sabato 25 luglio 2009

Dalle urla alle sberle: l'inevitabile destino della banda Di Pietro

Dagli insulti alle minacce, dalle minacce all’azione, dai girotondi ai blitz squadristici. Vorremmo sbagliarci, ma siamo sicuri che ancora non abbiamo visto il peggio che Di Pietro e i suoi scherani possono produrre. Anzi, ne siamo purtroppo molto lontani. L’ineluttabilità dell’escalation sta infatti nella natura stessa dell’uomo e del movimento che ha fondato: l’uno e l’altro fondamentalmente antidemocratici, tendenzialmente violenti, totalmente privi di idee politiche, desolatamente incapaci di elaborare una proposta di società.Di Pietro, come ha abbondantemente dimostrato prima da magistrato, poi da parlamentare, infine da ministro, ha un solo fine: se stesso. E l’Idv, fatta a sua immagine e somiglianza, non ha altro scopo che mantenersi e crescere per fornire all’ex pm flussi di cassa e potere. Non, si badi bene, il sacrosanto potere necessario per realizzare un progetto. Che infatti non c’è. Bensì il meschino potere atto a soddisfare gli appetiti personali. Che, come ormai abbiamo imparato, invece ci sono e sono piuttosto robusti.In una situazione in cui l’opposizione di sinistra, sia moderata che radicale, si trova in grave crisi per ragioni storiche e politiche, il vuoto pneumatico ma urlante del dipietrismo è riuscito a raccogliere un’abnorme messe di consensi tra chi non si riconosce né nel Pdl né nella Lega. I toni da tribuno e l’antiberlusconismo viscerale hanno sedotto centinaia di migliaia di italiani, portandolo all’inverosimile otto per cento delle elezioni europee. Ma il primo a sapere che sono voti volanti è lo stesso Tonino. Non c’è una pietra che possa restare, nella sua Italia dei Livori. Quello che è stato allestito è solo un enorme falò che ha bisogno di essere alimentato in continuazione con fascine d’odio e secchiate di veleno.E quindi via, sberle agli alleati. E, certo, insulti al governo e alla maggioranza. E poi, addosso al presidente della Repubblica e alla Corte Costituzionale. Solo che non basta, non basta mai. Non può bastare, soprattutto se il proposito è quello di crescere ancora, di fagocitare mezzo Pd, di essere l’unica vera opposizione. Bisogna alzare sempre il tiro. E dopo aver accusato i giudici della Consulta di «malafede e servilismo» (tra parentesi, il Grande Moralizzatore ha questo di curioso: quello che fa la magistratura va sempre bene, a prescindere, tranne quando non piace a lui) che altro si può inventare? Dopo aver dato del «mafioso» a Napolitano, con chi altri ce la si può prendere? Dopo aver definito il governo «un regime piduista, fascista, razzista e un po’ xenofobo» (detto tra l’altro da uno che scriveva che i clandestini «meriterebbero non la galera ma il taglio degli attributi») dove ci si può ancora spingere? Se Berlusconi è già Nerone, Videla, Hitler, che cosa resta? Che cosa c’è peggio del male assoluto?Eccolo, il pericolo. Le offese sono esaurite (anche perché, cosa volete, la conoscenza del vocabolario è quella che è), si passa all’azione. Scendono in campo i Pedica. E ancora non ci sarebbe da aver paura: uno che strilla alla violazione dei diritti umani perché i commessi di Palazzo Chigi hanno spento l’aria condizionata non deve avere proprio la tempra del miliziano. Ma la china è quella: altro e peggio verrà da gente che minaccia di «appendere a testa in giù» i giornalisti scomodi. L’obiettivo è lo sfascio, il conflitto permanente, il degrado del clima politico del Paese, uniche condizioni nelle quali l’Idv può vivere e prosperare. E Di Pietro ha già evocato le Brigate Rosse e ha già lanciato il suo sinistro avvertimento: «Saremo protagonisti dell’autunno caldo nelle piazze». Paranoie? Fissazioni di un giornale che per anni si è sgolato quasi in perfetta solitudine per mettere in guardia dal pericolo Di Pietro? Forse no se persino D’Alema, uno dei principali responsabili della creazione del mostro-Tonino, ora parla di «atti eversivi». Forse no se un quotidiano vicino al centrosinistra come il Riformista invoca «un nuovo arco costituzionale che isoli il sedizioso». Finalmente qualcuno apre gli occhi. Finalmente qualcun altro si rende conto che Tonino è un pericolo per la democrazia. Ora speriamo che il Pd si decida a fare quello che da quasi un anno, a singhiozzo, i suoi leader annunciano e poi si rimangiano: rompere l’alleanza con l’ex pm che è, tra l’altro, una delle ragioni del loro fallimento. Oppure ci spieghino che cosa glielo impedisce davvero.

(Fonte: Massimo De Manzoni, Il Giornale, 25 luglio 2009)

“Le favole non dette” di Vladimir Luxuria. Era molto meglio non scriverle!

Peccato! Sembrava che la corsa ad ostacoli di Vladimir Luxuria - al secolo Vladimiro Guadagno - non dovesse conoscere pause, né insuccessi. Il «transgender più famoso d’Italia» - parola del risvolto di copertina - dopo aver neutralizzato tonnellate di atavici pregiudizi era riuscito, nell’ordine: a diventare un simbolo di riscatto per folle di discriminati; a conquistare un seggio a Montecitorio; a ridicolizzare le muffitissime polemiche di chi, alla Camera, avrebbe voluto vietargli il bagno delle signore; a trionfare sull’Isola dei famosi; e infine a scampare al fuoco amico di Marco Travaglio, che parla male di tutti e quando va in tivvù ha l’aria di qualcuno che al momento di accomiatarsi rifiuterà di stringere la mano al conduttore.Se «la grande personalità è il frutto di una serie ininterrotta di azioni ben riuscite», come affermava Fitzgerald nel Great Gatsby, pochi dubbi che Vladimir stesse dandosi da fare per ricadere sotto la categoria. E invece...È proprio vero, è la letteratura che ci sputtana. Pubblicare dei racconti «morali» (Le favole non dette, Bompiani, pagg. 202, euro 16,50) è stato un gesto suicida. Vedi, Vladimir, i fratelli Goncourt rivelano che un giorno Flaubert si accorse, orripilato, che in Madame Bovary comparivano due genitivi l’uno dietro l’altro. Aveva scritto «...un bouquet de fleurs d’oranger», un mazzetto di fiori d’arancio. La scoperta lo sconvolse, si ammalò, e alla fine ne morì. Comprendi, ora, alla porta di quale inferno hai deciso di bussare? E tu cosa fai, per non essere incenerito? Grammatica presa in prestito ad un’altra lingua, probabilmente non indoeuropea («non capisco il limite delle mie acque»; «agitavano la coda in festa che quasi si dividevano in due»), tendenza alla pletora («uscì fuori»: si è mai visto qualcuno uscire dentro?) e sintassi da matita blu («un rampicante di glicine che quando era in fiore il suo profumo inebriava...»). Il tutto condito da valanghe di cacofonie, di aggettivi ed avverbi inutili e da un profluvio di «quello», «suo», «proprio». In una pagina, otto occorrenze di «tutto»: l’editor dormiva, o con la testa era già in spiaggia?Ecco il punto: il problema non è Vladimir Luxuria. È la Bompiani. Diavolo, in catalogo avete Moravia. Vi rendete conto che una sciatteria così sfacciata, quasi proterva, dimostra che la grande editoria italiana si muove ormai disinvoltamente nell’ambito della semi-professionalità? Dite la verità: ve ne infischiate, tanto non esistono più lettori capaci di accorgersene, e men che meno di scandalizzarsi? Risposta satanica prevista: gli editor bravi? In Italia costano più delle figuracce, quindi il gioco non vale la candela.

(Fonte: Il Giornale, 25 luglio 2009)

Don Gianni Baget Bozzo nell’opera postuma: i segreti dell’utopia dossettiana

Il rapporto tra cattolici e comunisti resta la principale chiave interpretativa della storia italiana del Secondo dopoguerra. Questo rapporto fu teorizzato e vissuto da due forti personalità intellettuali, pur tra loro divergenti: Giuseppe Dossetti (1913-1996) e Franco Rodano (1920-1983). Per entrambi il comunismo non fu il nemico, ma l’occasione storica per realizzare il programma sociale cristiano, che essi contrapponevano al sistema capitalistico dell’occidente.
Il compito dei cattolici, secondo Rodano, doveva essere quello di dare dimensione religiosa e metafisica, all’azione politica di Palmiro Togliatti. Dossetti pensava invece che si dovesse agire all’interno della Dc di De Gasperi, “rifondandola” per conquistare lo stato. Il gruppo “catto-comunista”, che faceva capo a Rodano riteneva che marxismo e cattolicesimo dovessero realizzare, nella comune prassi, una nuova idea di Rivoluzione.Per la sinistra dossettiana, invece, l’idea di “Rivoluzione” era incorporata nella costituzione antifascista, che andava attuata in tutte le sue potenzialità.All’inizio degli anni Settanta del Novecento, Rodano fu il mentore di Enrico Berlinguer, in cui vide il realizzatore della politica di Togliatti. L’epoca del compromesso storico, tra il 1974 e il 1978, fu quella del maggior successo comunista in Italia e, simultaneamente, della peggior crisi del mondo cattolico, che vide il passaggio del divorzio e dell’aborto, sotto governi a guida democristiana.La morte, nel 1978, di Aldo Moro e di Paolo VI, segnò però il definitivo naufragio del progetto rodanian-berlingueriano. In quegli anni, don Giuseppe Dossetti, dopo aver abbandonato la politica attiva ed essere stato ordinato sacerdote, viveva in ritiro monastico. Il suo programma, dopo aver trovato un primo interprete in Fanfani e nei teorici della “terza via”, avrebbe conosciuto l’ora di apparente trionfo solo vent’anni dopo, con l’entrata in scena di Romano Prodi, sua creatura politica.Franco Rodano trovò il suo più rigoroso critico in Augusto Del Noce (Il cattolico comunista Rusconi, Milano 1981); Giuseppe Dossetti lo ha trovato in Gianni Baget Bozzo, di cui è appena uscito postumo, in collaborazione con Pier Paolo Saleri, “Giuseppe Dossetti. La Costituzione come ideologia politica” (Ares, Milano 2009). Il Foglio ha già dedicato a Dossetti ampi articoli di Maurizio Crippa e dello stesso Baget Bozzo. Chi è interessato a meglio comprendere l’influenza esercitata da Dossetti nella società italiana, troverà ora in questo volume nuovi elementi su cui riflettere.Il pensiero di Dossetti si era in parte alimentato alle posizioni filo-fasciste dell’Università Cattolica di padre Agostino Gemelli. Si trattava, osserva Baget Bozzo, di una interruzione interruzione significativa del pensiero cattolico sul diritto naturale (p. 51). Per il giusnaturalismo cattolico, infatti, la legge naturale non può essere assorbita dal diritto positivo dello stato. Il fascismo però produsse nel mondo cattolico l’idea che fosse lo stato il garante naturale della chiesa nella società e l’unica fonte del diritto. Saleri osserva che Dossetti, proprio attraverso la sua esperienza nella Resistenza, capì che nel fascismo c’era un elemento che andava salvato, seppure in forma democratica e antifascista: lostato che dà forma alla società in chiave anticapitalista (p. 84). Questo stato poteva essere realizzato solo attraverso una stretta alleanza tra i cattolici e le sinistre, in particolare il Pci, in quanto partito capace di dare un senso forte alle istituzioni. “Così il dossettismo appare soprattutto come una connessione nel mondo cattolico, tra la concezione fascista e quella comunista dello stato, nella forma che essa prese in Italia, un paese che doveva rimanere occidentale e in cui il comunismo non poteva prendere il potere in forma rivoluzionaria” (p. 52).Il ruolo politico di Dossetti è legato a due momenti precisi: il 1948, che vide il giovane “professorino” trasformarsi nel sagace “costituente” che trattò con Togliatti l’articolo 7 della costituzione, e gli anni Novanta, quando l’antico costituente si trasformò in un nuovo “partigiano” della costituzione repubblicana.In quel momento, dopo il crollo del muro di Berlino, vi era una sola possibilità per i comunisti di cambiare la situazione politica: servirsi della magistratura, che poteva non essere soltanto un potere delle istituzioni, ma anche “un potere sulle istituzioni”.Per Dossetti l’azione della magistratura corrispondeva alla sua tesi fondamentale, quella per cui la Resistenza era incorporata nella costituzione e le forniva un valore metafisico: l’antifascismo (p. 41). La politica della costituzione antifascista divenne la chiave della legittimità politica dopo la fine dell’egemonia democristiana. I partiti antifascisti, cattolici e comunisti, erano l’essenza della Repubblica costituzionale e la democrazia italiana, secondo Dossetti, si era allontanata, con l’anticomunismo, dall’antifascismo costituzionale. I magistrati erano l’unico potere che non traeva legittimità dal voto popolare, ma dalla costituzione, senza passare attraverso i partiti. Dossetti divenne dunque il garante dell’integrità della costituzione.Il “gran vecchio” scese dalla Montagna e ritornò sulla scena, promuovendo in tutta Italia i comitati per la difesa della costituzione, per combattere la “democrazia populista” di Silvio Berlusconi, simbolo a un tempo della società borghese e della sovranità popolare che minacciava la costituzione.La coalizione di sinistra guidata da Romano Prodi, designato a questo ruolo dallo stesso Dossetti, riuscì a vincere le elezioni politiche contro Berlusconi, prima nel 1996 e poi nel 2006. Il ruolo di Dossetti, nelle elezioni del 1996, fu quello di un “contropotere spirituale” rispetto al Vaticano: un monaco che si sostituiva alla chiesa di Roma, assumendo su di sé il ruolo di guida spirituale dei cattolici.Il cardinale di Milano Carlo Maria Martini fu il suo maggiore alleato. La chiesa fu costretta ad accettare l’uomo di Dossetti, legittimato da Martini, come mediatore tra la chiesa e lo stato (p. 59). Il monaco Dossetti compì in nome del suo potere spirituale ciò che il politico Dossetti aveva tessuto in forma materiale. “Dossetti e Prodi – sottolinea Baget Bozzo – appartengono alla storia religiosa d’Italia, non soltanto a quella politica” (p. 64). “Senza il tocco monastico, il dossettismo pieno e vero, cioè il prodismo, non sarebbe nato” (p. 65). Il gruppo di Dossetti aveva visto nella costituente e nella costituzione un evento rivoluzionario che dava un nuovo fondamento e un nuovo inizio alla società italiana.
Il secondo evento fu il Concilio Vaticano II. Dossetti era convinto che la collusione con il potere della chiesa post tridentina aveva portato alla separazione tra Dio e il popolo. Per riconciliarli, non era sufficiente l’azione politica, ma occorreva una riforma teologica della chiesa. Il libro di Baget Bozzo e Saleri accenna, ma lascia a margine quest’aspetto, che andrebbe integrato con la lettura dell’ampio saggio di Giuseppe Alberigo, Giuseppe Dossetti al Concilio Vaticano II, contenuto nella raccolta di saggi dello storico dossettiano, Transizione epocale.Studi sul Concilio Vaticano II (Il Mulino, Bologna 2009, pp. 393-504). Dossetti partecipò al Concilio come “esperto” del cardinale Giacomo Lercaro, attorno a cui costituì l’Istituto per le Scienze Religiose di Bologna di cui lo stesso Alberigo, e oggi Alberto Melloni, sono eredi. Durante il Concilio, Dossetti e il gruppo di Bologna cercarono di spingere la chiesa sulla via del “conciliarismo”, spogliandola del suo Primato Romano. Il tentativo di trasformare in senso “collegiale” il governo della chiesa fallì, ma la scuola di Bologna divenne il centro di diffusione dello ‘spirito del concilio’ cioè di una chiesa, come ricordò Baget Bozzo sul Foglio, del 23 febbraio 2007, liberata dalla monarchia papale e fondata dal governo dei vescovi.Quando, il 15 dicembre 1996, il monacopartigiano muore, a 83 anni, nella Comunità da lui fondata di Oliveto, accorrono a pregare sulla sua bara il capo dello stato Oscar Luigi Scalfaro e il presidente del Consiglio Romano Prodi. Quest’ultimo, come annota il “Corriere della Sera” del 16 dicembre, afferma di aver perduto in Dossetti “la sua guidaspirituale”. Anche il cardinale Martini lo piange definendolo una “figura profetica per il nostro tempo”, e dichiarando di aver avuto in lui “un grande amico e ispiratore”. Tredici anni della nostra storia sono da allora passati. L’ascesa al Pontificato di Benedetto XVI nel 2005 e la disfatta politica di Romano Prodi nel 2008 sono state svolte epocali che hanno visto l’inesorabile tramonto di un Dossetti profeta politico-religioso, capace di “leggere la storia” e discernere “i segni dei tempi”. Il pensiero di don Giuseppe Dossetti, come quello di Franco Rodano, è oggi archiviato nella storia delle utopie.

(Fonte: Roberto de Mattei, Il Foglio, 22 luglio 2009)

Mons. Fisichella: una chiave di lettura della “Caritas in veritate”

Sono diversi i punti da cui poter partire per immettersi nell’ultima enciclica di Benedetto XVI.
Un testo che intende affrontare la questione sociale alla luce del termine “sviluppo” che aveva avuto un posto determinante nell’insegnamento della Populorum progressio di Paolo VI del 1967. Una prima nota che balza evidente in queste pagine è il richiamo alla peculiare condizione storica che stiamo vivendo e che direttamente coinvolge la comprensione dei concetti e la loro interpretazione. A differenza degli anni Settanta in cui lo sviluppo era identificato preferibilmente come “L’obiettivo per far uscire i popoli anzitutto dalla fame, dalla miseria, dalle malattie endemiche e dall’analfabetismo” (n. 21), il termine assume oggi nelle pagine di Benedetto XVI una connotazione più ampia. Esso si pone come l’obiettivo per verificare la totalità della persona nel suo armonioso sviluppo della conoscenza di sé, delle relazioni interpersonali, sociali e del mondo che lo circonda e all’interno del quale è inserito; in una parola, “l’apertura alla vita è al centro del vero sviluppo” (n. 28). Per usare un’espressione sintomatica dell’enciclica, si potrebbe dire: “Il libro della natura è uno e indivisibile” (n. 51); ciò significa, che richiede non solo di essere mantenuto integro nella sua totalità, ma soprattutto che nel momento in cui lo si sfoglia, non si saltino le pagine per non correre il rischio di non comprendere lo sviluppo logico impresso nella natura stessa. Ricorda il Papa quanto sia necessario per l’uomo sentirsi profondamente legato al libro della natura senza cadere in una sorta di schizofrenia facilmente verificabile in diverse situazioni del mondo contemporaneo.
A volte, infatti, è difficile seguire il percorso di alcuni movimenti culturali e di atti legislativi tesi a salvaguardare l’ambiente, il creato o le diverse tipologie di animali più o meno in via di estinzione. Ciò che colpisce di più è che questi, mentre da una parte difendono l’ecologia ambientale, dall’altra dimenticano la vita umana e la sua salvaguardia. Per paradossale che possa sembrare, la loro posizione contraddice le tesi che sostengono in quanto a esse sacrificano la vita dell’uomo. Per dirla con le stesse parole dell’enciclica: “Se non si rispetta il diritto alla vita e alla morte naturale, se si rende artificiale il concepimento, la gestazione e la nascita dell’uomo, se si sacrificano embrioni umani alla ricerca, la coscienza comune finisce per perdere il concetto di ecologia umana e con esso quello di ecologia ambientale. È una contraddizione chiedere alle nuove generazioni il rispetto dell’ambiente naturale, quando l’educazione e le leggi non lo aiutano a rispettare se stesse” (n. 51). La natura, insomma, non è al di sopra dell’uomo né questo avulso dalla sfera naturale; è determinante, pertanto, un equilibrio basilare che non esalti l’uno umiliando l’altro, cadendo in forme di neopaganesimo.
Questa dimensione, a nostro avviso, conduce al cuore dell’argomentazione della Caritas in veritate: lo sviluppo genuino e coerente che la nostra società è chiamata a perseguire è quello di un umanesimo integrale (cfr. n. 78). Solo nella misura in cui la persona conosce se stessa e si mantiene in quella sfera di tensione costante verso la verità, allora può garantire che nella società e nelle diverse forme in cui essa si articola si possa concretamente realizzare uno sviluppo coerente, non traumatico per la mancanza di regole e soprattutto fondato su principi etici che garantiscono il rispetto verso tutti e l’applicazione della giustizia come “prima via della carità” (n. 6). In questo orizzonte diventa altamente significativo l’incipit dell’enciclica dove, in due termini si sintetizza il suo intero contenuto. La famosa espressione dell’apostolo Paolo veritas in caritate trova il suo corrispondente nel titolo dato a questa terza enciclica: Caritas in veritate. Nella mente dell’apostolo l’espressione indica che l’annuncio della verità del vangelo non è solo coniugato con l’amore, ma vive in esso; l’annuncio della verità si compie nella forma dell’amore. Nel pensiero del Papa, l’espressione chiude la circolarità e afferma che l’amore e la carità vivono primariamente di verità; la verità è lo spazio in cui l’amore si realizza. Questa prospettiva, per nulla teorica come potrebbe apparire a prima vista, tende a mostrare la via per uscire dal tunnel dell’emotività generalizzata e dall’arbitrarietà. Assumere la verità come principio universale, infatti, permette alla carità di diventare essa stessa principio universale oltre il sentimentalismo o il fideismo di turno: “Senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo. L’amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente. È il fatale rischio dell’amore in una cultura senza verità” (n. 3). Questa visione applicata alla dottrina sociale della Chiesa evidenzia da subito la vera sfida che è posta sul tappeto della nostra società nel momento in cui vuole affrontare con coerenza il tema del progresso e dello sviluppo.
Per permettere questo, Benedetto XVI si fa propositivo. Quanti in questi anni ripetono pedissequamente il ritornello diventato ormai un luogo comune che “La Chiesa dice sempre dei no”, dovranno ben rileggere le pagine di questa enciclica per verificare la progettualità, anche coraggiosa in alcuni momenti, a cui essa rinvia. Penso, in modo particolare, a come vengono trattate tematiche quali il mercato, l’impresa, la finanza che in un periodo di crisi come l’attuale sono richiamate a esprimere al meglio se stesse facendo ricorso, anzitutto al rispetto delle “esigenze intrinseche alla loro natura” (n. 45), e da qui farsi forti delle forme di “solidarietà” (n. 35), di “retta intenzione e trasparenza” (n. 65), per recuperare quel necessario senso di fiducia senza del quale il mercato, la finanza e la stessa imprenditoria non possono avere futuro. In un contesto di globalizzazione come il nostro, queste tematiche richiedono una lettura del fenomeno in termini rinnovati, capaci ad esempio di verificare in maniera più coerente le dinamiche sottese al mercato e all’impresa, la funzione sociale che svolgono e il valore di genuino apporto al progresso che possiedono nel momento in cui pongono al centro la persona. Relazionarsi al solo sistema economico, dimenticando che siamo a un crocevia alquanto affollato di situazioni complesse che richiedono l’apporto incondizionato di quanti sono coinvolti nel processo, equivarrebbe a vivere in una miopia che non porta lontano. Riportare alla centralità della persona equivale a evidenziare che oltre alle inevitabili situazioni di rischio che il mercato, l’impresa e la finanza possiedono, esiste anche – per non dire soprattutto – una serie di qualità quali l’abilità, la fantasia, l’intelligenza, la conoscenza scientifica e tecnologica che permettono di produrre reale sviluppo in quanto impegnano costantemente alla curiosità intellettuale che sa produrre nuovi e positivi “stili di vita” con al proprio fondamento una scelta etica e morale che completa il semplice prodotto economico.
Non potrà passare sotto silenzio, in questo frangente, l’impegno prettamente culturale a cui il Papa richiama. L’espressione citata nelle pagine dell’enciclica: “Il mondo soffre per la mancanza di pensiero” (n. 53), evidenzia lo sforzo che è necessario compiere per la formazione di personalità che a tutti i livelli della società siano in grado di porsi responsabilmente come classe dirigente in modo da condurre lo sviluppo verso le tappe di un vero e continuativo progresso. Lo stato di crisi culturale in cui siamo inseriti non necessariamente conduce a passive condizioni di staticità del pensiero; al contrario, è possibile vedere nella crisi una provocazione a saper discernere il momento presente per farsi carico di nuova progettualità che con realismo, fiducia nella ragione e certezza di riuscita possa pervenire a una nuova sintesi carica della ricchezza umanistica del passato e forte delle conquiste tecnologiche del presente. Da questa prospettiva nessuno può sentirsi esonerato dall’assunzione di una responsabilità per il progresso della società. Un’espressione di Benedetto XVI lo indica in maniera evidente: “Lo sviluppo è impossibile senza uomini retti, senza operatori economici e uomini politici che vivano fortemente nelle loro coscienze l’appello del bene comune” (n. 71).
Pregio dell’enciclica è certamente il richiamo all’istanza etica. È facile verificare come in questi ultimi anni da più parti e in modi svariati si sia fatto sempre più insistente l’appello all’urgenza etica per evitare di precipitare in situazioni irrimediabili. È necessario ricordare, comunque, che l’etica non può essere assunta come la panacea di tutti i mali che la società oggi vive per la crisi generalizzata che non è solo di ordine economico, ma principalmente di carattere antropologico. Etica non è una parola magica e tanto meno può essere assunta come un mero richiamo estemporaneo in particolari momenti di crisi; etica dice molto di più. Indica la strada che l’uomo è chiamato a percorrere con fedeltà e perseveranza se vuole raggiungere realmente la felicità e vivere in un mondo dove il rispetto e la responsabilità sono patrimonio di tutti. Ci si dovrà pur chiedere come mai questi decenni hanno visto spesso l’infrangersi di molte regole con l’imporsi del cinismo e della prepotenza? Di fatto, dove non c’è etica subentra il sopruso del forte sul debole, la legge viene aggirata dal più furbo a scapito del cittadino onesto e un senso di ingiustizia e impotenza diffuso pervade il sentire comune. Come si legge nell’enciclica: “Si nota un certo abuso dell’aggettivo “etico” che, adoperato in modo generico, si presta a designare contenuti anche molto diversi, al punto da far passare sotto la sua copertura decisioni e scelte contrarie alla giustizia e al vero bene dell’uomo” (n. 45). È necessario, pertanto, poter coniugare “etica della vita ed etica sociale” (n. 15), per fornire alla singola persona e alla società intera un fondamento solido su cui costruire il proprio futuro.
Benedetto XVI non ha timore di affrontare la questione mostrando che un’etica coerente con il suo fondamento e le finalità che si prefigge richiede che si espliciti anche in una duplice dimensione: accogliendo sia l’orizzonte dell’uomo come “immagine di Dio” sia la “inviolabile dignità della persona umana” (n. 45). Proprio questa prospettiva permette di verificare l’apporto positivo che viene dato a diverse problematiche che sono oggi particolarmente oggetto di dibattito pubblico e politico; si pensi, ad esempio, all’immigrazione, alla disoccupazione, agli investimenti internazionali per ognuna di queste tematiche l’istanza etica che pone a suo fondamento la dignità della persona mostra quanto sia impossibile trattare l’immigrato come “merce o una mera forza di lavoro” (n. 62); come non si possano procrastinare politiche per l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro andando oltre la precarietà; quanto sia importante il giusto salario che è dovuto al lavoratore e la sicurezza che gli deve essere garantita sul posto di lavoro (n. 63); inoltre, mostra come sia urgente educare le persone per non cadere in forme di sottosviluppo, di sfruttamento o nella trappola violenta dell’usura (n. 65); non da ultimo, viene ricordato come determinare la natura degli investimenti anche internazionali per non dimenticare che non sono un semplice atto tecnico, ma inevitabilmente legati a un fattore umano, sociale ed etico (cfr. n. 40).
In una parola, Caritas in veritate ripropone gli elementi fondamentali della dottrina sociale della Chiesa dinanzi alle nuove provocazioni del mondo contemporaneo; si presenta come una proposta valida e perseguibile anche per noi oggi. Essa avverte che la solidarietà non è sufficiente se manca il riferimento alla sussidiarietà e che questa senza l’altra mancano di qualcosa di essenziale e quindi permangono sterili nella loro azione di creare progresso: “La sussidiarietà senza solidarietà scade nel particolarismo sociale (…) la solidarietà senza sussidiarietà scade nell’assistenzialismo che umilia” (n. 58). In fondo anche questa prospettiva non è altro che un richiamo a un dato antropologico: il valore della libertà che si rende responsabile nei confronti dell’altro riconosciuto come persona perché portatore di dignità inalienabile.
“Senza Dio l’uomo non sa dove andare e non riesce nemmeno a comprendere chi egli sia” (n. 78). Un’espressione come questa posta a conclusione di Caritas in veritate getta molta luce sull’insegnamento che Benedetto XVI ha voluto offrire con questa enciclica. L’orizzonte spirituale della persona non è appendice aggiuntiva per la comprensione di sé e del rapporto con gli altri, ma la sua essenza. Se la persona fosse limitata alla sola sfera della relazionalità interpersonale, senza la capacità di andare oltre l’umano per affidarsi a quel senso di trascendenza che si percepisce dentro di sé, allora sarebbe distrutta la componente di mistero che permane come dimensione determinante per la coerente collocazione di sé all’interno del creato e della società. Per questo motivo non può passare inosservata la riflessione sul valore sociale della religione e sull’apporto peculiare che il cristianesimo ha dato nel passato e continua a offrire per il raggiungimento del bene comune (cfr. nn. 55-56). Ogni persona è un mistero, ma proprio la possibilità di affidarsi a un mistero più grande, quello di un Dio che si fa uomo per condividere in tutto la realtà umana, consente al cristianesimo di raggiungere l’apice dell’evento religioso. Nella costituzione pastorale Gaudium et spes ritroviamo le parole più intense riguardo a questo tema soprattutto là dove si dice che: Cristo Gesù “ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con mente di uomo, ha agito con volontà di uomo, amato con cuore di uomo” (n. 22). Questa espressione permette di cogliere ancora di più l’originalità della terza enciclica di Benedetto XVI dedicata alla vita sociale. Pagine da cui emerge con forza non solo la capacità argomentativa del credente, ma soprattutto la possibilità di comunicare le ragioni della propria fede anche a quanti ci guardano con attenzione e desiderano compiere con noi un percorso fatto almeno alla luce della ragione se non ancora della fede.

(Fonte: L’Osservatore Romano, 24 luglio 2009)

L’aborto non è un dovere, né un diritto. Semplicemente uccide

Il Parlamento italiano è diventato “antiabortista”? A leggere i giornali in questi giorni ci sarebbe quasi da crederlo: dopo il voto sulla Mozione Buttiglione, non pochi ambienti “pro life” cantano vittoria, parlano di «inversione di tendenza» e, soprattutto, di «scelta per la vita».
Ma quando si parla di “scelta” si è già traslocato armi e bagagli nel campo dell’abortismo, che ritiene l’aborto una questione di scelta, una faccenda della donna (che non può essere obbligata a partorire), un diritto dell’adulto a disporre liberamente della vita dei non nati. Questo è il nocciolo duro dell’abortismo e contro questo nocciolo duro un’autentica cultura per la vita deve battersi. Sempre.
Il voto del Parlamento italiano non scalfisce nemmeno con un graffio questo bunker di idee sbagliate intorno all’aborto. Anzi: implicitamente le accetta e le assume come piattaforma comune di dialogo e di confronto. È come se dicesse: premesso che l’aborto è un diritto della donna, vediamo di non farlo diventare un dovere per nessuno. Il Parlamento italiano ha votato a maggioranza una mozione che dice una cosa semplice: nessuno Stato, nessun governo, deve obbligare per decreto le donne ad abortire. Tutto qui. È ovviamente una decisione importante con riferimento a quei Paesi nei quali da tempo si attuano politiche antinataliste e antidemografiche, anche usando l’aborto come strumento per impedire alla popolazione di aumentare. In questo senso, il voto dell’altro giorno è un punto messo a segno contro la cultura della morte.È altrettanto evidente che la mozione uscita vincente era “migliore” della proposta proveniente dal centro sinistra, che faceva leva come al solito sul mito della contraccezione (spesso abortiva) come panacea di tutti i mali del mondo.Vogliamo dunque dire che il voto sulla Mozione Buttiglione è un fatto politico importante? E diciamolo pure. Ma non trasformiamo l’acqua gasata in champagne. C’è altrimenti il rischio di perdere la bussola, di smarrire il senso del proprio impegno civile, e di fare così il gioco di quella cultura di morte che si vuole sinceramente combattere.Il senso di questo voto può trasformarsi addirittura in un colossale autogol, se l’orizzonte del dibattito e dei commenti conferma una inesorabile deriva che Verità e Vita ha segnalato da tempo, e che – purtroppo – si va aggravando di giorno in giorno: e cioè l’idea che il diritto di aborto sia indiscutibile e che si possa soltanto garantire la «libertà della donna di non abortire». Magari con adeguati aiuti economici.La natura paradossale di questa posizione si comprende meglio se la si applica, poniamo, al tema dell’eutanasia: se il Parlamento italiano avesse votato una mozione “contro l’eutanasia obbligatoria, fermo restando il diritto del malato a ottenerla liberamente”, questa sarebbe giudicata una decisione “contro l’eutanasia e per la vita”? Se il Congresso degli Stati Uniti votasse una legge che impone l’uso della “dolce morte” in luogo della sedia elettrica per i colpevoli di efferati delitti, qui in Italia parleremmo di “superamento della pena capitale”?Anche il Magistero della Chiesa è, su questo punto, chiarissimo. E lo vogliamo ribadire, perché non vorremmo che qualcuno, fra qualche tempo, anche in casa cattolica, ci venisse a dire che “l’importante è che la donna possa scegliere se abortire in piena libertà e disponendo di adeguati aiuti economici”. Nella Evangelium Vitae Giovanni Paolo II denuncia i «potenti della terra» che impongono «con qualsiasi mezzo una massiccia pianificazione delle nascite» (EV, n. 16). Ma subito dopo, chiarisce che il male dell’aborto non sta tanto nell’essere imposto dalle autorità, quanto nel fatto che le democrazie liberali ne hanno fatto un diritto garantito dalle leggi (EV, nn. 20, 68, 69, 70, 71, 72, 73), avviandosi così sulla strada di un totalitarismo di nuovo tipo. E sempre Giovanni Paolo II ribadisce che «la gravità morale dell’aborto procurato appare in tutta la sua verità se si riconosce che si tratta di un omicidio» (EV, n. 58). Il livello di libertà di decisione della donna incide sulla sua responsabilità, ma non muta un delitto in diritto. «Rivendicare il diritto all’aborto, all’infanticidio, all’eutanasia e riconoscerlo legalmente, equivale ad attribuire alla libertà umana un significato perverso e iniquo: quello di un potere assoluto sugli altri e contro gli altri. Ma questa è la morte della vera libertà» (EV, n. 20).Come hanno ricordato in un loro coraggioso comunicato gli amici di “Due minuti per la vita”, «la realtà dell’aborto non muta laddove sia la madre a sceglierlo liberamente e ne deriva che anche in questo caso dovrà essere condannato. La moralità di un atto umano si valuta, infatti, in primo luogo con riferimento all’oggetto di tale atto e nel caso dell’aborto volontario non si può omettere di ricordare che esso consiste sempre nell’omicidio di una persona innocente ed indifesa, pratica disumana che mai dovrebbe essere lecita in un Paese civile». Questa la realtà da cui partire, questa la verità da riaffermare. L’abortismo è capovolgimento della realtà: se si sposano le sue promesse, si cammina a testa in giù. C’è un fatto fisiologico: il concepimento di un nuovo essere umano, la gravidanza, e la nascita di un figlio. E c’è un atto – non un fatto fisiologico – che l’uomo può compiere: sopprimere quel figlio prima che nasca. Compito del diritto è difendere quell’indifeso, dicendo proprio che partorire è doveroso, in quanto l’alternativa (abortire) è un delitto contro la vita.

(Fonte: Comitato Verità e Vita, Comunicato stampa n. 76, del 17 luglio 2009)

Quando Crociata parla di libertinaggio non fa il ritratto di Berlusconi

Bella e profonda l’occasione scelta da mons. Mariano Crociata per stigmatizzare il “libertinaggio irresponsabile”, predicato e diffuso da decenni nelle società avanzate, e capillarizzato dal circuito perverso di modelli di reciprocità, non solo sessuale, oggi generalizzato dai nuovi media.
In un coraggioso saggio sul Pudore, che è singolare sia stato pubblicato da Einaudi (perché ha ben poco di ‘emancipatorio’), Monique Selz scriveva: “In questa esibizione che fa vedere tutto, è in gioco niente meno che il tentativo o il simulacro della rivelazione del mistero dell’origine, che porta (…) all’illusione che sia possibile comprendere l’altro totalmente e quindi impossessarsene. [Contro questo] il pudore ha il compito di nascondere l’immagine per proteggere l’essere”.
Preziosa, dunque, l’occasione della festa (non “una” celebrazione in memoria, come leggo da qualche parte) della “piccola e dolce martire della purezza”, secondo le parole di Pio XII, santa Maria Goretti, il 6 luglio scorso. La canonizzazione di Marietta, fiduciosa “nel provvido amore di Dio” così da non dubitare, dodicenne, che le prescrizioni di quell’Amore potessero valere la vita, segna l’adolescenza cattolica della mia generazione: una difficile, travagliata cura della castità da preservare per il rapporto matrimoniale, il più alto e compiuto. Il film di Genina (Il cielo sulla palude, 1949) spiato, con turbamento (non eravamo ingenui), nelle sale parrocchiali, e la diffusa menzione del martirio per la purezza; l’attenzione al percorso di pentimento e riscatto del Serenelli, il ragazzo omicida del lontano 1902; tutto contribuiva all’interiorizzazione, in maschi e femmine, di quel paradigma, inarrivabile forse ma operante. S’intende che eravamo già sotto gli occhi irridenti dei “libertini” e, mi si perdoni, dei puttanieri, adulti o coetanei.
Nei decenni successivi l’ironia per quella vicenda così poco moderna, così poco liberante, e l’oblio, hanno prevalso anche nella formazione morale e sessuale cattolica. Solo il genio evangelizzatore di Giovanni Paolo II poteva dire, nel centenario della morte di Maria: “dal comportamento di questa giovane Santa emerge una percezione alta e nobile della propria e dell’altrui dignità, che si riverberava nelle scelte quotidiane conferendo loro pienezza di senso umano”. E più avanti: “In Maria Goretti risplende la radicalità della scelte evangeliche”. Eppure non era stata in Amazzonia né si era scontrata con la polizia.
La dispersione “libertina” delle antiche morali, la dittatura della trasparenza impudica del sé (Selz), l’ipertrofia delle libertà intime e la comoda retorica delle virtù pubbliche, il frequente “servirsi del richiamo alla moralità, prima tanto dileggiata, per altri scopi” (secondo le parole di mons. Crociata): per queste strade pubbliche l’emancipazione ha camminato e cammina, confermata o anticipata dalle leggi, dalla esibizione dell’orgoglio eversivo, del “pride” di turno, dai preservativi a scuola e la pillola abortiva nello zainetto, dalla consulenza immoralista dei magazine.
Tutta palese, e prevalentemente istituzionale, è infatti quella che chiamiamo socializzazione primaria, la formazione dei “giovani” enormemente diluita nel tempo. Dietro ai tanti educatori “alla libertà” (non stiamo parlando di veline) opera una visione del mondo seriosa, “adulta”, e programmatica è la decostruzione di principi e istituti. Non l’ ombelico scoperto impedirà ad una dodicenne di negarsi fino alla morte, come la Marietta, al desiderio di un ragazzo più grande; lo impedirà la somiglianza degli adulti, magari dei suoi stessi genitori, alle ciniche e disinibite comparse dei talk show. Tutto ciò è, obiettivamente e anzitutto, la realtà pubblica del “libertinaggio” evocato con forza dal segretario della CEI e che chiede il giudizio della Chiesa.
Alla sfera pubblica sembra appartenere, naturalmente, anche quella vita privata un tempo oggetto della chiacchiera sussurrata, della riservata calunnia, e che oggi la vetrina universale dei media di massa rende “pubblica”. Morale e diritto, però, ci rendono avvertiti. Tra coloro che propongono i modelli del Nuovo, nel romanzo, nel saggio, nel programma scolastico o nelle leggi di una regione, nella battaglia politica o nella accattivante esibizione (del genere Gay Pride), che dileggiano tutto ciò che è “vero, nobile e giusto”, da un lato, e colui che viene trascinato in pubblico, dall’altro, c’è qualche sostanziale differenza.
Nel primo caso, coloro che propongono un paradigma di emancipazione “libertina” si assumono responsabilità, in senso stretto, e provocano il nostro giudizio; per parte sua il giudizio cattolico afferma, da molto tempo, che “è in pericolo il bene stesso dell’uomo”.
Nel secondo caso, persone e condotte vengono trascinate da terzi nell’agorà, in modo che le giudichiamo, quasi fossero esse ad esibirsi e presentarsi. Ma con la mente alla polverosa, assolata piazza dell’adultera, questa procedura ci suggerisce piuttosto la bruciante frase di Gesù: ‘Chi di voi è senza peccato …’ (Giov. 8, 7). Infatti non vi è legittimità in un giudizio del genere; neppure legittimità morale (pubblica), poiché quella persona non attribuisce esemplarità alla condotta di cui è accusato. Proprio lo spazio privato da cui è stato strappato, per dirgli: Così ti mostri a tutti? fa intendere che egli non propone né una dottrina né un paradigma. Altri lo fanno. Inoltre, come il giudice (a meno non sia un giudice della Lubjanka) così il giudizio morale, che non può essere meno rigoroso, non possono accogliere delle deformazioni anzitutto lesive della persona, fatte per colpire il suo onore, come prove a carico.
Era un po’ di tempo che non si sanzionava così autorevolmente il diffuso e insidioso “libertinaggio, gaio e irresponsabile”, esibito e tollerato un po’ ovunque. Peraltro, esso ha genealogie e legittimazioni che l’intelletto cattolico aveva individuato con molto anticipo; non lasciamo che la mobilitazione dei ‘virtuosi’ ci cambi oggi le carte in tavola. La “piccola e dolce martire” non ne riceverebbe coerente memoria.

(Fonte: Pietro De Marco, L’Occidentale, 9 luglio 2009)

Per Mons. Martini la “Humanae vitae” era un ramo secco. Ma Ratzinger lo fa rifiorire

Nell’enciclica “Caritas in veritate”, Benedetto XVI ha dedicato un intero capitolo alla “Populorum progressio”, la grande enciclica sociale di Paolo VI, pubblicata nel 1967.
E a sorpresa – ma non troppo, per gli intenditori – ha lodato assieme a quell’enciclica un altra famosa enciclica di Paolo VI, la “Humanae vitae”: in quanto anch’essa “molto importante per delineare il senso pienamente umano dello sviluppo proposto dalla Chiesa”.
“La ‘Humanae vitae’ – ha spiegato Benedetto XVI al n. 13 della ‘Caritas in veritate’ – indica i forti legami esistenti tra etica della vita ed etica sociale, inaugurando una tematica magisteriale che ha via via preso corpo in vari documenti, da ultimo nell’enciclica ‘Evangelium vitae’ di Giovanni Paolo II. La Chiesa propone con forza questo collegamento tra etica della vita e etica sociale nella consapevolezza che non può avere solide basi una società che – mentre afferma valori quali la dignità della persona, la giustizia e la pace – si contraddice radicalmente accettando e tollerando le più diverse forme di disistima e violazione della vita umana, soprattutto se debole ed emarginata”.
Come glossa a questo passaggio della “Caritas in veritate”, va ricordato che lo stesso Paolo VI era arciconvinto del legame indissolubile tra la “Populorum progressio” e la “Humanae vitae”. Il 29 giugno del 1978, ultimo suo anno di vita, lo mise in luce così, in un’omelia che fu come un bilancio del suo pontificato:
«Noi consideriamo imprescindibile la difesa della vita umana. Il Concilio Vaticano II ha ricordato con parole gravissime che “Dio, padrone della Vita, ha affidato agli uomini l’altissima missione di proteggere la vita”! (Gaudium et spes, 51). E noi, che riteniamo nostra precisa consegna l’assoluta fedeltà agli insegnamenti del Concilio medesimo, abbiamo fatto programma del nostro pontificato la difesa della vita, in tutte le forme in cui essa può esser minacciata, turbata o addirittura soppressa.
«Rammentiamo anche qui i punti più significativi che attestano questo nostro intento.
«Abbiamo anzitutto sottolineato il dovere di favorire la promozione tecnico-materiale dei popoli in via di sviluppo, con l’enciclica ‘Populorum progressio’ del 26 marzo 1967.
«Ma la difesa della vita deve cominciare dalle sorgenti stesse della umana esistenza. È stato questo un grave e chiaro insegnamento del Concilio, il quale, nella costituzione pastorale ‘Gaudium et spes’, ammoniva che “la vita, una volta concepita, dev’essere protetta con la massima cura; e l’aborto come l’infanticidio sono abominevoli delitti” (51). Non abbiamo fatto altro che raccogliere questa consegna quando, dieci anni fa, promanammo l’enciclica ‘Humanae Vitae’: ispirato all’intangibile insegnamento biblico ed evangelico, che convalida le norme della legge naturale e i dettami insopprimibili della coscienza sul rispetto della vita, la cui trasmissione è affidata alla paternità e alla maternità responsabili, quel documento è diventato oggi di nuova e più urgente attualità per i ‘vulnera’ inferti da pubbliche legislazioni alla santità indissolubile del vincolo matrimoniale e alla intangibilità della vita umana fin dal seno materno. Di qui le ripetute affermazioni della dottrina della Chiesa cattolica sulla dolorosa realtà e sui penosissimi effetti del divorzio e dell’aborto, contenute nel nostro magistero ordinario come in particolari atti della competente congregazione. Noi le abbiamo espresse, mossi unicamente dalla suprema responsabilità di maestro e di pastore universale, e per il bene del genere umano!».
Un’altra glossa. Come si sa, la “Humanae vitae” fu pubblicamente contestata da un gran numero di cardinali, vescovi, religiosi, teologi, fedeli dei paesi ricchi, mentre nel Terzo Mondo se ne capiva e valorizzava la validità sociale. Quel fronte del rifiuto “opulento” è attivo anche oggi. L’ultimo suo fuoco è stato il libro “Conversazioni notturne a Gerusalemme”, del cardinale Carlo Maria Martini.

(Fonte: Sandro Magister, Settimo Cielo, 7 luglio 2009)

“Chi fa propaganda per il PCI è apostata della fede e quindi scomunicato”. Storia di una scomunica

Ebbe l’indubbio effetto di ridimensionare – e per sempre – le ambizioni del Partito Comunista Italiano. Da un punto di vista rigorosamente storico, si può affermare senza ombra di dubbio che la presa del potere, in Italia, da parte degli uomini di Stalin fu evitata proprio grazie a quel provvedimento. Stiamo parlando del decreto del 1° luglio 1949 emesso dalla Congregazione del Sant’Uffizio e passato alla storia come il decreto di scomunica dei comunisti.
Sono trascorsi, da allora, sessant’anni ed è davvero venuto il tempo di storicizzare quell’evento che rappresentò, per la strategia di conquista del potere studiata a Mosca e messa a punto a Botteghe Oscure, una sconfitta irreparabile e definitiva. Da cui l’odio mortale della sinistra – che dura tutt’ora – nei confronti del grande Pontefice, Pio XII, che aveva avallato il decreto.Ma vediamone il testo:È stato chiesto a questa Suprema Sacra Congregazione», scrissero i Cardinali che componevano il Collegio, 1. Se sia lecito iscriversi al partito comunista o sostenerlo; 2. Se sia lecito stampare, divulgare o leggere libri, riviste, giornali o volantini che appoggiano la dottrina o l'opera dei comunisti, o scrivere per essi; 3. Se possano essere ammessi ai Sacramenti i cristiani che consapevolmente e liberamente hanno compiuto quanto scritto nei numeri 1 e 2; 4. Se i cristiani che professano la dottrina comunista materialista e anticristiana, e soprattutto coloro che la difendono e la propagano, incorrano ipso facto nella scomunica riservata alla Sede Apostolica, in quanto apostati della fede cattolica. Gli Eminentissimi e Reverendissimi Padri preposti alla tutela della fede e della morale, avuto il voto dei Consultori, nella riunione plenaria del 28 giugno 1949 risposero decretando:- negativo: infatti il comunismo è materialista e anticristiano; i capi comunisti, sebbene a volte sostengano a parole di non essere contrari alla Religione, di fatto, sia nella dottrina sia nelle azioni, si dimostrano ostili a Dio, alla vera Religione e alla Chiesa di Cristo; - negativo: è proibito dal diritto stesso (cfr. canone 1399 del Codice di Diritto Canonico); - negativo, secondo i normali princìpi di negare i Sacramenti a coloro che non siano ben disposti; - affermativo.Il giorno 30 dello stesso mese ed anno il Santo Padre Pio XII, nella consueta udienza all'Assessore del Sant'Uffizio, ha approvato la decisione dei Padri e ha ordinato di promulgarla nel commentario ufficiale degli Acta Apostolicae Sedis.Sarà questa decisione di Pio XII a farne un nemico assoluto per i comunisti e i loro tirapiedi, e a indicarlo a scrittori, propagandisti e falsificatori della storia come l’obiettivo principale da colpire. Difatti, tra non molto avrà inizio la sarabanda, con la rappresentazione, al Freie Volksbühne di Berlino, dell’opera teatrale di Rolf Hochhuth «Il Vicario», dove la mancata presa di posizione ufficiale del Papa contro il nazismo viene giudicata complicità con l’Olocausto. Ma una clamorosa smentita alla tesi sostenuta dal commediografo verrà addirittura da Albrecht von Kessel, inserito nel dramma in quanto stretto collaboratore dell’ambasciatore tedesco in Vaticano, Ernst Von Weizsäcker, che in un’intervista dichiarerà: «Hitler era uomo capace di ogni crimine. Noi tutti eravamo, senza eccezione, d’accordo su un punto: una protesta solenne di Pio XII contro la persecuzione degli ebrei avrebbe esposto lui e tutta la Curia romana al massimo pericolo e non avrebbe salvato la vita a un solo ebreo».Come se niente fosse, alla commedia di Hochhuth fanno seguito i libri di Daniel Goldhagen «Hitler’s willige Vollstrecker» (in Italia «I volonterosi carnefici di Hitler») e di John Cornwell «Hitler’s Pope» (in Italia «Il papa di Hitler»). Dal canto suo, nel film «Amen», il regista Costa Gavras racconterà la storia di un ufficiale delle SS che avrebbe tentato invano di far sapere al Papa l’uso del Zyklon B per sterminare gli ebrei nei Lager. Avendo trovato ostacoli insormontabili nel portare a termine il suo intento, l’ufficiale si sarebbe consegnato ai francesi e sarebbe poi morto suicida. Ovviamente, la saga sinistroide (e sinistra) continua. Ci vorranno secoli per mandare in soffitta quel decreto che, comunque, ebbe un ruolo fondamentale nel preservare l’Italia dal purgatorio dell’Europa dell’Est.Un ruolo fondamentale, nel diffondere – tra i cristiani che, ai seggi elettorali, votavano falce e martello – il fatale ripensamento, lo ebbero le diocesi locali, che diffusero e affissero migliaia di manifesti contenenti la sintesi del decreto. Celebre quello della Curia di Piacenza, sul quale poteva leggersi:“È peccato grave iscriversi al PC; favorirlo in qualsiasi modo, specie nel voto; leggere la stampa comunista. Quindi, non si può ricevere l’assoluzione se non si è pentiti e fermamente disposti a non commettere più gli anzidetti peccati gravi. Chi fa propaganda per il PCI è apostata della fede e scomunicato”.Furono migliaia i cristiani, specie le donne di una certa età, a farsi venire i brividi al pensiero che i loro mariti e figli potessero finire all’inferno perché leggevano «L’Unità» e votavano per Togliatti.Negli anni che seguirono, la tensione si attenuò, finché, subito dopo la morte di Pio XII, tutto finì in una bolla di sapone. Artefice, il nuovo Pontefice Giovanni XXIII, il «Papa buono», così ribattezzato da quegli organi di stampa da sempre controllati dai compagnucci della parrocchietta, che sottintendevano – ovviamente – la sua contrapposizione con l’innominato ed innominabile «Papa cattivo».Il 25 marzo 1959, a pochi mesi dalla morte di Papa Pacelli e dall’elezione al soglio pontificio di Papa Roncalli, la Sacra Congregazione del Sant’Uffizio tornò a riunirsi ed emise e il seguente decreto:È stato chiesto a questa Suprema Sacra Congregazione se sia proibito ai cittadini cattolici dare il proprio voto durante le elezioni a quei partiti o candidati che, pur non professando princìpi contrari alla dottrina cattolica o anzi assumendo il nome cristiano, tuttavia nei fatti si associano ai comunisti e con il proprio comportamento li aiutano. «I Cardinali preposti alla tutela della fede e della morale rispondono decretando: negativo (cioè: non è proibito; n.d.r.), a norma del Decreto del Sant'Uffizio del 1/7/1949, numero 1.Segue comunicato del Sant’Uffizio:Il giorno 2 aprile 1959 il Papa Giovanni XXIII, nell'udienza al Pro-Segretario del Santo Uffizio, ha approvato la decisione dei Padri e ha ordinato di pubblicarla. Da quel giorno, i don Gallo presero a nascere come i funghi

(Fonte: Luciano Garibaldi, sussidiario.net, 6 luglio 2009)

"Staminali, la Chiesa questa volta non sbagli"

Il Vaticano deve stare attento a non ripetere altri casi come quello di Galileo e dunque non dovrebbe condannare «con gli stessi preconcetti che valevano allora per la teoria copernicana» gli attuali sviluppi della ricerca sulle cellule staminali o sulla genetica. Un’affermazione non nuova sulle labbra di molti scienziati critici verso la Chiesa, ma che suona dirompente se a pronunciarla è un vescovo della Curia romana e per di più nella Sala Stampa della Santa Sede di fronte a decine di giornalisti.Autore della clamorosa sortita è il barnabita Sergio Pagano, Prefetto dell’Archivio Segreto vaticano, esperto di liturgia e specializzato in archivistica. Il prelato ha incontrato ieri mattina la stampa internazionale per presentare una nuova edizione dei documenti del processo contro Galileo Galilei, lo scienziato pisano condannato dall’autorità ecclesiastica per il suo «Dialogo sui massimi sistemi», con il quale, ha spiegato Pagano, «sembrò insegnare ai teologi come interpretare la Bibbia, e al Papa come fare il Papa».Il Prefetto dell’Archivio Segreto non si è però limitato al passato. Ha tratto, dal caso Galileo, un insegnamento per il presente, applicandolo proprio ai pronunciamenti della Chiesa sulle cellule staminali e più in generale sulla genetica. Temi etici sensibilissimi: basti pensare che proprio la recente decisione del nuovo presidente Usa di rimuovere i limiti al finanziamento pubblico per la ricerca sulle cellule staminali embrionali, rappresenta uno dei temi di maggior attrito tra Stati Uniti e Santa Sede. E Barack Obama vedrà Benedetto XVI tra pochi giorni.Queste le esatte parole dette dal vescovo Pagano: «Può insegnare qualcosa a noi oggi (il caso Galileo, ndr)? Certo, per esempio – ma questo lo dico da sacerdote, da persona privata – a stare molto attenti quando ci si confronta con la sola Scrittura alla mano in questioni scientifiche, a non fare noi gli errori che furono fatti allora». «Penso – ha aggiunto l’archivista – alle cellule staminali, penso ai problemi dell’eugenetica, penso ai problemi della ricerca scientifica in questi ambiti, che qualche volta ho l’impressione siano condannati con gli stessi preconcetti che valevano allora per la teoria copernicana. Bisognerebbe studiare di più, essere molto più prudenti». Espressioni inequivocabili: il prelato teme che in materia di cellule staminali e di «eugenetica» (forse intendeva di «genetica»), la Chiesa oggi pronunci condanne in base a «preconcetti», come fece con Galileo.Resosi conto dell’effetto dirompente delle sue affermazioni, il vescovo ha fatto poi distribuire una dichiarazione per inquadrare meglio il suo pensiero. «Il caso Galileo – si legge nella nota – insegna alla scienza a non presumere di far da maestra in materia di fede e di Sacra Scrittura e insegna contemporaneamente alla Chiesa ad accostarsi ai problemi scientifici, fossero anche quelli legati alla più moderna ricerca sulle staminali, per esempio, con molta umiltà e circospezione». Come si vede, nessuna smentita, peraltro impossibile, dopo che i registratori dei giornalisti avevano catturato le sue precedenti parole.Ora, il Prefetto dell’Archivio Segreto non è un teologo né un esperto di bioetica. Ha espresso il suo pensiero dimenticando, per un momento, il ruolo ricoperto e il luogo in cui si trovava. Le sue battute sono state accolte con sorpresa nei sacri palazzi: sulle questioni citate da Pagano, infatti, gli organismi della Santa Sede non intervengono sulla base delle Scritture (che non sono un trattato scientifico) ma degli sviluppi della ricerca. Come conferma al Giornale il sottosegretario al Welfare Eugenia Roccella: «Tutti devono essere umili di fronte alla scienza, ma sulle staminali la Chiesa non si è espressa con pregiudizi, ma in base a giudizi scientifici non condizionati dalla propaganda e dalle pressioni del mercato. La ricerca basata sulle staminali umane embrionali, l’unica che ha sollevato dubbi etici, è datata e superata e si è dimostrata una grande truffa».

(Fonte: Andrea Tornielli, Il Giornale, 4 luglio 2009)

martedì 21 luglio 2009

Le parole del Papa che tutti dovremmo ascoltare

E visto che noi siamo tra quei quattro gatti che ascoltano le parole di Benedetto XVI, apriamo la sua ultima lettera enciclica, la Caritas in Veritate e ci confrontiamo con quello che vi è scritto. In particolare ci soffermiamo sul capitolo secondo, paragrafi 74-76, per due motivi: il primo è che vi sono contenute riflessioni che sono perfettamente in tema con quelle che abbiamo sviluppato ultimamente a proposito della società nichilista; il secondo è che abbiamo la sensazione che proprio qui il Papa abbia voluto trattare qualcosa che ritiene di importanza fondamentale.
Lo si capisce dalle prime inequivocabili affermazioni: “Campo primario e cruciale della lotta culturale tra l’assolutismo della tecnica e la responsabilità morale dell’uomo è oggi quello della bioetica, in cui si gioca radicalmente la possibilità stessa di uno sviluppo umano integrale”. Colpisce quella sottolineatura di una lotta in corso, quell’accenno all’assolutismo e quella posta in gioco altissima, in quanto si tratta niente meno dello sviluppo dell’uomo. Il Papa ci dice che le questioni bioetiche non sono questioni qualsiasi, che si pongo a latere di tante altre, ma la questione cruciale. E’ evidente che chi vuole ascoltarlo e seguirlo, d’ora in poi, è su questo campo particolare che dovrà fissare la propria attenzione.
Perché tanta importanza? Perché è qui che “emerge con drammatica forza la questione fondamentale: se l’uomo si sia prodotto da se stesso o se egli dipenda da Dio”. Fare ricorso alla fecondazione in vitro, manipolare e sopprimere embrioni, creare la vita in laboratorio non è solo utilizzare della tecniche moralmente problematiche che la Chiesa prima o poi troverà il modo di approvare. E’ qualcosa di molto più grave e decisivo: è mettere in discussione l’autorità stessa di Dio. E' uno schierarsi per una razionalità chiusa nell’immanenza, contro una ragione aperta alla trascendenza.
Insomma, la posta in gioco è molto alta. In fin dei conti è una scelta tra Dio e il nulla (e qui ci colleghiamo con le nostre riflessioni). Chi si pone dalla parte di una razionalità solo immanente deve fare i conti “con la difficoltà a pensare come dal nulla sia scaturito l’essere e come dal caso sia nata l’intelligenza”.
Il Papa, a questo punto, aggiunge un concetto che, nel nostro piccolo, avevamo affermato anche noi: “la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica”, perché il problema fondamentale è come la vita viene concepita e manipolata. E’ un problema, dunque, di cultura, in quanto il Papa connette l’invasività della tecnica di cui tutti siamo testimoni, ad una “cultura del disincanto totale, che crede di aver svelato ogni mistero”. Una cultura orizzontale, materialistica, nichilistica, che fa di tutto per espungere il Mistero dalla vita dell’uomo.
L’assolutismo della tecnica apre, poi, degli scenari che il Papa definisce inquietanti, culminanti in quella “sistematica pianificazione eugenetica delle nascite” che, come anche noi abbiamo più volte rilevato e denunciato, è già “surrettiziamente in nuce”. Sul versante opposto si diffonde una mens eutanasia, “manifestazione non meno abusiva di dominio sulla vita”.
E’ un circolo vizioso. La cultura si allea con l’assolutismo della tecnica, ma a sua volta la tecnica, con le sue pratiche, contribuisce ad “alimentare una concezione materialista e meccanicistica della vita umana”.
Ed ecco, a questo punto un passaggio fondamentale, sul quale molti cattolici adulti e di sacrestia dovrebbero meditare con grande attenzione: “Come ci si potrà stupire dell’indifferenza per le situazioni umane di degrado, se l’indifferenza caratterizza perfino il nostro atteggiamento verso ciò che è umano e ciò che non lo è? Stupisce la selettività arbitraria di quanto oggi viene proposto come degno di rispetto. Pronti a scandalizzarsi per le cose marginali, molti sembrano tollerare ingiustizie inaudite”.
Il passaggio mi sembra evidenziare una grave questione di miopia. Ci commuoviamo per gli uomini che muoiono di fame, ma non per gli uomini che vengono scientemente soppressi nella nostra società opulenta. Non riusciamo a mettere a fuoco il problema principale che stiamo vivendo, la questione cruciale e primaria. L’assolutismo della tecnica sta radicalmente abolendo Dio ed abolisce contemporaneamente l’uomo. E allora, quali uomini intendiamo salvare?
Il “riduzionismo neurologico” sta riducendo l’anima alla psiche, sta eliminando lo spirito. Parliamo di “sviluppo”, ma sembriamo avere dimenticato che esso “deve comprendere una crescita spirituale, oltre che materiale” e che “una società del benessere, materialmente sviluppata, ma opprimente per l’anima, non è di per sé orientata all’autentico sviluppo”.
Il Papa ha donato una copia dell’enciclica ad Obama, il presidente della maggiore potenza mondiale. Se questi leggesse attentamente le parole di Benedetto XVI e regolasse di conseguenza la propria politica, farebbe davvero il bene dell’umanità. C’è da augurarselo.

(Fonte: La Cittadella, 16 luglio 2009)

giovedì 16 luglio 2009

Ma il vero problema è il nichilismo

C’è stato l’altro giorno su Avvenire, nella pagina Forum, un bel botta e risposta tra una mamma cattolica e il Direttore del giornale. Vale la pena riportarne alcune parti per riprendere la riflessione su quegli “imbarazzi cattolici” di cui già abbiamo parlato. La mamma cattolica si chiede, “seguendo la propria coscienza cristiana”: “Se Cristo tornasse sulla terra che farebbe? Che direbbe? Chi caccerebbe dal tempio? Gli zingari sporchi, puzzolenti, ladruncoli, gli immigrati disperati che arrivano con barconi, gli omosessuali, i conviventi more uxorio, o quei bei signori profumati, anche truccati, che stanno seduti in comode poltrone nei palazzi del potere, predicando belle, moralissime parole (subito smentite nelle loro privatissime, ormai non più troppo però, vite familiari)?”.
Ogni allusione è puramente casuale, verrebbe da dire. Ma questa lettera, con queste domande, tradisce ancora una volta l’immaturità di un certo mondo cattolico che non ha capito qual è oggi la vera posta in gioco.
Il Direttore, pur riconoscendo che i discutibili esempi di condotta forniti dai vari personaggi della politica e delle istituzioni non aiutano certo nell’educazione delle nuove generazioni, riporta però la questione ai suoi termini essenziali: “Non dimentichiamo che l’indisciplina, la partigianeria, il sesso a go-go, la droga, la pornografia, l’edonismo innalzato a regola, l’individualismo prevaricante, la violenza verbale, lo scetticismo (ovvero molte delle note antropologiche caratteristiche del presente) sono le indubbie eredità di una lunga stagione culturale egemonizzata da fenomeni precisi come il ’68 e il femminismo, costellata da scelte “epocali” quali il divorzio e il diritto all’aborto, scambiate anche da non pochi cattolici per conquiste di civiltà”.
Cioè, la questione non è tanto morale, quanto filosofica e antropologica. Chesterton l’aveva già intuito un secolo fa, quando diceva che la società moderna era incamminata verso il manicomio. Ma Chesterton, notoriamente, non proveniva dalla sacrestia, non frequentava corsi di formazione parrocchiali, sinodi diocesani, scuole della Parola... E non faceva il catechista.
La mamma-cattolica si scandalizza per il “cattivo esempio” di chi ci governa, ma non per il fatto che, ad esempio, oggi si generino programmaticamente degli esseri umani senza più padre o madre, o con padri e madri plurimi. Non si scandalizza affatto per una coppia gay che mette al mondo un figlio. Né tanto meno se perfino gli spermatozoi maschili vengono creati in laboratorio.
La mamma-cattolica non ha capito che la nuova, fondamentale questione, è quella di un attentato alle radici stesse dell’essere umano, più che ai comportamenti perbene. Lo spiegano ottimamente i miei amici di stranocristiano.it nel post intitolato Libertas Ecclesiae, che invito tutti a leggere.
A cosa serve stare a discutere di comportamenti corretti, se si stanno scardinando “tutti i rapporti umani naturali esistenti dagli albori dell’umanità”? La signora si preoccupa per l’educazione dei propri figli. Ma perché non si preoccupa di un figlio che non avrà tanto problemi di sana educazione, quanto proprio d’identità umana? Un figlio che non saprà più chi è il padre o la madre, o ne avrà tanti da perdere l’elementare esperienza che tutti gli esseri umani hanno fatto dagli albori dell’umanità? La brava-mamma-cattolica queste le cose le ritiene di secondaria importanza.
Mi hanno lasciato sinceramente sorpreso i rilievi polemici sulla morale, da parte di chi in effetti non ha più nemmeno una morale di riferimento. Come fa un nichilista a prendersela con i modelli proposti dalla televisione commerciale? Il nichilista dovrebbe benedire la televisione commerciale, che ha contribuito alla grande a diffondere il suo credo. Come fa un nichilista a prendersela col capitalismo? Dovrebbe piuttosto benedire il capitalismo, che ha stretto un’alleanza col nichilismo. Un sessantottino, un radicale, una femminista che oggi fanno la morale, sono credibili quanto una prostituta che parli di verginità.
Il vero problema è filosofico ed antropologico. Il nichilismo, da sempre associato ad età di crisi e di decadenza, in quanto incapace di costruire alcunché, oggi, come spiega Mauro Magatti, preside della Facoltà di Sociologia della Cattolica di Milano, “ha la pretesa di porsi come sostrato spirituale di un’epoca che non si pensa in decadenza. Anzi, esso si presenta come una sorta di Weltanschauung in grado di sostenere una crescita indefinita”. Capitalismo e nichilismo si sono alleati per garantire un continuo “cambiamento della scena”, unico fattore in grado di “riprodurre – anche se provvisoriamente – la certezza di quella realtà nella quale conduciamo la nostra vita quotidiana, anche se ciò non cancella la consapevolezza che non c’è nulla di duraturo, nulla per cui valga davvero la pena di vivere”.
E’ il trionfo del nulla. Nulla ha veramente importanza, nulla è definitivo e immutabile, tutto si evolve e cambia continuamente. La battaglia non è contro chi cade o inciampa rispetto alla morale tradizionale, ma contro chi si fa profeta di questo nulla, lo presenta come un valore, ne fa il sostrato di stili di vita, modi di essere, leggi.

(Fonte: Gianluca Zappa, La Cittadella, 9 luglio 2009)

Il papa e i 4 gatti

“Domani il Papa va in vacanza e ci saranno anche due gatti... che gli strapperanno un sorriso, almeno quanto i proverbiali quattro gatti, forse un po’ di più, che hanno ancora il coraggio e la pazienza di ascoltare le sue parole”.
Questo è quanto ha detto, in un suo servizio sul TG3, un tal Roberto Balducci. vaticanista. Da oggi non più vaticanista: è stato rimosso dall’incarico e addetto a qualcos’altro, nonostante Padre Lombardi, direttore della sala stampa vaticana, avesse dichiarato chiuso l’incidente già la sera stessa del maldestro servizio giornalistico.
Sui siti e i blog vicini al Papa è tutto uno sperticarsi in lodi per il Balducci, che aveva in passato più volte espresso la sua professionalità, e un non capire il perché della sua rimozione dall’incarico. Si disapprova il gesto, ma li si può capire: un cattolico oggi deve incassare i cazzotti e starsene pure zitto, sennò si parla subito di ingerenza del Vaticano nella politica italiana, di ritorno dell’Inquisizione e via con cretinate del genere.
Noi, che siamo più liberi di dire quello che ci pare, non possiamo non approvare il provvedimento preso. Perché il commento del Balducci è una vera e propria porcata, una frase cattiva e piena di livore, più di una semplice “cazzata”, come l’ha definita Roberto Giachetti del PD. Altro che una battuta per dare un tocco leggero, un po’ frivolo, ad un servizio di “colore”. Qualcuno dice che, a risentire il nastro, il tono della voce fa capire di più quella che voleva essere una battuta, molto più che a rileggere il testo così come lo abbiamo trascritto. Sarà, ma una cosa è certa: non ricordiamo “battute” così pesanti e irriverenti nei confronti di un personaggio di tale livello in un tiggì nazionale (perché un conto è una trasmissione di Santoro, un conto un tiggì).
E sì che, volendo, i giornalisti italiani avrebbero potuto farne molte. Restando in tema di “quattro gatti”, per esempio, ogni volta che c’è un congresso o una manifestazione dei radicali il numero complessivo dei partecipanti sfiora davvero quel numero. Quando parla Pannella (che il look da vecchio pontefice ce l’ha pure) ad ascoltarlo ci sono davvero quattro gatti. Ma nei resoconti giornalisti non si fa lo straccio di una battuta. Telecamere rigorosamente strette, inquadrature sui particolari, obbiettivi che vanno a cercare il posticino un po’ più pieno della sala.
Dico, ve l’immaginate un giornalista del TG3 che faccia una battuta di questo genere: “Pannella va in vacanza col suo gatto, che gli ricorderà quei quattro gatti che gli stanno ancora appresso”? O magari una battuta del genere, sul congresso del PD: “Sono quattro gatti e per giunta si dividono”? Forse la troverete su Libero, ma di certo non su una rete nazionale. Ve l’immaginate un inviato al G8 di L’Aquila che avesse parlato dei quattro gatti no-global che hanno manifestato contro?
No, io non riesco davvero nemmeno a concepire delle battute del genere. Ma quando si è trattato del Papa, la battuta è stata fatta. Strano, veramente strano per un vaticanista competente. Forse è che a Roma, di questi tempi, il caldo si fa particolarmente sentire e il sole picchia. Ma nelle stanze del TG3 hanno l’aria condizionata.
Io non so se il Balducci volesse dire, in modo davvero maldestro (quindi poco consono ad un vaticanista esperto), che il Papa dovrebbe essere ascoltato di più. A me quelle parole (“coraggio e pazienza di ascoltare”) fanno immediatamente pensare ad un vecchietto un po’ rincoglionito che parla parla e la gente lo sta ad ascoltare per forza e con un po’ di sofferenza. Insomma, che a stare ad ascoltare quello che dice questo Papa ci vuole davvero “coraggio” e una buona dose di “pazienza”. E questo, beninteso, lo si può dire anche col sorriso sulla bocca. Se Balducci voleva dire altro, non è stato davvero capace. E del resto bastava aggiungere una frasetta conclusiva per rendere meno contorto il suo pensiero.
Detto questo, e approvato il provvedimento che destina il suddetto Balducci ad altro compito, va aggiunto che l’ex vaticanista deve essere ringraziato, perché prima di cambiare lavoro ci ha lasciato un compito ben preciso: avere la pazienza e il coraggio di ascoltare quello che dice Benedetto XVI. Ci vuole la pazienza per leggere la succosa ultima enciclica e il coraggio di lasciarsi interpellare e giudicare da certi passaggi (come quelli dei paragrafi 74-76) che aprono questioni fondamentali.
Quanti lo faranno tra i cattolici? E quanti tra gli agnostici, atei, non credenti che magari si gasano coi libri di Odifreddi? Saranno davvero solo quattro gatti a leggere le parole del Papa? Vi confesso di avere le stesse sensazioni del giornalista rimosso.

(Fonte:Gianluca Zappa, La Cittadella, 12 luglio 2009)

Karl Rahner, maestro del Concilio, di Martini e della coscienza relativa

Il nome di Karl Rahner è un passaggio obbligato per chi voglia entrare nel cuore del dibattito intraecclesiale dei nostri giorni. Come perito conciliare del cardinale Franz König il gesuita tedesco svolse, dietro le quinte, un ruolo cruciale nel Vaticano II, fino a essere definito dall’allora decano della Gregoriana, Juan Alfaro, “il massimo ispiratore del Concilio”. Di certo ha dominato il postconcilio come conferenziere di grido e scrittore dalla alluvionale produzione, pronto a intervenire disinvoltamente su tutti i problemi del momento: i suoi titoli sono oltre quattromila, le sue opere, tradotte e diffuse in tutto il mondo, continuano a esercitare una larga influenza sul mondo cattolico contemporaneo.
Sembra giunta però l’ora di “uscire da Rahner”, come implicitamente auspicato da Benedetto XVI nell’ormai storico discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005, sulle “ermeneutiche” del Concilio Vaticano II. Lo “spirito del Concilio” a cui si richiamano gli ermeneuti della “discontinuità” ha infatti la sua fonte nel Geist in Welt di Rahner, quello “Spirito nel mondo” che è il titolo del suo primo importante libro, pubblicato nel 1939. Se in questo volume Rahner delinea la sua concezione filosofica della conoscenza, nel successivo, “Uditori della parola” (Hörer des Wortes), pubblicato nel 1941, espone la sua visione propriamente teologica. Le tesi di questi due libri e dei successivi, già lucidamente criticate dal padre Cornelio Fabro (“La svolta antropologica di Karl Rahner”, 1974), sono ora oggetto di un importante volume, a cura di padre Serafino M. Lanzetta, che raccoglie gli atti del convegno tenutosi a Firenze nel novembre 2007, con la partecipazione di eccellenti studiosi, provenienti da diverse parti del mondo: Ignacio Andereggen, Alessandro Apollonio, Giovanni Cavalcoli, Peter M. Fehlner, Joaquín Ferrer Arellano, Brunero Gherardini, Manfred Hauke, Antonio Livi, H. Christian Schmidbaur, Paolo M. Siano, (“Karl Rahner. Un’analisi critica. Le figure, le opere e la recensione. Teologia di Karl Rahner, 1904-1984”. Cantagalli).
Oggetto della scienza teologica, per Rahner, non è Dio, di cui non può essere dimostrata l’esistenza, ma l’uomo, che costituisce l’unica esperienza di cui abbiamo l’immediata certezza. Non si può dunque parlare di Dio al di fuori del processo conoscitivo dell’uomo. Dio, più precisamente, esiste “autocomunicandosi” all’uomo che lo interpella. Rahner afferma che nessuna risposta va al di là dell’orizzonte che la domanda ha già precedentemente delimitato. L’orizzonte di Dio è misurato dall’uomo che, delimitando nella sua domanda la risposta divina, diviene la misura stessa della Rivelazione di Dio. Rahner non dice che l’uomo è necessario a Dio perché Dio possa esistere, ma poiché senza l’uomo Dio non può essere conosciuto, la conoscenza umana diviene la chiave di quella che egli definisce la “svolta antropologica” della teologia. Rahner si richiama spesso a san Tommaso d’Aquino, ma di fatto riduce la metafisica ad antropologia e la antropologia a gnoseologia ed ermeneutica.
La “teologia trascendentale” di Rahner appare, in questa prospettiva, come uno spregiudicato tentativo di liberarsi della tradizionale metafisica tomista, in nome dello stesso san Tommaso. Ciò naturalmente può avvenire solo a condizione di falsificare il pensiero dell’Aquinate. Fabro non esita a definire Rahner “deformator thomisticus radicalis”, a tutti i livelli: dei testi, dei contesti e dei principi. L’esito è un “trasbordo” dal realismo metafisico di Tommaso all’immanentismo di Kant, di Hegel e soprattutto di Heidegger, acclamato dal gesuita tedesco come il suo “unico maestro”.
Rahner accetta il punto di partenza cartesiano dell’io come auto-coscienza. L’uomo, spogliato della sua corporeità, è innanzitutto coscienza, puro spirito, immerso nel mondo. Come per Cartesio e per Hegel, anche per Rahner è il conoscere che fonda l’essere, ma la conoscenza ha il suo fondamento nella libertà, perché “nella misura in cui un essere diventa libero, nella medesima misura esso è conoscente”. La coscienza coincide con la volontà dell’uomo e la volontà dell’uomo è l’attuarsi dell’Io. L’Io a sua volta non è sottomesso a nulla che lo possa condizionare, perché il suo fondamento sta proprio nella sua incondizionatezza e dunque nell’assenza di ogni oggettiva limitazione esterna.
La conseguenza della riduzione dell’uomo ad auto-coscienza è la dissoluzione della morale. La libertà prevale sulla conoscenza perché, come afferma Heidegger, dietro il cogito cartesiano irrompe la libertà. L’uomo è coscienza che si auto-conosce e libertà che si auto-realizza. Per Rahner, come per il suo maestro, l’uomo conosce e vive il vero facendosi libero. Il valore morale dell’azione non ha una radice oggettiva, ma è fondato sulla libertà del soggetto.
Forzando il n. 16 della “Lumen Gentium”, in cui si parla della possibilità di salvezza di coloro che “non sono giunti a una conoscenza esplicita di Dio”, Rahner afferma che la salvezza non è un problema, perché è assicurata a tutti, senza limiti di spazio, di tempo e di cultura. La chiesa è una comunità vasta come il mondo, che include i “cristiani anonimi”, i quali, benché possano dirsi non-cattolici, o addirittura atei, hanno la fede implicita. Chiunque infatti “accetta la propria umanità, costui, pur non sapendolo, dice di sì a Cristo, perché in lui ha accettato l’uomo”. Tutti, dunque, anche gli atei, in quanto atei, si salvano se seguono la propria coscienza. Qualsiasi uomo, quando conosce se stesso, anche nel male che compie, se si accetta come tale, allora è auto-redento ed ha fede. E quanto più conosce e accetta la propria “esperienza trascendentale” tanto più ha fede. Questo, osserva giustamente il padre Andereggen, significa che ha più fede un individuo che si sia psicanalizzato freudianamente durante dieci anni, piuttosto che un religioso che preghi (p. 35).
Il cardinale Franz König, uomo di punta del progressismo conciliare, fu il grande “sdoganatore” di Rahner, in odore di eresia fino agli anni Sessanta.
Tra i numerosi e illustri discepoli del gesuita, bisogna ricordare l’ex presidente della Conferenza episcopale tedesca Karl Lehmann e, in Italia, il cardinale Carlo Maria Martini. Le ultime interviste-confessioni di Martini, con Georg Sporschill (“Conversazioni notturne a Gerusalemme”, Mondadori) e con don Luigi Verzé (“Siamo tutti nella stessa barca”, Edizioni San Raffaele), sono di impronta rahneriana, per l’universalismo salvifico e la “morale debole”. Martini, come Rahner, ritiene che la missione della chiesa sia aprire le porte della salvezza a tutti, compresi coloro che si discostano dalla fede e dalla morale cattolica. Lo stesso Martini, istituì a Milano una “cattedra dei non credenti”, per ascoltare il loro contributo alla salvezza del mondo. Il successore di san Carlo Borromeo, rinunciava così al compito di portare Cristo a chi non crede, per affidare ad atei dichiarati come Umberto Eco la missione di “evangelizzare” i fedeli della diocesi ambrosiana.
Non è eccessivo affermare che Rahner è il padre del relativismo teologico contemporaneo. A confermarlo è la sua più intima confidente, Luise Rinser, che l’11 maggio 1965 gli scriveva: “Sai qual è la maggior difficoltà che mi viene da parte tua? Che sei un relativista. Da quando ho imparato a pensare come te non oso affermare nulla con sicurezza” (“Gratwanderung”, Kösel). Qualche anno dopo la stessa Rinser avrebbe solidarizzato con i terroristi Andreas Baader e Gudrun Ensslin. Rahner, da parte sua, il 16 marzo 1984, poco prima di morire, scrisse una lettera in difesa della teologia della liberazione che chiamava i cattolici alle armi in America Latina.
La lettura del libro curato dal padre Lanzetta conferma nell’idea che Karl Rahner, per lo spregiudicato uso delle sue indubbie capacità intellettuali, fu soprattutto un grande avventuriero della teologia. Il giovane Ratzinger subì il fascino della sua personalità, ma intravide presto le conseguenze devastanti del suo pensiero e, sotto un certo aspetto, dedicò tutta la sua successiva opera intellettuale a confutarne le tesi. Oggi il nome di Rahner rappresenta la bandiera teologica di chi si oppone al pensiero antirelativista di Benedetto XVI-Ratzinger. L’analisi critica merita di essere portata fino in fondo.

(Fonte: Roberto de Mattei, Il Foglio, 16 giugno 2009)

sabato 4 luglio 2009

Il Papa bacchetta i cattolici alla Prodi

Il clamoroso annuncio dell’identificazione dei resti dell’Apostolo delle genti nel sarcofago sotto l’altare della basilica di San Paolo fuori le Mura ha fatto passare in secondo piano, domenica sera, un altro importante passaggio dell’omelia di Benedetto XVI. Parole nelle quali si può leggere un messaggio diretto in particolare a quei politici cattolici che per rivendicare l’autonomia delle loro scelte in materie eticamente sensibili, anche quando sono in gioco i cosiddetti valori «non negoziabili», si appellano alla loro «fede adulta». Un’espressione simile, come si ricorderà, fu utilizzata nel 2005 da Romano Prodi, il quale, per motivare la sua decisione di votare al referendum sulla fecondazione artificiale in dissenso con l’invito all’astensione lanciato dai vescovi italiani, disse di farlo da «cattolico adulto».Il Papa ha ricordato come Paolo, nella lettera agli Efesini, abbia spiegato che «non possiamo più rimanere fanciulli in balia delle onde, trasportati qua e là da qualsiasi vento di dottrina». L’apostolo «desidera che i cristiani abbiano una fede responsabile, una fede adulta». Ma, ha aggiunto Benedetto XVI, «la parola “fede adulta” negli ultimi decenni è diventata uno slogan diffuso. Lo s’intende spesso nel senso dell’atteggiamento di chi non dà più ascolto alla Chiesa e ai suoi pastori, ma sceglie autonomamente ciò che vuol credere e non credere – una fede fai da te, quindi. E lo si presenta – ha detto ancora Ratzinger – come “coraggio” di esprimersi contro il magistero della Chiesa». In realtà, ha spiegato il Papa, «non ci vuole per questo del coraggio, perché si può sempre essere sicuri del pubblico applauso. Coraggio ci vuole piuttosto per aderire alla fede della Chiesa, anche se questa contraddice lo schema del mondo contemporaneo. È questo non-conformismo della fede che Paolo chiama una fede adulta. Qualifica invece come infantile il correre dietro ai venti e alle correnti del tempo». Questa la conclusione del Pontefice: «Così fa parte della fede adulta, ad esempio, impegnarsi per l’inviolabilità della vita umana fin dal primo momento, opponendosi con ciò radicalmente al principio della violenza, proprio anche nella difesa delle creature umane più inermi. Fa parte della fede adulta riconoscere il matrimonio tra un uomo e una donna per tutta la vita come ordinamento del Creatore, ristabilito nuovamente da Cristo. La fede adulta non si lascia trasportare qua e là da qualsiasi corrente. Essa s’oppone ai venti della moda». I riferimenti alla difesa della vita (contro le legislazioni abortiste) e del matrimonio tra uomo e donna (contro l’equiparazione delle nozze gay) suonano come un richiamo preciso per quei politici cattolici del Pd i quali, proprio su queste materie, si sono dichiarati possibilisti se non attivi sostenitori di progetti di legge, come nel caso dei «Dico».Tutti hanno notato e fatto notare il sostanziale «silenzio» del Vaticano in queste settimane di polemiche che hanno coinvolto il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi per le sue frequentazioni. Ha parlato, con equilibrio, il quotidiano cattolico Avvenire; ha parlato, con molto più clamore, Famiglia Cristiana; sono intervenuti alcuni vescovi chiedendo al premier di chiarire la sua posizione. Ma le vicende legate prima al caso Noemi e poi all’inchiesta barese non hanno avuto alcuno spazio sui media direttamente collegati con la Santa Sede. E quando il Papa ha parlato, analizzando la teologia di San Paolo, ha voluto, invece, criticare proprio l’autonomia invocata in nome della «fede adulta» da parte di alcuni politici cattolici del centrosinistra in materia di «valori non negoziabili». Quei valori la cui difesa, secondo la Chiesa, appare sempre più il fattore decisivo in base al quale valutare l’operato di un politico, al di là dei suoi comportamenti privati, per quanto imbarazzanti. Questo il messaggio che si ricava dai silenzi vaticani e dalle parole, inequivocabili, del Pontefice.

(Andrea Tornielli) © Copyright Il Giornale, 30 giugno 2009)

mercoledì 1 luglio 2009

Ma quante volte un Papa deve chiedere scusa?

La visita di Benedetto XVI in Terra Santa è stata contrassegnata da una spasmodica attenzione da parte dei media israeliani. Sotto la lente d'ingrandimento sono finite soprattutto le parole pronunciate allo Yad Vashem, il memoriale dell'Olocausto. Il tono dei commenti? Sostanzialmente di delusione: «Il Papa taglia corto sull'Olocausto», scriveva il Jerusalem Post. Anche per le principali testate tivù sulla Shoah il Papa avrebbe detto parole troppo generiche.
Fortunatamente, qualche voce dissonante c'è stata. Yedioth Ahronoth, uno dei maggiori quotidiani israeliani, sottolineava gli sforzi della Chiesa cattolica nel combattere l'antisemitismo e nel gettare ponti di dialogo con l'ebraismo.
Benedetto XVI pellegrino di pace in Terra Santa, ha pronunciato parole chiare di condanna contro ogni forma di violenza, sopraffazione e terrorismo. Ha ribadito il diritto di Israele alla sicurezza e dei palestinesi a uno Stato. Ha condannato la Shoah, un orrendo gesto compiuto da un «regime senza Dio». Eppure a qualcuno non è bastato.
Sulla Shoah la Chiesa ha già detto quanto si doveva dire in un documento intitolato Noi ricordiamo: una Riflessione sulla Shoah (16 marzo 1998). Giovanni Paolo II ha chiesto perdono, in occasione del suo viaggio giubilare, per tutti i comportamenti che «nel corso della storia hanno fatto soffrire questi tuoi figli (cioè gli ebrei - ndr)». Benedetto XVI si è posto in questo cammino di fraternità con il popolo dell'alleanza, l'«ulivo buono» sul quale si è innestato il germoglio del cristianesimo.
La richiesta di perdono da parte della Chiesa cattolica al popolo d'Israele, per bocca di un Pontefice, c'è già stata. E non scade, che il Papa si chiami Ratzinger o Wojtyla.

(Fonte: Eco di Terrasanta, Giugno-Luglio 2009)

Imbarazzi Cattolici

Lui si chiama Maria Josè Rico Llorca e vive ad Alicante, ridente località di villeggiatura sul Mediterraneo valenciano. E’ azionista di controllo della Rainbow Tourism (TurismoArcobaleno), un’agenzia “gay-friendly” che, grazie ad una joint-venture con l’Istituto Bernabeu, nota clinica di inseminazione, promette “sole, mare e fecondazione artificiale per coppie di lesbiche”. Insomma, la lesbica va, si gode la vacanza, e torna col pancione. Un business che guarda soprattutto al mercato italiano, dove le norme in materia sono molto più restrittive che in Spagna.
Lui, Maria Josè Rico Llorca, non è uno qualsiasi. E’ stato assessore al Turismo nelle file dei Popolari, il partito “cattolico” spagnolo. Oggi mercanteggia vendendo figli a coppie omosessuali.
In Italia abbiamo il caso di Silvio Berlusconi: corruttore e corrotto, pedopornografo, pidduista, mafioso, favoreggiatore della prostituzione, in perenne conflitto d’interessi e chi più ne ha più ne metta. Sempre al centro di inchieste più o meno cialtrone. Personaggio da gossip. Non proviene dalla sagrestia, né dalle fila del cattolicesimo politico italiano. Non è nemmeno completamente in regola con le leggi di Santa Romana Chiesa. Ma c’è una differenza: se in Italia c’è una Legge 40 che limita il far west della fecondazione assistita e riconosce i diritti dell’embrione, è grazie a lui; se in Italia si sta facendo una legge che eviterà il ripetersi di uccisioni barbare come quella di Eluana Englaro, lo si deve a lui; se in Italia da qualche anno c’è una legge che consente di destinare il 5 per mille a chi s’impegna nel sociale è perché lui se l’è inventata; se oggi non è a tema una legge sul matrimonio gay (sulla quale la cattolicissima Bindi aveva annunciato significative aperture) è perché quest’uomo riesce a tenere duro.
Questo personaggio così scomodo, ingombrante, secondo alcuni impresentabile, è l’unico capo di Stato ad aver difeso Papa Benedetto XVI dall’immonda campagna di stampa montata estrapolando una frase a proposito di Aids e preservativi. Laddove cattolici rinomati italiani, tedeschi, inglesi e spagnoli, prendevano prudentemente le distanze.
Domanda: meglio il popolare Llosa o Silvio Berlusconi? Meglio la cattolica Bindi o Berlusconi? Meglio il cattolico adulto Prodi (che fu capace di ironizzare perfino sulle guardie svizzere) o il figliodiputtana Berlusconi?
La domanda andrebbe girata a don Sciortino, direttore di Famiglia Cristiana, e a tutti quei cattolici (ce ne sono molti) che continuano a votare a sinistra senza tanti problemi di coscienza. Ma loro la risposta ce l’hanno: quel che conta supremamente in un uomo politico è la sua “credibilità”. Se un uomo politico è “pulito”, è “moralmente ineccepibile”, è “virtuoso”, insomma, ha le “mani pulite”, può pure firmare o proporre o sostenere una legge anticristiana, cioè antiumana (perché è lo stesso). Nessuno gli chiederà conto della sua attività politica e della cultura che attraverso quell’attività contribuisce a diffondere. E’ la tragica eredità che ci ha lasciato l’intellighenzia cattolica (soprattutto di Azione Cattolica e Fuci) degli anni Settanta.
Il caso di Llosa mi pare emblematico. Fatico sinceramente a capire come quest’uomo abbia potuto fare l’assessore per conto del Partito Popolare spagnolo. Spero che ne sia stato radiato, ma non ne sono certo. Come non sono certo che certi cattolici italiani arrivino a percepire la contraddizione e l’orrore di un politico cattolico che diventa manager di un’impresa di turismo procreativo per coppie lesbiche.
E’ divertente, in questi giorni, leggere alcune lettere al quotidiano Avvenire. Vi si trova il parere di cattolici evidentemente imbarazzati, spiazzati da questo premier che oggettivamente appare molto amico della Chiesa. E non sono contenti, perché odiano Berlusconi, non ne possono nemmeno sentire il nome e non riescono ad ammettere che in pochi anni i governi presieduti da quest’uomo hanno fatto molto di più che quarant’anni di Democrazia Cristiana. Sminuiscono questo contributo, dicono, per esempio, che la Chiesa non è un’agenzia di bioetica. Hanno ragione, ma il problema è che loro vorrebbero che fosse un’agenzia etica. Il cane si morde la coda.
La storia è piena di uomini moralmente a posto, che hanno sterminato l’umanità. Berlusconi non sarà moralmente a posto, ha molti difetti e dovrebbe sicuramente migliorare certi aspetti della sua immagine e del suo comportamento pubblico, ma non condivide l'ideologia di uno Llosa. E non è poco.

(Fonte: Gianluca Zappa, La Cittadella, 24 giugno 2009)