediamo che la Santa Sede ha rimaneggiato l’istruzione Verbi sponsa del 1999.
Per i mass media è questa la parte che più delle altre ha fatto notizia, perché vi si trovano le norme sull’uso dei mezzi di comunicazione nei monasteri, ma dal punto di vista sostanziale ciò che conta è quanto si prevede a proposito di clausura papale, ovvero quella conforme alle norme stabilite dalla Sede apostolica.
Qui ciò che più colpisce è l’abolizione dell’aggettivo “grave” che in Verbi sponsa era ripetutamente usato a proposito di obbligatorietà della clausura, uscite e ingressi.  Per esempio, se in precedenza si diceva che “la concessione della licenza di entrare e di uscire richiede sempre una causa giusta e grave” (VS n. 15), ora  si parla soltanto di “giusta causa” (CO, n. 194).
Anche in questa sezione non mancano le contraddizioni (per esempio si dice che la vigilanza sull’osservanza della clausura spetta al vescovo diocesano o all’ordinario religioso, ma subito dopo si dice che in deroga a quanto disposto dal Codice di diritto canonico il vescovo e l’ordinario non intervengono nella concessione delle dispense) e le ambiguità, ma forse il vertice dello sconcerto lo si raggiunge nella sezione dedicata alla “formazione permanente” (altra definizione tratta dal mondo, come se fare la monaca fosse una professione) dove non si parla mai, ripeto mai, di preghiera. Si dice invece (n. 237) che “ogni monaca è incoraggiata ad assumere la responsabilità della propria crescita umana, cristiana e carismatica, attraverso il progetto di vita personale, il dialogo con le sorelle della comunità monastica, e in particolare con la Superiora maggiore, così come attraverso la direzione spirituale e gli appositi studi contemplati negli Orientamenti per la vita monastica contemplativa”. Ora, a parte la forma (gli studi contemplati per la vita contemplativa), provate a sostituire alla parola “monaca” la parola “manager”: vedrete che non cambierà gran che. La dimensione è tutta orizzontale, di tipo tecnico e funzionalistico. Non si parla di Dio, di adorazione, di vita di preghiera. Sembra che per fare la monaca l’importante sia frequentare “gli appositi studi”.
Il testo poi sembra non rendersi conto dei problemi pratici quando afferma (n. 263) che “compete alla Superiora maggiore con il suo Consiglio, tenendo conto di ogni singola candidata, stabilire i tempi e le modalità che l’aspirante trascorrerà in comunità e fuori dal monastero”. Si può immaginare il disturbo arrecato alla comunità monastica dal dentro-fuori, ma, soprattutto, viene da chiedersi: come può essere possibile questo doppio regime? Dove va a vivere una giovane quando è fuori se non è tanto ricca da permettersi un appartamento? E se poi viene chiamata a trascorrere alcuni mesi in monastero che cosa fa? Mantiene comunque un appartamento che non usa? Va in albergo? Va dai genitori? E se arriva dall’estero?
Il documento sembra scritto da chi non conosce, o non vuole conoscere, le reali condizioni di vita nei monasteri.

3. Con lo sguardo rivolto al mondo, non a Dio. Ovvero come snaturare la vita contemplativa.
Fine dell’autonomia, burocratizzazione, abbandono della tradizione. La strada sbagliata di Cor orans e Vultum Dei quaerere
Proseguiamo l’analisi di Cor orans, l’istruzione applicativa sulla vita contemplativa femminile, il documento che rende operativi i principi contenuti in Vultum Dei quaerere, la nuova costituzione apostolica sulla vita contemplativa femminile.
Quelle che Cor orans definisce “disposizioni finali” assomigliano molto a minacce.
Prima di tutto è scritto nero su bianco che entrare in una federazione è un “obbligo”, il che di per sé mette fine all’autonomia dei monasteri stessi. Poi si specifica che “tale obbligo vale anche per i monasteri associati ad un Istituto maschile o riuniti in Congregazione monastica autonoma”. E infine ecco il diktat: “I singoli monasteri devono ottemperare a questo entro un anno dalla pubblicazione della presente Istruzione, a meno che non siano stati legittimamente dispensati. Compiuto il tempo, questo Dicastero (la Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, ndr) provvederà ad assegnare i monasteri a Federazioni o ad altre strutture di comunione già esistenti”.
Insomma, non si scappa. Ma colpisce anche il fatto che nell’intero documento troviamo ben undici deroghe ad altrettanti articoli del Codice di diritto canonico. Una vera rivoluzione. Domanda: tali deroghe, tutte specificamente approvate dal papa, non sono forse un po’ troppe per un’istruzione, ovvero per un documento che, in fin dei conti, dovrebbe solo avere una funzione applicativa della legge?
L’impressione, più che legittima, è di trovarsi di fronte a un diritto speciale per le monache, un modo di procedere che di fatto è la morte del diritto perché salta tutti i passaggi necessari per la tutela della giustizia e impedisce il ricorso contro i provvedimenti.
La parola “obbligo” compare ripetutamente, coronando così un documento il cui tono è in molte parti minaccioso e senza precedenti nei confronti di quella che un tempo era considerata la parte eletta della Chiesa, alla quale ci si rivolgeva con particolare delicatezza, e ora invece sembra, al più, una frangia tollerata.
Cor orans ha un contenuto ispirato a doppiezza. Da un lato si ribadisce l’autonomia dei monasteri, ma dall’altro l’autonomia è scardinata attraverso l’obbligo di affiliarsi alle federazioni.
Bisogna poi notare che i cambiamenti introdotti sono sostanziali rispetto alla vocazione monastica. Non si tratta solo di sfumature. Di fronte a Cor orans una monaca può avvertire che i nuovi contenuti non sono consoni ai voti già emessi. Si pensi alla nuova fisionomia dei monasteri, che vanno a perdere la propria autonomia, e anche all’obbligo di partecipare a corsi esterni.
L’esperienza degli ultimi decenni insegna che le federazioni hanno causato danni notevolissimi alla vita dei monasteri e alle singole monache. Eppure si insiste su questa strada e anzi la si fa diventare l’unica opzione possibile, all’insegna di un generico “rinnovamento” che di certo non è un valore per la vita di preghiera e di contemplazione.
Tra le righe ciò che viene detto, e anzi imposto, è che le contemplative devono cambiare il loro stile di vita, ma a supporto di una tale pretesa non vengono fornite spiegazioni che abbiano realmente a che fare con questioni spirituali e religiose. Tutto il documento si occupa invece di organizzazione, strutture, assemblee, corsi.
L’ispirazione di fondo è una sola: ri-orientarsi. Ma verso dove? Certamente non verso Dio, bensì verso il mondo e verso l’azione. Che si parli di clausura, formazione o ascesi, ciò che conta sembra essere introdurre cambiamenti.  Controllo centralizzato, fine dell’autonomia e burocratizzazione sono gli strumenti, il che è quanto meno singolare se si pensa all’insistenza di Francesco a favore dei processi di decentralizzazione nella Chiesa.
Nella conferenza stampa di presentazione di Cor orans (15 maggio 2018), monsignor José Rodríguez Carballo, giustificando i nuovi provvedimenti, ha sostenuto: “Di fatto, il Dicastero ha dovuto più volte constatare con rammarico l’esistenza di monasteri non più in grado di portare avanti una vita dignitosa, senza che ci fosse una legislazione che dicesse quando e come intervenire al riguardo: l’aver colmato questa lacuna legislativa è sicuramente uno dei punti più importanti e più attesi dell’istruzione”. Ora, ammesso che le norme introdotte da Cor orans siano le più efficaci per intervenire nei confronti dei monasteri che non conducono una vita “dignitosa” (ma che significa dignitosa?), non si vede perché, in concreto, tali norme debbano condizionare la vita di tutti i monasteri, anche di quelli ben vivi e desiderosi di mantenere la propria identità e le proprie tradizioni.
L’affiliazione alla federazione diviene un obbligo, salvo dispensa che può essere concessa dalla Santa Sede “per ragioni speciali, oggettive e motivate”. Ma dovrebbe essere il contrario: l’autonomia dovrebbe essere la condizione normale, salvo la necessità di affiliarsi alla federazione per motivi speciali.
Nella conferenza stampa monsignor Carballo ha sostenuto inoltre che “l’Istruzione, come già prima la Costituzione, riflette molto bene quanto le stesse monache hanno chiesto nelle risposte al questionario che alcuni anni fa era stato inviato a tutti i monasteri del mondo”, ma sulla base di testimonianze possiamo dire che questa circostanza risponde al vero solo in minima parte. Molti monasteri non sono nemmeno stati interpellati. Se davvero tutti i monasteri avessero ricevuto un questionario e avessero risposto, il dicastero avrebbe avuto bisogno di anni e anni per elaborare il tutto.
Il nuovo assetto ha insomma il sapore di una normalizzazione. Come spiega, per esempio, Marian T. Horvat (https://www.traditioninaction.org/HotTopics/P043_Contempl_1.htm), ciò che si vuole è che le monache cambino il proprio stile di vita, con l’aggiornamento come stella polare e senza la possibilità di fare ricorso al diritto per rivendicare la propria autonomia e libertà, perché proprio il diritto è stato usato per imporre la rivoluzione.
Il cardinale Braz de Aviz è stato chiaro quando ha detto (https://www.ncronline.org/news/world/cardinal-religious-those-who-abandon-vatican-ii-are-killing-themselves) che i religiosi che non seguono il Concilio Vaticano II stanno uccidendo loro stessi. Essere inseriti nel mondo, non chiudersi ai cambiamenti della vita moderna: queste le indicazioni date dal prefetto, perché i contesti sono cambiati e “Dio non è statico”.
Se questa è l’ispirazione di fondo, si capisce meglio lo spirito delle nuove norme. Anche nella vita contemplativa il collegamento con il mondo e con le “povertà” deve avere il sopravvento. “Pregate e intercedete per tanti fratelli e sorelle che sono carcerati, migranti, rifugiati e perseguitati”, chiede Cor orans (n. 6).  Siamo sicuri che le monache già lo fanno, perché pregano per tutti.
Aggiornarsi, non guardare al passato e alla tradizione, cambiare: la richiesta che arriva dai vertici vaticani è pressante e sembra ignorare del tutto il fatto che, nella generale crisi delle vocazioni, gli unici ordini che attirano davvero le nuove generazioni sono quelli che, ben radicati nella tradizione, conservano la loro identità a tutti i livelli, anche dal punto di vista liturgico. Perché i giovani, oggi più che mai, non sono attirati dalle analisi sociologiche applicate alla vita della Chiesa, non dai corsi di aggiornamento e dalla “formazione continua”, ma dall’incontro autentico con Cristo nel silenzio orante.
Chi sembra guardare al passato in realtà è proprio chi continua a indicare il Vaticano II come punto di riferimento obbligatorio, ignorando la richiesta di autenticità e di amore per la tradizione che sta emergendo sempre più chiaramente, in controtendenza rispetto a certi dogmi modernisti che hanno ampiamente fatto il loro tempo.
Del resto i risultati dei processi di “liberazione” di religiosi e religiose sono sotto gli occhi di tutti. Non chi si è radicato nella tradizione, ma chi l’ha abbandonata per abbracciare il mondo ha prosciugato il proprio patrimonio spirituale, a forza di aggiornamenti e aggiustamenti.
No, non saranno i corsi di formazione, le federazioni, la centralizzazione e l’uniformazione a rinvigorire la vita contemplativa. La strada è tutt’altra ed è indicata da quei religiosi e quelle religiose che nel silenzio e nell’isolamento coltivano la relazione di preghiera con Dio secondo tradizioni originali e radicate e offrono le loro vite per la conversione di tutte le anime.
Un grande mistico, don Divo Barsotti, che decise di vivere la propria vita di preghiera nell’isolamento, diceva che la Chiesa oggi cade in un grande equivoco quando pensa di dover liberare dalla povertà e non dal peccato.  L’assistenza sociale non sostituisce l’amore cristiano e nessun processo di “rinnovamento” potrà rafforzare la fede, la speranza e la carità. In un mondo pienamente secolarizzato la strada dei religiosi non è quella di secolarizzarsi a loro volta. “Non incontri l’uomo, se prima non hai incontrato Dio… La vera comunione col mondo si ha quando si è separati dal mondo, perché se noi non entriamo in rapporto col Signore, si perde di vista il Tutto” (Divo Barsotti, I cristiani vogliono essere cristiani).
Lasciamo che religiosi e religiose incontrino Dio senza essere disturbati.

(Fonte: Aldo Maria Valli, 8-9-10 settembre 2018)
https://www.aldomariavalli.it/




mercoledì 5 settembre 2018

Alcune domande inquietanti sul caso “Kim Davis”


La documentazione fornita dall’arcivescovo Viganò in merito al “caso Kim Davis” fa molto più che smentire la versione dei fatti presentata dall’omosessuale dichiarato Juan Carlos Cruz sul New York Times secondo il quale papa Francesco avrebbe licenziato il nunzio Viganò perché “colpevole” d’avergli sabotato il viaggio in USA nel 2015 organizzando un incontro, non voluto dal Papa, con la signora Davis, paladina della battaglia contro le “nozze gay”.
Secondo Cruz il nunzio Viganò avrebbe fatto incontrare papa Francesco con la signora Davis senza che il Papa lo volesse e allo scopo di sabotare la politica bergogliana di apertura alle istanze liberal dell’allora amministrazione Obama. Ne sarebbe seguita l’ira papale e la decisione di licenziare Viganò. Ora però monsignor Viganò fornisce documenti che attestano oltre ogni dubbio che:
§  L’incontro del Papa con la signora Davis fu deciso con la Segreteria di Stato;
§  Che il Papa acconsentì personalmente all’incontro;
§  Che il Papa mai rimproverò il nunzio Viganò per aver promosso tale incontro ma anzi lo elogiò per l’ottima organizzazione del viaggio.
Tuttavia sempre dalla documentazione fornita da Viganò si rileva che:
§  La Sala Stampa Vaticana contribuì a generare l’idea che l’incontro del Papa con la signora Davis fosse avvenuto contro la volontà di papa Francesco;
§  Padre Lombardi e padre Rosica alimentarono ad arte la polemica;
§  Il Segretario di Stato card. Parolin convocò a Roma il nunzio Viganò concluso il viaggio papale in USA asserendo: «Devi venire subito a Roma perché il papa è furioso con te». Come si diceva, questo nuovo intervento di monsignor Viganò è molto più che una smentita di Cruz sul caso, interessante certo, ma limitato dell’incontro Bergoglio/Davis.
L’arcivescovo Viganò, fornendo documenti che smentiscono Cruz, implicitamente dice a Oltretevere e alla stampa internazionale che la nunziatura di Washington era fornita di ottime fotocopiatrici e che al nunzio non è difficile dotarsi di capienti portadocumenti. Ogni singola affermazione da lui fatta, Viganò è pronto a dimostrarla documenti alla mano!
Pare che la notizia dell’ottimo funzionamento delle fotocopiatrici in nunziatura fosse già nota in Vaticano che si è ben guardato dallo smentire nel merito la testimonianza di monsignor Viganò. Ad ogni smentita seguirebbe, infatti, la controreplica dell’ex nunzio in USA che, con documenti probanti, dimostrerebbe come falsa l’eventuale versione vaticana.
Ma c’è di più! Dai documenti resi pubblici da Viganò sul caso Davis, così come già dalla Testimonianza dell’ex nunzio in USA in merito al caso McCarrick, emerge un quadro inquietante circa la volontà e la libertà di papa Francesco.
Papa Francesco nel corso del suo viaggio in USA del 2015 acconsente ad incontrare la signora Davis – funzionaria civile oppostasi alle “nozze gay” e per questo finita in carcere – come propostogli dal nunzio Viganò e su parere positivo della Segreteria di Stato. Il Papa incontra la signora Davis il 24 settembre 2015.
La Sala Stampa Vaticana prima nega l’incontro dicendo che il Papa ha concesso udienza solo ad un suo ex alunno omosessuale, poi riduce l’incontro con la Davis ad un saluto di cortesia senza alcun significato. Infine il Segretario di Stato Parolin convoca a Roma Viganò informandolo che il Papa è furente per l’incontro con la Davis. Viganò si reca a Roma e viene ricevuto dal Papa che lo elogia per l’ottima organizzazione del viaggio … neanche una parola sull’incontro con la signora Davis, neanche l’ombra d’un rimprovero.
Perché il Romano Pontefice acconsente ad una proposta del suo nunzio in USA ma poi permette alla Sala Stampa Vaticana e al suo Portavoce di imbastire un’operazione mediatica tesa a presentare in cattiva luce il suo Nunzio e l’incontro avuto con la signora Davis? Perché la Segreteria di Stato prima approva la proposta di Viganò circa l’incontro con la Davis e solo dopo pochi giorni il Segretario di Stato convoca a Roma Viganò dicendogli che il Papa è furente? Perché, se furente, il Papa riceve Viganò, lo elogia e non fa parola dell’incontro con la Davis?
È il Papa ad aver cambiato e ricambiato idea in pochi giorni oppure attorno al Papa si sono mosse forze da lui non controllate e tra loro divergenti? Perché, se il Papa ha personalmente acconsentito ad incontrare la signora Davis, la Sala Stampa Vaticana agì come ha agito? L’azione di padre Lombardi e di padre Rosica è in obbedienza al Papa? Se sì, perché il Papa avrebbe smentito ciò che solo il giorno prima aveva deciso? Se no, perché il Papa ha consentito al suo Portavoce e alla sua Sala Stampa di agire autonomamente e contro una sua decisione? Perché se il Papa ha personalmente acconsentito ad incontrare la signora Davis, si sarebbe poi infuriato contro il nunzio Viganò che quell’incontro promosse? E se infuriato contro Viganò perché lo elogiò? Se invece si ipotizzasse che mai Francesco si infuriò con Viganò per l’incontro con la Davis, perché il cardinale Parolin fece venire con urgenza Viganò a Roma dicendogli che il Papa era furente con lui? Parolin agì per obbedienza al Papa o autonomamente?
Nella sua lunga Testimonianza sul caso McCarrick l’arcivescovo Viganò scrive dell’incontro avuto con papa Francesco il 21 giugno 2013: «Ed il papa, con un tono ben diverso, amichevole, quasi affettuoso, mi disse: “Sì, i Vescovi negli Stati Uniti non devono essere ideologizzati, non devono essere di destra come l’arcivescovo di Filadelfia, (il papa non mi fece il nome dell’arcivescovo) devono essere dei pastori; e non devono essere di sinistra – ed aggiunse, alzando tutte e due le braccia – e quando dico di sinistra intendo dire omosessuali”. Naturalmente mi sfuggì la logica della correlazione fra essere di sinistra e essere omosessuali, ma non aggiunsi altro».
Il nunzio Viganò nota che le parole del Papa relative all’arcivescovo di Filadelfia sembrano uscite dalle labbra del cardinale McCarrick: «Rientrato a Washington tutto mi divenne molto chiaro, grazie anche ad un nuovo fatto accaduto solo pochi giorni dopo il mio incontro con papa Francesco. Alla presa di possesso della diocesi di El Paso da parte del nuovo vescovo Mark Seitz il 9 luglio 2013 inviai il primo Consigliere, Mons. Jean-François Lantheaume, mentre io quel medesimo giorno andai a Dallas per un incontro internazionale di Bioetica. Di ritorno, Mons. Lantheaume mi riferì che a El Paso aveva incontrato il Card. McCarrick, il quale, presolo in disparte, gli aveva detto quasi le stesse parole che il papa aveva detto a me a Roma: “I Vescovi negli Stati Uniti non devono essere ideologizzati, non devono essere di destra, devono essere dei pastori…”. Rimasi esterrefatto! Era perciò chiaro che le parole di rimprovero che papa Francesco mi aveva rivolto quel 21 giugno 2013 gli erano state messe in bocca il giorno prima dal card. McCarrick. Anche la menzione da parte del papa “non come l’arcivescovo di Filadelfia” conduceva a McCarrick, perché fra i due c’era stato un forte diverbio a riguardo dell’ammissione alla comunione dei politici favorevoli all’aborto: McCarrick aveva manipolato nella sua comunicazione ai vescovi una lettera dell’allora Card. Ratzinger che proibiva di dare loro la comunione. Di fatto poi sapevo quanto certi cardinali come Mahony, Levada e Wuerl, fossero strettamente legati a McCarrick, avessero osteggiato le nomine più recenti fatte da papa Benedetto, per sedi importanti come Filadelfia, Baltimora, Denver e San Francisco».
Si noterà però che il Papa non si limitò a dire ciò che probabilmente gli suggerì McCarrick – «I Vescovi negli Stati Uniti non devono essere ideologizzati, non devono essere di destra, devono essere dei pastori» – ma completò il pensiero bilanciandolo con «e non devono essere di sinistra – ed aggiunse, alzando tutte e due le braccia – e quando dico di sinistra intendo dire omosessuali». Il che difficilmente avrebbe potuto suggerirlo McCarrick, di sinistra e omosessuale!  
Se questa nel 2013 era l’idea di papa Francesco sulla Chiesa statunitense perché lo stesso Francesco non solo liberò McCarrick da ogni restrizione precedentemente inflittagli per la sua condotta gravemente immorale e criminale, ma lo elesse a proprio gran consigliere per le questioni americane e sempre da McCarrick si fece consigliare non poche nomine (episcopali e cardinalizie)? Perché papa Francesco, dopo aver detto a Viganò in modo così esplicito di non volere vescovi “di sinistra” ovvero “omosessuali”, ha proceduto con nomine quasi tutte “di sinistra”, spesso amici e protetti di McCarrick? Perché ha creato cardinale Farrell già vice di McCarrick? Perché, insomma, papa Francesco ha agito come fosse in piena intesa con McCarrick e la potente lobby di cui McCarrick fu padrino?
La domanda sorge spontanea: è papa Francesco, per una sua psicologica costituzione, a mutare così radicalmente e rapidamente opinione? A contraddirsi con così clamorosa evidenza? A dire e disdire, affermare e agire all’opposto? Oppure il Papa è parte di un gioco più grande che lo vede pedina e non dominus reale?
Se si presupponesse il Papa assolutamente libero e padrone delle sue decisioni e, quindi, si attribuisse alla sola sua volontà il fare e disfare, il dire e contraddire emergerebbe con evidenza e anche con una certa violenza fattuale il problema dell’equilibrio mentale dell’uomo Jorge Mario Bergoglio. È lecito infatti dubitare della salute psichica di un uomo capace di contraddirsi così repentinamente e sistematicamente. Se così fosse si dovrebbe lasciare la parola alla psichiatria e al diritto canonico.
Se invece si presupponesse papa Francesco sano di mente e quindi si attribuissero le contraddizioni evidenti, segnalate da Viganò, non a labilità psichica ma a pressioni subite e all’azione indipendente di forze ecclesiali non controllate dal Papa, ci si dovrebbe chiedere quali siano queste forze in grado di condizionare così pesantemente papa Francesco. Perché papa Francesco, pur sapendo McCarrick omosessuale colpevole di abusi per decenni e non volendo vescovi “di sinistra” ovvero “omosessuali”, ha eletto proprio McCarrick a sua gran consigliere? Perché papa Francesco, pur avendo approvato l’incontro con la signora Davis ed averla amorevolmente incontrata e incoraggiata, ha permesso alla sua Sala Stampa di asserire il contrario e di fomentare l’idea che il Papa avesse subito una “trappola”? Perché si negò l’udienza concessa alla Davis mentre si pubblicizzò al massimo il fatto che il Papa avesse incontrato un suo ex alunno omosessuale? Due sole le possibilità: o il Papa è parte di una strategia volutamente destabilizzante che utilizza sistematicamente la menzogna e la falsificazione delle notizie oppure il Papa non è libero!
In quest’ultima ipotesi, cosa impedisce a papa Francesco di liberarsi? Quali ombre passate lo legano alla lobby di cui McCarrick fu padrino?

(Fonte: Emmanuele Barbieri, Corrispondenza Romana, 5 settembre 2018)
https://www.corrispondenzaromana.it/alcune-domande-inquietanti-sul-caso-kim-devis/