venerdì 17 marzo 2017

Il Movimento Liturgico come problema e come”chance”

La questione in gioco è molto più di sostanza di quanto appaia. In una stagione, infatti, in cui il magistero gerarchico è incerto o latita, sono proprio i testi liturgici a tramandare integra la grande tradizione della Chiesa. E quindi è sulla fedeltà a questi testi che si può attestare una “resistenza”. È ciò che scrive il professor Pietro De Marco al termine di questa sua nota sulla vicenda liturgica postconciliare. La nota sintetizza una sua molto più ampia relazione tenuta alla fine di agosto del 2016 ad Assisi, all’annuale settimana di studio dell’Associazione Professori di Liturgia, i cui atti sono in corso di pubblicazione (Sandro Magister).

1. ROMA FU ATTENTA, e fu la sua grandezza in decenni difficilissimi, nella tutela del Concilio autentico, non del Concilio-progetto dell’intelligencija teologica.
Già nel 1965, a settembre, sulla fine del Vaticano II, Paolo VI si sentì in dovere di palesare la sua “anxietas” sulla dottrina e il culto dell’eucaristia. Nell’enciclica “Mysterium fidei” lamentava che “tra quelli che parlano e scrivono di questo sacrosanto mistero, ci sono alcuni che circa le messe private, il dogma della transustanziazione e il culto eucaristico, divulgano opinioni che turbano l’anima dei fedeli, come se a chiunque fosse lecito porre in oblio la dottrina già definitiva della Chiesa”.
Meno di tre anni dopo, nel maggio 1968, in occasione della pubblicazione delle nuove preghiere eucaristiche, era lo stesso “Consilium” preposto alla riforma liturgica a cedere al diffuso revisionismo teologico, nella circolare firmata dal suo presidente cardinale Benno Gut e dal segretario Annibale Bugnini, in cui, nello spiegare la teologia dell’anafora eucaristica, si leggeva (paragrafo 2, punti 2-3) :
“L’anafora è la narrazione dei gesti e delle parole pronunziate nell’istituzione dell’eucaristia.  Ma [poiché] il racconto riattualizza ciò che Gesù fece […] si rivolge al Padre la preghiera di supplica: che renda efficace questa narrazione, santificando il pane e il vino, cioè, praticamente, facendone il corpo e il sangue di Cristo”.
Difficilmente si poteva raggiungere, in un documento ufficiale, un grado così basso di teologia eucaristica a vantaggio dei luoghi comuni del memoriale, delle mode narrativistiche in esegesi, nonché di una coperta negazione del valore consacratorio della formula dell’Istituzione, a vantaggio dell’epiclesi che la precede.
Ma l’apice antiliturgico sarà  l’istruzione “Comme le prévoit”  del gennaio 1969 sui criteri di traduzione del messale;  arrivava addirittura a premettere (n. 5) che il testo liturgico “è un mezzo di comunicazione orale. È anzitutto un segno sensibile con cui gli uomini che pregano comunicano tra loro”.
Nonostante le espressioni correttive (“Ma per i credenti…”), la formula equivoca su cosa sia rito e i “principi generali” dell’istruzione, di conseguenza, riconducono la teologia della liturgia sotto le regole di una filosofia pragmatica del linguaggio (chi parla, come si parla, a chi si parla).
Si eleva a sistema, stravolgendola, la prassi tutta pastorale della cosiddetta “messa dialogata”: già essa un’espressione fuorviante, poiché non di “dialogo” sacerdote-popolo si tratta, ma di “actio liturgica” essenzialmente rivolta a Dio.
La stessa celebrazione “versus populum”, senza fondamento storico né teologico, appartiene a questo clima, con gli effetti “disorientanti” che ne derivano. Infatti l’asse cultuale-misterico, secondo cui e su cui Cristo celebra rivolto al Padre, e il sacerdote e il popolo con lui, è annullato.
2. VALE LA PENA di guardare da vicino la situazione dell’intelletto teologico alla fine degli anni Sessanta e la sua influenza sulla riforma liturgica.
Alla base stava, palesemente, un disequilibrio tra l’”in sé” rituale-misterico e sacramentale, promosso dalle menti migliori del movimento liturgico, da un lato, e l’istanza della partecipazione dei fedeli dall’altro, disequilibrio che indebolisce già la costituzione “Sacrosanctum  Concilium”.
Ma in quegli anni l’intelligencija cattolica sottintendeva, quasi mai esplicitandolo, molto di più.
Sottintendeva che la teologia doveva essere inverata dall’azione, per analogia con la cosiddetta filosofia della prassi, da Marx a Dewey. La liturgia era, per molti del movimento liturgico, questa azione. Si pensa il rito come qualcosa che genera la propria verità ed efficacia da se stesso, in quanto rito “umano”.
Ad aggravare e disorientare il quadro del postconcilio interveniva dunque  il fatto che la “actuosa participatio” dei fedeli al rito portava con sé il carico ideologico degli anni Sessanta-Settanta. Una dinamica antropocentrica e secolaristica (favorita dal prestigio di Karl Rahner, ma autonomamente coltivata  in ambito francofono) prevaleva sulla concezione rituale-misterica che santifica e trascende l’uomo e sola può fare della liturgia “la fonte e il culmine” della vita cristiana.
Era il collasso della grande teologia liturgica degli anni Trenta, di Odo Casel, di Dietrich von Hildebrand, di Romano Guardini.
Caduto il clima ideologico dopo gli anni Settanta, la sensibilità ecclesiale e la teologia, nel suo complesso, dalla fondamentale alla pastorale, hanno compiuto una rotazione dalla prassi all’ermeneutica, dal realismo delle concezioni materialistiche del Vangelo alla teologia negativa, dalla militanza politica alla “autenticità relazionale”.
La pastorale liturgica si è adattata facilmente. La liturgistica ha lavorato sia autonomamente che di conserva con le teologie, ma la ricerca ora filosofico-linguistica ora antropologica ora, ma molto meno, neo-personalistica, non poteva evitare la china: la perdita di realtà del momento sacramentale e del dato soprannaturale come tali.
L’“engagement” pedagogico-pastorale e l’indebolimento di cristologia, ecclesiologia e diritto canonico oggi permettono che si faccia ovunque perno sulla “spontaneità” formativa e in certa misura sull’autofondazione del cristiano e della comunità.  Così il vissuto della messa è divenuto “partecipazione” socializzante a un incontro “festoso” più che festivo. La liturgia è assimilata ai giochi di comunità.
E appartiene a questo quadro il frequente squallore delle “nuove chiese”, non pensate come “casa di Dio” ma come spazi a destinazione variabile, quindi senza significato proprio; dispendiose vacuità in cui l’”actio liturgica” è, alla lettera, spaesata e disorientata.
3. COME ALLORA SI PUÒ RECUPERARE, controcorrente,  l’intelligenza della liturgia, umano-divina, regale e cosmica, in un’epoca in cui cristologia e mariologia sono “umanizzate” su paradigmi emozionali, relazionali, compassionevoli, impermeabili alla gloria e alla vittoria della Croce? In un’epoca di nichilismo benevolente e di “falsificazione del bene”.
Lo si può.
Infatti, la liturgia e la pedagogia liturgica possono ancora trasmettere, se lo vogliono, un corpo integro di rivelazione divina, quello contenuto nella “lex orandi” correttamente intesa, quindi rigorosamente tradotta, non secondo “Comme le prévoit”  ma secondo “Liturgiam authenticam” (2001) che valutava realisticamente oltre un trentennio di fatti e di errori.
La “lex orandi” non è solo una formula. È un corpo integro di dottrina, è Tradizione che oggi resta netta proprio nei testi liturgici, molto più che nelle teologie e nello stesso magistero gerarchico recente. Non si tratterà di animare assemblee dopolavoristiche o estatiche, o di realizzare delle nuove teatralità, ma di far perno sulla resistenza veritativa della Rivelazione depositata nei messali, nei breviari, e proclamata e attuata nella celebrazione responsabile.
La tensione  tra l’”in sé” del rito e la sua espressione “partecipata” esige delle soluzioni teologiche rigorose, da cui soltanto possono discendere con sicurezza le soluzioni pratico-pastorali. Non viceversa.  Da qui due avvertenze:
1. senza fede certa nel “mysterion” come “substantia” e nel simbolo in quanto epifania che apre intellettualmente e sensibilmente – con i sensi spirituali – all’Oltre come trascendenza, ogni sfida teologica tipo “dall’etico al simbolico” è già perduta in partenza;
2. non ci si affidi ad alcuna speranza di nuova generazione della verità cristiana dal rito inteso come immanenza creatrice, senza “logos”.  Il “logos” divino sussiste per sé, prima e dopo l’”actio”.  La liturgia sarebbe così un’altra vittima, dopo la catechesi, della deriva “attivistica” della teologia pratica.
Il movimento liturgico, dunque, come problema e come “chance”.

(Fonte: Pietro De Marco, Settimo Cielo, 15 marzo 2017)



Antiebraismo cattolico e papale. L’allarme del rabbino Laras

“Israele, popolo di un Dio geloso. Coerenze e ambiguità di una religione elitaria”. Già da questo titolo di convegno tira un’aria niente affatto amichevole per gli ebrei e l’ebraismo.
Ma se si va a leggere il testo di presentazione si trova anche di peggio: “Il pensarsi come popolo appartenente in modo elitario a una divinità unica ha determinato un senso di superiorità della propria religione”. Da cui “intolleranze”, “fondamentalismi”, “assolutismi” non solo verso gli altri popoli ma anche autodistruttivi, poiché “ci sarà da chiedersi in che misura la gelosia divina incenerisca o meno la libertà di scelta dell’eletto”.
Eppure questi sono il titolo e la presentazione di un convegno che l’Associazione Biblica Italiana ha messo in agenda dall’11 al 16 settembre a Venezia.
Gli statuti dell’ABI sono approvati dalla conferenza episcopale italiana e di essa fanno parte circa 800 professori e studiosi delle Sacre Scritture, cattolici e non. Tra i relatori del convegno di settembre figura il numero uno dei biblisti della Pontificia Università Gregoriana, il gesuita belga Jean-Louis Ska, specialista del Pentateuco, cioè in ebraico la Torah, i primi cinque libri della Bibbia. Non vi è stato chiamato a parlare, invece, nessuno studioso ebreo.
I rabbini però non potevano stare zitti. E si sono fatti vivi con una lettera all’ABI firmata da uno dei loro esponenti più autorevoli, Giuseppe Laras, di cui ha dato notizia per primo Giulio Meotti su “Il Foglio“ del 10 marzo.
Un ampio estratto della lettera è riprodotto più sotto. Ma prima sono utili un paio di avvertenze.
Quando il rabbino Laras scrive di un “marcionismo“ che oggi affiora sempre più insistente, fa riferimento alla corrente che dal teologo greco del II secolo Marcione fino ai giorni nostri contrappone il Dio geloso, legalista, guerriero dell’Antico Testamento al Dio buono, misericordioso, pacifico del Nuovo Testamento, e quindi, di conseguenza, gli ebrei seguaci del primo ai cristiani seguaci del secondo.
Non solo. Laras – di cui è vivo il ricordo dei dialoghi con il cardinale Carlo Maria Martini – fa cenno a papa Francesco come a uno che perpetua questa contrapposizione.
E in effetti, non è la prima volta che autorevoli esponenti dell’ebraismo italiano – come il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni – rimproverano a Francesco l’uso distorto della qualifica di “fariseo” oppure del paragone con Mosè per gettare discredito sui suoi avversari.
È ciò che Francesco fece, ad esempio, nel discorso conclusivo del sinodo dei vescovi, quando si scagliò contro “i cuori chiusi che spesso si nascondono perfino dietro gli insegnamenti della Chiesa, o dietro le buone intenzioni, per sedersi sulla cattedra di Mosè e giudicare, qualche volta con superiorità e superficialità, i casi difficili”. Incurante di contraddirsi, perché una novità che questo papa vuole introdurre nella prassi della Chiesa è il ripristino del divorzio, consentito proprio da Mosè e proibito invece da Gesù.
Ma lasciamo la parola al rabbino Laras.

Cari amici. […] Ho letto, assieme a stimati colleghi Rabbini e al Prof. David Meghnagi, assessore alla cultura dell’UCEI [Unione delle Comunità Ebraiche Italiane], il programma ragionato del convegno ABI [Associazione Biblica Italiana] previsto per settembre 2017.
Sono, ed è un eufemismo, molto indignato e amareggiato! […]
Certamente – indipendentemente da tutto, ivi incluse le possibili future scuse, ripensamenti e ritrattazioni – emergono lampanti alcuni dati inquietanti, che molti di noi avvertono nell’aria da non poco tempo e su cui vi dovrebbe essere da parte cattolica profonda introspezione:
1. un sentore carsico – con questo testo ora un po’ più manifesto – di risentimento, insofferenza e fastidio da parte cristiana nei confronti dell’ebraismo;
2. una sfiducia sostanziale nella Bibbia e un ridimensionamento conseguente delle radici bibliche ebraiche del cristianesimo;
3. un “marcionismo” più o meno latente ora presentato in forma pseudo-scientifica, insistente oggi sull’etica e sulla politica;
4. un abbraccio con l’islam che è tanto più forte quanto più si è critici da parte cristiana verso l’ebraismo, inclusa ora perfino la Bibbia e la teologia biblica;
5. la ripresa della vecchia polarizzazione tra la morale e la teologia della Bibbia ebraica e del fariseismo, e Gesù di Nazaret e i Vangeli.
So benissimo che i documenti ufficiali della Chiesa cattolica avrebbero raggiunto dei punti di non-ritorno. Peccato che vengano contraddetti quotidianamente dalle omelie del pontefice, che impiega esattamente la vecchia, inveterata struttura e sue espressioni, dissolvendo i contenuti dei documenti suddetti.
Si pensi solo alla “legge del taglione” recentemente evocata dal papa con faciloneria e travisata, in cui invece, tramite essa, interpretandola da millenni, anche all’epoca di Gesù, l’ebraismo alla ritorsione sostituisce invece il risarcimento, facendo pagare al colpevole quello che si definirebbe modernamente il lucro cessante, il danno permanente e anche quello psicologico. E tutto questo molti secoli prima che la civilissima Europa (cristiana?) affrontasse questi temi. Forse che l’argomento della cosiddetta “legge del taglione” non sia stato nei secoli un cavallo di battaglia dell’antiebraismo da parte cristiana, con una sua ben precisa storia?
Osservo con dispiacere e preoccupazione sommi che questo programma ABI è in sostanza la sconfitta dei presupposti e dei contenuti del dialogo ebraico-cristiano, ridotto ahimè da tempo a fuffa e aria fritta.
Personalmente registro con dolore che uomini come [Carlo Maria] Martini e il loro magistero in relazione a Israele in seno alla Chiesa cattolica siano stati evidentemente una meteora non recepita, checché tanto se ne dica.
Infine addolora (e molto!) che chi solleva obiezioni, perplessità, preoccupazioni e indignazione circa programmi e titoli siffatti (o solo anche proposti) debbano essere sempre degli ebrei, ridotti all’ingrato e sgradevolissimo compito di dover fare da “poliziotti del dialogo”, e non invece in primo luogo da voci cristiane autorevoli che da subito e ben prima si siano imposte con un fiero e franco “no”.
Un cordiale shalom, Rav Prof. Giuseppe Laras

Alla lettera del rabbino Laras all’ABI sono annesse delle “considerazioni” che sottopongono a critica serrata vari passaggi del programma del convegno.
E queste che seguono sono le conclusioni.
Sia che la cosa dovesse rispondere a una strategia ben delineata sia che si tratti dell’attuazione di pensieri volatili che si moltiplicano nell’aere, ci troviamo di fronte a una potenziale venefica saldatura tra due antisemitismi rinnovantisi, promossa dalla Chiesa cattolica o da sue parti rilevanti:
1. la causa dell’instabilità del Medio Oriente e dunque del mondo sarebbe Israele (colpa politica);
2. la causa remota del fondamentalismo e dell’assolutismo dei monoteismi sarebbe la Torah, con ricadute persino sul povero islam (colpa archetipica, simbolica, etica e religiosa).
Ergo siamo esecrabili, abbandonabili e sacrificabili. Questo permetterebbe un’ipotesi di pacificazione tra cristianesimo e islam e l’individuazione del comune problema, ossia noi. E stavolta si trova un patrigno nobile nella Bibbia e un araldo proprio nei biblisti.
Questa strategia, […] mescolata a vellutato ateismo, sembrerebbe essere coerente con la diffusa comprensione attuale di Gesù di Nazaret:
– non parlano più da tempo del “Gesù della fede cristiana” (ossia Trinità, doppia natura, ecc.), perché lontanissimo dalla sensibilità odierna;
– evitano di parlare del Gesù storico (Martini e Ratzinger per vie diverse, non recepiti entrambi), perché dovrebbero parlare inevitabilmente del Gesù ebreo e questo oggi in termini politici è per loro problematico;
– parlano di Gesù come di un “maestro di morale”, ovviamente in polemica con gli ebrei del tempo e la loro morale: “marcionismo etico” (e la riduzione della fede a etica è appunto una forma di ateismo).

Il 10 marzo l’ABI ha tolto dal proprio sito ufficiale il testo di presentazione del convegno, il cui programma resta comunque confermato.

(Fonte: Sandro Magister, Settimo Cielo, 13 marzo 2017)



sabato 11 marzo 2017

Padri gay e tribunale di Firenze, perché è uno sfregio privare i minori di una madre

C’è un passaggio, fra i numerosi discutibili, del decreto del tribunale per i minori di Firenze, che fornisce la chiave di lettura ideologica della decisione: quello in cui i giudici affermano che “la famiglia è sempre più intesa come comunità di affetti, incentrata sui rapporti concreti che si instaurano fra i suoi componenti; al diritto spetta di tutelare tali rapporti”.
E’ la consacrazione del passaggio dal diritto, tale proprio in quanto agganciato al dato obiettivo, a categorie emozionali, e quindi soggettive, come l’affetto o il desiderio. Quando ciò accade, nonostante le pagine che si possano riempire per dimostrare il contrario, il diritto cede il passo alla forzatura. E tale è quella che nel decreto tenta di superare le norme italiane sull’adozione, che la prevedono solo per persone unite in matrimonio da almeno tre anni, col richiamo al diritto internazionale, e in particolare alla Convenzione per la tutela dei minori e l’adozione internazionale dell’Aja: un richiamo improprio, dal momento che quest’ultima ha fra i principi ispiratori “l’interesse superiore del minore ed il rispetto dei suoi diritti fondamentali”.
La domanda da porsi è la seguente: è coerente con l’interesse del minore e con i suoi diritti fondamentali privarlo della madre? Sancire in nome del popolo italiano che un bimbo vive bene senza la mamma e spacciare questa affermazione come segno di civiltà può allietare i tg, le testate à la page, e i commentatori a senso unico cui larga parte dei media dà spazio. Nella realtà è qualcosa che contrasta – insieme con norme che fino a ieri apparivano non discutibili – decenni di consolidati orientamenti dei giudici minorili, e condiziona in senso ancora più liquido le relazioni all’interno della comunità familiare.
Meno di un anno fa il Parlamento approvava con doppio voto di fiducia, e con una blindatura imposta dal governo dell’epoca per impedire una seria discussione nel merito, le disposizioni della legge c.d. Cirinnà. Taluni deputati e taluni senatori giustificarono il proprio voto a favore – in palese distonia con loro dichiarazioni pro family e presenze a family day – col fatto che essa non prevedeva la step-child adoption: un anno dopo la Corte di appello di Trento, e a seguire il Tribunale per i minori di Firenze vanno molto oltre e sacralizzano l’adozione da parte di due persone dello stesso sesso!
Con l’introduzione per legge delle unioni civili, nella sostanza matrimoni same sex, era poi inevitabile che la giurisprudenza parificasse il regime fra i due tipi di coniugio nei confronti dei figli. Se il Parlamento abdica e non affronta i nodi cruciali ci pensa il giudice. Peggio ancora se la rinuncia è fatta con la riserva mentale che le sentenze supereranno il confine sul quale le Camere si attestano per il timore di esagerare.
La realtà è che le famiglie italiane oggi sono senza tutela e senza rappresentanza. Fino a quando?

(Fonte: Alfredo Mantovano, Formiche.net, 10 marzo 2017



E Mons. Paglia andò in cielo con trans e gay


Una Resurrezione blasfema? Forse. 
Una rappresentazione omoerotica? Lo dice l’autore. Sicuramente è un obbrobrio, artistico e teologico: solo uno degli scempi compiuti a Terni da monsignor Vincenzo Paglia negli anni del suo episcopato (2000-2013). Parliamo dell’enorme affresco che copre tutta la controfacciata della Cattedrale di Terni, dipinto dall’artista gay argentino Ricardo Cinalli dieci anni fa, ma che dai media e dai social è stato “riscoperto” in questi giorni.
Il motivo della riscoperta è la conseguenza dello scandalo suscitato dall’elogio pubblico di Marco Pannella pronunciato da monsignor Paglia alla presentazione del libro che racconta gli ultimi mesi di vita del leader radicale (clicca qui). Già in passato monsignor Paglia si era distinto per uscite a dir poco inopportune prima da presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia e in tempi recenti da Presidente della Pontificia Accademia per la Vita e cancelliere dell’Istituto Giovanni Paolo II per la famiglia. Che come rappresentante di due istituzioni create da san Giovanni Paolo II per combattere l’aborto e contrastare gli attacchi alla famiglia, sia andato a rendere onore proprio a chi ha fatto dell’attacco alla vita e alla famiglia una ragione di vita, è intollerabile.
Diverse sono state le iniziative nel mondo per chiedere le sue dimissioni immediate (clicca qui), ma c’è anche chi si è messo a indagare sulle attività passate di monsignor Paglia, ed è subito uscito il caso dell’affresco commissionato per il Duomo di Terni. In una cattedrale antica, rifatta nel XVII secolo su progetto del Bernini ma costruita su una chiesa precedente la cui origine risale addirittura al VI secolo, è stata piazzata una Resurrezione post-moderna, dominata dalla figura di Cristo che sale al cielo tirandosi dietro due reti cariche di figure umane nude o seminude, con diverse figure di omosessuali e trans.
Tra di loro c’è raffigurato anche monsignor Paglia (su richiesta del committente), nudo anche lui, abbracciato a un povero che lo solleva (ma c’è chi ha dato altre interpretazioni).
A suscitare ancor più indignazione è stato il video che Repubblica.it aveva dedicato all’opera già un anno fa con l’intervista all’autore Cinalli, che sottolinea il carattere omoerotico dell’opera, «tutto perfettamente accolto e accettato da Paglia», che ha seguito passo passo la realizzazione dell’opera insieme al sacerdote responsabile della cultura, don Fabio Leonardis, poi morto nel 2008. Anche don Fabio appare nudo all’interno di una rete insieme ad altri personaggi «dall’aspetto erotico», ma Cinalli ci tiene a precisare che «l’intenzione è erotica, non sessuale». Meno male.
Qualche polemica in più l’ha creata l’evidenza dei genitali di Gesù che traspaiono evidenti dal telo che lo ricopre. Anche questo particolare, spiega Cinalli, ha trovato il consenso del vescovo perché – avrebbe detto - «Gesù è una persona, un umano», e quindi si «vede attraverso il tessuto che era un uomo reale». Un vero genio questo Paglia: chissà perché per duemila anni la Chiesa non ha mai dubitato della natura umana di Gesù senza dover ricorrere a certe visioni. O forse monsignor Paglia pensa che stia lì l’essenza dell’umanità.
Ma per quanto la polemica di questi giorni si concentri sulla esaltazione della presenza di gay e trans nel piano di salvezza di Dio, la gravità del dipinto va ben oltre questo aspetto. Si tratta infatti di una visione della Resurrezione che si fonde con il Giudizio Universale, ma che non ha niente a che vedere con ciò che i vangeli e la tradizione della Chiesa ci tramandano. In un’opera sacra la libertà creativa dell’artista deve coniugarsi con la correttezza teologica, cosa che qui è lontanissima dalla realtà.
Lo stesso Gesù che trascina due reti piene di esseri umani per certi versi ricorda l’Uomo Ragno, ma la spiegazione che ne dà Cinalli – citato in un libro che raccoglie diversi saggi dedicati all’opera – è anche più sconcertante: l’artista vede infatti «Gesù come andasse a far compere da Tesco. In qualche modo ciò è divertente perché camminando per le vie di Terni, vidi donne uscire dai negozi e portare borse piene di merce, una in ciascuna mano, e pensai: ciò è esattamente quel che ho fatto. Gesù va a fare acquisti per gli uomini al supermercato…. Cristo con due borse piene di persone».
La cosa peggiore è però il significato teologico dell’opera. Non c’è gioia, non c’è letizia per la vittoria sulla morte: al male che domina il mondo Gesù (il cui volto è quello di un noto parrucchiere di Terni con cui Cinalli aveva stretto amicizia) strappa le persone portandole con sé ma senza che queste mostrino un cambiamento rispetto alla situazione precedente né gratitudine: continuano a fare ciò che facevano prima, compresi gli atti sessuali, fortunatamente non espliciti (almeno questo). 
Dice don Fabio Leonardis, nello stesso saggio citato prima, che l’intento di monsignor Paglia «è stato denunciare tutto il male e i mali del mondo di oggi, per dire a coloro che entrano nella sua cattedrale che Dio ama e salva tutti». Che ami e voglia la salvezza di tutti è un discorso, ma che tutti siano salvati è un altro. E infatti nel dipinto viene fatta fuori la libertà dell’uomo, il Signore ti salva anche se tu non vuoi. Non c’è inferno: tutti gli uomini, di tutti i colori e di tutte le religioni (ci sono anche musulmani, buddhisti, ecc.) sono destinati a salire verso la Gerusalemme celeste dove Cinalli (con Paglia) vede peraltro più minareti che chiese. 
È anche sorprendente notare come l’opera voluta da monsignor Paglia anticipi di alcuni anni ciò che oggi è diventato il pensiero dominante nella Chiesa, come allora aveva perfettamente sintetizzato il critico d’arte inglese John Russell Taylor: «Se questo è un Giudizio Universale, deve essere un giudizio senza condanna! Indipendentemente da come è stato inteso da Cinalli, è chiaro che la rappresentazione è al passo con la teologia corrente: una teologia che guarda con poco favore al Dio vendicativo del Vecchio Testamento, e preferisce qualcosa o qualcuno molto meno giudicante». Ma non era Gesù che spiegava la divisione tra eletti e dannati che ci sarà nel giorno del Giudizio?

(Fonte: Riccardo Cascioli, La NBQ, 8 marzo 2017)