Da
libere donne di Dio a schiave dell’ideologia. Kunigunde Furst non è il nome di
uno yogurth, di un frullato o di una birra, ma è il nome di una suora
francescana, appartenente ad una diocesi austriaca. Non una suora qualunque: la
Furst è, infatti, superiora generale delle francescane, di un istituto di
Diritto Pontificio (perciò maggiormente responsabile) ma anche dottore in
teologia. Questa religiosa sta impegnando di recente – e non poco – la
Congregazione per la Dottrina della Fede per le sue recenti uscite non solo
poco ortodosse, ma proprio eretiche. Tanto che, seppur francescana, potremmo
associarla forse più al francescanesimo eretico di Pietro Valdo (da cui derivano
i Valdesi) che non al povero santo patrono di Assisi.
Qui
non intendiamo anticipare quelle giuste sentenze ecclesiali che verranno, ma ci
par ragionevole approfondire l’argomento riguardo al tema “suore di oggi” e
chiederci il perché di certa inquietudine, cosa vogliono alcune di queste
sorelle e dove pretendono di arrivare.
Come
riporta il “Foglio” di qualche mese fa, in un articolo di Rodari, Sr. Furst si
è espressa in questi termini: “Prendiamo la questione del diaconato per le
donne: perché non deve essere possibile che delle donne vengano incaricate e
ordinate per questo incarico nella chiesa? Perché le si esclude? È la paura da
parte delle gerarchie che le donne si avvicinino troppo al presbiterato, o
addirittura alla funzione di vescovo”. E alla domanda se le donne debbano
essere ammesse al presbiterato, la suora risponde: “Posso immaginare che sia
possibile, anche se non per ogni donna. Le cose cambiano. Le religiose sono
sempre state viste come domestiche del clero. Ma noi non ci consideriamo più domestiche
del clero, e lo diciamo anche”.
O qui
c’è malafede oppure Sr. Furst ha cambiato Chiesa. Ciò che lei “può immaginare”
glielo lasciamo con gioia, ma non è ciò che la Chiesa insegna. Ora, non è
questo certo lo spazio adatto per una “lectio” sul tema: tuttavia, è
sufficiente chiarire alcuni punti per comprendere l’eresia della suora.
In
sintesi, una premessa: al sacramento dell’Ordine (episcopato, presbiterato e
diaconato) la Chiesa latina accosta il carisma del celibato obbligatorio, senza
eccezione. Solo per il diaconato “permanente” la Chiesa accetta e tollera i
candidati sposati, ma a condizione che venga mantenuta la stabilità nello stato
di vita al momento dell’ordinazione (il diacono celibe deve rimanere tale, lo
sposato se rimane vedovo, non può accedere a nuove nozze). Il diacono non deve
mai tendere ad imitare il presbitero perché egli riceve un mandato che lo
legittima ad un “ministero specifico” a servizio di chi ha bisogno nelle
comunità.
Il
diaconato, dunque, ha le sue radici, fin dal primo secolo, nell’organizzazione
ecclesiale del presbiterio a servizio del Vescovo e del presbitero stesso, ma
soprattutto è suo il servizio specifico della carità. A Roma, nel sec. III,
periodo delle grandi persecuzioni dei cristiani, appare la figura straordinaria
di san Lorenzo, arcidiacono del papa san Sisto II e suo fiduciario
nell’amministrazione dei beni della comunità. Di lui così ne parla il nostro
amato Papa Benedetto XVI: “La sua sollecitudine per i poveri, il generoso
servizio che rese alla Chiesa di Roma nel settore dell’assistenza e della
carità, la fedeltà al Papa, da lui spinta al punto di volerlo seguire nella
prova suprema del martirio e l’eroica testimonianza del sangue, resa solo pochi
giorni dopo, sono fatti universalmente noti” (omelia nella Basilica di san
Lorenzo, il 30.11.08).
La
sacramentalità del diaconato va quindi compresa nella prospettiva unitaria del
sacramento dell’Ordine. Una forma di “diaconato” al femminile c’era, è vero, ma
già nel secolo X non veniva più praticato in tutta la Chiesa, sia in Oriente
che in Occidente, ed in verità non era mai stato appoggiato dalla Chiesa fin
dal secondo secolo.
Ma
torniamo alla disobbedienza di queste suore. Il problema non è solo Sr. Furst,
ma anche tutta una associazione di suore statunitensi aderenti alla Leadership
conference of women religious (Lcwr), la cui battaglia contro i vescovi e Roma
è aperta, conclamata. Queste, di recente, hanno ricevuto una condanna da parte
della Congregazione per la dottrina della Fede a riguardo delle loro idee
stravaganti sull’etica, sulla morale e sui ministeri.
Iniziata
già con Paolo VI, l’inquietudine di certe religiose e laiche si era meritata
l’attenzione di Giovanni Paolo II. Su un articolo di Avvenire del 1993
leggiamo: “Il Papa riceveva ieri in visita “ad limina” i vescovi americani
delle province ecclesiastiche di Baltimora, Washington, Miami e Atlanta. Ancora
una volta Giovanni Paolo II ha ripetuto il suo fermo “no” ad ogni ipotesi di
aprire alle donne le porte del sacerdozio, come continuano a reclamare molte
femministe degli Stati Uniti.
Nello
stesso tempo, e per la prima volta in modo così esplicito, ha accusato certe
religiose di alimentare un femminismo esasperato e dannoso, in un momento in
cui in altri Paesi occidentali le donne cattoliche e le stesse suore impegnate
vanno ricercando la via di “rivendicazioni” più realistiche.
In un
discorso, il pontefice ha affrontato due temi particolarmente delicati: il
ruolo della donna nella Chiesa e la corretta concezione del rapporto fra
sacerdozio ordinato e sacerdozio comune, quello cioè dei fedeli battezzati.
La
Chiesa – ha affermato – considera i diritti della donna un passo essenziale
verso una più giusta e matura società ed essa non può non far proprio questo
giusto obiettivo. Ma ha voluto puntualizzare che nella Chiesa vi sono dei
limiti. E per indicarli, ha preferito lamentarsi del clima di insoddisfazione
che alcuni circoli cercano di rafforzare contro la posizione della Chiesa sul
problema femminile ed in particolare sul sacerdozio delle donne, ormai
accettato nel mondo anglicano e da altre Chiese cristiane negli Stati Uniti.
Giovanni
Paolo II ha invitato a ben distinguere fra i diritti civili e umani di una
persona e i diritti, i doveri, il ministero e le funzioni che gli individui
hanno o godono all’ interno della Chiesa. Una ecclesiologia manchevole, ha
affermato, può facilmente condurre a presentare false questioni o a sollevare
false speranze.
Ciò
che e’ certo è che la questione non può essere facilmente risolta attraverso un
compromesso con un femminismo che si polarizza lungo linee aspre e ideologiche.
Non e’ solo il fatto che alcune persone reclamano un diritto per le donne di
essere ammesse al sacerdozio nella sua forma estrema: è la stessa fede
cristiana che rischia di essere compromessa. Sfortunatamente – ha sottolineato
Papa Wojtyla, concludendo – questo tipo di femminismo e’ incoraggiato da alcune
persone nella Chiesa, comprese alcune religiose i cui atteggiamenti,
convinzioni e comportamenti non corrispondono a ciò che il Vangelo e la Chiesa
insegnano. Spetta ai vescovi affrontare la sfida che persone con queste
convinzioni rappresentano ed invitarle ad un sincero e onesto dialogo sulle
aspettative delle donne nella Chiesa“.
Questa
mania anni ‘70 della discussione su tutto, continua ancora a produrre divisione
ecclesiale.
Mi si
conceda però di fare un appunto che ci porta alla radice di certe
contestazioni, nelle quali non c’entra solo il femminismo. A causa di una falsa
ermeneutica sull’ecumenismo, che è meglio chiamare “ecu-mania” e che ha
imperversato fino a poco tempo fa, siamo stati spettatori impotenti di
circostanze al limite del buon senso.
Non
c’è dubbio quindi che il fascino di emulare “ecumenicamente” certe situazioni
“ministeriali”, già in essere nel mondo protestante, abbia dato forza e linfa
alle rivendicazioni di queste suore già ammalate di femminismo. Nonostante il
magistero, anche recente, della Chiesa abbia condannato senza mezze misure ogni
lettura femminista della dottrina cattolica, escludendo in via definitiva ogni
velleità da parte femminile di accedere al sacramento dell’Ordine.
E se
queste sorelle, invece di lamentarsi, prendessero esempio da Maria?
Possiamo
notare una certa inadeguatezza e sguaiatezza intellettuale da parte di certe
religiose che vorrebbero fare la voce grossa, come se fossero “affrancate” da
ogni legge. Confesso che è difficile comprendere certe pretese e certa
disinvoltura intellettuale da parte di queste religiose moderniste-femministe!
C’è stato in molte di loro un grave cambiamento che sta pregiudicando il
carisma dei fondatori o fondatrici degli ordini religiosi a cui appartengono.
Mi
ritengo fortunato per la testimonianza di santità di ieri e di oggi, che ho
potuto cogliere in molti membri di ordini e congregazioni religiose; ma proprio
per questo, non è possibile minimizzare il danno che sta provocando una Sr.
Furst, o quello dell’Associazione delle religiose ribelli in America, come pure
quello di quanti nella Chiesa le sostengono!
Dice
Benedetto XVI, il Papa emerito: “La Chiesa è stata sempre riformata dalla
santità, non dalla ribellione”. La suora in quanto tale, proprio perché ha
assunto come modello principale ed assoluto la Beata Vergine Maria, non ha
alcun diritto di ribellarsi alla Chiesa. Del resto, cosa è la vocazione
religiosa? È una chiamata di Dio, è vero, ma è anche molto di più: è un
rapporto materno particolare ed unico con il Signore.
Vediamo
un po’ di storia. Le suore (termine latino che significa “sorelle”) di “vita
attiva” si svilupparono nel XVI sec. quando l’attività evangelizzatrice della
Chiesa cominciò ad espandersi, oltre che in Europa e nel Vecchio continente,
anche nelle terre d’oltre Oceano; lo scopo era quello di occuparsi delle
attività caritative, affiancandosi ai sacerdoti missionari, spesso diventati
poi fondatori di congregazioni e santi. Ben presto si moltiplicarono e, in una
forma allora nuova per la Chiesa, si prodigarono, oltre che alle opere
caritative, anche nell’attività più impegnativa dell’insegnamento. Fino ad
allora erano i laici aggregati alle Confraternite o agli Ordini Terziari ad
occuparsi di tali attività.
Pochi
forse sanno però che, prima delle suore di vita attiva, furono fondate, e
presenti nella Chiesa, le monache di clausura. Lo stesso san Benedetto intorno
al 500, e altri santi fondatori, nel dare vita agli ordini maschili, si
prodigarono perché fosse presente anche il ramo femminile, a cui affidare una
interrotta lode a Dio. Papa Paolo VI a chi gli chiese “perché farsi monaca di
clausura?”, rispose: “È necessario che ci siano al mondo persone che trattino
il Signore da Signore”.
La
monaca di clausura in particolare è colei che ha avuto la chiamata di vivere
alla lettera il messaggio evangelico. Essa ha Maria quale modello di vita
silenziosa e nascosta, tuttavia mai oziosa e mai distaccata dalla missione
terrena del Figlio. La monaca di clausura è presente nella vita di ogni uomo
perché il suo umile “Si” si è fuso nel “Si” di Maria: se Maria è in attesa del
Figlio di Dio per la salvezza dell’umanità, la monaca di clausura è in “attesa”
della ri-nascita spirituale di ogni uomo, vivendo attraverso e mediante il
sacrificio di Gesù sulla Croce. Ecco perché il silenzio, la dura disciplina,
l’Eucarestia, sono il fulcro della vita claustrale, così come lo sono per tutta
la Chiesa, così come dovrebbe esserlo anche per noi, seppur nei modi propri a
ciascuna scelta di vita. Le suore di clausura, perciò, sono sì “separate” ma
mai “divise” dal resto del mondo; nel silenzio delle loro mura, sono il battito
del cuore orante perpetuo della Chiesa; sono la sua linfa, attaccata ai tralci
i quali, a loro volta e come ci dice il Cristo, sono attaccati all’intera Vite,
cioè Lui stesso, “pietra angolare” della Chiesa, su cui poggiano le sue
fondamenta. Famosa, in proposito, e profondamente vera, risuona la frase programmatica
di santa Teresina del Bambin Gesù: “Nel cuore della Chiesa mia Madre, io sarò
l’amore”. Altro che l’attuale contestazione, ribellione, disobbedienza,
esibizionismi, e ore passate in internet e su Facebook!
Tornando
a Sr. Furst: c’è un’altra frase, già riportata, che merita comunque una
spiegazione. Dice la suora: “Le religiose sono sempre state viste come
domestiche del clero. Ma noi non ci consideriamo più domestiche del clero, e lo
diciamo anche”.
Non
conosco la fondatrice o il fondatore della Congregazione a cui appartiene
questa suora, ma so per certo che questo termine “domestiche” non può
corrispondere a verità. Quindi lo ripeto: o c’è mala fede o c’è ignoranza.
Gesù
venne “per servire”, lo ha ampiamente dimostrato: e su questo carisma della
Chiesa, Papa Francesco ha ampiamente dimostrato di poggiare il suo ministero
pastorale.
Ora se
il presbitero “serve” il Signore attraverso il ruolo pastorale che gli è
proprio, la “monaca di clausura” attraverso atti che sono propri della sua
professione monastica, quali il “quaerere Deum” con la preghiera, l’obbedienza,
la povertà e castità, “donando” cioè l’intera sua vita, la “suora” di vita
attiva lo fa attraverso una maternità che è propria del servire i figli
rigenerati dalla Chiesa mediante il Battesimo, lo fa concretamente attraverso
l’insegnamento, la catechesi, il servizio a favore dei malati, dei poveri,
nelle Case Famiglia -che si occupano di bambini abbandonati, ragazze madri, ecc
- e in tutti gli altri compiti specifici previsti dalle Congregazioni in cui
sono state chiamate secondo la volontà di Dio.
Nella
consacrazione di ognuna di loro (come anche per le donne spose e madri, così
come per le “consacrate” laiche non sposate) c’è alla base l’essere “serve”
proprio sul modello della Beata Vergine Maria che disse: “L’anima mia magnifica
il Signore (…) perché ha guardato l’umiltà della sua ancella, d’ora in poi
tutte le generazioni mi chiameranno beata…”.
Penso:
come fa Sr. Furst, cantando il Magnificat ogni sera ai Vespri, a pronunciare quella
parola “ancella” e poi affermare una balordaggine simile: “…ma noi non ci
consideriamo più domestiche del clero”?
C’è
invece da sottolineare, in tutta onestà, quanta libertà ci sia nel consacrarsi
e nel servire il Signore. Le suore, le monache, per il loro carisma, sono
votate infatti ad una autentica libertà che non è altro che un assaggio, ma
anche una prova in questo mondo, di quella pienezza promessa da Nostro Signore
a chi, lasciando tutto, ma proprio tutto, si sarebbe fatto servo dei servi di Cristo.
Vi
ricordate chi usava molto questa frase? Santa Caterina da Siena. La patrona
d’Italia scriveva: “Io Catharina, serva dei servi (i Presbiteri, i Vescovi, il
Papa) di Cristo, nel Suo preziosissimo Sangue, voglio!…”. Come fa una monaca,
una suora oggi, a rigettare tale grande chiamata, rifiutare quel “fiat” con il
quale la Beatissima Vergine Maria fu la prima serva, correndo dalla cugina
Elisabetta per portarle il suo aiuto, per servirla?
Non
diciamo che un tale decadimento è colpa del Concilio… Qui il Concilio non
c’entra nulla.
Le
avvisaglie erano state colte da tempo. Già Paolo VI, infatti, nell’omelia del
30 giugno 1968, per la chiusura dell’Anno della Fede e prima di pronunciare il
solenne Atto di Fede della Chiesa (che sarebbe bene riproporre anche nel
corrente Anno della Fede!), disse: “Noi siamo coscienti dell’inquietudine, che
agita alcuni ambienti moderni in relazione alla fede. Essi non si sottraggono
all’influsso di un mondo in profonda trasformazione, nel quale un così gran
numero di certezze sono messe in contestazione o in discussione. Vediamo anche
dei cattolici che si lasciano prendere da una specie di passione per i
cambiamenti e le novità. […] Pur nell’adempimento dell’indispensabile dovere di
indagine, è necessario avere la massima cura di non intaccare gli insegnamenti
della dottrina cristiana. Perché ciò vorrebbe dire – come purtroppo oggi spesso
avviene – un generale turbamento e perplessità in molte anime fedeli.”
Scriveva
Giovanni Paolo II: “Viene l’ora, l’ora è venuta, in cui la vocazione della
donna si svolge con pienezza, l’ora in cui la donna acquista nella società
un’influenza, un irradiamento, un potere finora mai raggiunto. È per questo
che, in un momento in cui l’umanità conosce una così profonda trasformazione,
le donne illuminate dallo spirito evangelico possono tanto operare per aiutare
l’umanità a non decadere. (…) il mio Predecessore Paolo VI ha esplicitato il
significato di questo «segno dei tempi», attribuendo il titolo di Dottore della
Chiesa a santa Teresa di Gesù e a santa Caterina da Siena, ed istituendo,
altresì, su richiesta dell’Assemblea del Sinodo dei Vescovi nel 1971,
un’apposita Commissione, il cui scopo era lo studio dei problemi contemporanei
riguardanti la «promozione effettiva della dignità e della responsabilità delle
donne». In uno dei suoi discorsi Paolo VI disse tra l’altro: “Nel
cristianesimo, infatti, più che in ogni altra religione, la donna ha fin dalle
origini uno speciale statuto di dignità, di cui il Nuovo Testamento ci attesta
non pochi e non piccoli aspetti (…); appare all’evidenza che la donna è posta a
far parte della struttura vivente ed operante del cristianesimo in modo così
rilevante che non ne sono forse ancora state enucleate tutte le virtualità”
(discorso citato nella lettera apostolica Mulieris Dignitatem di Giovanni Paolo
II, n.1).
Nella
Lettera ai Vescovi dell’allora cardinale Ratzinger, Prefetto della
Congregazione per la dottrina della Fede, sulla collaborazione fra l’uomo e la
donna, così esordisce: ” Esperta in umanità, la Chiesa è sempre interessata a
ciò che riguarda l’uomo e la donna. In questi ultimi tempi si è riflettuto
molto sulla dignità della donna, sui suoi diritti e doveri nei diversi settori
della comunità civile ed ecclesiale. Avendo contribuito all’approfondimento di
questa fondamentale tematica, in particolare con l’insegnamento di Giovanni
Paolo II, la Chiesa è oggi interpellata da alcune correnti di pensiero, le cui
tesi spesso non coincidono con le finalità genuine della promozione della
donna“.
Quali
sono queste “correnti di pensiero” che non coincidono con l’autentica
promozione della donna? Eccole, nei passaggi salienti del suddetto documento:
a)
“Una prima tendenza sottolinea fortemente la condizione di subordinazione della
donna, allo scopo di suscitare un atteggiamento di contestazione. La donna, per
essere se stessa, si costituisce quale antagonista dell’uomo. Agli abusi di
potere, essa risponde con una strategia di ricerca del potere. Questo processo
porta ad una rivalità tra i sessi, in cui l’identità ed il ruolo dell’uno sono
assunti a svantaggio dell’altro, con la conseguenza di introdurre
nell’antropologia una confusione deleteria che ha il suo risvolto più immediato
e nefasto nella struttura della famiglia.
b) Una
seconda tendenza emerge sulla scia della prima. Per evitare ogni supremazia
dell’uno o dell’altro sesso, si tende a cancellare le loro differenze,
considerate come semplici effetti di un condizionamento storico-culturale. In
questo livellamento, la differenza corporea, chiamata sesso, viene minimizzata,
mentre la dimensione strettamente culturale, chiamata genere, è sottolineata al
massimo e ritenuta primaria. L’oscurarsi della differenza o dualità dei sessi
produce conseguenze enormi a diversi livelli. Questa antropologia, che
intendeva favorire prospettive egualitarie per la donna, liberandola da ogni
determinismo biologico, di fatto ha ispirato ideologie che promuovono, ad
esempio, la messa in questione della famiglia, per sua indole naturale
bi-parentale, e cioè composta di padre e di madre, l’equiparazione
dell’omosessualità all’eterosessualità, un modello nuovo di sessualità
polimorfa”.
“L’utero
è mio e lo gestisco io” di infelice memoria, nel cuore della protesta
femminista degli anni ’60, non ha fatto altro che offuscare il ruolo della donna
facendola precipitare in una pietosa solitudine sfociata in una ribellione
contro l’uomo. La prima vittima di questa assurda ed incomprensibile
rivendicazione è stata proprio la donna stessa, il suo ruolo, la famiglia, la
vita umana, i figli concepiti che vengono uccisi (per legge) per rivendicare
una libertà che è diventata una autentica schiavitù del nostro tempo. Vittima
di se stessa anche la società, che ha permesso la deriva dell’irragionevolezza,
dell’irrazionalità sull’identità dell’essere maschio e dell’essere femmina. Se
è vero che la donna ha dovuto combattere contro una certa misoginia dura a
morire, è anche vero che nessuna suora o monaca (ma neppure una donna laica)
può accusare la Chiesa di essere misogina, rispondendo ad una sua inquietudine,
sollevando la bandiera del femminismo più sfrenato dalla presunzione di
azzerare o equiparare, al fine annullandole, l’identità delle persone e dei
ruoli.
(Ma.La.
da una ricerca a firma Dorotea Lancellotti, Papalepapale, 1/2013)