giovedì 29 dicembre 2022

Nuovi interrogativi su Papa Francesco

 


Natale, si sa, è una stagione di buoni sentimenti ed è comprensibile che papa Francesco abbia scelto questo momento per entrare nelle case degli italiani, attraverso l’intervista che ha rilasciato il 18 dicembre a Canale 5 sul tema “Il Natale che vorrei”. I temi che ha toccato sono argomenti a cui ognuno è sensibile, come la guerra, la povertà, la fame, l’inverno demografico, lo sport, i bambini. Le sue osservazioni sono sembrate ispirate a un buon senso naturale, tralasciando però di toccare le questioni di fondo, in tema di fede e di morale, che pure interpellano ogni giorno la nostra vita quotidiana. Molti di questi problemi vengono affrontati in due libri, apparsi in questi giorni, che cercano di far chiarezza sul pontificato e sulla personalità di papa Francesco. Sono, va detto subito, studi rigorosi e non pamphlet. Il primo, dal titolo François, la conquête du pouvoir. Itinéraire d’un pape sous influences (Contretemps, Versailles 2022, pp. 386, 25 euro), è di Jean-Pierre Moreau, uno specialista francese della teologia della liberazione; il secondo, Super hanc petram. Il Papa e la Chiesa in un’ora drammatica della storia (Fiducia, Roma 2022, pp. 276, euro 22), si deve a padre Serafino Lanzetta, un valente teologo italiano, che esercita il suo ministero nel Regno Unito.

Moreau va alla ricerca dei “maîtres à penser” di papa Francesco e li identifica negli artefici della “Teologia del Popolo”, un ramo della teologia latino-americana della liberazione ispirata al Patto delle Catacombe celebrato a Roma il 16 novembre 1965, quando una quarantina di vescovi, tra i quali monsignor Helder Câmara, proclamarono la necessità di tornare alla prassi del Gesù storico attraverso “una Chiesa serva e povera”. In quello stesso anno fu eletto generale della Compagnia di Gesù padre Pedro Arrupe, autore di un progetto di riforma della Chiesa che ne stravolgeva le fondamenta. Sia di mons. Câmara che di padre Arrupe è stata introdotta, sotto il pontificato di papa Francesco, la causa di beatificazione suscitando l’indignata sorpresa di conoscitori della teologia della liberazione, come Julio Loredo de Izcue, che si è giustamente chiesto se non ci troviamo di fronte a una «beatificazione del male».

Secondo Moreau, l’arcivescovo di Buenos Aires Jorge Mario Bergoglio, divenuto nel 2013 papa Francesco, ispirandosi alla “teologia del Popolo”, si sarebbe proposto di realizzare il piano politico-religioso di Arrupe, interrotto nel 1981 dalle sue dimissioni e dal successivo commissariamento della Compagnia di Gesù da parte di Giovanni Paolo II. Ma Moreau risale ancora più indietro e rintraccia il vero mentore di Jorge Mario Begoglio nel dittatore argentino Juan Domingo Peron, che giocò un ruolo decisivo nella politica del suo paese tra il 1940 e la sua morte, nel 1975. Sotto questo aspetto papa Francesco sarebbe anzitutto un “peronista”, non un ideologo, ma un uomo d’azione pragmatico e populista, attratto dalla dimensione politica, prima che soprannaturale della fede cattolica.  

Se l’approccio di Moreau è storico-politico, quello di padre Lanzetta è squisitamente teologico. Le parole e gli atti di papa Francesco sono esaminati nel suo libro con rigoroso spirito critico, ma anche con filiale devozione al Papato, mostrando il pericolo di far precedere la pastorale alla dottrina, l’agire all’essere, la persona del Papa all’istituzione della Chiesa. Molto penetranti sono le pagine che l’autore dedica alla nuova forma di Nominalismo, oggi diffuso, per cui le parole non corrispondono più alla realtà, ma sono usate per dire un’altra cosa rispetto al loro significato originario e autentico. Il Nominalismo è storicamente la strada maestra che porta al pragmatismo, cioè alla dissoluzione del pensiero, attraverso la dissoluzione del linguaggio. Gli stessi concetti di ortodossia ed eresia svaporano nel nominalistico primato della prassi. Sotto questo aspetto, più che la diffusione dell’eresia, il vero problema della Chiesa consiste oggi in quella che padre Lanzetta definisce efficacemente un’«apostasia liquida», che affonda le sue radici nel tentativo di separare «l’aspetto dottrinale della Rivelazione da quello pastorale, vedendo il cominciamento della predicazione non nelle verità da credere ma nel come credere, giudicandone l’opportunità e le modalità».

La crisi religiosa è dunque profonda, ma lo stesso papa Francesco, nell’Angelus di domenica 18 dicembre, ha affermato che nelle epoche di crisi Dio apre prospettive nuove, che noi prima non immaginavamo, magari non come noi ci aspettiamo, ma come Lui sa. Chi si sarebbe atteso, ad esempio le dichiarazioni rilasciate quello stesso 18 dicembre al quotidiano spagnolo ABC ?

Il Papa che all’epoca del Sinodo post-amazzonico del 2019 aveva contrapposto la saggezza dei nativi all’arroganza dei conquistadores spagnoli, oggi dice che: «L’ermeneutica per interpretare un evento storico deve essere quella del suo tempo, non quella attuale. È ovvio che lì (in America Latina, n.d.r.)  sono state uccise delle persone, è ovvio che c’è stato uno sfruttamento, ma anche gli indiani si sono uccisi a vicenda. L’atmosfera di guerra non fu esportata dagli spagnoli. E la conquista apparteneva a tutti. Distinguo tra colonizzazione e conquista. Non mi piace dire che la Spagna ha semplicemente “conquistato”. È discutibile, quanto volete, ma ha colonizzato. Se si leggono le direttive dei re spagnoli dell’epoca su come dovevano agire i loro rappresentanti, nessun re di nessun altro Paese fece tanto. La Spagna entrò nel territorio, gli altri Paesi imperiali rimasero sulla costa. La Spagna non ha fatto pirateria. Bisogna tenerne conto. E dietro a questo c’è una mistica. La Spagna è ancora la Madrepatria, cosa che non tutti i Paesi possono dire». Ha ragione Marcello Veneziani quando dice che papa Francesco sta cambiando da qualche tempo le sue posizioni (“La Verità”, 17 dicembre 2022) o ci troviamo di fronte allo svolgimento di un programma politico ispirato a una coerente filosofia della prassi?.

 

(Fonte: Roberto de Mattei, Corrispondenza Romana, 28 Dicembre 2022) 
https://www.corrispondenzaromana.it/nuovi-interrogativi-su-papa-francesco/

 

 

mercoledì 28 dicembre 2022

Caso Rupnik. Confermati i due processi e la scomunica


Come sapete il caso Rupnik continua a tenere banco sui media internazionali: QUIQUI e QUI MiL.

In queste ultime ore sono state rilasciate importanti dichiarazioni da diversi esponenti dei Gesuiti tra cui il Preposito Generale P. Sosa (QUI) che, evidentemente, inter alia, potrebbe dire il falso quando afferma che P. Rupnik rispetta le “misure cautelari” che gli sono state imposte (QUI).

A questo punto è necessario fare un po’ di chiarezza, anche cronologica, sugli eventi denunciati; dal momento che qualcosa non torna tra le denunce di fatti prescritti e le misure cautelari imposte, torniamo a fare altre domande oltre a quelle (QUI) a chi di competenza, avendo noi notizie ulteriori da altissima fonte:

1) Se, come risulta a MiL, iniziando nel 2019 e concludendosi 2020, ci fu un processo canonico per il reato di assoluzione del complice (Can. 977), condotto dal P. Francisco Javier Canseco S.M. e da altri due inquirenti non gesuiti, quale fu la risultanza canonica di questo processo? 

 2) In seguito a ciò che decisione prese l’allora Congregazione per la Dottrina della Fede? Ribadiamo che a noi risulta la scomunica latae sententiae. Che fine ha fatto e perchè è stata bloccata?

3) Se, come sappiamo, l’accertamento del reato di assoluzione del complice prevede la scomunica latae sententiae, le misure inflitte a Padre Rupnik, dunque, non furono, secondo le fonti di MiL, cautelari ma parte del dispositivo di condanna. Perché la Compagnia di Gesù continua ad omettere e negare questa circostanza?

4) Da chi e quando fu rimessa la sola scomunica di cui al punto 3, dato che il reato è di esclusiva competenza del Dicastero per la Dottrina della Fede?

Il processo per “assoluzione del complice” (punti 1-4) non riguardava suore slovene ma una “consacrata” italiana (una novizia) e non era prescritto, come invece lo erano i fatti su cui indagò Mons. Daniele Libanori nel 2021 (le molestie).

Quindi, in sintesi, ci furono due procedimenti, A) uno riguardante l’assoluzione del complice (una donna consacrata maggiorenne) tenutosi dal 2019 al 2020 e B) uno tenutosi dal 2021 al 2022 riguardante gli abusi sulle suore slovene e dichiarato prescritto.

5) Con riferimento al secondo procedimento ci si chiede: perché la Santa Sede non derogò alla prescrizione come previsto dal Vademecum della Congregazione per la Dottrina della Fede (QUI punto 7 del vademecum in link).

6) Chi decise – e con quale provvedimento – la prescrizione?

Vorremmo che, per il bene di Santa Romana Chiesa, e dei fedeli, le Autorità dessero una risposta chiara a questi interrogativi e facessero cadere la coltre di nebbia che avvolge questo caso e che, in primis, produce una grande sofferenza tra le vittime di questi raccapriccianti abusi ma anche suscita grande scandalo tra tutti i fedeli e mina l’autorevolezza della Chiesa.

 

(Fonte: Luigi, Corrispondenza Romana, 9 dicembre 2022) 
Caso Rupnik. Nuovissime notizie! Confermati i due processi e la scomunica - Corrispondenza romana

 

 

A proposito di Andrea Cionci


C’è in Italia un giornalista che scrive di cose della Chiesa e si lamenta essere ignorato da una serie di intellettuali e di testate cattoliche di orientamento tradizionale, di cui riporta un puntiglioso elenco, accusandole di sottrarsi a un confronto che il giornalista giudica doveroso data l’importanza del tema: i presunti messaggi in codice che l’unico papa legittimo, Benedetto XVI, trasmetterebbe per denunciare l’impostura dell’antipapa, Jorge Maria Bergoglio. Il giornalista non si duole delle numerose critiche che ha già ricevuto, ma di quelle che non sono ancora arrivate, impedendo, con questo silenzio, che la sua ricostruzione delle vicende della Chiesa venga presa nell’«attenta, serissima e approfondita considerazione» che, a suo avviso, merita. 

Poiché tra le testate che egli accusa di non avere ancora espresso un giudizio su di lui e sulla sua opera, c’è anche Corrispondenza Romana, non abbiamo difficoltà a soddisfare il suo desiderio: si chiama Andrea Cionci, un giornalista di cui abbiamo apprezzato gli articoli fino ai primi mesi del 2020 quando, con la pandemia, sembra aver completamente perso la bussola, come altri promettenti ingegni. 

Cionci si vanta di aver pubblicato centinaia di articoli e un libro che ha venduto 12.000 copie ed è stato tradotto in due lingue, ma si illude se pensa che questi numeri corrispondano a un ampio consenso di pubblico. La ragione del suo successo sta nella “curiosità” che le sue cervellotiche tesi suscitano tra lettori amanti del sensazionalismo. La vana curiositas che, come spiega san Tommaso, è l’aspetto vizioso del desiderio di conoscere (Somma Teologica, II-II, q. 167), è una malattia della mente da cui ogni cattolico deve guardarsi. Questa è la ragione per cui non riteniamo necessario pubblicizzare il suo libro e i suoi articoli, senza che di ciò ci si debba far rimprovero.   

La ragione per la quale il silenzio ha accompagnato la sua “inchiesta” sul conclave del 2013 sta anche nel fatto che egli pretende di parlare di una questione non solo seria, ma drammatica, riguardante la vita della Chiesa, senza avere la pur minima competenza per farlo. Cionci infatti non ha alcuna conoscenza teologica o canonica, ma soprattutto sembra  privo di quel buon senso, prima ancora che di quello spirito cattolico, che è condizione necessaria per affrontare problemi delicati e complessi che toccano la vita delle anime. Gli “esperti” a cui si richiama per giustificare le sue tesi sono citati a sproposito, perché nessuno di essi le condivide. E l’unica arte di cui egli si dimostra padrone è purtroppo quella del sofisma.

L’abdicazione di Benedetto XVI e il modo con cui essa è avvenuta sono considerati da molti studiosi e anche da eminenti membri del Sacro Collegio come un grave errore, mentre per Cionci è un’astutissima manovra del “Papa emerito” per mettere con le spalle al muro il suo rivale Francesco. Cionci ha coniato l’espressione di “auto-impedimento” per descrivere un’inedita situazione in cui Benedetto XVI, unico vero Papa, combatte in maniera occulta contro l’usurpatore Bergoglio. Papa Benedetto, a suo parere, si esprime in maniera criptica, attraverso una comunicazione in codice che solo Cionci è in grado di decifrare. Ma se il linguaggio di Benedetto è volutamente segreto, non si capisce perché Cionci, che è un suo ammiratore, lo riveli al mondo intero. Benedetto, direttamente o attraverso il suo segretario mons. Georg Gänswein, ha più volte smentito la tesi che lo vuole ancora Papa regnante, ma ogni smentita è per Cionci una conferma, perché, a suo avviso, se Benedetto confermasse pubblicamente il suo piano, svelerebbe il gioco che conduce. E se Benedetto dicesse che Cionci è matto, il nostro sarebbe pronto a dichiarare che, in senso spirituale, la follia può rappresentare il passaggio ad un alto livello di conoscenza. Non a caso nelle carte dei Tarocchi il “matto” cambia il suo significato a seconda di come esce nel giuoco, positivo se è diritto, negativo se è a rovescio. 

Cionci afferma che il prof. Roberto de Mattei, direttore di Corrispondenza Romana, «non ha colto che la questione della legittimità di Bergoglio è canonica, anni luce prima di essere teologica».  In realtà è proprio il Diritto canonico, prima ancora della dottrina teologica, a rendere inconsistente la tesi di Cionci, per cui la Chiesa cattolica sarebbe prossima alla sua fine, a causa di un’illegittima successione al pontificato. Cionci sembra ignorare che la Chiesa è necessariamente, e per sua natura, una società visibile. Pio XII lo esprime in questi termini: «La Chiesa cattolica è il gran mistero visibile, perché visibile è il suo capo sulla terra, il Vicario di Cristo, visibili sono i suoi ministri, visibile la sua vita, visibile il suo culto, visibile l’opera e l’azione sua per la salvezza e la perfezione degli uomini” (Discorso del 4 dicembre 1943).

Se la Chiesa cattolica non fosse visibile, non potrebbe essere riconosciuta ed essa può e deve essere riconosciuta da ogni uomo sulla terra proprio per le proprietà visibili che la caratterizzano. Questa visibilità è data innanzitutto dalla successione apostolica, un carattere che si trova solo nella Chiesa cattolica romana. Chi proclama l’interruzione della successione apostolica si situa nel solco delle innumerevoli conventicole eretiche di cui sant’Alfonso Maria de’ Liguori ha fatto un esauriente e sempre attuale compendio (Storia delle eresie colle loro confutazioni, Phronesis, Palermo 2022). Nell’orgoglio, nota sant’Agostino, hanno la loro radice tutte le eresie e le apostasie della fede (Sermo 46, n. 18). Solo un uomo pieno di presunzione può anteporre l’opinione propria al giudizio della Chiesa universale fondata da Dio. Per mortificare quella forma di orgoglio della mente che è la vana curiositas, potrebbe essere utile sostituire alle letture mattutine o serali di tanti blog pseudo-cattolici, le meditazioni illuminanti sull’Avvento del grande abate di Solesmes, dom Prosper Guéranger (1805-1875). Le parole della Liturgia spiegate da don Guéranger parlano di tenebre che Dio solo può dissipare e di piaghe che solo la sua bontà può risanare: sono le piaghe della Chiesa e sono le tenebre in cui è immerso chiunque rifiuta di accettarne il Mistero.

 

(Fonte: Roberto de Mattei, Corrispondenza Romana, 30 Novembre 2022) 
https://www.corrispondenzaromana.it/a-proposito-di-andrea-cionci/

  

mercoledì 7 dicembre 2022

Il "caso Rupnik" ferisce anche la credibilità della Chiesa


Il celebre artista gesuita nell'occhio del ciclone: violenze psicologiche e forse sessuali risalenti a 30 anni fa. In più, la clamorosa indiscrezione su una presunta scomunica per «assoluzione del complice in confessione», poi bloccata dal Papa in persona. Ne esce ammaccata anche la Chiesa.

 

Che succede quando ad essere adombrato dall'accusa di abusi è uno dei religiosi più famosi al mondo? Nel caso che sta tenendo banco nel mondo ecclesiastico in questi giorni non c'entrano minorenni, ma le denunce di presunte violenze psicologiche e forse sessuali ai danni di alcune suore.

I fatti risalirebbero ai primi anni Novanta e sarebbero avvenuti nella Comunità Loyola di Lubiana in cui era confessore il teologo ed artista sloveno padre Marko Ivan Rupnik. Quest'ultimo, nel frattempo divenuto una celebrità dell'arte sacra per i suoi mosaici neobizantini nonché membro e consultore di vari Pontifici Consigli, è l'uomo accusato da tre religiose di «abusi di coscienza ma anche affettivi e presumibilmente sessuali». Accuse messe nero su bianco in una lettera pubblicata dalla rivista Left e che, secondo l'autrice, sarebbe stata inviata nell'estate del 2021 al Papa senza però ottenere risposta. 

È alle motivazioni addotte nella lettera che si dovrebbe l'allontanamento – avvenuto nel 1993 – di Rupnik, appartenente alla Compagnia di Gesù, dalla Comunità fondata dalla sua amica, suor Ivanka Hosta. All'epoca, quindi le ombre sull'artista sloveno sarebbero state "coperte" con il benestare – sempre secondo il racconto di una delle presunte vittime – dell'allora arcivescovo di Lubiana, monsignor Alojzij Šuštar. Proprio al dicembre del 1993 risale l'inaugurazione della "creatura" più famosa di Rupnik, quel Centro Aletti nato a Roma per far parte del Pontificio Istituto Orientale e benedetto da San Giovanni Paolo II in persona.

Il dossier sloveno su Rupnik sarebbe rimasto sconosciuto se non fosse stato per il commissariamento della Comunità Loyola avvenuto – ha fatto sapere Left  nel 2020 ed affidato ad un altro gesuita, il vescovo ausiliare della diocesi di Roma, monsignor Daniele Libanori. Questo commissariamento, di cui non è stata data alcuna notizia ufficiale, sarebbe partito a seguito del numero sorprendente di suore uscite dalla comunità e apparso a Roma come una spia del malessere per una gestione evidentemente problematica. Riaprendo quel vaso di Pandora a Lubiana, presumibilmente deve essere affiorata anche la vicenda relativa al gesuita sloveno e risalente a quasi venti anni prima.

Dopo le voci dei giorni scorsi, ieri si è avuta la prima conferma tramite una dichiarazione – datata 2 dicembre – firmata Domus Interprovinciales Romanae dei gesuiti. Dalla nota si apprende che nel 2021 il Dicastero per la dottrina della fede ha ricevuto una denuncia relativa al «modo di esercitare il ministero» di padre Rupnik. L'ex Sant'Uffizio ha affidato l'indagine direttamente alla Compagnia di Gesù che ha nominato un istruttore esterno e poi ha redatto una relazione sul caso. Sulla base di questa relazione, il Dicastero per la dottrina della fede «ha costatato che i fatti in questione erano da considerarsi prescritti e ha quindi chiuso il caso». 

Roma locuta est a fine ottobre 2022, mentre la Compagnia ha fatto sapere di mantenere in vigore le misure amministrative imposte al teologo sloveno durante la fase d'indagine: divieto di confessare, di accompagnamento negli Esercizi Spirituali e di direzione spirituale, oltre all'obbligo di chiedere il permesso al superiore locale per svolgere attività pubbliche. 

Una certa elasticità in quest'ultima limitazione è all'origine della lettera a Left di una delle tre suore che hanno denunciato abusi per mano dell'artista: la donna, infatti, ha confessato di aver deciso di scrivere alla rivista dopo aver visto un recentissimo video su youtube con un'omelia di Rupnik e dopo essersene lamentata con il vescovo Libanori. I commenti del religioso sloveno al Vangelo sono stati pubblicati anche questa domenica sulla pagina del Centro Aletti, quindi nonostante le polemiche provocate dall'inchiesta di Left e nonostante il comunicato dei gesuiti che ha confermato la notizia delle misure. 

Peraltro Rupnik solamente pochi giorni fa ha ricevuto il titolo di Doctor Honoris Causa,  in un'università pontificia in Brasile ed ha tenuto per l'occasione una lezione sul tema Educare alla Bellezza nell'Aula Magna. 

Ma la corretta applicazione o meno delle misure amministrative comminate dalla Compagnia di Gesù non è l'unico argomento che sta facendo discutere in questi giorni sul caso Rupnik: l'altra "bomba", infatti, l'ha sganciata due giorni fa il blog Messa in Latino sostenendo di averla appresa da «fonti in altissimo loco». Secondo Messainlatino.it, ai danni del gesuita sloveno sarebbe stata emessa addirittura una sentenza canonica di condanna relativa ad un «processo per l'assoluzione del complice in confessione» di cui, per competenza, si sarebbe occupato il Tribunale del Dicastero per la dottrina della fede. La sentenza, in base a quanto riportato dalla fonte di Mil, avrebbe comportato la scomunica latae sententiae per Rupnik che però sarebbe stata successivamente bloccata dal Papa in persona.

Un'indiscrezione clamorosa ma priva di conferme dal Vaticano e che non trova traccia nell'unico comunicato ufficiale fino ad ora uscito sulla vicenda, quello della Provincia Romana della Compagnia di Gesù che invece ha confermato il contenuto delle rivelazioni su Left. Bisogna ammettere che queste accuse – seppur prescritte – segnano una nuova battuta d'arresto per la credibilità della Chiesa sul fronte del contrasto agli abusi commessi da religiosi e che ad uscirne ammaccata non può essere solo l'immagine dell'attuale pontificato dal momento che i fatti contestati al teologo ed artista sloveno risalgono agli inizi degli anni '90 ed erano emersi già allora. 

 

(Fonte: Nico Spuntoni, LNBQ, 6 dicembre 2022) 
https://lanuovabq.it/it/il-caso-rupnik-ferisce-anche-la-credibilita-della-chiesa

 

 

giovedì 20 ottobre 2022

L’assurdità di piegare l’etica per non essere divisivi


Nell’ultima scontata intervista [qui], il card. Matteo Maria Zuppi conferma la deliberata cancellazione dei «principi non negoziabili» dall’agenda della Cei, per via del loro essere divisivi. E, anzi, in quanto prassi, la fede del cattolico in politica – dice – «è di tutti e non può essere divisiva».

Tramontata, in modo definitivo, l’agenda Ratzinger-Ruini, Zuppi ritiene che il cattolico in politica, sia pure «mai rinunciando alle proprie convinzioni», debba scendere a compromessi. E difatti, secondo il cardinale, queste convinzioni servono a «tradurre l’etica» in «scelte a seconda delle necessità e delle opportunità». Non sono dunque le necessità e le circostanze storiche che vanno tradotte, comprese e, se necessario, smontate e ricostruite rispetto alla verità, ma è l’etica – che Zuppi chiama «visione cristiana» – che va tradotta e adattata alle circostanze storiche e fluide.

Il cattolico, cioè, «deve tradurre la dottrina sociale sempre con la necessaria mediazione e laicità, che poi è la storia comune a tutti». Ecco, la dottrina sarebbe allora qualcosa di poco chiaro o di astratto, da interpretare e sistemare tra le pieghe della storia. Le pieghe dovrebbero restare come sono: è la dottrina invece destinata a piegarsi nel solco delle pieghe.

L’impianto del discorso traballa anche solo a partire dal cattolico e dalle «proprie convinzioni» o dalla sua «visione cristiana». Da decenni s’è imposta la norma del cattolico non solo indifferente all’etica, ma del tutto a favore di aberrazioni morali come l’aborto, la distruzione del matrimonio o l’eutanasia. Nessuna visione cristiana a monte, dunque, se non in pochi casi isolati.

Ma il discorso del Presidente della Cei è inaccettabile per motivazioni legate alle fondamenta stesse della fede. Zuppi mette Dio e l’amore al centro di tutto, così come appunto dev’essere. Tralascia, però, secondo un uso più che consumato, di declinare l’amore secondo la giustizia, riducendolo alla misericordia. Se l’amore fosse declinato secondo giustizia – secondo questo suo schema – non sarebbe più «incontro», «comunione», «presenza», ma «forza di occupazione», «sistema intellettuale», «conservativo».

Che l’amore, al contrario, sia anche giustizia non è solo indicato dalle realtà spirituali (inferno, purgatorio), ma pure da quelle temporali. E, anzi, le realtà temporali hanno il dovere di amministrare la giustizia, come afferma san Paolo, non di occuparsi di misericordia: «il magistrato non porta la spada inutilmente, essendo ministro di Dio, e vindice nell’ira divina per chi fa il male» (Rm 13, 4).

San Paolo dice chiaramente che è dovere dell’autorità lodare il bene e sanzionare il male (cf. Rm 13, 3-4). L’autorità, inoltre, non è contro Dio: «Ogni persona sia sottoposta alle autorità superiori; perché non v’è podestà se non da Dio, e quelle che sono, son da Dio ordinate» (Rm 13, 1). Uno dei valori (e tra le virtù primarie) della Dottrina sociale della Chiesa c’è la giustizia, declinata in giustizia commutativa, distributiva e legale (cfr. Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, n. 201). Tra queste, la «giustizia sociale», in quanto «esigenza connessa alla questione sociale», «rappresenta un vero e proprio sviluppo della giustizia generale, regolatrice dei rapporti sociali in base al criterio dell’osservanza della legge» (ivi).

Non v’è altro senso, quindi, nel concetto di «principi non negoziabili», se non quello di realizzare la giustizia nell’ambito della famiglia e della vita. La giustizia, in questo senso, procede dall’amore ed è la vocazione primaria di chi fa politica.

Da questo punto di vista, la prosa del cardinale è molto astratta e non coglie la sostanza di nessuna questione particolare, che abbia a che fare con l’etica (o con la bioetica). Che significato possono avere affermazioni di questo tipo, se non la pura astrazione? – «la presenza è stare per strada»; «il carisma è un dono e va speso»; «ci troviamo sommersi da tante domande che riguardano la sfera dell’umano».

Ha insomma ragione l’intervistatore: «Il cardinale Zuppi cesella le parole con la lima». E infatti le sue parole sono molto belle, sono tante belle parole.

 

(Fonte: Silvio Brachetta, Osservatorio card. Van Thuân sulla dottrina sociale della chiesa, 20 ottobre 2022) - https://vanthuanobservatory.com/2022/10/20/lassurdita-di-piegare-letica-per-non-essere-divisivi/

 

 

venerdì 14 ottobre 2022

Concilio, il fine “pastorale” è la fonte degli equivoci


A 60 anni dalla sua inaugurazione, si dibatte ancora se la valutazione del Vaticano II debba riguardare solo la sua applicazione o anche i suoi documenti. C’è un fattore, proprio del Concilio, che ha prestato il fianco ai travisamenti applicativi: il suo scopo “pastorale”, che ha influito sulla presentazione della dottrina.

 Il Concilio Vaticano II inaugurato da Giovanni XXIII l’11 ottobre 1962, sessant’anni fa, non cessa di interrogare la Chiesa, nonostante i tentativi o di celebrarlo come acquisizione indiscussa o addirittura un dogma, o di considerarlo ormai superato perché saremmo nella fase di un post-Concilio definitivamente post. Del Concilio come problema è alquanto difficile liberarsi.

La questione principale che rimane ancora aperta è se la sua valutazione debba riguardare solo l’applicazione del Concilio o il Concilio stesso. A fare problema e a provocare discussione sono state solo le (spesso) avventurose applicazioni del Concilio, che non avevano nessuna relazione con i testi approvati dai Padri, oppure c’era qualcosa che si prestava all’equivoco anche nei testi? Nel Concilio c’è stato qualcosa che poi è sfuggito di mano, qualcosa che è poi sfuggito di mano perché formulato nel Concilio in modo da permettere che sfuggisse di mano?

Sui travisamenti applicativi del Concilio, le fughe in avanti appellandosi al suo “spirito” e non alla sua “lettera”, si possono fare infiniti esempi. Questi sessant’anni, compresi i nostri giorni, ne sono pieni. Ci sono però molte prove anche a sostegno che qualche problema impostato in modo poco chiaro c’era nel Concilio stesso. Altrimenti non si spiegherebbe perché molte applicazioni distorte comunque hanno potuto far leva su questo o quell’altro passaggio dei documenti conciliari. Per esempio, la sinodalità che oggi si vuole imporre con la fase sinodale in atto si fonda sulla nozione di “segni dei tempi”, una delle espressioni più ambigue del Vaticano II e che si presta ad ogni strumentalizzazione: oggi nella Chiesa si dice che anche l’emergenza dei diritti delle coppie omosessuali sarebbe un segno dei tempi, ossia un soffio dello Spirito.

Il Concilio come problema non può quindi essere relegato nelle sue manchevoli applicazioni, ma collegato anche a fattori suoi propri. Ora ci si chiede: qual era il principale di questi fattori suoi propri? Quale elemento produce impedimenti alla piena comprensione del Concilio, e continua a farlo anche dopo sessant’anni? A mio avviso si tratta del suo carattere essenzialmente “pastorale”. Il Vaticano II fu convocato per esigenze pastorali, eppure proprio questa sua caratteristica ha confuso le cose, sicché anche oggi esso rimane da decifrare.

Era, ed è, molto difficile pensare che la finalità pastorale di ri-presentare il messaggio cristiano all’uomo contemporaneo - finalità propria del Concilio - non comportasse anche un ri-pensamento della dottrina. Un po’ di ingenuità in questo campo è ravvisabile nel discorso di apertura di Giovanni XXIII, ma poi non più. E infatti il Concilio fu pienamente dottrinale, approvando esso anche delle Costituzioni “dogmatiche”. Nello stesso tempo, però, il suo scopo non era primariamente dottrinale, dato che era primariamente pastorale, sicché questo ultimo intento (pastorale) influì sul ri-pensamento e sull’esposizione dell’altro elemento (dottrinale). Da qui sono nati tutti i problemi.

Intanto, per motivi pastorali, alcuni elementi della dottrina o furono taciuti o furono formulati in modo da non scontentare. Il comunismo non fu condannato per questi motivi; il rapporto tra Scrittura e Tradizione fu pensato tenendo conto delle esigenze dei rapporti ecumenici con i protestanti; anche la discussione assembleare su quale spazio assegnare a Maria Santissima risentì di queste preoccupazioni; l’accoglienza del personalismo si deve all’idea che la mentalità contemporanea apprezza molto la soggettività.

Poi, per motivi pastorali, si scelse un linguaggio non definitorio ma narrativo, che però necessariamente risultava più sfumato e da interpretare. Il problema del linguaggio del Concilio è un grosso problema. Nei testi ci sono molte espressioni, come per esempio l’incipit della Gaudium es spes, che vengono continuamente citate, ma hanno scarsissima precisione dottrinale e debole consistenza teologica. La Gaudium et spes viene chiamata (problematicamente) “Costituzione” pastorale, ma la fotografia del mondo contemporaneo che essa propone nella sua prima parte con un linguaggio sociologico ed esistenziale che valore teologico e magisteriale ha? Molte espressioni devono essere collegate con altre per avere un quadro completo del problema presentato, ma questo è un lavoro complesso e di difficile attuazione per i non addetti ai lavori. Si pensi, a questo proposito, alla definizione di bene comune della Gaudium et spes, oppure alla famosa frase secondo cui l’uomo è l’“unica creatura che Dio ha voluto per se stesso”. Questa si può interpretare sia in senso antropocentrico che in senso teocentrico.

Per motivi pastorali, poi, sono stati presentati in modo nuovo dei problemi senza però adeguatamente risolverli dal punto di vista della certezza magisteriale. Si pensi alla dottrina della libertà religiosa della Dignitatis humanae. Quell’insegnamento non chiude il cerchio e fa discutere ancora oggi. Se lo avesse chiuso, non ci sarebbe stato bisogno di pubblicare la Dominus Iesus e, all’opposto, Francesco non avrebbe firmato la Dichiarazione di Abu Dhabi.

Più in generale: nei testi conciliari è difficile distinguere tra quanto è dottrinale e quanto è pastorale e questo ha poi permesso che una nuova visione di pastorale si imponesse in teologia, una pastorale che co-produce dottrina insieme con la Rivelazione. E qui si aprono le porte a tanti aspetti inaccettabili della teologia contemporanea. Quella del Concilio era ancora una teologia della pastorale, ma poi si è elaborata una teologia pastorale, nella quale oggi si inserisce la nuova versione pastoralista della sinodalità.

Il Concilio Vaticano II impegnerà la Chiesa anche nei prossimi sessant’anni.


(Fonte: Stefano Fontana, LNBQ, 11 ottobre 2022) 
Concilio, il fine “pastorale” è la fonte degli equivoci - La Nuova Bussola Quotidiana (lanuovabq.it)

 

venerdì 7 ottobre 2022

“Omosessualità è di natura”: Milano supera il Segno


Il mensile della Chiesa di Milano “Il Segno” dedica la copertina di ottobre al “tabù omosessualità". Un concentrato di tesi per normalizzare la condizione gay, accettarla come "di natura" e "espressione di amore cristiano". Le solite fonti: da Fumagalli a Padre Piva a suor Giuliana Galli all'insegna del "nessuna condanna". E il solito Moia che arriva pure a rimproverare alla Chiesa di aver sbarrato la strada ai gay con una dottrina chiusa. L'immagine è quella di una Chiesa aperta da tutti i lati. Sì, così aperta che fa acqua da tutte le parti.

 Da tempi immemori, la Chiesa è stata considerata come la nuova arca noachica, che salva quanti vi entrano dalle acque mortifere del peccato e del mondo. O ancora come una barca, capace di rimanere a galla in mezzo ai marosi della storia. A Fabio Landi, direttore del mensile della diocesi di MilanoIl Segno, piace invece lanciare l’immagine di una Chiesa “aperta da tutti i lati”. Che, se associata all’immagine tradizionale della Chiesa arca/barca, non dona un’idea molto rassicurante del Corpo mistico di Cristo.

Il riferimento è alla chiesa di San Carlo al Lazzaretto di Milano, oggi in zona Porta Venezia, ma all’epoca dell’erezione del piccolo altare, alla fine del XV secolo, era la zona dedicata al lazzaretto. Più precisamente, l’altare era collocato al centro del lazzaretto, di modo che potesse essere visto da ogni punto. Lì, circa un secolo dopo, all’epoca della “peste di San Carlo”, il grande vescovo di Milano dispose la costruzione di un edificio ottagonale, con una singolare caratteristica: doveva rimanere aperto da tutti i lati, per permettere la visione delle celebrazioni liturgiche a tutti gli appestati ed impedire che rimanessero privi della vita liturgica sacramentale della Chiesa, nel momento della grande prova. Il raffronto con quanto abbiamo vissuto al tempo della pandemia Covid-19 è piuttosto evidente, ma non è l’argomento di questo articolo.

Torniamo all’editoriale del numero di ottobre di Fabio Landi; questo esempio architettonico di sublime carità è stato completamente distorto nel suo significato. Ci informa infatti il direttore che esso è stato scelto per la celebrazione mensile animata da un gruppo di fedeli omosessuali, divenendo, con tale iniziativa, «il ritratto della Chiesa così fortemente voluta da Francesco: aperta, accessibile, essenziale, per mostrare Dio a tutti». L’effetto nemmeno troppo collaterale è quello di una Chiesa talmente aperta da far acqua da tutte le parti, come documenta l’approfondimento interno curato da Laura Badaracchi.

I “Giovani del Guado” oggi conta circa settanta persone di svariati orientamenti sessuali, che scorrazzano tra parrocchie, oratori e associazioni presenti nella Diocesi di Milano per farsi conoscere ed organizzare ritiri per dare spazio «ai momenti di convivialità e alla preghiera, alla riflessione e formazione su vari temi», spiega uno dei coordinatori, Francesco Gagliardi. Tra questi temi compare anche «la vita di coppia». Iniziative che pare abbiano un grande successo e godano di molti aiuti: «Cerchiamo di invitare teologi, biblisti, sacerdoti per aiutarci: li troviamo facilmente, sono molto disponibili. Facciamo parte di una grande rete che ha ottimi contatti e ce li passa: oserei dire che siamo viziati». La vita del cattolico non LGBT non è così facilitata, specie se ha la sventura di essere etichettato come tradizionalista o conservatore; non che ce ne dispiaccia, bisognerebbe però avere almeno l’onestà di rivedere la retorica della mancanza di “inclusività”.

Nella Chiesa si moltiplicano le attività per normalizzare la condizione omosessuale. L’articolo presenta l’opera di “accompagnamento” del gesuita padre Pino Piva a Bologna e le iniziative di don Gabriele Davalli, il direttore dell’Ufficio famiglia della diocesi felsinea, quello della benedizione della coppia gay “sposatasi” civilmente a Budrio (vedi qui). Si parla del gruppo Zaccheo, voluto dal vescovo di San Severo, Mons. Giovanni Checchinato: tutto all’insegna del superare i preconcetti e andare al di là degli stereotipi. Al di là anche dell’insegnamento della Chiesa?

La domanda viene rivolta a don Aristide Fumagalli, zelante sostenitore della nuova linea morale della Chiesa post-Amoris Laetitia, quella del bene possibile attraverso il male reale. Il teologo risponde che «la dottrina del Magistero non esclude che la persona omosessuale possa corrispondere alla vocazione cristiana all’amore, ma nega la legittimità morale di un amore che volesse esprimersi anche sessualmente». Bene.

Tuttavia, nel suo saggio L’amore impossibile. Persone omosessuali e morale cristiana, sostiene l’idea di un’identità omosessuale che non può e non dev’essere riconsiderata, ma riconosciuta ed accettata. Secondo la presentazione che ne ha fatto Luciano Moia (vedi qui), per Fumagalli «la condanna degli atti o omosessuali, “non contempla la possibilità, sconosciuta sino all’epoca contemporanea, che gli atti omosessuali corrispondano alla natura della persona ed esprimano l’amore personale”. Non quindi atti dettati da «idolatria religiosa ed egoismo edonistico» – le due condizioni che li rendono inaccettabili – ma “espressione di amore personale cristiano”. Fumagalli parte da un dato scientifico che non si può ignorare. Oggi gli studiosi sono in gran parte concordi nel considerare l’omosessualità “espressione di una condizione esistenziale che costituisce e pervade, similmente all’eterosessualità, l’identità della persona”».

Anche Moia trova nell’articolo spazio più che sufficiente per pontificare, esibendo tutto un frasario che più stereotipato non si può. Prima se la prende con la Chiesa, che avrebbe esercitato «per troppo tempo […] un forte controllo delle coscienze, evitando una crescita educativa». In questo modo, «ha chiuso la strada a qualsiasi spazio di discernimento personale e per troppo tempo ha continuato a proporre una dottrina “chiusa”, senza accorgersi che l’insistenza su norme morali, ormai dichiarate inattuali dal tribunale della storia, rischiano di mettere in sordina l’annuncio cristiano».

La dottrina della Chiesa viene accantonata dal “tribunale della storia” – chissà cosa ne pensano nel “tribunale di Dio” -, e i suoi insegnamenti sulla questione derubricati a «dispute dottrinali e contese pastorali», che a giudizio di Moia, non devono essere risolti dal Magistero, ma dal discernimento esercitato dai laici. La strada che conduce a «costruire una dottrina da museo e schierarsi tutt’intorno per difenderla» dev’essere abbandonata a pro di «un giardino di relazioni» che accolgano le persone. Questo nuovo atteggiamento pastorale «è profondamente cambiato quasi ovunque grazie al magistero di Papa Francesco, che ha aperto la strada anche a uno sviluppo della dottrina».

Dulcis in fundo, spazio alla testimonianza di una donna. Tale suor Giuliana Galli, delle suore del Cottolengo, che, quasi alla soglia dei novant’anni, ha tirato le orecchie alla nota consorella che aveva allontanato due modelle, mentre posavano scambiandosi un bacio saffico, attirandosi così una valanga di sbeffeggiamenti da parte di quegli stessi media che poi invitano a non giudicare. Anche Suor Giuliana difende quella «posizione nella vita non riconosciuta e ritenuta vizio o malattia, mentre è un modo di essere e di vivere». «Un percorso alternativo, che va rispettato», per il quale bisogna deporre ogni rigidità. «Io non ho negazione da fare, né condanna da dire», conclude la religiosa.

E l’articolista trae l’originalissimo insegnamento morale della questione: «L’atteggiamento giusto, in ogni contesto: misericordia, non giudizio». Slogan passpartout per continuare ad aprire i vari lati della Chiesa.

 (Fonte: Luisella Scrosati, LNBQ, 10 ottobre 2022) “Omosessualità è di natura”: Milano supera il Segno - La Nuova Bussola Quotidiana (lanuovabq.it)

 

 

domenica 18 settembre 2022

Cina e cardinale Zen, le “strane” parole del Papa


Le parole di papa Francesco sul volo di ritorno dal Kazakistan suonano come un abbandono del cardinale Zen al suo destino per salvare il dialogo con la Cina. Ma rappresentano anche una impostazione del rapporto con la Cina molto politica e poco religiosa.

 

Le parole pronunciate da papa Francesco sulla Cina e sul cardinale Joseph Zen nel volo di ritorno dal Kazakistan giovedì 15 settembre, da una parte non possono sorprendere chi segue le vicende dei rapporti tra Santa Sede e Cina. Eppure lasciano profondamente amareggiati, pensando al cardinale Zen che lunedì 19 settembre sarà processato a Hong Kong e trattato come un delinquente; e anche sconcertati, per i giudizi “politici” sulla situazione in Cina.

Ma andiamo con ordine. La domanda posta da Elise Allen, di Crux, era molto semplice: siccome il Papa in Kazakistan aveva tanto parlato di libertà religiosa, che dire della libertà religiosa in Cina, «soprattutto ora con il processo che sta andando avanti contro il cardinale Zen. Lei considera il processo contro di lui una violazione della libertà religiosa?». La risposta inizia con un discorso fumoso sulla difficoltà di capire la Cina, dei tempi lunghi con cui pensano i cinesi, e quindi dell’importanza del dialogo per capire e farsi capire. Al che si potrebbe subito obiettare: intanto il problema non sono i cinesi come popolo, ma il regime comunista cinese, il che è una differenza non da poco. E poi, proprio per questa difficoltà a capirli, perché non fidarsi allora di un vescovo come il cardinale Zen che, oltre ad essere cinese, i comunisti di Pechino li conosce bene? Perché non ascoltarlo?

Perché al Papa chiaramente non interessa, e il processo a Zen si capisce che è solo un impiccio che non vuole metta in discussione il dialogo con Pechino. Ecco le sue parole: «Qualificare la Cina come antidemocratica io non me la sento, perché è un Paese così complesso… sì è vero che ci sono cose che a noi sembrano non essere democratiche, quello è vero. Il cardinale Zen è un anziano che andrà a giudizio in questi giorni, credo. E lui dice quello che sente, e si vede che ci sono delle limitazioni lì. Più che qualificare, perché è difficile, e io non me la sento di qualificare, sono impressioni, cerco di appoggiare la via del dialogo».

«È un anziano» che «dice quello che sente»: insomma, pare di capire che il cardinale Zen è un vecchietto che non tiene la lingua a posto (curiosamente dalla trascrizione ufficiale di Vatican News è sparita la definizione «è un anziano», chissà perché). Certo, non ci sarà piena libertà lì, ma il problema è Zen che non vuole il dialogo. In altre parole: il vescovo emerito di Hong Kong è stato scaricato alla vigilia del processo, dopo che la sua situazione non è stata neanche menzionata o fatta oggetto di preghiera, come richiesto da alcuni, durante l’ultimo Concistoro. È una affermazione grave, che avrà ripercussioni anche per i cattolici in Cina, e profondamente ingiusta nei confronti del cardinale Zen.

Ma a questo punto è bene anche ricordare che il dialogo con la Cina non l’ha inventato papa Francesco, né a portarlo avanti ha cominciato il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin. Con Giovanni Paolo II e il cardinale Sodano come segretario di Stato ci sono stati molti contatti e anzi, papa Francesco ha “recuperato” quello che anche ai tempi di Giovanni Paolo II guidava le missioni diplomatiche in Cina, monsignor Claudio Maria Celli.

E anche con papa Benedetto il dialogo è continuato. Entrambi avrebbero tanto desiderato andare in Cina. Ma con alcune differenze importanti: la prima è che ascoltavano i vescovi cinesi e altri esperti; la seconda è che avevano ben chiaro ciò che si poteva concedere e ciò su cui la Chiesa non poteva assolutamente cedere; infine, non si poteva dubitare sul fatto che i cattolici da prendere ad esempio erano quelli che subivano le persecuzioni pur di rimanere fedeli alla Chiesa e al Papa, e non quelli che accettavano di servire il Partito Comunista per mantenere una parvenza di culto cattolico. È il totalitarismo del regime cinese che non ha mai permesso di arrivare a un accordo, non la mancanza di volontà di dialogo da parte della Chiesa.

Ora invece l’impressione è che la Santa Sede, pur di proseguire con l’accordo segreto sulla nomina dei vescovi che sarà rinnovato a ottobre, abbia già concesso l’impossibile e sarebbe disposta a offrire anche il resto se solo il governo cinese lo volesse. Lo dimostra anche quello che (non) è accaduto in Kazakistan, secondo quanto riportato da Philip Pullella dell’agenzia Reuters: essendo il presidente cinese Xi Jinping nella capitale kazaka contemporaneamente, la Santa Sede aveva manifestato la disponibilità del Papa a un incontro, ma il governo cinese ha declinato l’offerta.

C’è però un’ultima questione che merita attenzione: il Papa non sa dire se in Cina ci sia la democrazia o no, il che già di per sé è un’affermazione assurda. Ma il problema vero è accettare o addirittura volere che la Chiesa si muova e pensi sul piano solo orizzontale, della politica. Il problema principale della Chiesa non può essere anzitutto se c’è o no la democrazia in un Paese, l’interesse principale dovrebbe essere la libertà della Chiesa, che è garanzia per la libertà di tutti. E il problema della Cina è proprio la mancanza di libertà per la Chiesa, sottoposta sempre più al controllo del Partito Comunista, grazie anche all’accordo segreto voluto dalla Santa Sede e pronto per essere rinnovato di altri due anni. Se il rapporto con uno Stato – in questo caso la Cina, ma vale per ogni altro Paese – si imposta in termini politici, alla fine si sacrifica la verità alla ragion politica. E paiono sagge e prudenti affermazioni che appaiono ridicole come quelle sulla democrazia in Cina.

 

(Fonte: Riccardo Cascioli, LNBQ, 18 settembre 2022) 
Cina e cardinale Zen, le "strane" parole del Papa - La Nuova Bussola Quotidiana (lanuovabq.it)

  

giovedì 25 agosto 2022

Cattolici irrilevanti perché incoerenti tra fede e cultura


Cattolici ormai irrilevanti in politica? Sì. Colpa del numero ormai esiguo, dell'assenza di formazione dottrinale e dell'incoerenza tra fede e cultura, tra Vangelo e vita. Così possono sposare qualsiasi agenda, anche quelle contrarie alla dottrina. Ma è il risultato voluto della teologia oggi dominante e del magistero corrente.

 Andrea Riccardi, sul Corriere della Sera del 18 agosto, ha detto che ormai i cattolici sono “irrilevanti” in politica e bisogna chiedersi perché. Rispondiamo volentieri all’invito, non senza far notare, però, che il nuovo partito cattolico DemoS, espressione di Sant’Egidio di cui Riccardi è fondatore e curatore, ha finito per chiedere al Partito Democratico un seggio da qualche parte, il che dimostra una grande volontà di essere rilevanti. Ma a parte il contesto, l’affermazione di Riccardi è vera e seria e merita un qualche tentativo di risposta anche da parte nostra.

Prima di tutto: i cattolici sono irrilevanti perché sono sempre meno. Nelle grandi città la frequenza alla messa domenicale si attesta sul 4 per cento. Nei centri più modesti le cose migliorano, ma in generale, come diceva Benedetto XVI in Portogallo, la fede sembra essere un lumicino senza più alimento e in via di spegnersi. Gli aspetti quantitativi non sono mai decisivi e i cattolici potrebbero essere creativi e influenti pur essendo in pochi. Tuttavia, la loro esiguità numerica evidenzia anche un aspetto qualitativo: l’evangelizzazione è trascurata perché scambiata con il proselitismo, le parrocchie spesso sono comunità di solidarietà e non di missione, e la Dottrina sociale della Chiesa, nei rarissimi casi in cui vi si fa riferimento, non viene minimamente intesa come “strumento di evangelizzazione”. Per questo i “pochi” cattolici diventano anche “sparuti” e, come tali, non possono certo incidere.

In secondo luogo, in questo (limitato) mondo cattolico la formazione dottrinale è in gravissima crisi, spesso anche per volontà degli stessi pastori. Prevalgono devozione e pastoralismo, ma i principi di riflessione e i criteri di giudizio non vengono più trasmessi. La formazione alla dottrina cristiana è molto carente, spesso non c’è per motivazioni teologiche che riprenderò più avanti, altre volte non c’è perché sacerdoti e laici sono impreparati a sostenerla, quando c’è si rivolge a piccoli o piccolissimi numeri. La maggioranza dei fedeli è lasciata senza formazione. Come pretendere che il cattolico sia presente in modo consapevole nella scena pubblica se ha idee confuse sulle principali questioni dottrinali? E cosa pretendere se molto spesso sono i pastori stessi a porre dubbi che destabilizzano le poche convinzioni che si hanno? La “rilevanza” politica è a valle, ma senza le condizioni a monte è irrealistico pretenderla.

E così arriviamo al punto veramente decisivo. Quando alcuni fedeli cattolici – necessariamente pochi per i motivi visti sopra – sentono una spinta ad occuparsi dell’ambito politico, si trovano privi del collegamento tra la loro fede personale con le ragioni di quell’ambito politico. Siamo ancora – o addirittura la situazione è peggiorata – alla famosa mancanza di una coerenza tra Vangelo e vita, tra fede e cultura e, soprattutto, tra fede e politica. Al punto che, in molti casi, è meglio che questi fedeli non si impegnino in politica: produrrebbero meno danni.

Conosco molti cattolici che sono militanti di +Europa, il partito di Emma Bonino, del PD che vuole il “matrimonio egualitario”, dell’estrema sinistra che vuole il gender e il socialismo di Stato. Viene a mancare l’anello che lega la fede soggettiva alle verità oggettive credute, le quali hanno anche ripercussioni sulla vita politica e permettono quella “coerenza” tra fede e impegno politico di cui parlava la (tanto vituperata) Nota Ratzinger del 2002. Nessuna parrocchia e nessuna diocesi insegna la Dottrina sociale della Chiesa correttamente intesa, vale a dire non ridotta a parlare di ecologia.

Può essere un esempio efficace il caso del nuovo sindaco di Verona, Damiano Tommasi, eletto alle recenti amministrative. La persona è apprezzabilissima, cattolico da sempre impegnato nell’associazionismo ecclesiale, marito e padre di sei figli, onesto, generoso ed equilibrato. Però si è posto a capo di una coalizione di sinistra e ha aperto ai nuovi diritti, subito dopo la sua elezione c’è stato in città un gay pride di ringraziamento, ha affermato di voler inserire il comune di Verona nella rete Re.a.di. che collega i comuni che intendono promuovere iniziative di educazione sessuale nelle scuole secondo l’ideologia gender e l’omosessualismo. Il vescovo uscente di Verona, mons. Giuseppe Zenti, purtroppo per lui in modo maldestro e fuori tempo, ha richiamato alla coerenza: i cattolici non possono sostenere l’agenda gender, ma è stato zittito, ridicolizzato e considerato “irrilevante”.

Oggi si pensa che i cattolici possano sostenere qualsiasi agenda politica. Anche DemoS, come abbiamo visto sopra, darà una mano al partito che – parole di Letta – vuole il matrimonio egualitario, il suicidio assistito, la legge Zan e la cannabis legale. Del resto, se Francesco loda Emma Bonino, apprezza Biden contro Trump, si dice amico di molti leader comunisti latinoamericani, appoggia padre James Martin… perché un cattolico non può militare nei partiti che la pensano così? Ma se un cattolico può militare indifferentemente in tutti i partiti, allora la sua fede non possiede contenuti politici dirimenti e irrinunciabili, cioè non dice alla politica niente di più di quanto la politica possa dire a se stessa. Ecco l’irrilevanza vera e il suo ultimo fondamento. I cattolici si pongono nell’ambito politico nudi, vuoti e disponibili.

Tutto ciò semplicemente capita o è voluto? È voluto. Che i cattolici si sciolgano, come tutti gli altri, in un generico e mondano “camminare insieme” oggi è teorizzato dai teologi che contano ed è insegnato dal magistero. Ma perché allora lamentarsi dell'irrilevanza dei cattolici? Bisognerebbe esserne contenti.

 

(Fonte: Stefano Fontana, LNBQ, 22 agosto 2022
Cattolici irrilevanti perché incoerenti tra fede e cultura - La Nuova Bussola Quotidiana (lanuovabq.it)

 

giovedì 28 luglio 2022

A proposito del “mea culpa” di Papa Francesco in Canada


La Chiesa cattolica, fedele al mandato del suo divino Maestro: «
Andate per tutto il mondo, predicate il Vangelo ad ogni creatura» (Mc. 16, 15), ha svolto, fin dalla sua fondazione una grande opera missionaria, attraverso la quale ha portato al mondo non solo la fede, ma la civiltà, santificando luoghi, popoli, istituzioni e costumi. Grazie a quest’opera, la Chiesa ha civilizzato anche i popoli delle due Americhe, immersi nel paganesimo e nelle barbarie.  

In Canada, la prima missione gesuita tra i pellirosse irochesi, diretta dal padre Charles Lallemant (1587-1674), sbarcò a Quebec nel 1625. Una nuova missione arrivò nel 1632, guidata dal padre Paul Le Jeune (1591-1664). Il padre Giovanni de Brébeuf (1593-1649), ritornò nel 1633 con due padri. Di capanna in capanna, cominciarono ad insegnare il catechismo a fanciulli e ad adulti. Ma alcuni stregoni convinsero gli Indiani che la presenza dei padri causava la siccità, le epidemie e ogni altra disgrazia. I gesuiti decisero allora di proteggere i catecumeni isolandoli in villaggi cristiani. Il primo fu edificato a 4 miglia da Québec. Ebbe il suo fortino, la sua cappella, le sue case, l’ospedale, la residenza dei Padri.

Contemporaneamente alcuni volontari si offrivano per convertire gl’Indiani: santa Maria dell’Incarnazione Guyart Martin (1599-1672), un’orsolina di Tours, che aveva fondato con altre due religiose un pensionato a Québec per l’istruzione dei fanciulli indiani; la signora Marie-Madeleine de la Peltrie (1603-1671), una vedova francese, che aveva creato con alcune suore ospedaliere di Dieppe un ospedale, sempre a Québec; i membri della Società di Nostra Signora che, aiutati dal sacerdote sulpiziano Jean-Jacques Olier (1608-1657) e dalla Compagnia del Santissimo Sacramento, costruirono nel 1642 Ville Marie, dalla quale sarebbe nata Montreal.  

Gli Indiani Irochesi però si mostrarono irriducibilmente ostili. Essi avevano orribilmente mutilato il padre Isacco Jogues (1607-1646) e il suo coadiutore René Goupil (1608-1642) versando loro addosso carboni ardenti. Nel marzo 1649, gli Irochesi martirizzarono i padri de Brébeuf e Gabriele Lallemant (1610-1649). Il padre Brébeuf fu trafitto con aste arroventate e gli Irochesi gli strapparono brandelli di carne, divorandola sotto i suoi occhi. Poiché il martire continuava a lodare Dio, gli strapparono le labbra e la lingua e gli ficcarono in gola tizzoni ardenti. Il padre Lallemant fu torturato subito dopo con ferocia ancora maggiore. Poi un selvaggio gli fracassò la testa con la scure e gli strappò il cuore, bevendone il sangue, per assimilarne la forza e il coraggio. Un’altra ondata d’odio fece, nel mese di dicembre, due nuovi martiri, i padri Charles Garnier (1605-1649) e Noël Chabanel (1613-1649). Gli otto missionari gesuiti, conosciuti come “martiri canadesi” furono proclamati beati da papa Benedetto XV nel 1925 e canonizzati da papa Pio XI nel 1930.

Questi episodi fanno parte della memoria storica del Canada e non possono essere dimenticati. Papa Francesco, come gesuita dovrebbe conoscere questa epopea, narrata, tra gli altri, dal suo confratello padre Celestino Testore, nel libro I santi martiri canadesi, apparso nel 1941, e ripubblicato in Italia dall’editore Chirico nel 2007.

Ma soprattutto il Santo Padre avrebbe dovuto trattare con maggior prudenza il “caso” della presunta scoperta di fosse comuni nelle cosiddette ‘Indian residential schools’ del Canada, una rete di collegi per gli indigeni canadesi fondate dal governo e affidate prevalentemente alla Chiesa cattolica, ma anche in parte alla chiesa anglicana del Canada (30%), con l’idea di integrare i giovani nella cultura del paese, secondo il  Gradual Civilization Act,  approvato dal Parlamento canadese  nel 1857. Negli ultimi decenni però la Chiesa cattolica fu accusata di aver partecipato a un piano di sterminio culturale dei popoli aborigeni, i cui giovani venivano sequestrati alle famiglie, indottrinati e talvolta sottoposti ad abusi, per essere “assimilati” dalla cultura dominante, Nel mese di giugno 2008 il governò canadese, su posizioni “indigeniste”, fece le sue scuse ufficiali agli indigeni e istituì una Commission de vérité et réconciliation (CVR), per le scuole residenziali indiane.

I ricercatori della Commissione, malgrado i 71 milioni di dollari ricevuti, hanno lavorato sette anni, senza trovare il tempo di consultare gli archivi degli Oblati di Maria Immacolata, l’ordine religioso che, alla fine dell’Ottocento, iniziò a gestire le Residential Schools. Basandosi, invece, proprio su questi archivi, lo storico Henri Goulet, nella sua Histoire des pensionnats indiens catholiques au Québec. Le rôle déterminant des pères oblats (Presses de l’Université de Montréal, 2016) ha dimostrato che gli Oblati erano gli unici difensori della lingua e del modo di vita tradizionale degli Indiani del Canada, a differenza del governo e della chiesa anglicana, che insistevano per una integrazione che sradicava gli indigeni dalle loro origini. Questa linea storiografica trova conferma nelle opere di uno dei maggiori studiosi internazionali della storia religiosa del Canada, il prof. Luca Codignola Bo, dell’Università di Genova.

Dall’accusa di “genocidio culturale” si è intanto passati a quella di “genocidio fisico”. Nel maggio 2021, la giovane antropologa Sarah Beaulieu, dopo aver analizzato con un georadar il terreno vicino all’ex scuola residenziale di Kamloops, ha lanciato l’ipotesi dell’esistenza di una fossa comune, pur senza aver fatto nemmeno uno scavo. Le affermazioni dell’antropologa, divulgate sui grandi media e avallate dal premier Justin Trudeau, si sono trasformate in narrative diverse, alcune delle quali affermano che «centinaia di bambini» sarebbero «stati uccisi» e «sepolti segretamente» in «fosse comuni» o in tumuli irregolari nei terreni di «scuole cattoliche» di «tutto il Canada». 

Questa notizia è semplicemente priva di qualsiasi fondamento, visto che non sono mai stati riesumati dei cadaveri, come già ha documentato Vik van Brantegem il 22 febbraio 2022 sul suo blog Korazym.org. Il 1 aprile 2022, sul blog Uccr è apparsa un’accurata intervista allo storico Jacques Rouillard, professore emerito della Facoltà di Storia dell’Università di Montreal, che smentisce categoricamente il genocidio culturale e quello fisico degli indigeni canadesi, negando l’esistenza di fosse comuni nelle scuole residenziali. Egli è convinto che, dietro a tutto, ci sia solo un tentativo di risarcimento milionario. Lo scorso 11 gennaio lo stesso prof. Rouillard ha pubblicato sul portale canadese Dorchester Review un ampio articolo in cui afferma che nessun corpo di bambino è stato trovato nelle presunte fosse comuni, in sepolture clandestine o in qualsiasi altra forma di sepoltura irregolare nella scuola di Kamloops. Dietro i collegi ci sono solo semplici cimiteri, in cui venivano sepolti gli studenti delle scuole, ma anche i membri della comunità locale e gli stessi missionari. In base ai documenti presentati da Rouillard, 51 bambini sono morti in quell’internato tra il 1915 e il 1964. Nel caso di 35 di loro sono stati trovati documenti che provano la causa della morte, soprattutto malattie e in alcuni casi incidenti. Un nuovo articolo del professor Tom Flanagan e del magistrato Brian Gesbrecht, pubblicato il 1 marzo 2022 sul Dorchester Review con il titolo The False Narrative of the Residental Schools Burials, ribadisce come non c’è traccia di un solo studente ucciso nei 113 anni di storia delle scuole residenziali cattoliche. Secondo gli stessi  dati forniti dalla Commission de vérité et réconciliation (CVR) il tasso di mortalità nei giovani che frequentavano le scuole residenziali era in media di circa 4 decessi all’anno ogni 1.000 giovani e la causa principale era dovuta a tubercolosi ed influenza.  Sembra che finalmente si siano autorizzati gli scavi a Kamloops, ma, come afferma il prof. Rouillard, sarebbe stato meglio si fossero svolti lo scorso autunno, così da conoscere la verità ed impedire a papa Francesco di venire a scusarsi sulla base di ipotesi non provate. Queste le parole dell’accademico canadese: «È incredibile che una ricerca preliminare su una presunta fossa comune in un frutteto abbia potuto portare a una tale spirale di affermazioni avallate dal governo canadese e riprese dai media di tutto il mondo. Non si tratta di un conflitto tra storia e storia orale aborigena, ma tra quest’ultima e il buon senso. Sono necessarie prove concrete prima che le accuse contro gli Oblati e le Suore di Sant’Anna possano essere scritte nella storia. Le esumazioni non sono ancora iniziate e non sono stati trovati resti. Un crimine commesso richiede prove verificabili, soprattutto se gli accusati sono morti da tempo. È quindi importante che gli scavi avvengano al più presto, affinché la verità prevalga sulla fantasia e sull’emozione. Sulla strada della riconciliazione, il modo migliore non è forse quello di cercare e raccontare tutta la verità piuttosto che creare miti sensazionali?»

 

(Fonte: Roberto De Mattei, Corrispondenza Romana, 27 luglio 2022
https://www.corrispondenzaromana.it/a-proposito-del-mea-culpa-di-papa-francesco-in-canada/

 

 

La liturgia annega nel mare di Crotone


La Messa celebrata in acqua, con il celebrante in costume e usando un materassino come altare, è il culmine di decenni di sperimentazioni in cui ciascuno si sente padre-padrone del culto, da manipolare a piacere, nell'indifferenza di una gerarchia che sanziona soltanto la Tradizione.

 Le foto che stanno facendo il giro del web parlano da sole: una Messa in mare utilizzando un materassino come altare, con tutti i presenti in costume, compreso (ovviamente) il celebrante. A che pro? Nel corso dei decenni le hanno tentate tutte per mostrare una Chiesa “accattivante” (o semplicemente modaiola), ma a don Mattia Bernasconi va riconosciuto senz’altro il “merito” di aver superato tutti gli altri, buttando – letteralmente – a mare quel che resta della sacralità del culto cattolico ma anche del buon senso.


La bizzarra liturgia è avvenuta al termine di un campo di volontariato a Crotone, organizzato da Libera (l’associazione fondata da don Luigi Ciotti).  Qui il giovane sacerdote ambrosiano, viceparroco della Comunità Pastorale San Luigi Gonzaga di Milano, ha portato i suoi ragazzi a trascorrere alcuni giorni tra escursioni e incontri sulla legalità, al termine dei quali, essendo domenica, si doveva pur onorare il giorno del Signore. Ma dove? In chiesa sarebbe parso troppo scontato: «Avevamo scelto una pineta di un campeggio ma era occupata da un'altra iniziativa. Faceva molto caldo e così ci siamo detti: perché non fare la Messa in acqua? Una famiglia che si trovava nei pressi ci ha sentito parlare ed ha messo a disposizione il loro materassino che abbiamo trasformato in altare. È stato bellissimo anche se ci siamo scottati», riferisce il sacerdote.

Il diritto canonico sembrerebbe pensarla diversamente: «La celebrazione eucaristica venga compiuta nel luogo sacro [cioè, in chiesa], a meno che in un caso particolare la necessità non richieda altro; nel qual caso la celebrazione deve essere compiuta in un luogo decoroso» (Can. 932 §1). Ci sarebbe da dire sia sul luogo «decoroso» (che dovrebbe significare anche: adatto all’azione sacra), sia sulla «necessità»: possibile che non ci siano chiese a Crotone? Immaginiamo che non fossero raggiungibili facilmente dall’allegra brigata costringendola a “improvvisare”... però «il sacrificio eucaristico si deve compiere sopra un altare dedicato o benedetto; fuori del luogo sacro può essere usato un tavolo adatto, purché sempre ricoperto di una tovaglia e del corporale» (ivi, §2). Almeno un tavolo, non un materassino! E perché in mezzo all’acqua invece che sulla riva, non avranno mica naufragato? La mobilità dell’altare “aquatico” non avrà forse favorito la dispersione di frammenti? E come sarà andata per la comunione? La sacra particola avrà cominciato a sciogliersi sulle mani probabilmente bagnate… Senza contare la possibilità che un’onda anomala travolgesse l’anomalo altare con tutto il Corpo e Sangue.
Se in contesti drammatici sacerdoti e fedeli sono stati costretti a celebrare con mezzi di fortuna, qui non siamo in un campo di concentramento, né in guerra, per cui l’unica «necessità» ipotizzabile è l’insopprimibile smania di protagonismo che da decenni spinge il clero a escogitare infinite variazioni di quella lex orandi che dicono sia e debba essere unica, ma invece si rivela di fatto una, nessuna, centomila.
La “Missa aquatica” di Crotone è la vetta (o l'abisso?) di una liturgia concepita come campo di battaglia in cui “vince” chi la inventa più grossa, annegando – è il caso di dirlo – l’unico vero Protagonista.

Ancora una considerazione, sul piano più laico: immaginereste un giudice che, spinto dalla calura e dal desiderio di mostrarsi cool, decidesse di tenere un processo in spiaggia, col costume invece della toga? O un giornalista che trasmettesse il telegiornale a bordo piscina? Qualunque sia l’ambito, nell’esercizio delle proprie funzioni ciascuno tende a presentarsi in modo professionale. Ne va della serietà di ciò che sta compiendo. Non dovrebbe valere, a maggior ragione, per chi compie la più elevata delle funzioni, la più sacra delle azioni? A meno di non ridurre la Messa a un gioco di società... Il tutto con un sottinteso senso di “impunità”, sapendo di poter stravolgere il mistero affidato loro, ben sapendo di non rischiare nulla (curioso paradosso, dopo un campo sulla “legalità”: vale solo per le norme civili, mentre il Corpo di Cristo si può manipolare a piacimento?). Di certo il comunicato della diocesi di Crotone («è necessario mantenere quel minimo di decoro e di attenzione ai simboli richiesti dalla natura stesse delle celebrazioni liturgiche») non basterà a dissuadere il don Mattia di turno dal presentare il proprio numero sulla scena del cabaret liturgico, mentre gli unici a subire sanzioni concrete sono quei sacerdoti che celebrano con pietà e riverenza secondo un rito usato per secoli nella Chiesa. 

La Messa di don Mattia è in realtà l'epifania della “pastorale della spoliazione”, che credeva di togliere orpelli e ha finito per perdere di vista la sostanza. Pur di “avvicinare” la gente (che non si è avvicinata affatto) alcuni chierici hanno iniziato spogliando gli altari. Poi hanno ridotto i paramenti, limitandosi a camice e stola, talvolta soltanto la stola. Infine, sono rimasti in mutande, pardon, in costume. Sarà stato, almeno quello, del colore liturgico giusto?

 

(Fonte: Stefano Chiappalone, LNBQ, 26 luglio 2022)
https://lanuovabq.it/it/la-liturgia-annega-nel-mare-di-crotone