Il corpo femminile è svilito da una “ripetuta, indecente, ostentata rappresentazione delle donne come nudo oggetto di scambio sessuale, offerta da giornali, televisioni, pubblicità.” Così indicava l’appello per la mobilitazione “se non ora quando”, ma sarei curioso di sapere a quale tipo di valore si vorrebbe legata la dignità sessuale della donna.
Le femministe degli anni d’oro nella loro rivista “Effe” – maggio 1976 – parlavano di una sessualità “libera, attiva, che mira anche ad altro , e che non può contentarsi di una parità tra i sessi che si svolga solo nella sfera intima e privata. Una sessualità che ammetta tranquillamente certe differenze, che dichiari le proprie eventuali “devianze”, che si confessi senza paure”.
Da questa definizione il passo verso il nudo femminile "come oggetto di scambio sessuale" non è poi così lungo: cosa resta, infatti, della dignità del corpo femminile dopo la liberazione sessuale auspicata 35 anni fa dalle femministe di "Effe"?
Nulla, a meno che non si voglia sostenere che l’unica libertà è quella di fare come pare e piace. Ma d’altra parte il vento del “vietato vietare” era decisamente impetuoso, ad esempio nel 1967 a Firenze, in vista del congresso del Partito Radicale, veniva distribuito un volantino in cui era scritto che “la società spinge il suo autoritarismo fino a sindacare sul diritto dell’individuo a disporre liberamente del proprio corpo, a godere del piacere dei sensi.”
Tutto cominciò nei mitici anni ’60 dove sulle ali della filosofia di Marcuse si teorizzava che liberando gli istinti si potevano eliminare contemporaneamente dominio e autorità, fossero di tipo familiare, civile o religioso.
Durante quegli anni parlare di verginità, biancheria intima, anticoncezionali e posizioni del kamasutra diventa un fatto normale, sulle ali della battaglia per una femminilità forte compaiono diversi segni che testimoniano il nuovo modo di essere donne, ad esempio la minigonna e i collant, i roghi dei reggiseno e la comparsa del primo topless a Saint Tropez nel 1970. In quegli anni la psichiatria dava manforte alla rivoluzione sessuale teorizzando la necessità “scientifica” di questa liberazione dell’individuo, lo psicoanalista inglese David Cooper rivolgendosi alle donne affermava che si può amare un altro essere solo a condizione di amare totalmente sé stessi al punto da masturbarsi veramente fino all’orgasmo.
Così nel 1973 sul libro “Donnità - Cronache del femminismo romano” a pag. 7 si trova scritto lo slogan “faremo figli se ne avremo voglia”, coerente con l’idea che il piacere del corpo nulla ha a che fare con il concepimento. Siamo ovviamente agli antipodi di quanto indicava nel 1968 la lettera enciclica Humanae Vitae di Papa Paolo VI dove si sottolineava il nesso inscindibile tra significato unitivo e procreativo dell’atto sessuale; non è un caso che la battaglia per l’aborto e per gli anticoncezionali prende vigore proprio da quegli ambienti di liberazione della sessualità femminile. E’ del 1975 la chiusura del “famoso ambulatorio” CISA di Firenze (Centro Italiano di sterilizzazione aborto) fondato da Adele Faccio e per cui finì agli arresti anche l’allora ventisettenne Emma Bonino.
Da tutte queste battaglie forse l’unica cosa che è stata veramente “liberata” è l’idolatria per il piacere fine a sé stesso, deriva di uno strano concetto di libertà che poi si è paradossalmente incontrato anche con un certo edonismo capitalistico.
La morale si fonda su quello in cui si crede, ma vorrei osare dire che si radica nel soggetto delle nostre preghiere. A tal proposito sul libro citato “Donnità…” (1973) si trova questa frase: “se mai ci verrà voglia di pregare questa sarà la nostra preghiera: Madre ti ringrazio di avermi fatto donna.” Amen.
(Fonte: Lorenzo Bertocchi, Libertà e persona, 17 febbraio 2011)
lunedì 21 febbraio 2011
giovedì 17 febbraio 2011
Adozioni ai singles: una sentenza, troppi clamori, una uscita maldestra.
Tutto questo chiasso sulla sentenza della Cassazione in merito all’adozione di una bambina russa da parte di una donna italiana single, io non lo capisco. O forse mi sembra di capire anche troppo bene il retropensiero di chi ha sparato la notizia in modo capovolto, travisandola, come se la Corte di Cassazione avesse inaugurato una nuova e rivoluzionaria stagione giurisprudenziale ammettendo per la prima volta i single ad adottare bambini.
La Cassazione, sul punto preciso, ha detto il contrario. Ha detto che l’adozione dei minori, italiani o stranieri, non può esser riconosciuta alle persone singole. E infatti non ha accolto, ma rigettato l’istanza. È rimasto ammesso, esattamente com’era prima, un rapporto di natura diversa, che in gergo i giuristi chiamano «adozione mite» e che assomiglia a un affidamento durevole, ma senza lo status di figlio legittimo. L’analisi delle norme del nostro ordinamento è stata precisa e puntuale, e oltretutto nel solco di precedenti decisioni, una delle quali (che risale a più di cinque anni fa) è perfettamente identica nella motivazione e nel dispositivo: l’adozione è possibile da parte di coniugi uniti in matrimonio, e non da parte di single. Nulla di nuovo sotto il sole.
Ma allora, come è nato il clamore? Chi l’ha montato, e perché? È che l’ultima frase della sentenza, proprio nella coda, dice che la Convenzione di Strasburgo del 1967 lascia al legislatore nazionale la facoltà di ampliare l’adozione legittimante, se volesse ammettervi i singoli. Qualcuno ha visto in questa coda la scintilla per accendere il falò di una rivoluzione, l’auspicio, l’invito, il monito al Parlamento, l’apertura e l’esigenza e chissà che altro. Ieri sera la Cassazione ha emesso un comunicato per dire che il senso non era quello, niente sollecitazioni né pretese. Inusuale procedura di pompiere su un incendio da altri inventato?
Per la logica giuridica, è del tutto vero che la Convenzione di Strasburgo non obbliga e non vieta e lascia liberi i legislatori nazionali, e la frase in sé non fa una grinza, così. Solo che appiccicata lì, a decisione presa, a discorso finito, come una zeppa, può sembrare davvero una specie di ammiccamento, da far sbiadire poi con la logica del signor Veneranda. Ben diversamente la Cassazione del 2006, citata oggi da questa come la fonte del pensiero finale, aveva difeso proprio la libertà di divieto, perché «l’ammissibilità in via di principio del single all’adozione legittimante, oltre ad accendere non infondati dubbi di legittimità costituzionale, vanificherebbe quanto previsto dall’attuale normativa» e così «snaturando profondamente l’istituto». La frase di oggi è monca. Non è sbagliata, ma è monca, e dunque è ancora più sbagliata perché inganna.
Il legislatore "potrebbe", lo sapevamo già da prima, senza che Strasburgo s’immischi. Ma non lo farà, perché non violerà la propria Costituzione. Né tradirà l’obbedienza ai Trattati che impongono in tutte le scelte il best interest del bambino, rispetto al quale non è paragonabile il desiderio di un singolo alla infinita offerta di accoglienza di madri e padri adottivi in lista d’attesa. Da noi, la stessa legge d’impianto sull’adozione ha per titolo "Diritto del minore a una famiglia". Non dice «all’assistenza», dice alla famiglia. E famiglia è quella definita nell’articolo 29 della Costituzione. La Cassazione lo sa, e ha deciso in modo conforme, ed è quel che conta. Poteva risparmiarsi quell’uscita maldestra, tutto qui.
(Fonte: Giuseppe Anzani, Avvenire, 16/02/2011)
La Cassazione, sul punto preciso, ha detto il contrario. Ha detto che l’adozione dei minori, italiani o stranieri, non può esser riconosciuta alle persone singole. E infatti non ha accolto, ma rigettato l’istanza. È rimasto ammesso, esattamente com’era prima, un rapporto di natura diversa, che in gergo i giuristi chiamano «adozione mite» e che assomiglia a un affidamento durevole, ma senza lo status di figlio legittimo. L’analisi delle norme del nostro ordinamento è stata precisa e puntuale, e oltretutto nel solco di precedenti decisioni, una delle quali (che risale a più di cinque anni fa) è perfettamente identica nella motivazione e nel dispositivo: l’adozione è possibile da parte di coniugi uniti in matrimonio, e non da parte di single. Nulla di nuovo sotto il sole.
Ma allora, come è nato il clamore? Chi l’ha montato, e perché? È che l’ultima frase della sentenza, proprio nella coda, dice che la Convenzione di Strasburgo del 1967 lascia al legislatore nazionale la facoltà di ampliare l’adozione legittimante, se volesse ammettervi i singoli. Qualcuno ha visto in questa coda la scintilla per accendere il falò di una rivoluzione, l’auspicio, l’invito, il monito al Parlamento, l’apertura e l’esigenza e chissà che altro. Ieri sera la Cassazione ha emesso un comunicato per dire che il senso non era quello, niente sollecitazioni né pretese. Inusuale procedura di pompiere su un incendio da altri inventato?
Per la logica giuridica, è del tutto vero che la Convenzione di Strasburgo non obbliga e non vieta e lascia liberi i legislatori nazionali, e la frase in sé non fa una grinza, così. Solo che appiccicata lì, a decisione presa, a discorso finito, come una zeppa, può sembrare davvero una specie di ammiccamento, da far sbiadire poi con la logica del signor Veneranda. Ben diversamente la Cassazione del 2006, citata oggi da questa come la fonte del pensiero finale, aveva difeso proprio la libertà di divieto, perché «l’ammissibilità in via di principio del single all’adozione legittimante, oltre ad accendere non infondati dubbi di legittimità costituzionale, vanificherebbe quanto previsto dall’attuale normativa» e così «snaturando profondamente l’istituto». La frase di oggi è monca. Non è sbagliata, ma è monca, e dunque è ancora più sbagliata perché inganna.
Il legislatore "potrebbe", lo sapevamo già da prima, senza che Strasburgo s’immischi. Ma non lo farà, perché non violerà la propria Costituzione. Né tradirà l’obbedienza ai Trattati che impongono in tutte le scelte il best interest del bambino, rispetto al quale non è paragonabile il desiderio di un singolo alla infinita offerta di accoglienza di madri e padri adottivi in lista d’attesa. Da noi, la stessa legge d’impianto sull’adozione ha per titolo "Diritto del minore a una famiglia". Non dice «all’assistenza», dice alla famiglia. E famiglia è quella definita nell’articolo 29 della Costituzione. La Cassazione lo sa, e ha deciso in modo conforme, ed è quel che conta. Poteva risparmiarsi quell’uscita maldestra, tutto qui.
(Fonte: Giuseppe Anzani, Avvenire, 16/02/2011)
lunedì 14 febbraio 2011
Scandalo a Londra: il governo vuole le nozze gay in chiesa
L’attento Andrea Tornielli ci mette al corrente di come stanno andando le cose in casa inglese. Quello che ci deve far pensare è che tanti nostri politici che si autodefiniscono cattolici, non disdegnano di allearsi e di flirtare apertamente con quelle correnti politiche italiane laiche, che si prefiggono una identica “conquista sociale” anche per il nostro paese. In base a quali principi cattolici? Per la conquista di quali “diritti” religiosi ed etici? È evidente che questo doppiogiochismo da parte dei “nostri” rappresentanti (ma “nostri” di chi?, non certo dei cattolici!) mira soltanto a salvaguardare il proprio tornaconto, a mantenere ben saldo il proprio fondoschiena alla poltrona del potere! Altro che principi non negoziabili. Qui tutto è negoziabile: dalla dignità personale fino alle proprie convinzioni religiose. Se ne avevano. Ci pensino su un istante i vari Bindi, Franceschini, Prodi, Casini, Rutelli & Co. Invece di pavoneggiarsi in TV, riempiendosi la bocca di banali luoghi comuni, ergendosi a paladini del senso morale e della riaffermazione dei valori cristiani (forse che queste carnevalate per loro servono a questo?) farebbero bene a farsi un serio esame di coscienza. Ma forse non ne hanno tempo, sono troppo impegnati! Ma sentiamo Tornielli: «Le persone omosessuali del Regno Unito potranno far benedire le loro nozze nei luoghi di culto e il governo di sua maestà le riconoscerà. La notizia campeggiava ieri sulle prime pagine del Telegraph e del Sunday Times. Già nei prossimi giorni potrebbe dunque cadere il divieto attualmente in vigore, che proibisce di svolgere le cerimonie delle unioni civili tra persone omosessuali negli edifici religiosi. La riforma, secondo il piano che è stato studiato dal ministro per le Pari opportunità britannico, la liberaldemocratica Lynne Featherstone, potranno dunque contenere elementi religiosi, come inni e lettura di libri sacri, e potranno essere presiedute da preti, pastori, rabbini e altri ministri religiosi.
In Gran Bretagna le unioni civili per gay e lesbiche sono state introdotte nel 2005 e la normativa in vigore stabilisce che esse debbano avere uno svolgimento assolutamente laico, senza elementi religiosi. Anche se poi, di fronte alla legge, le coppie omosessuali unitesi civilmente hanno gli identici diritti di quelle formate da un uomo e da una donna che si sono uniti nel corso di una cerimonia religiosa, i cui effetti civili sono riconosciuti dallo Stato.
È evidente che la riforma, aprendo alla possibilità della benedizione delle nozze per le persone omosessuali, contribuirà ad assottigliare quasi del tutto le differenze tra le unioni civili e il matrimonio tradizionale. Il Suday Times spiega anche che la proposta di riforma della legge sul matrimonio potrebbe anche cambiare definitivamente la definizione legale di matrimonio come un’unione solo tra un uomo e una donna. La decisione avrebbe dunque un valore altamente simbolico. «Il governo sta esaminando quale dovrebbe essere la prossima tappa per le unioni civili, tra cui come alcune organizzazioni religiose possano consentire a coppie dello stesso sesso di registrare la loro relazione in un contesto religioso, se vogliono farlo», ha spiegato un portavoce del ministero dell’Interno. «I ministri hanno incontrato una serie di persone e organizzazioni – ha aggiunto – a tempo debito verrà fatto un annuncio».
La Chiesa d’Inghilterra, che pure negli ultimi due decenni ha introdotto molte riforme liberal, ha già reagito facendo sapere che non autorizzerà questo tipo di cerimonie nei propri edifici religiosi. «La proposta – ha detto un portavoce anglicano – potrebbe avere un impatto inatteso e portare confusione». Le comunità anglicane sono però molto variegate, ed esistono casi di benedizione delle nozze gay. Come pure casi di sacerdoti anglicani che hanno pubblicamente dichiarato di convivere con un altro uomo.
Altri gruppi religiosi cristiani, ad esempio i quacqueri e i protestanti unitari, come pure gli ebrei liberali britannici, sono invece disponibili a ospitare queste cerimonie nei rispettivi luoghi di culto.
In Italia, è di qualche mese fa la notizia della benedizione dell’unione di due lesbiche da parte del pastore valdese di Trapani e Marsala. Mentre in ambito cattolico, fin dagli anni Settanta, cerimonie simili e semi-clandestine venivano celebrate dal prete cattolico don Franco Barbero, poi dimesso dallo stato clericale a motivo di questa attività in aperto contrasto con il magistero. Nel luglio 2003 la Congregazione per la dottrina della fede, allora guidata dal cardinale Joseph Ratzinger, ha pubblicato un documento, approvato da Papa Wojtyla, per dichiarare tutta la contrarietà della Chiesa cattolica al riconoscimento delle unioni omosessuali, che «offuscano valori fondamentali che appartengono al patrimonio comune dell’umanità».
(Fonte: Andrea Tornielli, Il Giornale, 14 febbraio 2011)
In Gran Bretagna le unioni civili per gay e lesbiche sono state introdotte nel 2005 e la normativa in vigore stabilisce che esse debbano avere uno svolgimento assolutamente laico, senza elementi religiosi. Anche se poi, di fronte alla legge, le coppie omosessuali unitesi civilmente hanno gli identici diritti di quelle formate da un uomo e da una donna che si sono uniti nel corso di una cerimonia religiosa, i cui effetti civili sono riconosciuti dallo Stato.
È evidente che la riforma, aprendo alla possibilità della benedizione delle nozze per le persone omosessuali, contribuirà ad assottigliare quasi del tutto le differenze tra le unioni civili e il matrimonio tradizionale. Il Suday Times spiega anche che la proposta di riforma della legge sul matrimonio potrebbe anche cambiare definitivamente la definizione legale di matrimonio come un’unione solo tra un uomo e una donna. La decisione avrebbe dunque un valore altamente simbolico. «Il governo sta esaminando quale dovrebbe essere la prossima tappa per le unioni civili, tra cui come alcune organizzazioni religiose possano consentire a coppie dello stesso sesso di registrare la loro relazione in un contesto religioso, se vogliono farlo», ha spiegato un portavoce del ministero dell’Interno. «I ministri hanno incontrato una serie di persone e organizzazioni – ha aggiunto – a tempo debito verrà fatto un annuncio».
La Chiesa d’Inghilterra, che pure negli ultimi due decenni ha introdotto molte riforme liberal, ha già reagito facendo sapere che non autorizzerà questo tipo di cerimonie nei propri edifici religiosi. «La proposta – ha detto un portavoce anglicano – potrebbe avere un impatto inatteso e portare confusione». Le comunità anglicane sono però molto variegate, ed esistono casi di benedizione delle nozze gay. Come pure casi di sacerdoti anglicani che hanno pubblicamente dichiarato di convivere con un altro uomo.
Altri gruppi religiosi cristiani, ad esempio i quacqueri e i protestanti unitari, come pure gli ebrei liberali britannici, sono invece disponibili a ospitare queste cerimonie nei rispettivi luoghi di culto.
In Italia, è di qualche mese fa la notizia della benedizione dell’unione di due lesbiche da parte del pastore valdese di Trapani e Marsala. Mentre in ambito cattolico, fin dagli anni Settanta, cerimonie simili e semi-clandestine venivano celebrate dal prete cattolico don Franco Barbero, poi dimesso dallo stato clericale a motivo di questa attività in aperto contrasto con il magistero. Nel luglio 2003 la Congregazione per la dottrina della fede, allora guidata dal cardinale Joseph Ratzinger, ha pubblicato un documento, approvato da Papa Wojtyla, per dichiarare tutta la contrarietà della Chiesa cattolica al riconoscimento delle unioni omosessuali, che «offuscano valori fondamentali che appartengono al patrimonio comune dell’umanità».
(Fonte: Andrea Tornielli, Il Giornale, 14 febbraio 2011)
domenica 13 febbraio 2011
No, caro Tarquinio: il corteo moralista non è da cristiani
Non mi persuade, e non lo dico per polemica, l’editoriale di Avvenire uscito ieri e firmato dal suo direttore, Marco Tarquinio, che con azzardato travestimento intellettuale afferma che, se fosse una donna, oggi sarebbe in piazza. Il travestimento non sta tanto nell’immaginarsi donna, visto che qualunque scrittore di romanzi, anche non necessariamente omosessuale, deve continuamente fare i conti con la pluralità - di pensiero e di corpo - di cui tutti siamo fatti.
Quello che non persuade è che Tarquinio sarebbe in piazza solo se fosse una donna. Ma siccome non lo è, non ci andrà. Perché mai? Ci saranno Antonio Di Pietro, Nichi Vendola, Gad Lerner: perché non dovrebbe esserci anche Marco Tarquinio? Perché dovrebbe presenziare a quel momento solo se fosse una donna? Perché accontentarsi di sperare che la piazza al femminile «s’arrovelli e non s’arroventi» se poi lui non ci sarà, a dare il proprio contributo in tal senso?
Insomma, mi sembra che Tarquinio, nonostante il livello del suo discorso, cui non sono estranei accenti davvero lirici, alla fin fine non la racconti giusta, perché se la raccontasse giusta, se davvero desiderasse, come scrive lui stesso nella prima riga del suo editoriale, far prevalere l’amore sulla politichetta, allora dovrebbe mettere le mani in pasta, perché sappiamo bene che l’amore non prevale da solo sulla politichetta, e che gli auguri e i buoni propositi fanno parte, com’è noto, della lastricatura dell’inferno.
Lo dice lui stesso - e anche su questo non sono d’accordo - che «nel reality purtroppo ci siamo tutti». Se davvero crede a questa cosa, allora vada fino in fondo. In piazza. A gridare. Io invece continuo a non crederci, e in questa resistenza (che forse Tarquinio giudicherà vacua) trovo una delle poche ragioni per impegnarmi intellettualmente in questi giorni tristi nei quali ciascuno di noi sembra costretto a scegliere tra la stupida allegria del bunga bunga e la tetraggine moralista degli Eco, Saviano e Zagrebelsky.
Il reality non è, caro Tarquinio, un’entità numinosa e ultrapersonale: il reality lo fa chi lo vuole fare, non importa se laico o cattolico o addirittura vescovo. Senta cosa scriveva nel 1973, ossia trentotto anni fa, il gesuita Michel De Certeau: «Ogni dibattito che riguarda le consuetudini o la vita civile porta immancabilmente sulla scena pubblica un personaggio ecclesiastico e discorsi religiosi. Questi personaggi e questi discorsi non intervengono più come testimoni di una verità. Giocano piuttosto un ruolo teatrale. Fanno parte del repertorio della commedia dell’arte sociale».
Va da sé che il problema del degrado cui è giunta l’immagine della donna nella nostra società esiste. Ma io non sottovaluterei, come invece fa Tarquinio, il problema del «mancato passaggio del testimone» tra il vecchio movimento femminista, che annovera figure di donne eroiche, e le giovani generazioni del nostro tempo.
In quel mancato passaggio si nasconde infatti un problema che ci riguarda tutti. C’è stato un momento in cui il movimento femminista poteva affermarsi culturalmente con un protagonismo che, invece, non ha avuto, lasciandosi assorbire troppo presto dai partiti di sinistra (che erano maschilisti come tutti gli altri) oppure rinunciando a vigilare sulle pericolose derive interne, come quella della liberazione attraverso la sessualità.
Per anni abbiamo sfogliato riviste patinate di sinistra in cui l’immagine della donna a seno scoperto era un simbolo di emancipazione, così come il rifiuto della famiglia e la spregiudicatezza dei costumi in chiave di rinnovamento della società erano considerati il non plus ultra della lotta per la liberazione della donna.
Questa confusione, alla quale non seppero far fronte menti di grande valore, è il nodo irrisolto: non soltanto per l’immagine della donna, ma - metaforicamente - per la vita di noi tutti. C’è stato un momento in cui il pensiero, il pensiero come tale, ossia la facoltà di riflettere liberamente e fondatamente sulla nostra condizione, è stato assorbito in un vuoto di libertà in cui anche le migliori intelligenze si sono ridotte a comparse teatrali, ad attori, proprio come i prelati di cui parlava Michel de Certeau.
Cosa vuole che me ne importi, caro Tarquinio, di una piazza con Di Pietro, Nichi Vendola, Gae Aulenti e la Cortellesi? Che parole possiamo aspettarci di sentire? La condizione drammatica in cui tante nostre povere figlie versano senza nemmeno rendersene conto non riceverà alcuna luce da questa manifestazione, anzi: la sua inutilità potrebbe produrre soltanto un po’ di speranza in meno, un po’ di tenebra in più.
Di una cosa la prego, lei che dirige un quotidiano così importante e potenzialmente libero: lasci stare i reality e le commedie dell’arte, e la smetta con la solita solfa cattolichese del «differenziarsi partecipando», come fa lei, che approva la piazza mettendo però i puntini sulle i. Basta con i puntini sulle i. Ciascuno faccia il proprio gioco alla luce del sole.
Quanto a me, spero ogni giorno nell’aiuto di Dio, affinché le mie parole non siano vuote come quelle che dicono di combattere. Nessuno può considerarsi a priori dalla parte della verità, men che meno se è cattolico. Per questo, caro Tarquinio, la invito a guardarsi da chi, invece - e oggi sono in tanti - si ritiene tale.
(Fonte: Andrea Tornielli, Il Giornale, 13 febbraio 2011)
Quello che non persuade è che Tarquinio sarebbe in piazza solo se fosse una donna. Ma siccome non lo è, non ci andrà. Perché mai? Ci saranno Antonio Di Pietro, Nichi Vendola, Gad Lerner: perché non dovrebbe esserci anche Marco Tarquinio? Perché dovrebbe presenziare a quel momento solo se fosse una donna? Perché accontentarsi di sperare che la piazza al femminile «s’arrovelli e non s’arroventi» se poi lui non ci sarà, a dare il proprio contributo in tal senso?
Insomma, mi sembra che Tarquinio, nonostante il livello del suo discorso, cui non sono estranei accenti davvero lirici, alla fin fine non la racconti giusta, perché se la raccontasse giusta, se davvero desiderasse, come scrive lui stesso nella prima riga del suo editoriale, far prevalere l’amore sulla politichetta, allora dovrebbe mettere le mani in pasta, perché sappiamo bene che l’amore non prevale da solo sulla politichetta, e che gli auguri e i buoni propositi fanno parte, com’è noto, della lastricatura dell’inferno.
Lo dice lui stesso - e anche su questo non sono d’accordo - che «nel reality purtroppo ci siamo tutti». Se davvero crede a questa cosa, allora vada fino in fondo. In piazza. A gridare. Io invece continuo a non crederci, e in questa resistenza (che forse Tarquinio giudicherà vacua) trovo una delle poche ragioni per impegnarmi intellettualmente in questi giorni tristi nei quali ciascuno di noi sembra costretto a scegliere tra la stupida allegria del bunga bunga e la tetraggine moralista degli Eco, Saviano e Zagrebelsky.
Il reality non è, caro Tarquinio, un’entità numinosa e ultrapersonale: il reality lo fa chi lo vuole fare, non importa se laico o cattolico o addirittura vescovo. Senta cosa scriveva nel 1973, ossia trentotto anni fa, il gesuita Michel De Certeau: «Ogni dibattito che riguarda le consuetudini o la vita civile porta immancabilmente sulla scena pubblica un personaggio ecclesiastico e discorsi religiosi. Questi personaggi e questi discorsi non intervengono più come testimoni di una verità. Giocano piuttosto un ruolo teatrale. Fanno parte del repertorio della commedia dell’arte sociale».
Va da sé che il problema del degrado cui è giunta l’immagine della donna nella nostra società esiste. Ma io non sottovaluterei, come invece fa Tarquinio, il problema del «mancato passaggio del testimone» tra il vecchio movimento femminista, che annovera figure di donne eroiche, e le giovani generazioni del nostro tempo.
In quel mancato passaggio si nasconde infatti un problema che ci riguarda tutti. C’è stato un momento in cui il movimento femminista poteva affermarsi culturalmente con un protagonismo che, invece, non ha avuto, lasciandosi assorbire troppo presto dai partiti di sinistra (che erano maschilisti come tutti gli altri) oppure rinunciando a vigilare sulle pericolose derive interne, come quella della liberazione attraverso la sessualità.
Per anni abbiamo sfogliato riviste patinate di sinistra in cui l’immagine della donna a seno scoperto era un simbolo di emancipazione, così come il rifiuto della famiglia e la spregiudicatezza dei costumi in chiave di rinnovamento della società erano considerati il non plus ultra della lotta per la liberazione della donna.
Questa confusione, alla quale non seppero far fronte menti di grande valore, è il nodo irrisolto: non soltanto per l’immagine della donna, ma - metaforicamente - per la vita di noi tutti. C’è stato un momento in cui il pensiero, il pensiero come tale, ossia la facoltà di riflettere liberamente e fondatamente sulla nostra condizione, è stato assorbito in un vuoto di libertà in cui anche le migliori intelligenze si sono ridotte a comparse teatrali, ad attori, proprio come i prelati di cui parlava Michel de Certeau.
Cosa vuole che me ne importi, caro Tarquinio, di una piazza con Di Pietro, Nichi Vendola, Gae Aulenti e la Cortellesi? Che parole possiamo aspettarci di sentire? La condizione drammatica in cui tante nostre povere figlie versano senza nemmeno rendersene conto non riceverà alcuna luce da questa manifestazione, anzi: la sua inutilità potrebbe produrre soltanto un po’ di speranza in meno, un po’ di tenebra in più.
Di una cosa la prego, lei che dirige un quotidiano così importante e potenzialmente libero: lasci stare i reality e le commedie dell’arte, e la smetta con la solita solfa cattolichese del «differenziarsi partecipando», come fa lei, che approva la piazza mettendo però i puntini sulle i. Basta con i puntini sulle i. Ciascuno faccia il proprio gioco alla luce del sole.
Quanto a me, spero ogni giorno nell’aiuto di Dio, affinché le mie parole non siano vuote come quelle che dicono di combattere. Nessuno può considerarsi a priori dalla parte della verità, men che meno se è cattolico. Per questo, caro Tarquinio, la invito a guardarsi da chi, invece - e oggi sono in tanti - si ritiene tale.
(Fonte: Andrea Tornielli, Il Giornale, 13 febbraio 2011)
sabato 12 febbraio 2011
Toh! Da che pulpito!
Eccoli là, oggi, i compagni di allora. Non hanno fatto la rivoluzione, però molti hanno fatto carriera e soldi. E l’arroganza è spesso rimasta identica. Sotto la canizie e la calvizie ruggisce ancora il giovanotto fanatico di allora.
L’unica rivoluzione che hanno fatto – o meglio: che hanno servito – è stata la rivoluzione sessuale. Ad uso e consumo della società dei consumi. Oggi la panza, che ballonzola dietro la loro cravatta di facoltosi giornalisti, potenti politici, baroni universitari, ammonisce e rimprovera. E – toh! – su cosa?
Contro il sesso sfrenato (ovviamente non il proprio ma quello di Berlusconi). Pontificano accigliati contro il sesso usa e getta, tessono orazioni morali sulla dignità della donna, ci insegnano il sacro rispetto del corpo femminile, predicano il rigore morale. In certi casi dall’alto di una vita, di una generazione, che ha conosciuto – dopo l’anarchia sessuale della giovinezza – il susseguirsi di matrimoni e relazioni…
Lo spettacolo è sorprendente. Forse è perfino occasione di riflessione. Mi sono trattenuto finora dallo scrivere sulle miserie della cronaca e ho risposto no ad alcuni talk show politici che volevano invitarmi a “giudicare da cattolico” le “notti di Arcore”.
Tuttavia da settimane vedo e sento alcuni ex rivoluzionari, con aria ispirata e virgineo candore, alzare il loro alto grido contro chi profana con immagini discinte “il corpo delle donne”, contro chi ha costumi sessuali sfrenati e – incredulo – mi stropiccio gli occhi.
Non solo ricordando le stagioni giovanili. Mi chiedo: ma su quali giornali hanno scritto finora? Su quali settimanali? Cos’avevano in copertina? Donne col burka? E quali libri hanno lanciato? Quali film e quali registi hanno esaltato? Quali costumi hanno praticato e legittimato? Quale morale hanno affermato?
D’improvviso sembra siano diventati tutti castigatissimi censori. Era inevitabile che una tale schiera di puritani si trovasse a fianco Oscar Luigi Scalfaro essendo, lui sì, un bigotto della prima ora. Ricordate l’episodio che lo ha reso “immortale”? È la scenata fatta negli anni Cinquanta a una signora, casualmente intravista al ristorante, rea di avere un vestito scollato. Alla manifestazione “per la dignità delle donne”, dunque, parteciperà questo Scalfaro.
E leggo su Repubblica che “parteciperà anche Nichi Vendola: Un’altra storia italiana è possibile, c’è un’Italia migliore per cui le donne non sono carne da macello, corpi da mercimonio, protagoniste solo in un establishment da escort”.
Sì, caro Nichi (nei panni del teologo morale), questa Italia esiste. Ma sei sicuro che sia proprio quella che voi volete da decenni?
È meraviglioso lo slogan di questa sinistra: “Sono uomo e dico basta”. Ma basta a cosa? Alla famosa “libertà sessuale”? Allo slogan “il corpo è mio e lo gestisco io”? A questa sessuomania di massa?
Parliamone. A maggio scorso partecipai a una puntata di “Annozero” su preti e pedofilia. Fu molto interessante, ma ricordo che quando tentai di ampliare l’orizzonte proponendo di analizzare la (spesso patologica) sessuomania di massa che caratterizza i nostri costumi e la nostra cultura, Santoro troncò il discorso passando ad altro. Non lo ritenne interessante. Eppure è questo il clima irrespirabile.
Sono un padre, ho figlie giovani e mi fa schifo una società in cui delle giovani donne – in qualunque ambiente ! – sono discriminate se non stanno al gioco o non accettano certi compromessi. Mi fa schifo una società dove delle ragazze o dei ragazzi sono marchiati come cretini se dicono di credere nella castità o nella verginità.
O dove sei considerato un soggetto pericoloso se affermi che il matrimonio è solo tra uomo e donna, se ti ostini ad affermare che il genere non è un’opinione (che la natura – essere maschi e femmine – non è opinabile), se consideri il divorzio un male, se condanni l’aborto, la pillola del giorno dopo e se osi mettere in discussione il “sacro preservativo” venerato dalla cultura dominante.
C’è chi cerca di strattonare i cristiani per strappare loro qualche scomunica del peccatore Berlusconi. Gad Lerner ha amplificato la voce della suorina che ha tuonato “Non ti è lecito!” contro il Cav come il Battista contro Erode.
Bene. Con quella suorina però – a proposito di Erode – tuoniamo “non ti è lecito” pure contro una cultura dominante che a livello planetario ha legalizzato la pratica dell’aborto arrivando in cinquant’anni a totalizzarne un miliardo, una cultura che abbassa sempre di più il livello di difesa della vita umana.
E vorrei ricordare a quella suorina che Giovanni Battista tuonava soprattutto contro l’ipocrisia di scribi e farisei che chiamava: “Razza di vipere!”.
Anche Gesù tuonerà contro di loro. Lui mostra compassione per i peccatori, i pubblicani e le prostitute, ma non per i “sepolcri imbiancati” che puntano il dito sul peccato altrui: “essi all’esterno sono belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume”.
E’ di tutti noi che parla. Perché di un gran peccatore, come Zaccheo, Gesù può fare un santo, anche un grande santo come Paolo o Agostino. Ma di chi presume di giudicare gli altri, dei sepolcri imbiancati? Del resto loro saranno col dito puntato contro di Gesù fin sotto la croce.
Dicevamo della manifestazione per la dignità delle donne. Difenderanno anche la dignità calpestata delle donne nel continente islamico?
E la dignità delle donne cristiane in Pakistan, la dignità di Asia Bibi, giovane madre condannata a morte, tuttora detenuta e sottoposta a ogni umiliazione, perché cristiana?
E’ il cristianesimo che ha imposto di riconoscere alle donne la loro dignità.
Lo stesso Roberto Benigni, commentando la “preghiera alla Vergine” di Dante, ebbe a dirlo: “è da quando Dio stesso ha chiesto a Maria il suo sì o il suo no che le donne hanno acquisito il diritto di dire sì o no”.
Proprio ieri si festeggiava sant’Agata, vergine e martire. La storia di questa giovane del III secolo ci mostra l’unica vera rivoluzione che ha ridato dignità alle donne. Non certo la cultura di Repubblica e dell’Espresso o quella comunista (né, ovviamente, la cultura televisiva). Ma solo Gesù Cristo.
(Fonte: Antonio Socci, sintesi da Libero in La Cittadella, 8 febbraio 2011)
L’unica rivoluzione che hanno fatto – o meglio: che hanno servito – è stata la rivoluzione sessuale. Ad uso e consumo della società dei consumi. Oggi la panza, che ballonzola dietro la loro cravatta di facoltosi giornalisti, potenti politici, baroni universitari, ammonisce e rimprovera. E – toh! – su cosa?
Contro il sesso sfrenato (ovviamente non il proprio ma quello di Berlusconi). Pontificano accigliati contro il sesso usa e getta, tessono orazioni morali sulla dignità della donna, ci insegnano il sacro rispetto del corpo femminile, predicano il rigore morale. In certi casi dall’alto di una vita, di una generazione, che ha conosciuto – dopo l’anarchia sessuale della giovinezza – il susseguirsi di matrimoni e relazioni…
Lo spettacolo è sorprendente. Forse è perfino occasione di riflessione. Mi sono trattenuto finora dallo scrivere sulle miserie della cronaca e ho risposto no ad alcuni talk show politici che volevano invitarmi a “giudicare da cattolico” le “notti di Arcore”.
Tuttavia da settimane vedo e sento alcuni ex rivoluzionari, con aria ispirata e virgineo candore, alzare il loro alto grido contro chi profana con immagini discinte “il corpo delle donne”, contro chi ha costumi sessuali sfrenati e – incredulo – mi stropiccio gli occhi.
Non solo ricordando le stagioni giovanili. Mi chiedo: ma su quali giornali hanno scritto finora? Su quali settimanali? Cos’avevano in copertina? Donne col burka? E quali libri hanno lanciato? Quali film e quali registi hanno esaltato? Quali costumi hanno praticato e legittimato? Quale morale hanno affermato?
D’improvviso sembra siano diventati tutti castigatissimi censori. Era inevitabile che una tale schiera di puritani si trovasse a fianco Oscar Luigi Scalfaro essendo, lui sì, un bigotto della prima ora. Ricordate l’episodio che lo ha reso “immortale”? È la scenata fatta negli anni Cinquanta a una signora, casualmente intravista al ristorante, rea di avere un vestito scollato. Alla manifestazione “per la dignità delle donne”, dunque, parteciperà questo Scalfaro.
E leggo su Repubblica che “parteciperà anche Nichi Vendola: Un’altra storia italiana è possibile, c’è un’Italia migliore per cui le donne non sono carne da macello, corpi da mercimonio, protagoniste solo in un establishment da escort”.
Sì, caro Nichi (nei panni del teologo morale), questa Italia esiste. Ma sei sicuro che sia proprio quella che voi volete da decenni?
È meraviglioso lo slogan di questa sinistra: “Sono uomo e dico basta”. Ma basta a cosa? Alla famosa “libertà sessuale”? Allo slogan “il corpo è mio e lo gestisco io”? A questa sessuomania di massa?
Parliamone. A maggio scorso partecipai a una puntata di “Annozero” su preti e pedofilia. Fu molto interessante, ma ricordo che quando tentai di ampliare l’orizzonte proponendo di analizzare la (spesso patologica) sessuomania di massa che caratterizza i nostri costumi e la nostra cultura, Santoro troncò il discorso passando ad altro. Non lo ritenne interessante. Eppure è questo il clima irrespirabile.
Sono un padre, ho figlie giovani e mi fa schifo una società in cui delle giovani donne – in qualunque ambiente ! – sono discriminate se non stanno al gioco o non accettano certi compromessi. Mi fa schifo una società dove delle ragazze o dei ragazzi sono marchiati come cretini se dicono di credere nella castità o nella verginità.
O dove sei considerato un soggetto pericoloso se affermi che il matrimonio è solo tra uomo e donna, se ti ostini ad affermare che il genere non è un’opinione (che la natura – essere maschi e femmine – non è opinabile), se consideri il divorzio un male, se condanni l’aborto, la pillola del giorno dopo e se osi mettere in discussione il “sacro preservativo” venerato dalla cultura dominante.
C’è chi cerca di strattonare i cristiani per strappare loro qualche scomunica del peccatore Berlusconi. Gad Lerner ha amplificato la voce della suorina che ha tuonato “Non ti è lecito!” contro il Cav come il Battista contro Erode.
Bene. Con quella suorina però – a proposito di Erode – tuoniamo “non ti è lecito” pure contro una cultura dominante che a livello planetario ha legalizzato la pratica dell’aborto arrivando in cinquant’anni a totalizzarne un miliardo, una cultura che abbassa sempre di più il livello di difesa della vita umana.
E vorrei ricordare a quella suorina che Giovanni Battista tuonava soprattutto contro l’ipocrisia di scribi e farisei che chiamava: “Razza di vipere!”.
Anche Gesù tuonerà contro di loro. Lui mostra compassione per i peccatori, i pubblicani e le prostitute, ma non per i “sepolcri imbiancati” che puntano il dito sul peccato altrui: “essi all’esterno sono belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume”.
E’ di tutti noi che parla. Perché di un gran peccatore, come Zaccheo, Gesù può fare un santo, anche un grande santo come Paolo o Agostino. Ma di chi presume di giudicare gli altri, dei sepolcri imbiancati? Del resto loro saranno col dito puntato contro di Gesù fin sotto la croce.
Dicevamo della manifestazione per la dignità delle donne. Difenderanno anche la dignità calpestata delle donne nel continente islamico?
E la dignità delle donne cristiane in Pakistan, la dignità di Asia Bibi, giovane madre condannata a morte, tuttora detenuta e sottoposta a ogni umiliazione, perché cristiana?
E’ il cristianesimo che ha imposto di riconoscere alle donne la loro dignità.
Lo stesso Roberto Benigni, commentando la “preghiera alla Vergine” di Dante, ebbe a dirlo: “è da quando Dio stesso ha chiesto a Maria il suo sì o il suo no che le donne hanno acquisito il diritto di dire sì o no”.
Proprio ieri si festeggiava sant’Agata, vergine e martire. La storia di questa giovane del III secolo ci mostra l’unica vera rivoluzione che ha ridato dignità alle donne. Non certo la cultura di Repubblica e dell’Espresso o quella comunista (né, ovviamente, la cultura televisiva). Ma solo Gesù Cristo.
(Fonte: Antonio Socci, sintesi da Libero in La Cittadella, 8 febbraio 2011)
La protesta dei 143 teologi e la fede nell'Occidente secolarizzato
Era dal tempo della dichiarazione di Colonia, cioè da più di vent’anni, che un cartello così numeroso di teologi non si mettevano insieme per produrre un documento contro il centralismo romano chiedendo riforme per la Chiesa.
Centoquarantatrè professori delle facoltà teologiche tedesche, svizzere e austriache hanno reso noto nei giorni scorsi un testo intitolato «Chiesa 2011 – una svolta necessaria». Che cosa chiedono? Ovviamente «profonde riforme», come ad esempio l’abolizione celibato obbligatorio per i preti di rito latino e dunque l’apertura all’ordinazione di uomini sposati, l’adozione di «strutture più sinodali a tutti i livelli della Chiesa», il coinvolgimento dei fedeli processo selezione dei parroci e dei vescovi, l’apertura alle donne «nel ministero della Chiesa», l’accoglienza delle coppie gay e dei divorziati risposati.
I firmatari ritengono che solo aprendosi a queste riforme, per l’appunto «una svolta necessaria», la Chiesa potrà riprendere vigore e tornare a parlare agli uomini e alle donne del ventunesimo secolo. L’elenco non appare affatto sorprendente. Quelle che i teologi firmatari dell’appello ritengono essere svolte necessarie sono infatti proposte arcinote e dibattute da decenni.
Alcune di queste appaiono molto autoreferenziali e clericali. È vero, ad esempio, che il calo delle vocazioni comincia a essere un problema anche in Occidente, ed è vero che proprio in Germania e Austria ci sono molti casi di preti che convivono con donne e non lo nascondono, ma davvero l’abolizione della regola del celibato è la risposta a questa situazione? Ancora, davvero la risposta alla crisi della fede è l’apertura alle donne nel ministero della Chiesa? Davvero pensiamo che un cambiamento nella dottrina sull’omosessualità porterebbe a riempire nuovamente le chiese semivuote?
Basta guardare a ciò che è avvenuto nella Chiesa anglicana per rendersi conto che la risposta alla secolarizzazione non può essere un’altra secolarizzazione, come dimostra la costante emorragia di fedeli nonostante le svolte sempre più liberal (dal sacerdozio fino all’episcopato femminile e all’apertura ai preti gay conviventi). Ciò che colpisce nell’iniziativa dei 143 teologi è il fatto che ciclicamente si riaprano questioni senza prendere in considerazione il fatto che su queste questioni il magistero ha riflettuto ed è intervenuto più volte.
Eppure, nonostante pronunciamenti, encicliche, lettere pastorali, interventi papali, è come se ogni volta si ripartisse da zero. Dei temi proposti nel documento c’è uno soltanto che ha a davvero a che fare con l’esperienza di un numero purtroppo sempre maggiore di persone, ed è quello riguardante l’atteggiamento nei confronti dei divorziati risposati e il problema dell’accesso al sacramento dell’eucaristia.
Benedetto XVI, nell’omelia pronunciata sabato per l’ordinazione di cinque nuovi vescovi, ha detto: «Il pastore non deve essere una canna di palude che si piega secondo il soffio del vento, un servo dello spirito del tempo. L’essere intrepido, il coraggio di opporsi alle correnti del momento appartiene in modo essenziale al compito del pastore. Non deve essere una canna di palude, bensì — secondo l’immagine del Salmo primo — deve essere come un albero che ha radici profonde nelle quali sta saldo e ben fondato. Ciò non ha niente a che fare con la rigidità o l’inflessibilità. Solo dove c’è stabilità c’è anche crescita».
Certo, il Papa parlava dei vescovi, non dei teologi. Ma queste parole offrono uno spunto di riflessione per tutti. Siamo davvero sicuri che la «svolta necessaria» per rinvigorire la fede nella società secolarizzata e scristianizzata debba avere a che fare con ministeri ecclesiali, disciplina del celibato, etc.?
L’11 maggio 2010, a Lisbona, il Papa disse: «Si è messa una fiducia forse eccessiva nelle strutture e nei programmi ecclesiali, nella distribuzione di poteri e di funzioni; ma che cosa accadrà se il sale diventa insipido?».
Due giorni dopo, a Fatima, aggiunse: «Quando, nel sentire di molti, la fede cattolica non è più patrimonio comune della società e, spesso, si vede come un seme insidiato e offuscato da “divinità” e signori di questo mondo, molto difficilmente essa potrà toccare i cuori mediante semplici discorsi o richiami morali, e meno ancora attraverso generici richiami ai valori cristiani… Ciò che affascina è soprattutto l’incontro con persone credenti che, mediante la loro fede, attirano verso la grazia di Cristo, rendendo testimonianza di Lui».
(Fonte: Andrea Tornielli, La Bussola quotidiana, 7 febbraio 2011)
Centoquarantatrè professori delle facoltà teologiche tedesche, svizzere e austriache hanno reso noto nei giorni scorsi un testo intitolato «Chiesa 2011 – una svolta necessaria». Che cosa chiedono? Ovviamente «profonde riforme», come ad esempio l’abolizione celibato obbligatorio per i preti di rito latino e dunque l’apertura all’ordinazione di uomini sposati, l’adozione di «strutture più sinodali a tutti i livelli della Chiesa», il coinvolgimento dei fedeli processo selezione dei parroci e dei vescovi, l’apertura alle donne «nel ministero della Chiesa», l’accoglienza delle coppie gay e dei divorziati risposati.
I firmatari ritengono che solo aprendosi a queste riforme, per l’appunto «una svolta necessaria», la Chiesa potrà riprendere vigore e tornare a parlare agli uomini e alle donne del ventunesimo secolo. L’elenco non appare affatto sorprendente. Quelle che i teologi firmatari dell’appello ritengono essere svolte necessarie sono infatti proposte arcinote e dibattute da decenni.
Alcune di queste appaiono molto autoreferenziali e clericali. È vero, ad esempio, che il calo delle vocazioni comincia a essere un problema anche in Occidente, ed è vero che proprio in Germania e Austria ci sono molti casi di preti che convivono con donne e non lo nascondono, ma davvero l’abolizione della regola del celibato è la risposta a questa situazione? Ancora, davvero la risposta alla crisi della fede è l’apertura alle donne nel ministero della Chiesa? Davvero pensiamo che un cambiamento nella dottrina sull’omosessualità porterebbe a riempire nuovamente le chiese semivuote?
Basta guardare a ciò che è avvenuto nella Chiesa anglicana per rendersi conto che la risposta alla secolarizzazione non può essere un’altra secolarizzazione, come dimostra la costante emorragia di fedeli nonostante le svolte sempre più liberal (dal sacerdozio fino all’episcopato femminile e all’apertura ai preti gay conviventi). Ciò che colpisce nell’iniziativa dei 143 teologi è il fatto che ciclicamente si riaprano questioni senza prendere in considerazione il fatto che su queste questioni il magistero ha riflettuto ed è intervenuto più volte.
Eppure, nonostante pronunciamenti, encicliche, lettere pastorali, interventi papali, è come se ogni volta si ripartisse da zero. Dei temi proposti nel documento c’è uno soltanto che ha a davvero a che fare con l’esperienza di un numero purtroppo sempre maggiore di persone, ed è quello riguardante l’atteggiamento nei confronti dei divorziati risposati e il problema dell’accesso al sacramento dell’eucaristia.
Benedetto XVI, nell’omelia pronunciata sabato per l’ordinazione di cinque nuovi vescovi, ha detto: «Il pastore non deve essere una canna di palude che si piega secondo il soffio del vento, un servo dello spirito del tempo. L’essere intrepido, il coraggio di opporsi alle correnti del momento appartiene in modo essenziale al compito del pastore. Non deve essere una canna di palude, bensì — secondo l’immagine del Salmo primo — deve essere come un albero che ha radici profonde nelle quali sta saldo e ben fondato. Ciò non ha niente a che fare con la rigidità o l’inflessibilità. Solo dove c’è stabilità c’è anche crescita».
Certo, il Papa parlava dei vescovi, non dei teologi. Ma queste parole offrono uno spunto di riflessione per tutti. Siamo davvero sicuri che la «svolta necessaria» per rinvigorire la fede nella società secolarizzata e scristianizzata debba avere a che fare con ministeri ecclesiali, disciplina del celibato, etc.?
L’11 maggio 2010, a Lisbona, il Papa disse: «Si è messa una fiducia forse eccessiva nelle strutture e nei programmi ecclesiali, nella distribuzione di poteri e di funzioni; ma che cosa accadrà se il sale diventa insipido?».
Due giorni dopo, a Fatima, aggiunse: «Quando, nel sentire di molti, la fede cattolica non è più patrimonio comune della società e, spesso, si vede come un seme insidiato e offuscato da “divinità” e signori di questo mondo, molto difficilmente essa potrà toccare i cuori mediante semplici discorsi o richiami morali, e meno ancora attraverso generici richiami ai valori cristiani… Ciò che affascina è soprattutto l’incontro con persone credenti che, mediante la loro fede, attirano verso la grazia di Cristo, rendendo testimonianza di Lui».
(Fonte: Andrea Tornielli, La Bussola quotidiana, 7 febbraio 2011)
La doppia morale dei Paolini
Leggevamo interessati Pasolini quando scriveva contro l’aborto, e d’altra parte al Meeting di Rimini ascoltavamo Testori: ci impressionavano le parole e la profondità del pensiero, e le loro note preferenze sessuali ci lasciavano del tutto indifferenti.
E’ solo nel merito, quindi, che discutiamo sulla scelta di inserire uno scritto di Nichi Vendola fra le riflessioni proposte ai sacerdoti per le omelie quaresimali di quest’anno, in un Sussidio liturgico-pastorale edito dai Paolini. Fermo restando che il paragone con due grandi della cultura italiana non giova certo al governatore pugliese, qualche dubbio nasce piuttosto scorrendo il pezzo scelto (una lettera di Nichi al defunto vescovo conterraneo don Tonino Bello, scritta e pubblicata un anno fa): per esempio quando Vendola dichiara a don Tonino di sentire una “nostalgia struggente della tua cosmogonia”, o quando gli chiede: “Dov’è la Pasqua della responsabilità sociale e della convivialità culturale?”, o ancora quando accusa: “C’è chi vorrebbe metter su un Ku Klux Klan in versione padana”. Riesce francamente difficile prenderli come spunti chiarificatori per una riflessione profonda sul mistero della resurrezione di Nostro Signore, ma tant’è. Il punto però è un altro.
La lettera di Vendola è accompagnata da un box, inserito dai curatori del testo, titolato “La sapienza dei padri”, con un episodio della vita di un grande monaco del IV secolo, Bessarione, che “Capitato in una chiesa durante la predica gli toccò sentire il presbitero scacciare un peccatore, giudicato indegno di stare tra la gente per bene. Bessarione non mosse ciglio, si alzò e uscì con lui dicendo: ‘Anch’io sono un peccatore’”.
A questo punto qualche domanda sorge spontanea a noi tutti, sinceri ed entusiasti aderenti al fan club del monaco Bessarione: ci chiediamo se il pezzo non sia un’enorme excusatio non petita, un incredibile autogol insomma, di chi ha scelto il brano per le meditazioni pasquali. Se così fosse, se la citazione del monaco fosse veramente un altolà a chi potrebbe storcere il naso per le meditazioni di Nichi Vendola messe accanto a quelle di madre Teresa di Calcutta, allora ci chiediamo pure se i paolini editori del Sussidio liturgico siano gli stessi editori di Famiglia Cristiana, la rivista che un anno fa meditava sul tema: “La Comunione a Berlusconi: è giusto?”; quella stessa che, sempre riguardo al presidente del Consiglio, ha posto ai lettori il problema del suo “stato di malattia, qualcosa di incontrollabile”. Insomma: due peccatori, due misure? E Bessarione sarebbe d’accordo? Almeno per la quaresima qualcuno dovrebbe meditarci su. A meno che non sia l’inizio di un ripensamento paolino, che ci porterà l’anno prossimo a meditare su un pensiero del Cav.
(Fonte: Assuntina Morresi, Il Foglio, 2 febbraio 2011)
E’ solo nel merito, quindi, che discutiamo sulla scelta di inserire uno scritto di Nichi Vendola fra le riflessioni proposte ai sacerdoti per le omelie quaresimali di quest’anno, in un Sussidio liturgico-pastorale edito dai Paolini. Fermo restando che il paragone con due grandi della cultura italiana non giova certo al governatore pugliese, qualche dubbio nasce piuttosto scorrendo il pezzo scelto (una lettera di Nichi al defunto vescovo conterraneo don Tonino Bello, scritta e pubblicata un anno fa): per esempio quando Vendola dichiara a don Tonino di sentire una “nostalgia struggente della tua cosmogonia”, o quando gli chiede: “Dov’è la Pasqua della responsabilità sociale e della convivialità culturale?”, o ancora quando accusa: “C’è chi vorrebbe metter su un Ku Klux Klan in versione padana”. Riesce francamente difficile prenderli come spunti chiarificatori per una riflessione profonda sul mistero della resurrezione di Nostro Signore, ma tant’è. Il punto però è un altro.
La lettera di Vendola è accompagnata da un box, inserito dai curatori del testo, titolato “La sapienza dei padri”, con un episodio della vita di un grande monaco del IV secolo, Bessarione, che “Capitato in una chiesa durante la predica gli toccò sentire il presbitero scacciare un peccatore, giudicato indegno di stare tra la gente per bene. Bessarione non mosse ciglio, si alzò e uscì con lui dicendo: ‘Anch’io sono un peccatore’”.
A questo punto qualche domanda sorge spontanea a noi tutti, sinceri ed entusiasti aderenti al fan club del monaco Bessarione: ci chiediamo se il pezzo non sia un’enorme excusatio non petita, un incredibile autogol insomma, di chi ha scelto il brano per le meditazioni pasquali. Se così fosse, se la citazione del monaco fosse veramente un altolà a chi potrebbe storcere il naso per le meditazioni di Nichi Vendola messe accanto a quelle di madre Teresa di Calcutta, allora ci chiediamo pure se i paolini editori del Sussidio liturgico siano gli stessi editori di Famiglia Cristiana, la rivista che un anno fa meditava sul tema: “La Comunione a Berlusconi: è giusto?”; quella stessa che, sempre riguardo al presidente del Consiglio, ha posto ai lettori il problema del suo “stato di malattia, qualcosa di incontrollabile”. Insomma: due peccatori, due misure? E Bessarione sarebbe d’accordo? Almeno per la quaresima qualcuno dovrebbe meditarci su. A meno che non sia l’inizio di un ripensamento paolino, che ci porterà l’anno prossimo a meditare su un pensiero del Cav.
(Fonte: Assuntina Morresi, Il Foglio, 2 febbraio 2011)
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