venerdì 29 febbraio 2008

A sua immagine?


E così il “bello della diretta” (religiosa) è sceso in politica per approdare alla corte di Walter Veltroni nel neonato Partito Democratico. La candidatura di Andrea Sarubbi, popolare conduttore della trasmissione televisiva Rai “A Sua Immagine”, è stata annunciata in pompa magna. Certamente è una sua scelta personale, anche se la riteniamo molto discutibile (e forse anche di pessimo gusto): ha evidentemente optato per “Cesare”, cioè per lo Stato, avendo, apparentemente, solo il merito di essere un giornalista dalla faccia pulita che si è occupato negli ultimi anni di Chiesa. Se il metro di misura è questo, verrebbe da pensare che vaticanisti del calibro di Luigi Accattoli (Corriere della Sera) e Andrea Tornielli (il Giornale) andrebbero quantomeno nominati Senatori a vita. Ma loro, se li conosciamo almeno un po’, non accetterebbero mai i salotti della politica: tra Dio e mammona, come tanti nel nostro ambiente, hanno scelto il primo, perché come dice Gesù nel Vangelo, non si possono servire due padroni. Per carità, nulla di personale contro Sarubbi e Veltroni: il primo, d’altro canto, ha solo legittimamente accolto l’invito del secondo (certo, avrebbe potuto dire di no e argomentare che lui il giornalista cattolico lo ha fatto per servire la Chiesa e realizzare il sogno professionale coltivato sin da bambino, ma questo è un altro conto). Ci permettiamo sommessamente, però, di osservare che, nel corso delle sue presenze televisive, Sarubbi ha sempre sostenuto il Magistero del Papa, ossia la difesa della vita, del matrimonio naturale tra un uomo e una donna, la ferma condanna dell'aborto e così via. Eppure ci risulta che alleato, o meglio apparentato, come tiene a specificare Veltroni, del Pd sia quel Partito Radicale di Marco Pannella, Emma Bonino e Marco Cappato che fa da sempre dell'anticlericlismo laicista un cavallo di battaglia attaccando il Papa, promuovendo il riconoscimento delle unioni gay, appoggiando l’interruzione volontaria di gravidanza, chiedendo la libera vendita delle droghe cosiddette leggere e in ultimo, ma non per ultimo, adoperandosi per l’eutanasia (vedere il caso Welby per accertare chi ha fatto di tutto per ottenere che venisse staccata la spina). No, non sappiamo e non riusciamo proprio a capire con quale coerenza si possano conciliare i valori cattolici e le tesi radicali, per questo attendiamo da Sarubbi e dallo stesso Veltroni risposte chiare e possibilmente convincenti che tuttavia, temiamo, non arriveranno mai. In compenso, si è già materializzata la sgradevole sensazione che in molti, accettando di candidarsi alle imminenti elezioni politiche, abbiano sfruttato la propria Fede per fini politici. Fatto sta che al buon Andrea auguriamo, con sincerità, ogni bene per la prestigiosa avventura che si appresta ad affrontare in Parlamento. Una cosa, tuttavia, ci sembra ovvia: in caso di mancata elezione (evenienza assolutamente impossibile vista la sua posizione in lista e l’attribuzione dei seggi stabilita dall’attuale Legge elettorale) o comunque quando la sua esperienza politica terminerà, Sarubbi dovrebbe avere la coerenza, e il buon gusto, di non accreditarsi più come conduttore di programmi cattolici. La libertà implica scelte legittime ma anche assunzioni di responsabilità. (Bruno Volpe, Petrus, 28 febbraio 2008)

I nuovi teologi Stefani e Mancuso bocciano Ratzinger, quell’analfabeta


Sull’ultimo numero di “il Foglio” – non il quotidiano diretto da Giuliano Ferrara ma quello che si autodefinisce “mensile di alcuni cristiani torinesi”, giunto al suo 38esimo anno di vita – c’è un articolo di Piero Stefani che prende spunto dal “non discorso” di Benedetto XVI alla Sapienza per formulare delle critiche radicali al pensiero dell’attuale pontefice.
L’interesse di tali critiche è che esse, terribilmente drastiche, hanno per autore uno degli intellettuali più titolati del cattolicesimo italiano e una delle firme più rappresentative di “Il Regno“, l’autorevole quindicinale dei dehoniani di Bologna. Stefani – già poco tenero col libro del papa su Gesù – è anche uno specialista di fama dell’ebraismo e del dialogo tra le religioni, ha pubblicato vari libri importanti e insegna presso l’Istituto di Studi Ecumenici San Bernardino di Venezia.
Ebbene, dopo aver premesso che “Ratisbona resterà un punto di svolta del pontificato di Benedetto XVI, da allora in poi messo in uno stato di perenne ricattabilità da parte dell’islam”, Stefani scrive:
“L’astratta elevatezza del discorso alla Sapienza si presenta, nel suo piccolo, come uno specchio del massimo dramma dell’attuale pontificato: l’incapacità non solo di leggere e di interpretare, ma persino di percepire il mondo reale”.
E più avanti:
“Il fattore dominante nel discorso pubblico di Ratzinger è l’assolutizzazione di una ragione (o meglio della ragione) assunta come organo unico preposto alla conoscenza della verità. Si compie però un ulteriore passo, riassumibile nel modo seguente: siccome la verità per definizione è una e siccome il messaggio cristiano è vero, i due hanno contratto, in linea di principio, un matrimonio indissolubile. Il risvolto più inquietante di questa impostazione non tocca i laici (i quali dal messaggio ricevono solo un’ennesima immagine parziale della fede), bensì i credenti cattolici a cui è prospettata una fede necessariamente agganciata a una concezione della ragione incapace di reggere alla critica del pensiero moderno. In definitiva, la volontà di assegnare a un’esausta apologia di una determinata concezione della ragione un ruolo strategico consegna l’attuale magistero all’incomprensione degli apporti più qualificanti della cultura moderna e all’estraneità dal mondo reale”.
Questa la conclusione:
“Ci si può domandare: la ragione ha davvero bisogno di un papa per essere invitata a mettere in moto la propria ricerca? E ancor di più, ha bisogno del vescovo di Roma per sapere quando cammina sulla strada maestra della verità o quando invece erra lungo i viottoli sdrucciolevoli del relativismo? L’annuncio dell’evangelo è compito peculiare del credente. Dal canto suo, l’annuncio di una ragione aperta al vero, al bene e a Dio sarebbe una contraddizione in termini, e non è consentito farlo neppure al papa, poiché la ricerca razionale per sua natura non è legata a nessuna ‘buona novella’ che le giunge dall’esterno”.
Fin qui Stefani sul mensile “il Foglio” del febbraio del 2008. Ma va detto che la sua non è una posizione isolata, dentro l’intellettualità cattolica italiana.
C’è ad esempio una forte consonanza tra le tesi di Stefani e quelle espresse il 10 febbraio da Vito Mancuso sull’altro “Foglio”, quello quotidiano, in risposta alla recensione critica del suo libro “L’anima e il suo destino” scritta dal gesuita Corrado Marucci su “La Civiltà Cattolica”.
Sia per Stefani sia per Mancuso il magistero della Chiesa di Benedetto XVI è al disastro perché è legato a una visione del mondo sorpassata. Quando invece dovrebbe adeguarsi ai moderni paradigmi scientifici, e su questo metro ripensarsi da capo. (fin qui la nota di Sandro Magister sul Blog dell’Espresso, 27 febbraio 2007).
Abbiamo capito: il Papa deve stare zitto per lasciar “argomentare” loro signori. Però viene spontaneo chiederci: con quale autorità? A quale titolo? In nome di chi? È chiaro che avete il dente avvelenato perché siete stati entrambi bacchettati e tacciati per “saputelli vanesi”, da altri più preparati di voi!
La penna vi ha preso la mano? Fate attenzione però, perché è ormai fin troppo evidente che la vostra iattanza rischia di logorarvi definitivamente il cervello. A volte l’umiltà e la deferenza nei confronti di chi ha carismi ben più alti dei vostri, vi riserverebbe forse una qualche considerazione in più, rispetto alla generale indifferenza e commiserazione cui inevitabilmente vi confina la vostra stolta sicumera… (m. l. 28 febbraio 2008)

Cattolici solo a parole



In un Paese come l'Italia, che generalmente viene definito cattolico, forse è più alto il rischio di considerare il cattolicesimo come una realtà acquisita quasi ovvia e pertanto immune da compromessi e contaminazioni. Non intendo in questo caso riportarmi alla differenziazione spesso in uso tra cattolici praticanti e non, quanto piuttosto alla qualificazione ideologica oltre che religiosa di cattolico. Ovvio considerare l'attributo cattolico come aggettivo qualificativo di appartenente alla Chiesa Cattolica Apostolica Romana, ma è assai meno scontato considerare come autenticamente cattolico chi autonomamente si qualifica come tale solo in virtù di un riferimento ai valori e alla dottrina cattolica. Più volte, dietro queste affermazioni si cela l'inganno. Spesso, infatti, soprattutto nella realtà odierna, in molti, anche tra le cosiddette ‘personalità’ di spicco, si definiscono tali, ma in realtà ideologicamente sposano teorie assolutamente incompatibili con l'autentico orientamento cattolico. Si pone in essere in questi casi, anche per esigenze puramente pratiche o per precise strategie di proselitismo, un patetico tentativo di conciliare realtà ed aspetti tra essi inconciliabili per definizione. Non si vuole con questo negare l'innegabile esigenza di pacificazione cui aspira ogni società civile e progredita, ma si vuole piuttosto approfondire l'altrettanto insopprimibile esigenza di ogni individuo che voglia definirsi autenticamente e coerentemente cattolico, di non operare scelte ideologicamente incompatibili con questa qualifica. Non a caso qui di scelta si parla, in quanto, fortunatamente, nel nostro Paese non ci sono obblighi di appartenenza ideologica e tantomeno religiosa; ognuno è pienamente libero di scegliere la propria collocazione assecondando la più vasta gamma di motivazioni personali, ed ogni scelta va rispettata appunto in quanto tale purché non palesemente lesiva degli interessi della collettività. Tuttavia, per coloro che hanno scelto di essere cattolici, si rende necessario non auto-referenziarsi come tali, effettuando poi altre scelte incoerenti con quella che potremmo definire l'opzione di base, ma piuttosto prendere quale effettivo e costante riferimento per orientare le proprie idee i valori più autentici del cattolicesimo. Ecco, quindi, che, se per valutare la valenza di quest'attributo cattolico prendiamo a misura l'aspetto della coerenza ideologica, osserviamo che l'Italia è oggi un Paese che può definirsi solo per convenzione cattolico ma che vive una realtà molto diversa. Non a caso, poi, ho accennato prima a personalità che si definiscono cattoliche; intendo riferirmi, con questo termine, a quei personaggi della cultura, dei media, della politica, insomma a quei notabili della società, che grazie a questa sorta di presunta collocazione ideologica che da se stessi si attribuiscono, possono trarre in inganno la coscienza di tanti. Il cattolicesimo autentico è forte di valori insindacabili e talvolta poco duttili, non si presta facilmente a manipolazione ed annacquamenti; per valutarne la schiettezza basta riferirsi alla dottrina ed allora si scopre agevolmente la differenza che intercorre tra il cattolico vero e chi si spaccia per tale per raccogliere i consensi proprio di coloro i quali vorrebbero restare nell'ambito dell'ideologia cattolica. Prima di concludere mi preme precisare perchè, in questa sede, ho più volte usato il termine ideologia cattolica: intendevo fare particolare riferimento, appunto, alle scelte ideologiche di questa area, quasi come ideale esortazione ad un abito mentale chiaro e coerente affinché, se pure nell’operare tanti sono i nostri limiti, almeno ideologicamente non siamo cattolici solo a parole. (Sergio Rolando, Petrus, 26 febbraio 2008)

giovedì 21 febbraio 2008

Argomenti da sacrestano - L’anticlericalismo démodé di Marco Politi


Marco Politi è vaticanista di Repubblica: sarebbe sufficiente questo per inquadrare la sua militanza politica e ideologica, se non dovessimo ricordare gli sgradevolissimi libelli ‘Io, prete gay’ e ‘La confessione. Un prete gay racconta la sua storia’, grazie ai quali ha meritato e merita tutt’oggi d’essere invitato a tutti i programmi e le conferenze in cui si attacca l’odiata Nemica del progresso e il suo tiranno che siede in Roma. Gli scoop monotematici di Politi sono mossi da un’avversione teologica alla concezione tradizionale della Chiesa Cattolica e - lungi dal denunciare l’immoralità del clero di cui squaderna con compiacimento le miserie - cercano di accreditare la tesi di una chiesa parallela, moderna e progressista, libera da vincoli di dottrina e di morale, una setta pauperista e sodomita che lotta fieramente contro la Gerarchia, sorda alla voce del secolo. Ovviamente questa “chiesa” vagheggiata da Politi altro non è se non un’accolita di ribelli e viziosi di varia estrazione, che adattano la fede e la disciplina cattolica al proprio gusto e ai propri difetti: l’indocile rifiutando l’obbedienza ai Sacri Pastori, l’impuro negando il Sacro Celibato e addirittura il Sesto Comandamento, l’eretico dando alle fiamme il Magistero infallibile dei Pontefici. Queste deviazioni hanno piagato il Corpo Mistico a iniziare da Simon Mago per finire con Vito Mancuso, trovando nei Sommi Pontefici, da San Pietro a Benedetto XVI, i difensori dell’ortodossia cattolica e i custodi del depositum fidei. Non fa stupore che un sostenitore di questi antichi e nuovi ribelli abbia in odio l’indomito Pio IX, il Papa del Sillabo, dell’Immacolata Concezione, della condanna del laicismo massonico ottocentesco: anche Garibaldi e Carducci non lo potevano sopportare e si scagliavano con turpe linguaggio contro il cittadino Mastai, eccitando gli animi dei sediziosi fino a cercar di gettarne le spoglie nel Tevere durante i funerali. Anche quei personaggi non agivano con purezza d’intenti, ma al solo scopo di appropriarsi di quel potere temporale che volevano usurpare al Pontefice: non per negarlo tout court, ma per usarlo a proprio vantaggio. Così la violenza contro il Papa Re riuscì a usurpargli il regno, imponendo la tirannia del pensiero massonico nelle scuole, nelle istituzioni, nell’esercito; un pensiero farcito della ributtante retorica del Risorgimento perseguito a colpi di baionetta contro i popoli fedeli al Papa e a colpi di gazzette nelle province di un’Italia da unire sotto la stella capovolta dei Savoia. Anche San Giovanni Bosco fu oggetto dei furibondi attacchi dei liberali e dei massoni, allora aiutati dai seguaci di Valdo e di Lutero e finanziati da banchieri e mercanti desiderosi di metter le mani sul patrimonio della Chiesa: le soppressioni della legge Rattazzi (1855) misero all’asta conventi, monasteri e Chiese, profanandoli e facendone stalle, officine, caserme. Così Marco Politi rispolvera il repertorio anticlericale di quell’epoca vergognosa e si scaglia contro Benedetto XVI: “Benedetto XVI si è presentato nella basilica vaticana con la mitria di Pio IX e il piviale di Giovanni Paolo II. Assiso sul trono, non evocava l’immagine di un pellegrino della fede, bensì l’icona di un papato imperiale. Nei pesanti paramenti aurei era riflessa l’ostinata volontà di tenere insieme la Chiesa del Sillabo e la Chiesa del mea culpa, il papato che riaprì il ghetto di Roma e il papato che a Gerusalemme nel 2000 ha domandato perdono per l’antisemitismo, il cattolicesimo dell’assolutismo papale e quello del “popolo di Dio” celebrato nel concilio Vaticano II”. È’ tipico dei nemici di Cristo - esterni ed interni al mondo cattolico - cercare un’opposizione artefatta tra i Papi, secondo la dottrina ereticale che individua una Chiesa preconciliare soppiantata da una presunta chiesa postconciliare ad essa contraria. Dice Politi: “Torna continuamente, insomma, la volontà di negare il carattere di svolta e, per certi aspetti, di rottura del Concilio Vaticano II”, ed è chiaro che il Magistero di Benedetto XVI ha condannato senza equivoci questa teoria, fatta propria anche da non pochi ecclesiastici indottrinati alla scuola del modernismo. Ma senza nulla togliere alla gravità delle accuse di Politi, dobbiamo riconoscere che almeno in alcuni ambienti il Concilio Vaticano II sia stato proposto come la prima assise di una nuova religione, per la quale era anche stato predisposto un nuovo rito. Certo è che il cuore del vaticanista di Repubblica batte all’unisono con quello di chi, fino allo scorso anno, si adoperò per demolire nelle celebrazioni “l’icona del papato imperiale”, confinando i “pesanti paramenti aurei” negli armadi e proponendo svolazzanti paramenti plasticei, icona di un papato democratico e collegiale, contro la dottrina del Primato Petrino proclamata infallibilmente dal Concilio Vaticano I. “Ma l’operazione può riuscire soltanto affidandosi all’apologetica o rifugiandosi nella rimozione. Pio IX aborriva la democrazia, il Vaticano II l’ha fatta propria”. Un’affermazione temeraria, se vogliamo, anzitutto perché il Magistero di Pio IX in materia fu dogmatico, a differenza del valore meramente pastorale del Vaticano II; in secondo luogo perché è falso che Pio IX aborrisse la democrazia in quanto tale: egli metteva in guardia dal pervertimento della democrazia, usata per negare ogni gerarchia anche divinamente istituita, come quella della Chiesa di Cristo. Il Beato Mastai Ferretti condannò la libertà di stampa perché era usata dai nemici della religione per diffondere vergognose menzogne sul Papato e sulla Chiesa; condannò il laicismo perché negava i diritti sovrani di Cristo Re sulle società e le Nazioni; condannò l’ecumenismo irenista perché insinuava pari diritti per la Verità e l’errore: cose inaccettabili tanto per Pio IX quanto per Benedetto XVI. Lungi dall’entrare nel merito teologico e dall’argomentare seriamente le proprie tesi, nell’articolo ‘Se Ratzinger rivaluta Pio IX’ apparso su Repubblica il 16 Febbraio (significativamente rilanciato dal sito della Margherita), Marco Politi si cimenta in osservazioni da sacrestano sui paramenti di Benedetto XVI: “La sagrestia di San Pietro non è un magazzino di costumi teatrali, a cui si attinge per mero gusto estetico”, rivaleggiando in imperizia con il proprio direttore, che aveva criticato l’orientamento dell’altare della Cappella Sistina. Politi insiste: “La mitria di Pio IX appartiene al pontefice che ha dichiarato guerra all’Ottocento, che ha esecrato la libertà di coscienza e la libertà di religione, che ha permesso che i suoi seguaci si servissero al concilio Vaticano I di manovre totalitarie per imporre l’infallibilità papale”. Ma come? Del Concilio Vaticano II si tacciono i maneggi e le manovre totalitarie per imporre dottrine al limite dell’ortodossia, frettolosamente corrette a colpi di Nota prævia, mentre del Vaticano I si citano casi episodici al limite dell’aneddoto, quasi i Padri si fossero organizzati in bande pro e contro il dogma dell’infallibilità? Non ricorda Politi le copie ciclostilate delle bozze dei documenti conciliari modificate dalle Commissioni senza l’avvallo dei Padri, e poi fatte approvare con l’inganno a Paolo VI? Non è al corrente dell’abissale differenza tra i documenti preparatori approvati da Giovanni XXIII e quelli che un manipolo di progressisti impose ai Padri? Ignora le votazioni organizzate all’alba, senza informare i membri più conservatori delle Commissioni, in modo da far passare deliberazioni senza il numero legale? Dimentica come fu umiliato il Cardinale Alfredo Ottaviani, messo a tacere con arroganza mentre protestava sulle deviazioni dottrinali insinuate in certi documenti, con lo spegnimento del microfono in piena aula conciliare? Si potrebbe osservare che un conoscitore imparziale della storia e della dottrina della Chiesa non dovrebbe mostrare una tale miopia; ma è chiaro che stiamo parlando di un giornalista di Repubblica, per cui l’imparzialità è un optional, quando si tratta di propagandare “l’opposizione frontale alla modernità di Pio IX e l’apertura ai segni dei tempi di Giovanni XXIII, l’infallibilità papale da un lato e la gestione collegiale della Chiesa con l’insieme dei vescovi dall’altro”. Bene ha fatto Politi ad uscire allo scoperto: ora conosciamo la sua scelta di campo e possiamo comprendere cosa lo muove nell’attaccare il Santo Padre. Rimangono ad intra da chiarire non pochi equivoci - libertà di coscienza, libertà religiosa, ecumenismo, liberalismo - ai quali si appigliano gli indocili pennivendoli di ieri e di oggi. Ma basta la rabbia scomposta di Politi per un piviale per farci capire quale sia il valore dei segni nella liturgia di questo Pontificato. (Baronio, Petrus, 19 febbraio 2008)

I nuovi quarantenni: smania di perenne adolescenza


Non è che si rifiutano di crescere, semplicemente. È che sono convinti nell’intimo di poter prolungare l’adolescenza fino all’arrivo dei capelli bianchi. E anche oltre. Sono i nuovi quarantenni. Potremmo chiamarli: second teen, se soltanto fossimo su Second Life. Ma la verità è che non c’è bisogno di andarli a cercare nella realtà virtuale di un pc. I quarantenni adolescenti, quasi dieci milioni di italiani, sono in mezzo a noi. Se vogliamo possiamo aggrapparci al primo esempio che ci capita a tiro, per capire: il film di Federico Moccia, «Scusa ma ti chiamo amore». In questo caso è un quarantenne bello come Raoul Bova che perde la testa per una teenager in carne ed ossa. Ma possiamo andare indietro di un paio d’anni per sbirciare i quarantenni ben più cupi di Gianluca Tavarelli: «Non prendere impegni stasera», un flash su una generazione ancora alla ricerca di tutto. Se invece ricordiamo appena qualche mese fa, ecco un altro film che ha sbancato i botteghini: «Sms. Sotto mentite spoglie ». Qui il regista Vincenzo Salemme segue genitori quarantenni che è davvero difficile distinguere dai loro figli. Nelle mode. E, soprattutto, nei modi. E’ infatti un sms mandato alla persona sbagliata che fa nascere una storia d’amore, improvvisa e clandestina. Quale è la differenza con un adolescente? Nessuna, nemmeno a guardare i numeri dell’Istat. Cosa ci dicono? Che più di un quarantenne su due usa il computer per mandare messaggi nelle chat, ad esempio. Per la precisione: il 52,9% di quella fascia d’età che va dai 35 ai 44 anni non esita ad ammettere di chattare con regolarità e uno su tre (il 29,1%) di usare i file sharing per scambiarsi musica e film. Non solo. Cosa fanno nel tempo libero i quarantenni? Vanno al cinema, è ovvio (il 58,2%). Ma più di uno su quattro (25,9%) ammette, candidamente: vado in discoteca. Già, quando non allo stadio (il 41,3% dei maschi e il 20,9% delle donne). E se invece rimane a casa a leggere? Un quarantenne su due legge romanzi (52,6%), ma uno su quattro (24,5%) li sceglie umoristici, mentre uno su tre (31,8%) consulta guide turistiche e più di uno su dieci (11,7%) legge i fumetti, come quando erano ragazzini. Vogliamo parlare di politica? No, risponde secco quasi uno su tre (il 28,1% dice infatti di non parlarne proprio mai). Ma c’è di più: uno su cinque (il 20,5%) non si informa proprio di nulla di quanto avviene nel panorama politico, mentre quelli che si informano lo fanno praticamente solo attraverso la televisione (il 91,5%), ovvero quasi il doppio di quanti leggono i quotidiani (55%). C’è poco da stupirsi. «In fondo la vita si è allungata tanto, oggi viviamo circa il doppio dei nostri trisavoli ed è normale che succeda così», dice Domenico de Masi, sociologo. E commenta, bonario: «Questa adolescenza prolungata mi sembra un modo davvero poetico. Meglio, molto meglio i giovani prolungati, dei vecchi precoci. E poi anche i soldi non vogliono pensieri: ora che ne abbiamo di più ce li vogliamo godere». Soprattutto in vacanza, viene da dire. Sarebbe stato sufficiente andare l’estate scorsa in quelle meravigliose isole a nord di Messina, le Eolie. Oppure seguire il flusso delle isole greche e prendere posto ai confini con la Turchia, a Patmos, il luogo dove si narra che San Giovanni abbia scritto l’apocalisse. C’è stato uno strano passaparola che deve aver percorso il nostro Paese in lungo e in largo ed alla fine ha fatto raggruppare in queste isole la più alta percentuale di single italiani quarantenni mai concentrata in uno stesso luogo. Che ripercorrevano le loro estati dei vent’anni, con tanto di balli in discoteca fino all’alba e subito dopo i cornetti al cioccolato. Chiedete a Dario Cassini come funziona. Attore comico di teatro e cabaret è lui, quarantenne, l’autore del libro: «E’ vent’anni che ho vent’anni» (Mondadori), una quasi autobiografia scritta al grido di: «Aiuto, sono un ragazzino di diciotto anni catturato nel corpo di un adulto di trentanove». Lui che non esita a confessare di essere «semplicemente terrorizzato dai rapporti stabili, salvo quello che ha personalmente sviluppato con il suo televisore al plasma». E alla fine, sì, ci siamo arrivati ancora una volta: sono i maschi quarantenni che, ben più delle femmine, vogliono vivere come eterni ragazzini. In fuga dal matrimonio. I numeri? I single maschi fino a 44 anni sono circa il doppio delle donne: il 9% contro il 5,4%. E di questi sono ben tre su quattro (il 73,4%) che non si sono mai sposati, contro il 26,5% di separati e lo 0,1% di vedovi. (Alessandra Arachi, Corriere della sera 21 febbraio 2008)

Se finisce il senso della morte, finisce anche il senso della vita


Spesso solo la morte restituisce dignità alla vita. “Un bel morir, tutta la vita onora” epigrammava Petrarca. Ma al di là della retorica e delle frasette, molti saggi e molti santi hanno insegnato che la vita davvero è un prepararsi al morire. Pur essendo il morire un fatto prettamente individuale (“Non è che ho paura di morire, solo che non voglio esserci quando accadrà” ironizza Woody Allen), resta il fatto che la morte da sempre ha risvolti sociali, perché il morto è morto, mentre i vivi restano. Sarà per questo che ogni civiltà ha tramandato modi e forme per elaborare il lutto sempre più rivolti ai vivi che ai morti. Gli egiziani approntavano di cibo le tombe per il defunto, duemila anni dopo i Sepolcri del Foscolo servivano soprattutto ai vivi perché ne traessero insegnamenti e aspirazioni.
Oggi le cose sono ancora cambiate. La morte da costante della vita si è trasformata in una variabile sociale sempre meno considerata. Ciò nonstante, sembra incredibile, si continua a morire. Allontanata dall’orizzonte di una società inconsapevole, scacciata in termini collettivi, resta un fatto privato difficile da gestire. Si muore in silenzio, da soli, si viene tumulati in fretta e furia, senza preci, nessun corteo funebre per non intralciare il traffico, nessuna prefica. Che a pensarci bene, viene da chiedersi: perché dunque morire?
Ci sono però casi eclatanti, in cui la morte diventa di nuovo fatto pubblico: morti eccellenti, morti tragiche di bambini o soldati. Proprio qui ci si accorge che i riti difettano, che non abbiamo più neanche la mimica per celebrare il defunto. Spesso a questi funerali, quando transita il feretro la folla applaude, come si applaude allo stadio. I visi degli astanti si irrigidiscono in espressioni di circostamza.
Nei giorni scorsi, una foto sui giornali ci spinge a qualche ulteriore riflessione. Il funerale di un attore hollywoodiano, il ventottenne Heath Ledger, si è concluso con una festa, una sorta di beach party stile australiano. Ledger pare sia morto per un’overdose accidentale di farmaci. Nessuno ci toglie dalla mente l’idea che il giovane attore, nonostante il successo mondiale, non avesse trovato ragione per vivere, come molti altri della sua generazione, della mia generazione, di tante altre generazioni precedenti. è sempre una scommessa la vita, un gioco il cui scopo è trovare le regole del gioco.
Vedere gli amici di Ledger spiaggiati, l’ex compagna, l’attrice Michelle Williams, concedersi un bagno tra spruzzi e risa, genera un senso di spaesamento. Quasi che la morte non fosse nulla. Ma non perché la combriccola ridanciana e miliardaria abbia dato senso definitivo alla morte, o possa chiamarla “sorella” al pari di San Francesco. Piuttosto, ci sembra, perché non sono riusciti a dare un senso neppure alla vita. (Angelo Crespi, Il domenicale, 21 febbraio 2008)

giovedì 14 febbraio 2008

Dario Fo: semplice balordaggine congenita o demenza senile acquisita?


“La Chiesa non paga le tasse”… C’è da rimanere sconcertati di fronte a tanto accanimento contro la Chiesa da parte del “mistero buffo” Dario Fo. Ed ora anche nei confronti dei suoi “amichetti di merende” di sinistra, “fautori di una grande truffa”: ma… vuoi vedere che pure lui, faccia di tòla, si è finalmente vergognato delle loro oscure manovre dell’epoca, con cui sono riusciti a fargli ottenere un “nobel” scandaloso, scippato a studiosi ben più meritevoli, riconoscimento che rappresenta una macchia indelebile per la cultura, il buon gusto e l’intelligenza italiana.
Ma ecco le deliranti esternazioni di cotanto senno, contenute in un monologo pronunciato prima della conferenza stampa di presentazione del suo spettacolo “Sotto paga! Non si paga!” tenuta nel teatro delle Celebrazioni a Bologna martedì scorso.
Di Bologna, Fo ricorda un episodio di qualche anno fa, quando “trovai un antico testo” dove si narravano storie medievali nelle quali i rappresentanti del papato finivano asserragliati in un castello ricoperti di feci dei cittadini bolognesi e no. “Qui a Bologna avete una tradizione di vescovi orrendi. Tutta la curia mi aggredì - racconta - e aggredì chi organizzava lo spettacolo nel quale si narrava questa storia. Prima che si spegnesse la polemica, ho dovuto aspettare anni”.
Ma la chiesa di Bologna non è l'unica a subire gli attacchi dell'attore-regista. “Il Vaticano si prende l'acqua gratis dai tempi di Mussolini e non la paga, possiede il 25% del costruito nella capitale, non pagano le tasse e poi si permettono di inserirsi” nella vita degli uomini. “Sono indignato - scandisce il premio Nobel per la letteratura - entrano ovunque, anche in bagno”. Il vero problema della “Chiesa è la mancanza di umorismo. Sono piatti e feroci perché disturbati”. Se si mettessero in scena i loro comportamenti si farebbero delle vere commedie”. E chi non ha voluto il papa alla Sapienza “ha sbagliato, perché non ha usato la furbizia e la scaltrezza; e hanno fatto il gioco delle curie. Era giusto non accettare una lezione da loro, ma il modo non andava”.
Finito con la Chiesa si passa alla politica: “Ottimista è chi aspetta, non si arrabbia, non vuole mettersi in testa che le cose non vanno. Un ottimista è Silvio Berlusconi”. Perché “ruba e non viene mai beccato, perché porta via il fiato e la gente è contenta. Insomma, la gente è cogliona e la vita è bella”. Non manca una stangata nemmeno alla sinistra, visto che sono fautori di “una grande truffa”. In campagna elettorale, attacca Fo, “avevano detto che avrebbero cambiato le leggi, primo fra tutti c'era il conflitto di interessi”.
E, dulcis in fundo, Clemente Mastella “che ha detto ad un cardinale (Tarcisio Bertone ndr) prima che a Prodi, che stava andando a far cadere il suo Governo. E comunque è stata la chiesa l'artefice principale della caduta del Governo”. Come si fa a entrare “nelle università e negli ospedali ce lo ha insegnato Mastella. È uno scambio, un mercato delle cariche”, rincara Fo.
Non è un caso che l'opera alla quale Fo sta lavorando attualmente si chiami “L'Apocalisse”, ovvero “la situazione che stiamo vivendo oggi”.
Ovviamente, se queste sono le premesse, c’è da dedurre che anche quest’ultima “opera” foana non si discosterà di molto dai tanti stomachevoli luoghi comuni di un becero anticlericalismo, così caro alla mente dell’autore, oggi più che mai irrimediabilmente compromessa.Infatti, a leggere siffatte idiozie, non si può che giungere alla conclusione obbligata che l’unico veramente “disturbato” è proprio lui e solo lui: il “nobel” Fo! (Mario, 13 febbraio 2008).

Salvezza e pregiudizi: senza offesa


Spiace che persone eccellenti siano all'improvviso bloccate da pregiudizi semplificanti e quindi falsificanti, p. es. vedendo un'offesa nel pregare affinché gli ebrei giungano liberamente ad accogliere Cristo.
Infatti questa speranza non è riservata in modo esclusivo per gli ebrei, ma è da sempre espressa anche per tutti gli uomini e tutti i popoli.
Come può accadere allora che Gad Lerner (“Repubblica”, 8/2, p. 1 e 28) scriva che quella preghiera inchioda Israele come «popolo anomalo» e che per non offendere gli ebrei la Chiesa dovrebbe elaborare una dottrina «alternativa», cioè affermare che gli ebrei si salvano anche senza Gesù Cristo?
E perché il saggissimo rabbino Giuseppe Laras (“Corsera”, 9/2, p. 19) scrive che così «La Chiesa chiude il dialogo»?
Eppure è noto da sempre, a ebrei e cristiani alla pari, che è accetto a Dio “ cioè salvo “ chiunque pratica giustizia e diritto. Vale per tutti, atei, buddisti, islamici, e anche per gli ebrei. Così da sempre, ma ciò non toglie che nella fede cristiana e cattolica «tutto è stato creato per Gesù Cristo e in vista di Lui», e tutto ciò che è salvo lo è grazie alla sua mediazione.
Che c’è di tanto disdicevole allora? È risaputo infatti che dove c'è amore c'è Dio; e c'è salvezza. E dove c'è giustizia c'è Gesù Cristo; e c'è salvezza: quindi… “intelligenti pauca”: senza offesa per nessuno.
D’altro canto, un cristiano (o un ebreo) che sa tutto della fede, che pratica il culto e si pensa perfetto solo perché osservante e bigotto, ma non ama i suoi simili - scrive Paolo ai Corinzi (c. 13) e conferma durissimo Giacomo (2, 14-19) - non può essere salvo; anche se ebreo, prete, vescovo o Papa che sia.
Perciò il venerdì santo si prega per tutti: anche per gli ebrei. Senza offesa!
E allora perché tanto starnazzare, caro Lerner? Questa idea ti turba?
(mario, 12 febbraio 2008)

venerdì 8 febbraio 2008

È quaresima, bevi dal rubinetto!


Ieri - eccezion fatta per la diocesi di Milano, che segue un rito tutto suo - è cominciata la Quaresima. Non sappiamo quanti italiani ne siano al corrente: probabilmente pochi, e di quei pochi molti sono stati informati non dalla parrocchia, che non frequentano più, ma dalla scuola, che ha comunicato ai figli i giorni buoni per la settimana bianca. Non sappiamo neppure quanti, di quella minoranza informata, abbiano rispettato il tradizionale digiuno del mercoledì delle ceneri: ma non è difficile ipotizzare che in questo caso i pochi diventino pochissimi. Certe cose non si usano più. I cattolici praticanti sono ormai, sempre di più, un piccolo gregge.Va detto però che pure per chi si ostina a far parte del gregge non deve essere sempre facile capire in cosa consistano la Quaresima, la penitenza, il digiuno. La confusione è in agguato quando il gregge incontra pastori che presentano il cristianesimo - più che come l’annuncio di un Dio che si fa uomo, muore e risorge - come un manuale di buone maniere.L’ultima è di un tale don Gianni Fazzini, il quale a nome del «Centro Studi stili di vita» della diocesi di Venezia (centro studi del quale è direttore) sabato prossimo presenterà, a Mestre, la proposta per la Quaresima: astenersi dall’acqua minerale e bere in sua vece quella del rubinetto. Anche questa è una forma di digiuno, per carità; e c’è pure una conseguenza nobilissima: finanziare, con il denaro risparmiato, un progetto umanitario in Tailandia. Sono le motivazioni che lasciano un po’ perplessi: «Non è affatto vero - ha detto don Fazzini - che l’acqua minerale che viene da Roma faccia meglio dell’acqua del nostro rubinetto». Una scelta di digiuno o di salutismo? Ma c’è dell’altro. Leggiamo sul Gazzettino di Venezia che «l’indicazione di fare a meno dell’acqua minerale si prefigge, allo stesso tempo, lo scopo di ridurre la quantità di vetro e plastica da recuperare, favorendo così lo smaltimento dei rifiuti in tempi di emergenza o rischio di emergenza».Va detto che i cristiani delle altre confessioni si sentono proporre, per la Quaresima, idee ancora più bizzarre. La Chiesa anglicana, ad esempio. Il vescovo di Londra, Richard Chartres, e quello di Liverpool, James Jones, hanno lanciato il «digiuno di carbonio» per rispondere alla «necessità urgente di ridurre le emissioni che danneggiano il pianeta». Quindi niente rinunce a cibo o bevande: i due vescovi hanno stilato una nota in cui sono elencati quaranta «gesti virtuosi» da mettere in pratica ciascuno ogni singolo giorno della Quaresima. Ad esempio. Quando si fa la spesa, non usare le buste di plastica del supermercato. Fare a meno della lavastoviglie. Sbrinare il frigo. Ispezionare la casa alla ricerca di spifferi che comportino sprechi di energia. Evitare di usare l’automobile. Chiudere bene i rubinetti dell’acqua calda. Far andare la lavatrice a 30 gradi invece che a 40. È invece valida per tutta la Quaresima l’esortazione a «togliere una lampadina dalla stanza più vissuta» per ridurre il consumo di energia.
Ci fermiamo qui, anche perché il lettore può pensare che lo stiamo pigliando per i fondelli. Invece è tutto vero: sono punti scritti in un documento dei vescovi per la Quaresima. E sono lì, nella loro tragica comicità involontaria, a testimoniare come si rendano grotteschi gli uomini di Chiesa quando invece di parlare di Gesù Cristo e di vita eterna si mettono a inseguire l’ultima moda (o meglio la penultima, perché spesso sono pure indietro di un giro. Ricordate i teologi della liberazione? Furono gli ultimi a credere nel sole dell’avvenire. E i nostri cattocomunisti? Gli ultimi a difendere il nome «partito comunista» e la falce e martello nel simbolo).Lo stupidario del cristianesimo ecologista non si limita purtroppo alla Chiesa anglicana o a casi isolati della nostra: nel diario in uso di gran parte delle scuole cattoliche si legge tra l’altro che gli uomini devono fare mea culpa perché, essendo in troppi, tolgono spazio agli uccelli; e la Conferenza episcopale della Campania se n’è appena uscita con un documento in cui si annunciano «specifici itinerari formativi e catechetici» per lo smaltimento della monnezza.Non è che non sia giusto richiamare al rispetto dell’ambiente e al risparmio energetico. È giustissimo. Però non c’entra niente con il digiuno quaresimale, che come ha ricordato ieri Benedetto XVI ha tutt’altra finalità: quella di «ritrovare se stessi e distaccarsi dai beni materiali», capire che «la ricchezza non ci dà la felicità» e che «solo l’amicizia con Dio può regalarci la vera gioia». Solo in una prospettiva di fede la rinuncia a cibo o ad altri beni ha un senso. Altrimenti, non si capisce perché uno debba rinunciare ai pizzoccheri e allo Sforzato, alla fiorentina e al Chianti. E poi per spiegare che non bisogna inquinare non c’è bisogno di Gesù Cristo: basta un Pecoraro Scanio. (Michele Brambilla, Il Giornale, 7 febbraio 2008)

giovedì 7 febbraio 2008

Taroccano pure i discorsi dei vescovi


Il partito del non voto tira la veste ai vescovi
La Cei chiede «il bene comune». La sinistra traduce: è per il governo tecnico…
Meno Gesù, più Marini. Incredibile ma vero. Lo attestano più fonti indipendenti e accreditate. Questo sarebbe il nuovo credo cattolico, sancito persino dal segretario della Conferenza episcopale italiana, monsignor Giuseppe Betori. Il Vangelo canonico? Quello secondo Luca (di Montezemolo). I quotidiani di destra e di sinistra hanno annunciato novità inesorabili: la Santa Chiesa avrebbe rinunciato alle sue eterne battaglie su famiglia, aborto-eutanasia, educazione, e si sarebbe concentrata su una nuova frontiera etica: le larghe intese. Papa Ratzinger avrebbe messo da parte la sua difesa della razionalità della fede e della presenza di Dio nella vita pubblica, e si accontenterebbe del ritorno al proporzionale. Insomma: l'unica moratoria che ormai interessa alla Conferenza episcopale italiana e ai suoi cocciuti capi sarebbe quella del voto in Italia. Scherziamo un po', ma mica tanto. Il paradosso serve a rendere l'idea. Ormai, qualunque cosa dicano un cardinale, un vescovo e tanto più il Papa, il loro verbo è travestito come al carnevale veneziano con maschere alla moda. Oggi è trendy mettere in bocca ai massimi esponenti della gerarchia cattolica l'auspicio per un accordo sulle riforme. Una settimana prima il ringraziamento di Ratzinger per la solidarietà all'Angelus sarebbe stato l'avallo a Mastella per mollare Prodi, e questo addirittura secondo il ministro della Università, Fabio Mussi. Insomma: interferenze su interferenze, maledette e benedette, vissute come placidi e costruttivi consigli o come odiose e simoniache intromissioni dello straniero, a seconda se giovino o meno alla causa.
INTERFERENZE E CONSIGLI
Di Ratzinger capocorrente dell'Udeur abbiamo detto. Ora è toccato a Betori, numero 2 della Cei, passare per un fautore del modello elettorale tedesco. È vero o falso? Ovvio. Come si diceva al liceo: sono le palle di fra Giulio. Più che il fastidio, nei Palazzi Apostolici e nella sede della Cei, prevale un senso di impotenza dinanzi a questa deriva per cui ogni frase di eccellenze ed eminenze subisce la deformazione del gioco politico. A proposito di panzane. Basta paragonare le frasi testuali di Betori pronunciate in conferenza stampa martedì scorso, e il modo come sono state riferite. 1) Ha invitato «tutti i soggetti politici a mettere al primo posto il bene comune rispetto a quelli che sono gli interessi di parte». 2) Ha detto di Napolitano: «I cittadini possono aver fiducia in questo presidente della Repubblica, nella sua capacità di giudizio, nel suo amore per il Paese. Saprà sicuramente operare per il bene comune all'interno delle possibilità offerte da tutti». «Non sta a me fare scelte che spettano solo al presidente della Repubblica». 3) Soluzioni alla crisi? «La Chiesa non deve e non intende coinvolgersi con alcuna scelta di schieramento politico. Non esprime preferenze per l'una o l'altra scelta costituzionale o istituzionale. E in questo contesto anche elettorale. L'importante è che ogni scelta sia rispettosa della democrazia».
LIBERE INTERPRETAZIONI
Chiaro, no? Betori ha elogiato Napolitano come presidente della Repubblica. Ovvio. Un minimo di rispetto. Per il resto ha detto: bene comune, scelta democratica. Invece la traduzione è stata la seguente. La Stampa: «La Cei preme: "Si trovi un accordo"». Il Messaggero: «I vescovi tifano per l'accordo: è indispensabile la riforma della legge elettorale». Ancora la Stampa: «La Cei: "Meglio la fine del maggioritario"». Corriere della Sera: «La Cei invoca l'intesa: "Prevalga il bene comune"». In questi titoli è palese l'equivoco increscioso per cui bene comune è sinonimo di inciucio. Secondo questa visione anche San Tommaso avrebbe vergato la Summa Theologica per favorire l'esplorazione di Marini. Non parliamo poi di Europa (organo della Margherita): «Imprese, vescovi, sindacati: almeno cambiate la legge». Il Manifesto: «Anche i vescovi benedicono il dialogo». Il Mattino: «"Un accordo per il Paese": I vescovi con Napolitano». Il Sole 24 Ore: «I vescovi: "Soluzione con l'accordo di tutte le parti"». Anche il Giornale, impazzito, titola: «Vescovi, industriali e sindacati: quell'asse contro le elezioni». Addirittura l'Asse, come quello di Roma, Berlino, Tokio. A questo punto che fare? Si sono posti il problema di precisare, smentire, correggere. Ma i vescovi farebbero la figura di quelli contro il bene comune, l'intesa, il dialogo, contro Marini, e dunque favorevoli all'elezioni. In realtà si occupano di altro. Ma se lo dicono, titolerebbero: i vescovi se ne fregano. (Renato Farina, Libero, 1 febbraio 2008)

Inghilterra: vietato dire mamma e papá


L’ossessione dell’omofobia
Gilbert Keith Chesterton diceva che «il guaio dell’uomo moderno non è quello di avere perso la fede, ma quello di avere perso la ragione». Basterebbe questa battuta per liquidare l’idiozia di un altro molto meno illustre cittadino inglese, il ministro per la scuola e per l’infanzia Ed Balls (nomen omen) che ha deciso di vietare ai bambini delle elementari l’utilizzo dei termini «mamma» e «papà», i quali sarebbero gravemente offensivi nei confronti degli omosessuali. Poiché in teoria - ma solo in teoria - dovrebbe esserci un limite all’imbecillità umana, il lettore può pensare che abbiamo capito male, e che le cose non stanno proprio così. E invece stanno proprio così, anzi un po’ peggio. Cito testualmente dall’agenzia: «L’espressione “mamma e papà” lede infatti i diritti dei genitori omosessuali e favorisce le tendenze omofobiche, diffondendo l’idea che esista solo una famiglia tradizionale». Fantastico. Secondo questo ministro - che è riuscito nella titanica impresa di farci rivalutare i nostri, di ministri - quella che i bambini nascano da una mamma e da un papà sarebbe «un’idea», e non un dato di fatto. Viceversa, Balls parla di «genitori omosessuali» come se, quelli sì, fossero un dato di fatto. Ora, il sottoscritto sarà anche un becero reazionario, ma se l’etimologia ha ancora un senso «genitore» vuol dire «colui che genera, che procrea, che dà la vita». Tutte cose che una coppia omosessuale non può né potrà mai fare, e non perché glielo impedisca qualche pretacchione: è la natura a frapporre qualche non marginale impedimento. È dunque la realtà, e non una chiesa o un partito politico, a mostrarci che dire «mamma» e «papà» non è un’offesa per nessuno, ma la cosa più naturale del mondo. Balls segue però, evidentemente, il metodo hegeliano secondo il quale «se la realtà non coincide con la teoria, tanto peggio per la realtà».Non è solo un problema di un qualsiasi Balls. Questa mentalità si sta sempre più diffondendo, anzi è l’unica accettata e riverita in quel patetico mondo del politically correct che ammorba parlamenti e redazioni dei giornali. Badate bene: la tutela degli omosessuali non c’entra nulla. Provvedimenti come quello del ministro inglese, o come tante altre norme cosiddette anti-omofobia, non vietano solo le offese ai gay (il che è sacrosanto): vietano anche che si possa dire «mamma» e «papà», vietano perfino - è scritto nel demenziale diktat inglese - che a scuola si possa parlare di «maschi» e di «femmine». Con il pretesto di tutelare alcuni, si nega il diritto di esistere a molti altri, direi a quasi tutti. Soprattutto, si nega il diritto di guardare in faccia alla realtà. Qualche tempo fa su Rai Tre, al programma Gaia il pianeta che vive, un geologo ha mostrato un amplesso omosessuale dipinto in una tomba etrusca per documentare come simili pratiche fossero del tutto normali nelle civiltà antiche, prima che arrivassero quegli omofobi dei cristiani; si è però guardato bene, il geologo, di aggiungere che a fianco di quel dipinto - che è nella tomba detta «dei Tori» a Tarquinia - ce n’è uno di accoppiamento eterosessuale, e il toro, simbolo del dio della fertilità, è raffigurato mentre si compiace del rapporto uomo-donna ma carica furiosamente quello omosex. Nelle civiltà antiche l’omosessualità era a volte anche serenamente accettata, ma mai nessuno si è sognato di equiparare per legge la famiglia eterosessuale a quella omosessuale; né tantomeno ha mai vietato di parlare di differenze tra i sessi, o impedito di pronunciare i nomi di «mamma» e «papà».Certe idiozie fanno proseliti, dicevo, e infatti ieri sera, sul sito del Corriere della Sera, nel sondaggio lanciato sul caso-Balls si registrava un 15 per cento di «sì» all’incredibile cancellazione dei termini «mamma» e «papà». Lo stesso sito del Corriere, giustamente, nel titolo parlava di «ossessione omofobia». Esatto: ormai è un’ossessione. Della quale anche gli omosessuali finiranno per fare le spese. È con le esagerazioni, con gli estremismi, con gli oltraggi alla ragione e al buon senso che si finisce poi con il provocare reazioni di segno opposto, con il favorire il ritorno di quelle discriminazioni che ormai da tempo erano del tutto, o quasi del tutto, giustamente scomparse. (Michele Brambilla, Il Giornale, 31 gennaio 2008)