mercoledì 28 maggio 2014

Il centenario della nascita di don Divo Barsotti

Don Divo Barsotti, del quale quest’anno si celebrano i cento anni dalla nascita (1914-2006), pur essendo stato prolifico pensatore e scrittore, non viene citato dalla maggioranza dei teologi. Per quale ragione?
Seppure apprezzato dalle più alte gerarchie ecclesiastiche a lui contemporanee, questo monaco mistico fu un “grillo parlante” che non ebbe paura di mettere, pubblicamente, il «dito nella piaga»: la volontà di molti uomini di Chiesa di abbracciare il mondo. Pietro Zovatto, autore dell’introduzione al libro del monaco toscano L’attesa. Diario: 1973-1975 (San Paolo, pp. 266, € 17.00) scrive:
«Anche il Concilio Vaticano II, e più precisamente nella costituzione Gaudium et spes, non sfugge all’ambiguità nel determinare il rapporto chiesa-mondo e si lascia sfuggire un’occasione unica, quella di portare la Croce al centro dell’assise conciliare. Forse i padri conciliari opinavano di non prendere di petto l’orientamento prevalente del “processo della storia” in corso verso la mondanità, mentre proprio questo “ipostatizzare la vita del mondo” (20.7.1974) è come legittimare il rifugio dell’uomo in un luogo dove non si trova che l’assenza di Dio, nella “vanità di ogni valore creato. Lo Spirito Santo sempre ha assistito la sua Chiesa, e il Concilio Vaticano II nel cambiare tutto, a cominciare dalla pietas con il “culturalismo liturgico”, fa quasi un atto di accusa allo Spirito Santo che fino agli anni Sessanta non avrebbe assistito la sua Chiesa in modo adeguato» (pp. 15-16).
L’attesa è il quindicesimo Diario di don Barsotti, in esso emergono osservazioni, riflessioni, considerazioni schiette e genuine, chiare manifestazioni di un’anima che cerca la santità propria ed è assetato di santità altrui, alla quale attingere… ma l’orizzonte è alquanto spoglio. Infatti, il 14 maggio 1975 scrive: «Chiaravalle milanese. Ho ascoltato stasera P. Leclercq. Anche i più grandi uomini quando non sono dei santi non fanno che rivelare la loro povertà» (p. 228).
Jacques Leclercq (1891-1971), moralista e sociologo, canonico e professore all’Università di Lovanio, tese a una teorizzazione del diritto naturale che, pur ispirata al tomismo, soddisfacesse le istanze della cultura contemporanea; ma don Barsotti non ha mai desiderato soddisfare le necessità della filosofia, della teologia e della cultura contemporanee, bensì quelle dell’anima, centro della vita terrena ed eterna di ogni individuo.
In molte pagine don Barsotti ci appare come un latitante della Chiesa, una Chiesa che non gli dà quel nutrimento di cui egli grida il bisogno: «Vuoto. Non si può costruire sull’acqua, né l’albero cresce e vive senza radici. Questo ci sembra oggi la Chiesa. (…) Sono legato da innumerevoli impegni che danno solo l’impressione della vita e non fanno in realtà che assicurare la morte. La scuola in seminario a giovani che non ascoltano e non si interessano; predicazione a sacerdoti, a religiosi, a suore che ascoltando hanno compiuto il loro dovere per poter continuare poi la loro vita, per mascherare così a loro stessi il deserto e il silenzio di Dio. Mio Dio, liberami da questo inganno; fammi vivere» (p. 223).
Egli si scaglia contro l’orgoglio e la superbia, contro l’antropocentrismo, contro tutto ciò che impedisce al Cristianesimo di esprimere la sua dirompente forza, ovvero la sua «passione»: senza passione, intesa sia come amore e sia come calvario, non si vive, ma si muore. «Come si salverà il mondo? Tutto sembra precipitare nel caos e nella morte. (…) La Chiesa si disfà. Che cosa ci chiede Dio per collaborare alla salvezza del mondo? Null’altro, ci sembra, che l’obbedienza e la fede, ma costano più di un martirio di sangue» (p. 221).
L’autore ci rivela tutto il suo dolore e questa sua immane angoscia, sia spirituale che intellettuale, è così alta da preferire ad essa un martirio di sangue. Eppure ci pare di intravvedere uno spiraglio di speranza: i grandi santi della Sposa di Cristo sono riusciti, da soli e con la Grazia del Signore, ad edificare la Città di Dio anche nel mondo: «Perché ci si agita tanto per quanto si fa, per come si governa la Chiesa, per quello che non si fa e si vorrebbe che fosse fatto?.. non solo i santi del medioevo potevano vivere la loro unione con Cristo e con la Chiesa senza occuparsene troppo, ma perfino i santi della Controriforma non erano, non sono stati mai eccessivamente turbati per quanto si faceva a Roma. Chi ne fu turbato non fu Ignazio ma Lutero» (p. 31). I santi, in fondo, non si preoccupano, ma si occupano di costruire là dove si distrugge.


(Fonte: Cristina Siccardi, Corrispondenza Romana, 28 maggio 2014)
http://www.corrispondenzaromana.it/il-centenario-della-nascita-di-don-divo-barsotti/

 

Un libro contro la degenerazione del cattolicesimo

Si può sorridere delle derive teologiche moderne e contemporanee? Sì. Perché ridicolizzarle è un modo efficace per contrastarle. Far vedere, attraverso lo sberleffo, quanto si sono allontanate dal Vangelo e come ne hanno voluto “ammorbidire” la forza prorompente. Ester Maria Ledda, l’autrice del libro Aggiornamento per tutto. Compresi i Vangeli, ha così ironicamente mostrato come le pagine evangeliche sono state “aggiornate” da teologie che poco mantengono della forza originaria delle parole di Gesù. Che hanno incendiato il mondo, quando sono state pronunciate. Che rischiano di non arrivare nemmeno ai prossimi cinquant’anni se continuano ad essere storpiate e annacquate come accade adesso.

Ha scritto Benedetto XVI: “Ma ad alcuni di coloro che si segnalano come grandi difensori del Concilio deve essere pure richiamato alla memoria che il Vaticano II porta in sé l’intera storia dottrinale della Chiesa. Chi vuole essere obbediente al Concilio, deve accettare la fede professata nel corso dei secoli e non può tagliare le radici di cui l’albero vive” [1]. Queste parole sono una premessa indispensabile per riflettere, fruttuosamente, sul libro scritto da “La Strega”, una dei nostri redattori, Ester Maria Ledda, come oramai l’amiamo ricordare. Il titolo è “Aggiornamento per tutto. Compresi i Vangeli”, Bonanno Editore (potete trovarlo nelle librerie oppure acquistarlo qui con un solo click). Personalmente non sono in grado di fare alcuna “presentazione” poiché sono carente di certi talenti, tuttavia dopo aver letto il libro non posso tirarmi indietro per offrire un supporto ulteriore ad un libro davvero utile.

E tutto finì con uno sberleffo
É lo sberleffo l’arma usata dalla nostra “Strega” per rispondere alle derive teologiche che hanno completamente dissolto l’originaria forza dei versetti evangelici. Lo “sberleffo” in questo caso diventa anche un fine humour nel tentativo di far capire, – con le buone – a queste persone che stravolgono il Vangelo, che alla fine della fiera la parola di Dio resta, mentre i loro stravolgimenti non sono altro che quella gramigna (cfr. Mt 13,24-30) che pur non potendo noi estirpare, possiamo tuttavia evidenziare, far emergere, far notare come quando giocando in un prato si cerca di fare attenzione a non imbattersi nell’ortica. Potremmo interpretare questo “sberleffo” in modo positivo, come quando i giardinieri che non vogliono usare insetticidi, usano dello stesso materiale organico in natura per uccidere, sempre in natura, gli elementi negativi che contaminano alberi da frutto, fiori ed altro.
Non si tratta dell’”occhio per occhio, dente per dente”, quanto piuttosto di mettere in funzione la ragione, il cervello, ed individuare quella rottura, quel “tagliare le radici di cui l’albero vive” sopra accennato, che da molti anni ha finito per dare origine davvero ad un vangelo alternativo. Del resto è sempre lo stesso Benedetto XVI che ebbe a denunciare l’esistenza di un magistero parallelo: “Occorre rifuggire da richiami pseudo-pastorali che situano le questioni su un piano meramente orizzontale, in cui ciò che conta è soddisfare le richieste soggettive” [2].

L’utilità – a colpi di sorriso – del libro
Ritengo che lo sberleffo sia utile a comprendere lo stravolgimento che si è fatto in questi anni del Vangelo, un vangelo letto ed interpretato in modo soggettivo e dalla cui soggettività si è giunti a queste “pseudo-pastorali” che ci hanno letteralmente stesi, pastorali che hanno messo in orizzontale la ragione, privandoci dell’aspetto trascendentale (verticale) del contenuto dei Vangeli. Nella prefazione al libro leggiamo: «In questa nostra Chiesa alla deriva, alla ecclesiologia e alla certezza delle leggi codificate pare essersi sostituito l’arbitrio clericale più selvaggio» [3].
È anche importante capire che non è affatto facile, o scontato essere del tutto coscienti di questo: se fosse facile del resto non saremo arrivati a questa grave apostasia che aumenta ogni giorno all’interno della Chiesa. È necessario che fra di noi ci si aiuti a questa comprensione, ed è questo uno dei meriti di questo libro.
E non è forse proprio Pietro che mette in guardia i cristiani dalle false interpretazioni delle Scritture? Dice infatti: «In esse (nelle Lettere di Paolo v. 15) ci sono alcune cose difficili da comprendere e gli ignoranti e gli instabili le travisano, al pari delle altre Scritture, per loro propria rovina. Voi dunque, carissimi, essendo stati preavvisati, state in guardia per non venir meno nella vostra fermezza, travolti anche voi dall’errore degli empi; ma crescete nella grazia e nella conoscenza del Signore nostro e salvatore Gesù Cristo» (2Pt 3,16-18).

Ma il vangelo non è giustizia sociale
Si intuisce nelle pagine del libro un evidente critica alla teologia della liberazione e a tutte quelle interpretazioni che hanno ridotto il messaggio evangelico alla sola giustizia sociale. Per comprendere bene la critica che il testo fa a queste “pseudo-pastorali” e dunque alla nouvelle theologie è importante leggere il famoso documento firmato dall’allora Prefetto della CdF sui rischi derivanti da queste teologie moderniste: «L’espressione “teologia della liberazione” designa innanzi tutto una preoccupazione privilegiata, generatrice di impegno per la giustizia, rivolta ai poveri e alle vittime dell’oppressione. Partendo da questo approccio, si possono distinguere parecchie maniere, spesso inconciliabili, di concepire il significato cristiano della povertà e il tipo d’impegno per la giustizia che esso comporta. Come ogni movimento di idee, “le teologie della liberazione” presentano posizioni teologiche diverse; le loro frontiere dottrinali non sono ben definite» [4].
Il punto è che il Vangelo in sé non è uno statuto per la rivoluzione o per una rivoluzione sociale, non per nulla significa “buona novella” e non “nouvelle theologie”. Il Vangelo non è per una “giustizia sociale” tanto è vero che Gesù nelle Beatitudini specifica: «Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati» (Mt 5,3-12), e bene scrive l’Autrice a pag. 25 del libro, per la versione aggiornata: “… benefattori dell’umanità (…) grande sarà la vostra ricompensa terrena”. Il Vangelo è sì un messaggio di libertà e una forza di liberazione, ma da che cosa? Perché un Dio si è fatto uomo? è venuto per salvarci; e da che cosa? Non certo dal Cesare di turno, ma dal peccato. La libertà e la liberazione di cui parla il Vangelo è dal peccato, da questa schiavitù dalla quale derivano tutti gli altri mali. L’ingiustizia sociale deriva da quanto maggiormente noi restiamo schiavi di questa realtà che oggi si vuole anch’essa aggiornare mitigandone la presenza, l’essenza e la dura conseguenza. Guai a parlare di “peccato” ed è ovvio che alla fine si finisce col trasferire la giusta lotta, la giusta battaglia, su fronti errati.
Lo rammenta bene San Paolo quando dice: “La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti” (Ef 6,12). «Ma voi chi dite che io sia?» (Mt 16,15-20), chiede Gesù ai suoi. Pietro ha risposto con decisione, perché ispirato da Dio, e Gesù rivolge a noi, ad ogni generazione,  questa domanda che non è derogabile ad alcuno: ma per te chi sono io? La risposta non può venire dal basso, come per Pietro. Anche la nostra risposta deve essere ricevuta dall’alto.
Aggiornando i Vangeli a rivendicazioni sociali, è ovvio poi che si finisce anche per aggiornare l’immagine del Cristo ridotto ad un povero figlio dei fiori di sessantottina memoria, o ad un Jesus Christ Superstar, o allo sdolcinato Gesù di Zeffirelli, o all’altro Gesù Sociale di Pasolini e così via:«Ci si chiede da tempo se sia possibile fare un film sul Gesù degli Evangeli, senza sacrificarne la piena identità sugli altari dell’industria culturale e delle sue strategie di mercato. Il cinema e la televisione hanno presentato Gesù nei modi più diversi: classico o moderno, biblico o confessionale, ieratico o umano, cristologico o mariano, attinente alle fonti storiche o liberamente interpretato, accattivante o provocante, umile maestro o divo hollywoodiano, costumato o degenerato. L’impressione è che tutte queste chiavi di lettura del Gesù degli Evangeli abbiano a che fare poco e niente col mistero dell’Uomo-Dio e del Dio-Uomo. Questo mostra il grande limite di qualunque immagine rispetto alla parola» [5].

Gesù, il Maestro… della psicanalisi ante litteram
I passaggi più divertenti riguardano poi la riduzione psicoanalitica dei miracoli di Gesù. Oggi, più che mai, sembra ancora questa una delle chiavi usate dalla modernità per polverizzare la fede. Questo perché siamo sempre lì, alla vera identità del Cristo che è scandalo. Nel brano citato prima di Matteo, quando Pietro, ispirato dall’alto, esprime a parole chi fosse il Cristo – pur probabilmente non comprendendone il significato –  subito dopo rinnega quella professione quando comprende che il Cristo gli sta dicendo che dovrà morire. La reazione del Cristo è diretta e dura: «Lungi da me, satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!» (Mt 16,21-23).
Ma cosa significa “pensare secondo gli uomini”? Ecco, il libro della nostra “Strega” lo fa capire molto bene, anzi, è tutto un comprendere come davvero questo Cristo dei Vangeli sia di scandalo al punto tale che è diventato necessario, nella Chiesa, aggiornare i vangeli, aggiornare l’identità del Cristo.
La frase, per me, più eloquente la trovo a pag. 24, riguardante Mt 5,8-7: il povero centurione che vuol bene al suo servo e supplica quel Messia al quale riconosce senza dubbio –col sensum fidei in embrione – il potere divino dei miracoli, la sua capacità di guarire. Nella versione originale sappiamo come va a finire, Gesù riconosce l’autentica fede del soldato e gli guarisce il servo. La versione aggiornata è davvero tipica del nostro tempo: chi crede più ai miracoli? Forse il popolo ancora ci crede, ma quanti sacerdoti davvero – oggi – credono nei miracoli?
Non posso non citare le pagine 45 e 46, riguardante Mc 10,46-52, cioè il famoso cieco di Gerico: diremo che la Strega ha fatto centro. La versione aggiornata è davvero quanto più spesso sentiamo oggi dalle cattedre e dai pulpiti modernisti nella Chiesa: “Compagno concedimi una visita infra moenia gratuita e guariscimi! Compagno, guariscimi!”. “La tua forza di volontà ti ha guarito e non ti farò neppure pagare il ticket”.
Sono testimone del fatto che, non di rado, ho sentito dire ai sacerdoti che i miracoli di Gesù sono “simbolici” e che in questo senso Gesù era un vero psicologo che “creava ad arte effetti placebo”, in altri casi i miracoli compiuti di Gesù non vanno accolti come tali, ma come materia di studio sulla psiche dell’uomo: credere al miracolo influisce benevolmente su di lui e lo predispone ad accogliere meglio la speranza contenuta nel Vangelo. Amenità simili che sono servite, e servono, per “aggiornare” la fede, risvegliarla in un mondo in cui, il soprannaturale piace rilegarlo esclusivamente al cinema, alla sfera della fantascienza o della fantareligione.  Sicuramente è in atto, in questo caso, il tentativo, se non di polverizzare, di cambiare la fede.

La fede non può essere cambiata
Credere in qualcosa o in qualcuno non solo è più forte dell’uomo, perché insito nella nostra natura, della quale l’unica certezza che abbiamo, perché la vediamo, è la morte, e questo senza dubbio fa paura, ma soprattutto abbiamo bisogno di riempire quel vuoto che si crea quando si ripudia il Dio vero. Ma il “vero Dio”, ahimè, ha voluto la Chiesa, ha voluto consegnare ad Essa l’interpretazione della Sua rivelazione, e questo l’uomo non lo accetta. Di conseguenza è proprio la fede della Chiesa ad essere attaccata, minacciata, perseguitata, modificata, cambiata, aggiornata…
Nel “Credo” aggiornato, a pag. 90, lo si esplicita chiaramente: “È venuto nel mondo e per il mondo, per renderlo un luogo migliore”, alzi la mano chi non ha mai sentito un sacerdote, un teologo, e persino un catechista dire una cosa del genere, eppure sappiamo bene quante volte Nostro Signore ha specificato che “il mio regno non è di questo mondo”. Il  vero credente è sotto psicoanalisi come il suo Maestro. Del resto non è solo una questione di scandalo, ma un Dio che si fa uomo per andare a morire sulla Croce, diciamocelo francamente come si ascolta dire in certi ambienti, non doveva avere tutte le rotelle a posto!

Emerge potente il Vangelo
Qual è la qualità più eccellente del libro? Riesce a far emergere, dirompente, la potenza della pagina evangelica se confrontata con la versione aggiornata. Man mano che lo leggevo, la versione autentica del Vangelo risaltava maggiormente confermandomi in quel sensum fidei che da duemila anni ci fa dire le solite cose. In fondo il compito di ogni battezzato non è quello di scrivere nuovi poemi, ma quello di “trasmettere il deposito della fede”.
Mentre scorrevo il libro mi risaltava in cuore il monito paolino: “Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole. Tu però vigila attentamente, sappi sopportare le sofferenze, compi la tua opera di annunziatore del vangelo, adempi il tuo ministero” (2Tim 4,3-5).
«Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri» [6]
Risalta soprattutto che questo mendicare la verità, questo essere staffetta di generazione in generazione, che riceve il Depositum Fidei dalle mani delle generazioni precedenti per darlo a noi (e noi a chi verrà domani dopo di noi), ha subito senza alcun dubbio una rottura, una grave rottura col passato e che in qualche modo, oggi, deve rimpiazzare in qualche modo. Ecco allora un vangelo aggiornato che proprio essendo una falsità del nostro tempo, in questo tempo morirà, seppur facendo molte vittime, disseminando cadaveri, lasciando dietro di sé  morte.
La potenza del Vangelo autentico sta proprio nei suoi racconti, nei suoi fatti, nelle sue parole sempre uguali è vero, ma sempre nuove perché nuove sono le generazioni che devono imparare a conoscerlo e a metterlo in pratica. La vera modernità è Cristo stesso, è questa sua Parola che ci rende moderni.
Alla pag. 57 (Lc 6,46) c’è l’ennesimo aggiornamento che ci aiuta a capire ulteriormente: “Perché mi chiamate Signore, Signore, ma poi non fate ciò che dico?”, questa la versione corrente. La versione aggiornata dice: “Capisco che è difficile fare ciò che vi dico, quasi impossibile, per cui chiamatemi ‘Signore, Signore’ e questo sarà sufficiente”.

E Maria è diventata una femminista?
Ma il libro mette in evidenza anche il contrasto tra il femminismo e il Magnificat, tra le rivendicazioni delle “uome” di oggi e Maria. Sull’argomento specifico possiamo andare a rileggerci tranquillamente le varie mariologie che abbiamo qui trattato nel sito [7] per comprendere questa avanzata modernista che spinge a una rilettura non solo dei Vangeli, ma anche degli Autori, dei Personaggi, dei Protagonisti.
Maria, per esempio, va bene, ma perché complicare la teologia con quel “Mater Dei” e non lasciare piuttosto un bel più protestante Maria Madre di Gesù, dell’uomo Gesù?
Per molti sembra una sciocchezza: in fondo dire che Maria è Madre di Gesù è corretto, ma dire Madre di Dio è più impegnativo perché si va a riconoscere che quel Figlio non è solo uomo. Con il vangelo aggiornato possiamo sentirci dire o predicare un Gesù “diversamente uomo”. Insomma, come si spiegava al punto sopra, siamo tutti da psicanalizzare: di conseguenza è meglio modificare anche l’immagine, l’identità di questa pia donna, farla scendere da quel piedistallo sul quale la patristica, la teologia, santi e dottori l’hanno legittimamente messa e via… A semplificare sempre di più non tanto Maria che era effettivamente una creatura umana, ma semplificare la sua identità di donna creata perfetta, senza macchia, tutta pura, titoli oggi disarmanti, quasi da fare invidia e perciò scomodi: perché a lei si e a me no? Non siamo tutti uguali davanti a Dio? Scrive bene nel Magnificat aggiornato la nostra Strega cacciatrice: «perché ha guardato all’emancipazione della sua serva».
Se nella versione tradizionale del Magnificat troviamo che Maria si magnifica nel Signore ed esulta in Dio suo liberatore, Salvatore del suo peccato e perciò davvero libera (Maria è stata resa immune, preservata dal peccato originale, così come riporta il dogma dell’Immacolata), e di conseguenza è grata a Dio per averla resa Madre di questo Redentore… va da se che nel vangelo aggiornato scaturisce un inno femminista, contrapposto, nel quale le donne esultano non più a Dio ma alla loro battaglia di liberazione, alla loro emancipazione.
Da «Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente, e Santo è il suo nome» a “l’utero è mio e lo gestisco io”;da un Magnificat di lode e gloria per la Vita, siamo giunti ad inno di morte e di violenza che canta e loda l’uccisione, legalizzata dagli Stati, dei concepiti… È la conseguenza di molte, troppe, parti del nuovo e moderno vangelo aggiornato quale, per esempio, a pag. 73 su Gv6, 67-69: «Gli risposero i Dodici: “Compagno, sappiamo che tu sei il liberatore mandato da Dio, ma abbiamo capito che si può andare oltre di te perché chiunque fa ciò che ritiene giusto, viene liberato dall’oppressione morale”».
Così come la beatitudine cantata da santa Elisabetta quando Maria le fa visita, pag.53 Lc. 1,39-45 “e beata colei che riesce a conciliare la propria volontà  con quella di Dio” senza, ovviamente, rinunciare alla propria supremazia come risulta chiaro anche a pag. 34, coerentemente: “Padre mio, passi da me questo calice. Fa che la mia volontà diventi anche la tua”.
In fondo “aggiornare” i vangeli non è altro che fare tutto a rovescio di ciò che essi dicono e, chi fa tutto a rovescio lo sappiamo, i Santi lo chiamano la scimmia di Dio, è Satana.

Lasciamo perdere il padre della menzogna (e i suo figli)
Concludiamo con queste parole che  riteniamo utili per accostarsi in modo corretto al libro recensito: «Nella verità, la pace» — esprime la convinzione che, dove e quando l’uomo si lascia illuminare dallo splendore della verità, intraprende quasi naturalmente il cammino della pace. (…) Ma quali significati intende richiamare l’espressione «verità della pace»? Per rispondere in modo adeguato a tale interrogativo, occorre tener ben presente che la pace non può essere ridotta a semplice assenza di conflitti armati, ma va compresa come «il frutto dell’ordine impresso nella società umana dal suo divino Fondatore », un ordine « che deve essere attuato dagli uomini assetati di una giustizia sempre più perfetta. (…) E allora, chi e che cosa può impedire la realizzazione della pace? A questo proposito, la Sacra Scrittura mette in evidenza nel suo primo Libro, la Genesi, la menzogna, pronunciata all’inizio della storia dall’essere dalla lingua biforcuta, qualificato dall’evangelista Giovanni come « padre della menzogna» (Gv 8, 44). La menzogna è pure uno dei peccati che ricorda la Bibbia nell’ultimo capitolo del suo ultimo Libro, l’Apocalisse, per segnalare l’esclusione dalla Gerusalemme celeste dei menzogneri: «Fuori… chiunque ama e pratica la menzogna!» (22, 15). Alla menzogna è legato il dramma del peccato con le sue conseguenze perverse, che hanno causato e continuano a causare effetti devastanti nella vita degli individui e delle nazioni» [8].

NOTE
1) Benedetto XVI – Lettera ai Vescovi  10 marzo 2009
2) Discorso di Benedetto XVI alla Sacra Rota 29.1.2010
3) Aggiornamento per tutto compresi i Vangeli – pagina ufficiale FB
4) Libertatis Nuntio – Documento che chiarisce la falsità della TdL
5) da Nicola Martella, «Chi dice la gente che io sia?», Offensiva intorno a Gesù.
6) fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP – già Maestro dell’Ordine Domenicano
7) La Madonna di Don Tonino Bello; Io Catharina la devota di Maria.
8) Nella verità, la pace – Messaggio per la Pace, Benedetto XVI 1.1.2006
 

(Fonte: Dorotea Lancellotti, Papalepapale, 21 maggio 2014)
http://www.papalepapale.com/develop/se-diventiamo-lo-zucchero-della-terra-un-libro-contro-la-degenerazione-del-cattolicesimo/#!prettyPhoto
 

Cornelio Fabro: quando la teologia è «pornoteologia»

La difficoltà e la prova della fede è quella di essere nuovi nell’antico ed originali nel permanente, poiché appartiene all’uomo di essere produttivo con la libertà nell’ambito della verità ad ogni livello, anche in quello della fede e della salvezza. Lo spirito non è un canestro che riceve passivamente, ma un principio che attua se stesso «dirimendo» con la scelta l’alternativa della sua salvezza. È questo il progresso nella continuità e fedeltà alla tradizione secondo la regola aurea di Vincenzo di Lérins, entrata nei testi autentici del magistero: «Insegna le stesse cose che hai imparato così che dicendo in modo nuovo non dica cose nuove. Ma non ci sarà allora, si chiede subito, nella Chiesa di Cristo nessun progresso? E come! risponde, e grandissimo. E chi è mai l’uomo tanto invidioso agli uomini, tanto odioso a Dio che cercherebbe d’impedire questo? Beninteso, dev’essere un progresso, non un cambiamento: un autentico aumento per ciascuno e per tutti, per ogni uomo e per tutta la Chiesa ma nel medesimo dogma, nello stesso senso e nella stessa formula».
Chi pretende avanzare tagliando i ponti col passato, non avanza ma precipita nel vuoto, non incontra l’uomo storico in cammino verso il futuro della salvezza ma viene risucchiato dai gorghi del tempo senza speranza. La teologia contemporanea sembra in crisi proprio su questo punto, cioè quello della fede come tensione aperta fra i tempi della salvezza ch’è illuminata dalla presenza dello spirito di Cristo con la guida del Magistero della Chiesa. Di frequente spiriti illuminati manifestano gravi perplessità sull’indirizzo della nuova teologia «orizzontalistica» suscitando un incendio di proteste da parte degli interessati - senza però ancora ottenere quell’incontro e confronto sulle precise contestazioni a cui invitano - confermando così la realtà e gravità della situazione. Comunque, l’invito del Lerinese è sempre aperto.
Perciò ci si può chiedere: quale messaggio di salvezza può annunziare al mondo una teologia che demitizza gli eventi di salvezza, che lascia in ombra - qualcuno li nega o li omette completamente - i misteri e dogmi fondamentali del Cristianesimo per applicarsi unicamente alle strutture socio-politico-economiche dell’uomo rifiutando il mistero della caduta e della redenzione dell’uomo ridotti a mera «metafora»? Quale principio di rinnovamento può essere una teologia che secolarizza senza scrupoli la morale e, quasi vergognosa dell’ideale di purezza e povertà cristiana, irrompe anch’essa per un’esistenza all’insegna del piacere, al rifiuto del sacrificio, per la celebrazione aperta del sesso (pornoteologia): brevemente, per allinearsi alla lotta di classe, per proclamare l’innocenza liberatrice degli istinti con la brutalità della psicanalisi più retriva? Che deve fare il mondo, o cosa può fare di una teologia senza pudore, che disarma di fronte al male? Cosa può significare per la società consumistica, che sprofonda nella noia e nella ribellione dell’atto gratuito, una teologia che per salvare il mondo si abbevera al veleno che intossica il mondo?


(Cornelio Fabro, 1973, da: Il Timone, 28 maggio 2014
http://www.iltimone.org/30884,News.html

 

venerdì 23 maggio 2014

Scomunicata la fondatrice di “Noi siamo Chiesa”. Celebrava Messa in casa con il marito

Papa Francesco ha scomunicato Martha Heizer, co-fondatrice e presidente di “Wir sind Kirche” (Noi siamo Chiesa), una delle organizzazioni cattoliche più critiche verso la Chiesa e il suo magistero. Il caso Heizer era scoppiato nel 2011, quando la donna, insegnante di religione a Innsbruck, in Austria, decise di sfidare il Vaticano sulla questione del sacerdozio femminile annunciando la sua intenzione di celebrare l’Eucarestia nella sua casa di Absam, piccolo comune nei pressi del capoluogo tirolese. In seguito la signora 67enne cominciò effettivamente a officiare regolarmente la Messa insieme al marito Gert (anche lui scomunicato), davanti ad altri fedeli e in assenza di sacerdoti, e la Congregazione per la dottrina della fede istituì la commissione che adesso ha stabilito la scomunica. La pratica teorizzata e realizzata dalla teologa, infatti, profanando il sacramento dell’Eucarestia rientra per la Chiesa tra i “delicta graviora”, al pari della pedofilia e dei crimini contro la Penitenza.
«SIAMO INDIGNATI». Come ha riportato per primo il Tiroler Tageszeitung, ieri sera il vescovo di Innsbruck Manfred Scheuer ha voluto consegnare personalmente il decreto di Roma a Marta e Gert Heizer, ma la coppia lo ha respinto. Questa mattina poi i due hanno divulgato un comunicato in cui si dicono scioccati per la scelta della Chiesa. «Ci indigna profondamente il fatto di ritrovarci nella stessa categoria dei preti colpevoli di abusi. Ma siamo amareggiati soprattutto perché non conosciamo un solo caso in cui un colpevole di abusi sia stato scomunicato. (…) Non abbiamo accettato il decreto, ma al contrario lo abbiamo respinto. Non abbiamo mai accettato il processo nella sua struttura e conseguentemente non accettiamo neanche la condanna. Continueremo a impegnarci con maggior forza per la riforma della Chiesa cattolica. Proprio questo modo di procedere mostra con quanta urgenza essa abbia bisogno di un rinnovamento».
IL GRUPPO. Il movimento “Wir sind Kirche”, oggi uno dei più numerosi e sicuramente tra i più attivi in Europa nel promuovere modifiche in senso progressista della dottrina cattolica, nacque intorno a un piccolo gruppo di cattolici di Innsbruck capitanato da Thomas Plankesteiner e appunto da Martha Heizer – ricorda Giacomo Galeazzi per il Vatican Insider – che nell’aprile del 1995 pubblicò un “Appello dal popolo di Dio” rivolto alla gerarchia della Chiesa per chiedere proprio l’introduzione del sacerdozio femminile, oltre a una maggiore democrazia, all’abolizione del celibato dei preti e all’adeguamento della morale sessuale ai costumi moderni. Il testo raccolse moltissime adesioni in tutto il continente ma soprattutto in Austria e in Germania (rispettivamente 505 mila e 1,8 milioni di firme).

(Fonte: Tempi.it, 22 maggio 2014)
http://www.tempi.it/papa-francesco-ha-scomunicato-la-fondatrice-di-noi-siamo-chiesa-celebrava-messe-in-casa-con-il-marito#.U34aY_2KBCr

 

giovedì 22 maggio 2014

La teologia atea: il caso Vito Mancuso

Nella storia della Chiesa è curioso il fenomeno per cui molti dei più feroci anticlericali siano stati ex-seminaristi. Due esempi curiosi su tutti: il dittatore Stalin e il quasi matematico Odifreddi (l’elenco è lungo).
Il teologo Vito Mancuso è a sé stante: dopo essersi spretato ha cominciato anche lui a combattere la Chiesa, ma professando contemporaneamente una forma di spiritualismo cristiano-buddhista-vegano-ecologista, un moralismo laico e sincretista basato su termini new-age come “empatia”, “armonia”, “energia” ecc.
Mentre un anticlericalismo violento e dichiaratamente ateo viene respinto dalla maggior parte delle persone, il potere di persuasione di Mancuso -grazie al suo approccio “soft”- è al contrario estremamente elevato. Per questo il furbissimo e laicissimo Eugenio Scalfari lo ha premiato, donandogli il ruolo di editorialista di “Repubblica”.
E’ da queste colonne che -consapevole della crisi d’identità del protestantesimo odierno, a rischio di estinzione nelle società occidentali- da anni spinge per una riforma in chiave protestante dell’etica cattolica, sapendo così di indebolirne le fondamenta. Proprio oggi un suo articolo-pippone, non certo sui cristiani massacrati in medioriente, ma sul “diritto dei preti di sposarsi”, ovviamente tutto «per il bene della Chiesa». L’ossessione di Mancuso, tra citazioni evangeliche e bibliche, è sempre rivolta alla bioetica e il modus operandi è insidioso: «che ne sarebbe della Chiesa se fallisse Francesco?», si è domandato tempo fa. Se Papa Francesco non farà una rivoluzione -è la minaccia di Mancuso-, cioè se non aprirà a: matrimoni gay, fecondazione artificiale, sperimentazione su embrioni, eutanasia/testamento biologico, sacerdozio femminile, adozione gay, preti sposati ecc., allora «sarebbe la fine della luce che si è accesa nell’esistenza di tutti gli esseri umani non ancora rassegnati al cinismo e alla crudeltà della lotta per l’esistenza». Il ricatto è evidente.
Un altro recente editoriale, altrettanto significativo, è stato quello del Venerdì Santo. Mentre nel mondo si svolgeva la Via Crucis per ricordare la passione di Gesù Cristo, il teologo Mancuso ha parlato anche lui di Via Crucis ma senza mai citare Gesù, preferendo parlare -non si sa con quale autorità o competenza- di economia, dell’accumulo di denaro, del consumismo, dell’antropocentrismo cristiano ecc. Un fatto significativo per un teologo “cattolico” ignorare il senso della Pasqua e non prendere mai posizione sulla morte di migliaia di cristiani nel mondo, preferendo qualsiasi altra tematica.
I dubbi sulla vera identità di Mancuso sono venuti perfino ad un intellettuale laico come Angiolo Bandinelli. Il teologo di Carate Brianza ha infatti partecipato -ne avevamo già parlato- ad un’intervista in cui ha apertamente negato Dio e l’intervento divino, spiegando che i miracoli «sorgono dal basso, dall’energia della mente umana». Aggiungendo, inoltre, l’assurdità che «una carezza, una parola dolce hanno lo stesso potere curativo di un farmaco».
Bandinelli, perplesso perfino lui, ha commentato: «vi è tutta una letteratura di stampo libertino-illuministico che tende a spiegare in termini naturalistici gli eventi o le situazioni proprie della religiosità. Ora, con Mancuso, siamo al miracolo come “prodigio dell’energia della mente umana”. Non innova di molto, il suo è solo positivismo aggiornato e sofisticato».


(Fonte: UCCR, 19 maggio 2014)
http://www.uccronline.it/2014/05/19/la-teologia-atea-il-caso-vito-mancuso/
 

La gendercrazia come tentativo d’abolizione dell’uomo

Un’occasione per ribadire con forza ed argomenti concreti, di fronte ad un pubblico di oltre 350 persone, le contraddizioni ed i guasti intrinseci di un’ideologia, quella del gender, non solo eticamente e spiritualmente immorale, bensì anche contro natura, contro la biologia e contro la ragione: questo ha rappresentato il convegno organizzato presso il Salone Bonomelli del Seminario di Cremona sul tema Teoria del gender: abolizione dell’umano?, promosso dalla Diocesi, dagli Uffici per la Pastorale Familiare e Scolastica, dalla Federazione Oratori e da diverse altre sigle, tra cui l’Associazione Famiglia Domani, il tutto sotto l’attenta regia di don Giuseppe Nevi.
Dopo il saluto del Vescovo di Cremona, mons. Dante Lafranconi, si sono affrontati i termini della questione dal punto di vista antropologico, educativo, medico e giuridico. Il prof. Tommaso Scandroglio, docente di Etica e bioetica e di Filosofia del Diritto presso l’Università Europea di Roma, ha evidenziato come l’ideologia del gender «non sia razionale, non identificandosi con quel dato genetico, cui pure ciascuno di noi dovrebbe conformare la propria psicologia». «Immorale», ha proseguito, è chi decida di assecondare «le proprie pulsioni», specie quando ciò lo renda «incapace di soddisfare la fecondità. Ma ciò che non è adatto al fine, quello della generazione nello specifico, è contro natura», al punto da poter definire le persone «omosessuali come “eterosessuali latitanti” in quanto privi della complementarietà fisica ed affettiva».
Il prof. Matteo D’Amico, docente di filosofia dell’Aespi-Associazione Europea Scuola e Professionalità Insegnante, ha ben definito i contorni della questione, proponendo un lungo, ma triste elenco di casi d’ideologia gender purtroppo già verificatisi nelle aule scolastiche: «L’attacco delle lobby gay è quello di una minoranza giacobina organizzata, che sta facendo torto agli omosessuali, promuovendo in essi l’idea di non poter combattere le proprie tendenze disordinate, impedendo loro di uscire dalla loro sofferenza».
Potenti multinazionali, grandi aziende, i maggiori centri della finanza hanno fornito i capitali, per promuovere una guerra «culturale onnipervasiva: massmediatica, giudiziaria, amministrativa, ora anche scolastica, per conquistare i giovani».
Lo scontro si è fatto ormai feroce: non a caso «l’Onu ha chiesto alla Chiesa Cattolica formalmente di modificare la propria dottrina morale su aborto e omosessualità», riproponendosi poi di verificare tra qualche tempo se i «compiti a casa», in tal senso, siano stati fatti. Non era mai accaduto. Come rispondere a tutto questo? Il prof. D’Amico è stato molto chiaro: «Quando la Chiesa è vera, combatte. Quando la Chiesa è vera, condanna per amore». Occorre quindi tornare, anche a partire dai banchi di scuola, ove oggi dilaga l’ideologia gender, a riformare l’umano con «fede ardente: per questo bisogna che le famiglie e le Diocesi» tornino a scommettere sull’educazione cattolica.
La dottoressa Chiara Atzori, medico ed esperta in malattie infettive, ha parlato di «gendercrazia», mirante ad imporre il «primato del desiderio, autorizzando tutto quanto sia tecnicamente fattibile». L’omosessualità «non è innata, non è un tratto immutabile o identitario della personalità» e va distinta dal proclamarsi «gay, poiché tale è chi abbraccia tale condizione per farne però una bandiera sociopolitica». A tutela della famiglia naturale, la dottoressa Atzori ha suggerito di approfondire anche «le ragioni preconfessionali», per le quali opporsi all’ideologia gender.
Il prof. Luca Galantini, docente di Storia del diritto moderno presso l’Università Europea di Roma, ha mostrato, anche da un punto di vista prettamente giuridico o legislativo, come, in realtà, la cosiddetta «identità di genere si basi su aspettative e percezioni molto vaghe. Prescindendo dalla qualifica biologica, ci si trova di fronte ad una pluralità di mutevoli e bizzarre definizioni, che giocoforza son prive di valore», pur volendo limitare fortemente «la libertà di pensiero e di espressione, soprattutto religiosa, con la categoria della cosiddetta “omofobia”, di fatto discriminante gli eterosessuali e con profili di incostituzionalità» nell’applicazione pratica.
Allora, da dove tanto accanimento nel voler imporre tale ideologia contro tutto e contro tutti, se non – come ha ammesso una sua guru, Judith Butler – dalla volontà di «riformulare la realtà, decostruendola»? Un sopruso, che non possiamo permettere.
 
(Fonte: Mauro Faverzani, Corrispondenza Romana, 21 maggio 2014)
http://www.corrispondenzaromana.it/la-gendercrazia-come-tentativo-dabolizione-delluomo/
 

venerdì 16 maggio 2014

Ritratto di un pontefice né “povero parroco” né “rivoluzionario”: Giovanni XXIII, santo

Mettere i Pontefici l’uno contro l’altro. Succede da tanto tempo, oggi forse con maggiore esasperazione. Esacerbati come siamo da chi si serve del potere amplificante dei media per soffiare sulle nostre passioni, li portiamo come vessillo nelle nostre guerre personali. Che, troppe volte, di cattolico hanno solo il nome. Benedetto contro Francesco, Paolo contro Giovanni Paolo, Pio contro Giovanni. Eppure il buon senso dovrebbe prevalere: nella Chiesa c’è spazio per tutti e ogni eletto al soglio di Pietro è stato il pontefice adatto per il tempo in cui è stato chiamato a reggere il timone della barca di Cristo. Così vogliamo iniziare questo viaggio-ritratto di Giovanni XXIII partendo dall’ affermazione di un uomo di Chiesa: «Questo (Giovanni XXIII n. d.r.) vive in letizia, quanto l’altro (Pio XII, n.d.r.) viveva in mestizia. Hanno un temperamento opposto, ma gli opposti si toccano e formano un tutt’uno» (in B. Lai, Settimana Incom, 11 Marzo 1962). Quel tutt’uno che da duemila anni e più ha nome Chiesa Cattolica.

Il “Papa buono”? Sì, ma non fermiamoci qui
Parlando di Giovanni XXIII, cerchiamo di andare oltre la definizione di “Papa buono”. Non tutti, infatti, la usano con l’umiltà di Benedetto XVI o con la genuinità della vecchina sgrana-rosari. Tante volte questa definizione è risuonata con intento insolente nei confronti degli altri pontefici, predecessori e successori: l’amabilità – che era una caratteristica di Papa Roncalli – non deve essere confusa con la bontà d’animo, che è appartenuta anche agli altri. Inoltre, per una certa furbizia italica (ma non solo), l’aggettivo “buono” è sinonimo di “sempliciotto”, “ingenuo”, “sprovveduto”. Questo equivoco è nato fin dai tempi del suo pontificato se Enzo Biagi, già nel 1963, deve puntualizzare: «L’umana amabilità con la quale affronta la gente non toglie maestà e prestigio alla sua persona. Non è, come qualcuno ha scritto, “un bravo parroco”, è il Papa. Quando dice “Noi”, si sente che parla il successore di Pietro e non “un povero prete”» (E. Biagi in La Stampa, 4 Febbraio 1963).
Del resto, prima di essere Papa fu visitatore apostolico in Bulgaria, delegato apostolico in Turchia e Grecia e nunzio a Parigi: non certo luoghi in cui si invia soltanto un “buon parroco”. Ma c’è anche un terzo motivo per non fermarsi a questa definizione: il santino da “papa buono” mette in secondo piano la carica di simpatia di Papa Roncalli. Uno a cui rispondere con una battuta piaceva molto. Ad un ecclesiastico troppo solerte che, per tutelare le passeggiate papali nei giardini vaticani, aveva pensato di vietare l’accesso alla cupola di San Pietro per i turisti, Giovanni XXIII rispose sorridendo: «Non è necessario, cercherò di non scandalizzare nessuno» (M. Bergerre, Quattro Papi e un giornalista, p. 68). Si dilettava anche ad ironizzare su se stesso e la sua “rotondità”: «diceva che quando voleva sentirsi magro si metteva accanto al cardinale Gaetano Cicognani, nunzio a Madrid, suo buon amico e uno dei suoi grandi elettori, la cui mole era ragguardevole» (M. Bergerre, op. cit., p.87).

Angelo da Sotto il Monte
Sapeva bene da pontefice quale doveva essere il suo ruolo, ma ha avuto la capacità di imprimere il suo stile personale al pontificato. Nel Giornale dell’Anima – quell’insieme di quadernetti dove egli aveva l’abitudine di annotare pensieri, dialoghi con Dio, appunti spirituali – scrive: «comunemente si crede e si approva che il linguaggio anche famigliare del Papa sappia di mistero e di terrore circospetto. Invece è più conforme all’esempio di Gesù la semplicità più attraente, non disgiunta dalla prudenza dei savi e dei santi, che Dio aiuta» (GdA, 341). Quella semplicità di linguaggio e di modi che l’avevano contraddistinto fin da bambino, nell’infanzia a Sotto il Monte, dove era nato nel 1881, cresciuto in una famiglia di contadini, solida riguardo ad educazione religiosa e affettuosa rispetto ai legami familiari. I sacrifici per studiare furono non pochi, ma alla fine riuscì ad entrare in seminario. Nessuno poteva immaginare quale sentiero luminoso Dio avesse in mente per lui, ma soprattutto difficile pensare che quest’uomo, eletto pontefice da alcuni con la probabile volontà che fosse “di transizione”, potesse poi incidere in profondità nella storia della Chiesa con soli cinque anni di pontificato. E fu proprio lui il primo a dubitare di se stesso quando sentì parlare di elezione: «Ma ho 77 anni» ribattè ad Elia Dalla Costa, arcivescovo di Firenze, che nei giorni precedenti all’esito del Conclave stava sondando il campo per una sua candidatura. Era turbato, Angelo Roncalli, sebbene non sconvolto perché la sua calma derivava dal rapporto intenso con Dio. «Dieci meno dei miei», replicò Dalla Costa, chiudendo il discorso. Da quel momento, Roncalli si predispose a fare ancora una volta la volontà del Signore.

Un conservatore o un progressista? Un Papa, come gli altri
Ogni volta che un papa viene eletto al soglio pontificio, c’è sempre il tentativo di tirarlo… per la veste ed inserirlo nel blocco tradizionalista o in quello progressista. Al solito, i Papi non si fanno rinchiudere in questi schieramenti che ricordano tanto le suddivisioni politiche. Se anche prima di sedere sulla Cattedra di Pietro, hanno manifestato una sensibilità più spiccata verso l’una o l’altra parte, una volta eletti, hanno poi saputo diventare pontefici della cattolicità, portando sì ognuno la propria sensibilità ma aprendola ad un carattere universale che è poi la cifra dell’essere cattolico. Così accade a Giovanni XXIII: la vulgata lo vuole papa progressista perché ideatore del Concilio. Come non ricordare quei gruppi di radicali che chiedevano a gran voce, durante il penultimo conclave, un Giovanni XXIV, erede dello spirito del primo (e che magari, secondo i loro desiderata, avrebbe sposato pure tutte le battaglie radicali)? Giovanni XXIII, però, non è stato un progressista. Non lo è stato da prete, poi vescovo, poi cardinale, poi patriarca, e non lo è stato da Papa.
Ecco cosa dice un suo biografo, riferendosi al noto Giornale dell’Anima: «Fin dalle prime pagine, scritte a 14 anni, Angelo Roncalli si inserisce nel solco antico, risalente addirittura ai Padri della Chiesa, per mettersi alla presenza e in ascolto di Dio: silenzio, sguardo attento alla realtà della sua vita, sincerità spoglia e totale davanti ai suoi atteggiamenti profondi e alla chiamata di Dio, lettura sapienziale della parola di Dio. Il Giornale è e si svela ad ogni pagina l’angolo di monastero dove Angelo Giuseppe Roncalli vive la sua vita a tu per tu con Dio. Vita nutrita ogni giorno dalla liturgia, dalla presenza sacramentale di Gesù nella Messa, e purificata pacificamente ma inesorabilmente nel confronto quotidiano con Dio che lo chiama ad essere (e ad essere “soltanto”) suo sacerdote» (T. Bosco, Giovanni XXIII. Storia di un cristiano, pp.27-29). Emerge qui un tratto di spiritualità che difficilmente si può definire “progressista”.

«Gioisce la Madre Chiesa…». Non tanto, a dire il vero, ma non fu colpa sua.
Qui, secondo alcuni, si arena la santità di Giovanni XXIII. Per altri, invece, questo è il motivo della sua santità. Letture entrambe riduttive della sua persona.
E andiamo al Concilio Vaticano II. Che è diventata la pietra d’inciampo (o la leva archimedea, a seconda delle prospettive da cui si guarda, entrambe parziali) del pontificato di Giovanni XXIII. «Gaudet Mater Ecclesia…» furono le parole di apertura del discorso di papa Roncalli. «Gioisce la Madre Chiesa» per quel Concilio che, nelle intenzioni del Papa, doveva accrescere la comunità cattolica di «spirituali certezze e, attingendovi forze di nuove energie» permetterle di guardare «intrepida al futuro» e «con opportuni aggiornamenti e con il saggio ordinamento di mutua collaborazione» consentirle di far sì «che gli uomini, le famiglie, i popoli» volgessero «realmente l’animo alle cose celesti». Sappiamo come è andata a finire. A fronte di alcuni frutti, la Chiesa è entrata in una stagione difficile. Di recente, lo storico Roberto De Mattei ha detto: «Nel caso di un Papa, per essere considerato santo egli deve avere esercitato le virtù eroiche nello svolgere la sua missione di Pontefice, come fu, ad esempio, per san Pio V o san Pio X. Ebbene, per quanto riguarda Giovanni XXIII, nutro la meditata convinzione che il suo pontificato abbia rappresentato un oggettivo danno alla Chiesa e che dunque sia impossibile parlare per lui di santità» . Un giudizio abbastanza severo. Perché De Mattei attribuisce al pontificato di Giovanni XXIII i danni della deriva post-conciliare. Su cui, per altro, papa Roncalli non poté esercitare alcun controllo, dato che morì prima della conclusione del Concilio, nel 1963.

Ma il Vaticano II fu un male?
Basterebbe però leggere Benedetto XVI, un pontefice che di certo non può essere tacciato di progressismo, per vedere che il Vaticano II in sé non fu un male: «Quarant’anni dopo il Concilio possiamo rilevare che il positivo è più grande e più vivo di quanto non potesse apparire nell’agitazione degli anni intorno al 1968. Oggi vediamo che il seme buono, pur sviluppandosi lentamente, tuttavia cresce, e cresce così anche la nostra profonda gratitudine per l’opera svolta dal Concilio».
Se non bastasse, è ottimo il giudizio che sempre lo stesso Benedetto XVI esprime su Giovanni XXIII: «La grazia di Dio andava preparando una stagione impegnativa e promettente per la Chiesa e per la società, e trovò nella docilità allo Spirito Santo, che distinse l’intera vita di Giovanni XXIII, il terreno buono per far germogliare la concordia, la speranza, l’unità e la pace, a bene dell’intera umanità. Papa Giovanni indicò la fede in Cristo e l’appartenenza alla Chiesa, madre e maestra, quale garanzia di feconda testimonianza cristiana nel mondo. Così, nelle forti contrapposizioni del suo tempo, il Papa fu uomo e pastore di pace, che seppe aprire in Oriente e in Occidente inaspettati orizzonti di fraternità tra i cristiani e di dialogo con tutti». Semmai è stata quell’ “ermeneutica della rottura” – che ha giganteggiato nel post-concilio – che ha oscurato, per non dire quasi annullato, i buoni frutti del Vaticano II. Una lettura serena dei documenti conciliari ancora oggi non è possibile. Troppe le forzature da parte di chi voleva imporre un presunto spirito del Concilio sulla “lettera” dei documenti. Tante le chiusure dalla parte opposta che – invece di puntare il dito accusatore contro chi strumentalizzava (e continua a farlo) a suo piacimento il Vaticano II – ha preferito condannare il Concilio come origine di tutti i mali della Chiesa. Letture entrambe riduttive e, in fondo, incapaci, in modo diverso, di accettare quell’autentica novità evangelica che è dirompente e non si fa costringere in bieche categorie paralizzanti.

La grande intuizione giovannea
Ci guardiamo bene qui dall’avvallare interpretazioni abusivamente rivoluzionarie del pontificato di papa Roncalli. Troppo spesso, infatti, Giovanni XXIII è diventato, suo malgrado, l’icona di chi voleva (e vuole) protestantizzare la Chiesa e dissolverla in una Ong. Non è stato un rivoluzionario. Non è stato un comunista (Falcem in terris, storpiava una vignetta satirica il titolo di una sua enciclica, come si legge in R. Mezzanotte (a cura di) Pro e contro Giovanni XXIII. Dossier Mondadori, p.85). Egli ha preso atto di un mondo che stava cambiando e invece di trincerarsi dietro steccati di paura e di mantenimento dello status quo ecclesiale, ha coraggiosamente preso per mano la Chiesa per condurla verso tempi nuovi. E’ stato profondamente consapevole, infatti, che era venuto il momento – da qui l’attenzione ai “segni dei tempi” – in cui la Chiesa dovesse mettersi a servizio non solo dei cattolici ma di tutti gli uomini. Non rinunciando ad essere fedele al Vangelo (non così alcuni che si richiamano a questo Papa) ma cercando nuove strade attraverso cui questo potesse arrivare all’uomo moderno. Come sempre, ogni cambiamento comporta dei rischi. E ogni rischio può rivelarsi un problema. E’ successo anche in questo caso.
Eppure, l’intuizione giovannea ha in fondo precorso i tempi. Non è forse oggi, con l’invadente e capillare diffusione dei media, che appare ancora più evidente come la Chiesa Cattolica sia ormai punto di riferimento imprescindibile per credenti e non, che guardano a questa come istituzione credibile, molto più delle altre, perché forte della sua esistenza bimillenaria e del richiamo irresistibile del suo messaggio d’amore? E come si fa ad ignorare le ansie e le attese del mondo per ripiegarsi solo su se stessi? Come si fa a non comprendere che l’uomo vestito di bianco – che si chiami Giovanni, Paolo, Benedetto, Francesco – è oggi più che nel passato una figura fondamentale non solo per i fedeli cattolici ma anche per tutti gli altri? La sfida dal Vaticano II in poi sarà allora quella di trovare, anno dopo anno, documento dopo documento, pastorale dopo pastorale, il modo più adatto per non “sfigurare” il messaggio cristiano, annacquandolo o ammorbidendolo, senza tuttavia rinunciare a prendere per mano l’umanità, come purtroppo sembrano voler fare molti spiriti tradizionalisti, che assumono spesso l’atteggiamento sdegnoso del fratello maggiore della parabola lucana sul padre generoso. Ma non si può andare incontro ad un’umanità dolente portandosi dietro irragionevoli paure (quante volte usiamo l’espressione “venuta dell’Anticristo” con leggerezza!) e chiudendo anticipatamente allo Spirito Santo, che non è certo il tifone spazza-dottrina che immagina il cattolicesimo “adulto”, ma nemmeno il blocco marmoreo, che di Spirito ha solo il nome, concepito dagli ismi del cattolicesimo di segno opposto.

Ai profeti di sventura di ieri… e di oggi
La conclusione di questo scritto non poteva che essere affidata al noto brano contro i profeti di sventura. Per due motivi: 1) perché quella di rimpiangere i tempi andati è una tentazione perenne nella Chiesa da cui mettere giustamente in guardia e non si può liquidare sbrigativamente come progressismo (che è altra cosa) il voler essere fedeli alla novità del Vangelo senza costringerlo in cristallizzazioni abusive; 2) perché mostra le sapienti doti di analisi di storia ecclesiale di Papa Roncalli, nonché la sua capacità di affidamento alla Provvidenza, doti e capacità che spesso mancano ai detrattori di Giovanni XXIII.
Lo riporto senza strumentalizzarlo – come è stato fatto invece da chi voleva in tal modo zittire bruscamente l’opposizione alle sue poco cattoliche fumisterie teologiche e pastorali – riconducendolo alla purezza originaria, quella di un Papa al di là con gli anni (di lì a poco sarebbe morto, sopportando con fortezza eroica l’attacco furente di un cancro) che aveva scoperto il divino segreto per mantenere uno sguardo giovane, un cuore accogliente, una mente aperta.
Ecco le sue significative parole: «Nell’esercizio quotidiano del Nostro ministero pastorale ci feriscono talora l’orecchio suggestioni di persone, pur ardenti di zelo, ma non fornite di senso sovrabbondante di discernimento e di misura. Nei tempi moderni esse non vedono che prevaricazione e rovina; vanno dicendo che la nostra età, in confronto con quelle passate, è andata peggiorando; e si comportano come se nulla abbiano imparato dalla storia, che pur è maestra di vita, e come se al tempo dei Concili precedenti tutto procedesse bene in fatto di dottrina e vita cristiana, e di giusta libertà religiosa. A noi sembra di dover dissentire da codesti profeti di sventura, che annunziano eventi sempre infausti, quasi che incombesse la fine del mondo. Nel presente momento storico, la Provvidenza ci sta conducendo ad un nuovo ordine di rapporti umani, che, per opera degli uomini e per lo più al di là della loro stessa aspettativa, si volgono progressivamente verso il compimento di disegni superiori e inattesi; e tutto, anche le umane avversità, dispone per il maggior bene della Chiesa». Ad maiorem Dei gloriam.

(Fonte: Claudia Cirami, Papalepapale,26 aprile 2014
http://www.papalepapale.com/develop/ritratto-di-un-pontefice-ne-povero-parroco-ne-rivoluzionario-giovanni-xxiii-santo/#!prettyPhoto

 

Quanti sono i preti pedofili? Lo 0,8% in dieci anni

«Anch’io penso che nel dibattito sui preti pedofili vi sia un certo compiacimento anticattolico e anticlericale», ha ammesso l’anticlericale Sergio Romano. La pedofilia di alcuni sacerdoti è certamente un crimine abominevole, a volte sottovalutato da diversi esponenti della Chiesa. Un grave errore, come è sbagliata la strumentalizzazione del mondo laicista, che usa i “preti pedofili” come argomento ricattatorio per smorzare qualunque intervento della Chiesa in campo etico.
Ma quanti sono i preti macchiatisi di pedofilia? Il Vaticano ha rivelato i numeri ufficiali davanti al 52esimo Comitato Onu contro la tortura: tra il 2004 e il 2013 un totale di 884 membri del clero sono stati ridotti allo stato laicale nell’ambito dello scandalo della pedofilia. Altre misure disciplinari sono state prese nei confronti di 2.572 sacerdoti (spesso perché ormai in età avanzata o malati). Questi dunque i numeri su cui ragionare. Se sommiamo 884 a 2.572, in totale abbiamo 3456 sacerdoti cattolici pedofili in dieci anni. I preti cattolici nel mondo, secondo l’Ufficio statistiche del Vaticano, sono circa 410mila, una media approssimativa tra i 405mila del 2000 e i 413mila del 2010, numeri simili a quanti ce n’erano negli anni ’60 e ’70. Il calcolo è presto fatto: i 4000 preti pedofili corrispondono allo 0,8% dei preti cattolici in attività negli ultimi 10 anni. Anche se un solo caso di abuso è già troppo, possiamo rilevare che non si tratta affatto di percentuali elevate, anzi, decisamente modeste rispetto a quelle che colpiscono genitori, compagni, insegnanti, allenatori e parenti in generale (la maggior parte sposati, dunque non celibi).
Tuttavia, tale percentuale dovrebbe essere ancora inferiore. Lo ha spiegato il promotore di giustizia del Vaticano, Charles J. Scicluna, dato che bisognerebbe scindere la “pedofilia” dalla “efebofilia”: «in questi ultimi nove anni (2001-2010) abbiamo valutato le accuse riguardanti circa 3000 casi di sacerdoti diocesani e religiosi che si riferiscono a delitti commessi negli ultimi cinquanta anni. Possiamo dire che grosso modo nel 60% di questi casi si tratta più che altro di atti di efebofilia, cioè dovuti ad attrazione sessuale per adolescenti dello stesso sesso, in un altro 30% di rapporti eterosessuali e nel 10% di atti di vera e propria pedofilia, cioè determinati da una attrazione sessuale per bambini impuberi. I casi di preti accusati di pedofilia vera e propria sono quindi circa trecento in nove anni. Si tratta sempre di troppi casi – per carità! – ma bisogna riconoscere che il fenomeno non è così esteso come si vorrebbe far credere».
Per questo il laico Philip Jenkins, docente di Storia e religione all’Università della Pennsylvania ha spiegato: «Lo scandalo dei preti pedofili è stato ingigantito dai pregiudizi anticattolici. Il termine preti pedofili è discriminatorio. Gli abusi sessuali nella Chiesa cattolica non sono più frequenti che nelle altre chiese o tra gli insegnanti delle scuole. Inoltre, di rado si tratta di pedofilia, perché le vittime hanno raggiunto o superato la pubertà. Gli abusi sono orrendi, sono crimini da punire e stroncare, non da strumentalizzare». Questo pregiudizio, ha proseguito Claudio Magris, è anche «barbarico e stupido come sospettare in generale di stupro tutti i romeni. In tal modo, inoltre, si arreca ingiustizia a tutti quei religiosi – preti e suore – che, nelle più diverse e disperate zone del mondo e nelle più diverse e disperate situazioni di sofferenza e di miseria ma anche nelle parrocchie delle nostre città, dedicano più di ogni altro la loro vita a difendere i dannati della terra».

(Fonte: UCCR, 13 maggio 2014)
http://www.uccronline.it/2014/05/13/quanti-sono-i-preti-pedofili-lo-08-in-dieci-anni/
 

giovedì 8 maggio 2014

Lo spettro della mala educazione

Uno spettro si aggira laicamente per il secolo: è lo spettro della mala educazione. Ma, per quanto sia baldanzoso, avrebbe vita grama se non trovasse alimento nel confratello che si aggira religiosamente per i documenti ecclesiali col nome di ”emergenza educativa”. L’uno e l’altro, più che nei programmi di educazione civica o nei piani pastorali di nuova generazione, potrebbero trovare almeno un po’ d’argine in quei libriccini di formazione del laicato cattolico finiti nei mercatini di antiquariato. Erano  pubblicati da diocesi, ordini religiosi, confraternite, pie unioni e persino da singoli sacerdoti ad uso dei loro parrocchiani. Hanno titoli come “Educazione della giovinetta cattolica”, “Manuale del giovane cristiano”, “Decoro della sposa cristiana” o “Doveri, responsabilità e precetti del capofamiglia”: roba da far ridere i pedagoghi d’oggi, ma formavano l’ambiente in cui ragazzini come Domenico Savio si santificavano preferendo la morte al peccato, oppure fanciulle come Maria Goretti e Pierina Morosini sceglievano la purezza a costo della vita, e tanti altri, senza oltrepassare la soglia di una santità conclamata, mettevano su famiglie in cui l’emergenza non riguardava il degrado dei costumi.
Il segreto della loro efficacia stava in quello che oggi viene scambiato per formalismo. Ma, per comprenderli davvero, bisogna saperli leggere con almeno un po’ di amore a ciò che trasmettevano. Allora si scoprirebbe che educavano alla buona creanza cristiana applicando un metodo condensato in sonante essenzialità al punto 252 del “Catechismo” di San Pio X: “Che cos’è la virtù morale? La virtù morale è l’abito di fare il bene, acquistato ripetendo atti buoni”. E padre Carlo Dragone, nella sua “Spiegazione del Catechismo”, così glossava nel 1956: “Nel Battesimo vengono infuse le virtù teologali e le virtù morali, che però danno soltanto la capacità di compiere atti soprannaturali e virtuosi. La facilità si acquista ripetendo gli atti buoni, in modo che si formano le buone abitudini o abiti virtuosi acquisiti. Perciò le virtù morali, che rendono buoni i nostri costumi, sono inclinazioni  buone, abitudini di fare atti buoni, acquistate con l’esercizio”.
Come dire che la grazia è la materia prima della Grazia, un’evidenza che ha origine in pagine e pagine evangeliche dove la Buona Novella si fa per le buone maniere come lo stampo per la cera. “Praesta, quaesumus, omnipotens Deus: ut qui paschália festa perégimus; haes te largiénte, móribus et vita teneámus”, dice l’orazione della messa tradizionale della domenica in albis appena trascorsa, la prima dopo Pasqua: “Concedi, o Dio onnipotente, che, avendo celebrate le feste pasquali, ne conserviamo per grazia tua lo spirito nei costumi e nella vita”.  E, nel Vangelo di questa messa, è proprio la buona grazia di Gesù risorto a sanare la sgarbata incredulità di Tommaso. Per lui, che otto giorni prima non era presente alla sua apparizione nel cenacolo, il Signore torna a mostrare con mansuetudine cerimoniosa le piaghe sul suo corpo: “Metti qua il tuo dito, osserva le mie mani, accosta la tua mano, e mettila nel mio costato: e non essere più incredulo, ma credente”. “Dóminus meus, et Deus meus”: vinto dall’estrema grazia con cui lo ha trattato il suo Signore e suo Dio, Tommaso ne confessa la divinità come nessun altro apostolo aveva fatto fino ad allora e poi ne porterà la lieta notizia fino in Persia e in India, fino al martirio.
E’ in questo intrattenersi così intimo e cerimonioso, dove la forma purissima del sacro fa da calco alla materialità del gesto e della parola, che l’uomo ha fruttuosa relazione con Dio. Qui dimora la saldezza delle vere conversioni, a patto che la cerimonia, fosse anche per la debolezza dell’uomo, possa ripetersi orientandosi al rito. “Il ritardo dei discepoli a credere alla risurrezione del Signore” spiega San Gregorio Magno nel “Terzo Notturno dell’Ascensione” “più che a dimostrare la debolezza loro, servì a nostra maggiore garanzia. Infatti il loro dubbio fu occasione che la risurrezione venisse dimostrata con molte prove (…). La storia della Maddalena così pronta a credere, è meno utile a me che non quella di San Tommaso che dubitò per tanto tempo, poiché questo apostolo, nel suo dubbio, toccò le cicatrici del Signore e così tolse dal nostro cuore la piaga del dubbio”.
La cerimoniosità rituale risponde alla natura liturgica dell’uomo: cosicché, per esempio, un San Francesco di Sales amava insegnare che le buone maniere sono il principio della santità o un Leon Bloy diceva che “solo le persone senza profondità non si fidano delle apparenze”. Ma oggi si manifesta un cristianesimo che si sente tanto più autentico quanto più si fa nemico del minimo fremito di reverenza per la forma. La pratica religiosa ormai si gloria di attingere solo alla sostanza finendo per rimestare nella materia lasciata a se stessa. La solita borghesissima rivolta antiborghese ha instaurato una sorta di eresia dell’informe che si nutre di esegesi del brutto come unica lettura del Vangelo.
Eppure, la vita e l’insegnamento di Gesù, i gesti più veri di chi gli sta intorno sono uno spreco di bellezza, parto della devozione spirituale al mistero di tutto ciò che esiste. Negli eventi grandiosi e nelle cose minime, nei gesti regali e nelle piccole attenzioni quotidiane, i personaggi del Vangelo sono gentiluomini vocati alle buone maniere.
Tra gli esempi più luminosi vi è la cena di Betania, nella casa di Simone. Una cerimonia così densa di gesti e di significati ulteriori che necessitano di diversi racconti evangelici per essere colti tutti. Quella sera, racconta San Luca, Gesù entrò nella casa di Simone il fariseo e si mise a tavola. “Ed ecco una donna, che era peccatrice in quella città, appena seppe che egli era a mangiare nella casa del fariseo, portò un alabastro d’unguento e stando ai piedi di lui, di dietro, con le lacrime cominciò a bagnarne i piedi e coi capelli del suo capo li asciugava e li baciava e li ungeva d’unguento”. Il padrone di casa, costernato per tanta attenzione donata a una peccatrice, aveva certamente organizzato un pranzo di grande livello, con accurata distribuzione dei commensali, precisione del servizio, qualità delle pietanze. Ma l’invitato per il quale tutto questo era stato preparato lo rimprovera perché quelle buone maniere non sono degne della Buona Novella che lui porta in dono: “Vedi questa donna? Sono entrato nella tua casa e tu non m’hai dato l’acqua per i piedi; ma essa li ha bagnati colle sue lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato un bacio, ma lei da che è venuta non ha smesso di baciarmi i piedi. Tu non hai unto d’olio il mio capo, ma essa con l’unguento ha unto i miei piedi. Per questo ti dico: le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato. Invece quello a cui poco si perdona, poco ama”. Minuzie da povero formalista, si direbbe oggi, eppure Gesù, perfetto Dio e perfetto uomo, ne nota l’assenza. Poiché il rito con cui si adora il Signore e la cerimonia con cui si rende omaggio al prossimo non raggiungono il loro scopo se non compiono tutto ciò che è prescritto.
Nella sua cronaca, San Matteo si sofferma sull’indignazione dei discepoli: “A che tale sciupio? Quest’unguento si poteva venderlo caro e darne il ricavo ai poveri”. Ma rimarca soprattutto il rimprovero che tale moto terreno e sentimentale provoca da parte del Signore: “Perché date noia a questa donna? Ella ha fatto una buona azione verso di me. Infatti voi avrete sempre i poveri con voi, ma non sempre avrete me. Costei, spargendo quest’unguento sul mio corpo, lo ha fatto per la mia sepoltura. Io vi dico in verità che dovunque sarà predicato questo vangelo, sarà pur raccontato a sua memoria ciò ch’ella ha fatto”. E San Giovanni precisa che il discepolo scandalizzato è Giuda Iscariota, il traditore, che preferisce i poveri a Dio.
Lungo il cortese sentiero dell’omaggio alla maestà divina si erano già incamminati i magi poco dopo la nascita di Gesù. E vi si inoltreranno Giuseppe di Arimatea e Nicodemo, con circa cento libbre di mistura di mirra e aloe da spargere sul corpo del Maestro dopo la sua morte. Solo il riconoscimento del primato di Dio e delle attenzioni che gli sono dovute permette di tributarne di grandi agli uomini. Questa certezza permette al buon Samaritano di rovesciare radicalmente la prospettiva di Giuda. E’ il suo amore per Dio a fermarlo lungo la strada in soccorso dello sconosciuto ferito dai ladri. E con quanta delicatezza si appressa al suo prossimo. “Ne fasciò le piaghe versandovi sopra olio e vino; e, collocatolo sulla propria cavalcatura, lo condusse all’albergo e si prese cura di lui. Il giorno dopo, tratti fuori due denari li diede all’oste e gli disse: Prenditi cura di lui, e quanto spenderai di più te lo pagherò al mio ritorno”.
E’ la stessa attenzione che Maria presta al Signore venuto a farle visita in casa sua. Gli siede ai piedi e sta ad ascoltare la sua parola. E a Marta, la sorella che si lamenta di essere lasciata sola a servire i commensali, Gesù risponde: “Marta, Marta, tu t’affanni e t’inquieti per troppe cose. Eppure una sola cosa è necessaria. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta”.
Ma la cerimonia, così come il rito di cui è riflesso a uso di chi pratica il mondo, è fatta di manifestazioni inesplicabili ad occhio laico tanto quanto i nascondimenti cui non può rinunciare. Per questo, nel Vangelo di San Matteo, il Maestro prescrive: “Quando digiunate, non vogliate imitare gli ipocriti, che prendono un’aria malinconica e sfigurano la faccia per far vedere agli uomini che digiunano. In verità vi dico che han già ricevuto la loro ricompensa. Tu invece quando digiuni, ungiti il capo e lavati la faccia, affinché non agli uomini tu appaia come uno che digiuni, ma al Padre tuo, che è nel segreto; ed il Padre tuo, che vede nel segreto, ti darà la ricompensa”.
Non vi è precetto più alto che scandisca il tempo dell’eleganza e della grazia. La sua pratica è un atteggiamento morale che, un passo prima della santità, si chiama sprezzatura. Equilibrio tra rigore e levità che si traduce in rispetto per il soffio divino nascosto anche nella più piccola scaglia di creato. Nasce da questa radice l’amore con cui Maria accetta la morte del Figlio inchiodato alla croce. Dolorosa e gioiosa comprensione del mistero più grande, radicata nell’adesione all’annuncio dell’angelo Gabriele: “Ecco l’ancella del Signore, si faccia di me secondo la tua parola”. Il racconto dell’annunciazione può essere letto come un trattato di buone maniere, un capolavoro della cerimonia che non ha uguali. Non vi si trova una parola fuori posto, non vi è un fremito che tradisca cedimento, non un’ombra di rinuncia: e si sta decidendo il destino dell’universo.
Principio della santità, le buone maniere sono efficace difesa contro le trappole del demonio. Incapace di conoscere i pensieri dell’uomo perché di altra natura, insegna San Giovanni Cassiano nella “VII Conferenza ai monaci”, il principe di questo mondo li può indovinare osservando i movimenti del corpo: “A nessuno viene il dubbio che gli spiriti immondi riescano a conoscere la natura dei nostri pensieri; quegli spiriti però possono arrivare a individuarli fondandosi sugli indizi sensibili che ad essi appaiono dal di fuori, vale a dire dalle nostre disposizioni o dalle nostre parole, e anche dalle tendenze alle quali ci scorgono inclinati con maggiore apprensione”.
Lettura preferita di San Filippo Neri, Cassiano è fonte della Regola di San Benedetto, quella mappa per la santificazione fatta solo di minuziose prescrizioni per il comportamento nella vita quotidiana dei monaci. Giunto agli ultimi due gradini dell’umiltà, Benedetto si sofferma su dettagli incomprensibili al cristianesimo maleducato di oggigiorno: “L’undicesimo gradino dell’umiltà è quello del monaco che, quando parla, lo fa delicatamente e senza ridere, con umiltà e compostezza, e dice poche e assennate parole e non fa chiasso con la voce (…). Il dodicesimo gradino dell’umiltà si ha se il monaco non solo coltiva l’umiltà nel cuore, ma la mostra anche con l’atteggiamento esterno a quelli che lo vedono: cioè nell’ufficio divino, in chiesa, nell’interno del monastero, nell’orto, per via, nei campi, dappertutto insomma, quando siede, cammina o sta in piedi, ha sempre il capo chino e lo sguardo fisso a terra”.
Rispetto alla solidità dei primi gradini, pare quasi che questi ultimi siano esili e persino evanescenti. Ma lo sono soltanto allo sguardo di chi non vi vede la perfezione prendere forma in esistenze capaci di indurre alla conversione con un semplice gesto: un atto di riverenza davanti al Crocifisso, una genuflessione al cospetto del tabernacolo. Manifestazioni di un mondo di cui al laico è possibile ancora percepire fremiti e atmosfere nei salottini d’attesa di certi conventi e certi monasteri o in qualche canonica: luoghi levigati dal tempo dilatato dello spirito, tirati a cera come in altri secoli, i muri lindi e profumati, Crocifisso, ritratto del fondatore e soprammobili al loro posto da sempre. Crisalidi spirituali in cui il sopraggiungere della tal suora e del tal padre sono epifanie di destini avviati alla perfezione.
Fu questo uno dei tratti che conquistò il cardinale Newman alla vocazione per l’Oratorio di San Filippo Neri. In un discorso al Capitolo del 1848 scriveva: “Un Oratoriano possiede la sua stanza e i suoi mobili, i quali, (…) senza essere suntuosi, dovrebbero fare in modo che sia possibile affezionarvisi. Insieme non formano una cella, ma un nido. L’Oratoriano deve essere circondato dalle sue cose, i suoi libri, gli oggetti personali: in una parola deve vivere, per dirla con un tipico termine inglese, nel comfort. (…) La chiesa deve essere bella, le funzioni religiose devono essere condotte con meticolosità e, se possibile, con magnificenza; la musica deve essere attraente (…). Avarizia, povertà, austerità, trascuratezza, rigore sono parole sconosciute in una casa Oratoriana”. E, se deve indicare il modello per un Oratoriano, Newman lo vede nel ritratto di monsignor Clemente Merlini dipinto da Andrea Sacchi: “seduto in una poltroncina con atteggiamento riposato: una mano si allunga sul tavolo, l’occhio è vivace e scintillante, l’espressione allegra”.
Il buon cristiano è tale quando ripugna al mondo per ciò che testimonia e non per come si presenta. Se deve versare il sangue, tra i suoi modelli contempla Tommaso Moro, che il 6 luglio 1535 salì il patibolo portando come ultimo bagaglio la sua santità, le buone maniere e una parola di conforto per il boia: “Amico io sono pronto e voi fatevi coraggio… Vi avverto che ho il collo corto e perciò state attento a colpire giusto per non macchiare la vostra buona fama”.


(Fonte: Alessandro Gnocchi, Riscossa Cristiana da Il Foglio, 2 maggio 2014)
http://www.riscossacristiana.it/lo-spettro-della-mala-educazione-di-alessandro-gnocchi/