martedì 24 novembre 2009

Karl Rahner e Rosy Bindi, azzardiamo un fil rouge

Chi l'avrebbe mai detto che la monumentale opera di Karl Rahner potesse essere seriamente criticata? Eppure è arrivato il tempo. Si è alzato un venticello allegro che quantomeno solleva il problema, chissà se si trasformerà in uragano?
Il Rahner è un mostro sacro della teologia “moderna” (un vero e proprio “grafomane” considerando i quintali di libri che ha scritto), citatissimo anche in ambito pastorale dove è stato proposto a semplici fedeli che di trascendentali si intendono il giusto o niente.
In generale l'opera di alcuni teologi, soprattutto dopo il Concilio Vaticano II, è venuta spesso a costituire un magistero parallelo a cui bravi sacerdoti hanno attinto a piene mani per stare “al passo con i tempi”. Peccato che i fedeli non siano teologi e normalmente non hanno strumenti per districarsi in questioni complesse, tantomeno quando si è preventivamente e chirurgicamente demolito il principio di autorità del Magistero del Papa.
Se è possibile parlare di una critica a Rahner nessuno si offenderà se tento una valutazione del pensiero espresso da Rosaria (detta Rosy) Bindi in “Quel che è di Cesare”, intervista concessa a Giovanna Casadio e pubblicata da Laterza; vorrei poi azzardare l'individuazione di un fil rouge tra i due.
Iniziamo dalla Bindi. Qui non si vuole giudicare nessuno dal punto di vista personale, cercherò, invece, di individuare il principio di fondo che guida il suo ragionamento e che in radice nasce da una teologia che però forse non è “nova teologia”, ma come diceva il Card. Siri in un famoso decalogo del progressismo cattolico, “anatematizzata teologia”.
Questo principio di fondo si può riconoscere velatamente celato nella frasetta “stare al passo con i tempi” che in altri termini rappresenta il modo in cui si realizza la “mediazione tra fede e storia”.
A proposito di questa mediazione la Bindi dice che “per noi (cattolici democratici N.d.A.) la forza della fede si manifesta non nella contrapposizione, ma nell'incontro con il mondo” (pag. 14). Dal punto di vista del politico in questione questo “incontro” dovrebbe realizzarsi nel “meticciato tra le culture politiche riformiste” dove “i cattolici democratici devono accettare la contaminazione per essere il fermento di una nuova politica e dare nuove risposte alle nuove sfide”.
Per cercare di passare dalle parole ai fatti vediamo quali sono queste nuove risposte illustrate nel libro-intervista, lo facciamo però da cattolici che valutano un politico cattolico, quindi alla luce del Magistero.
Nel 2002 la Congregazione per la Dottrina della Fede emetteva una Nota circa l'impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica da cui emerge che la politica non è separabile dalla morale. Vi è un “diritto-dovere dei cittadini cattolici, come di tutti gli altri cittadini, di cercare sinceramente la verità e di promuovere e difendere con mezzi leciti le verità morali riguardanti la vita sociale, la giustizia, la libertà, il rispetto della vita e degli altri diritti della persona.”
Rispetto a ciò la “ricerca onesta e paziente di soluzioni condivise” (pag. 36) fino a che punto può prescindere dalla Verità? E' possibile perseguire il bene comune abdicando alla Verità che la retta ragione permette di raggiungere? Cosa rappresenta la Verità? Provo a misurare alcune “nuove risposte” ad alcune “nuove sfde” prospettate nel libro, per riprendere poi tali quesiti che penso siano cruciali.
I “Dico”: pag. 44 – “Cercavamo di riscattare dalla clandestinità giuridica tante realtà di fatto”... “Sono convinta che la disponibilità verso un'umanità in trasformazione e alla ricerca di risposte sia la cifra della misericordia. (...) La Chiesa è maestra perché prima di tutto è madre, comprensiva e accogliente.” Peccato che non vi sia nessun riferimento alle motivazioni, più volte espresse dal Magistero (ad es. Familiaris Consortio di Giovanni Paolo II), sul significato del matrimonio e del matrimonio cattolico come bene in sé. Dalle parole della Bindi pare che della “realtà di fatto” si debba semplicemente prendere atto, ratificarla. Come se dire “no” fosse soltanto oscurantismo e non anche una “cifra della misericordia”. (Cfr. Opere di misericordia spirituale)
“Omosessualità”: pag. 48 – Alla domanda: come può un credente accettare questa discriminazione [da parte della Chiesa]?”, la Bindi risponde in sostanza che “C'è una Chiesa di tutti i giorni che nella sua pastorale accoglie e non discrimina. ... Ma riconosco un certo ritardo, il peso di un antico tabù, la difficoltà a condividere il cammino di tante esperienze locali”... Quindi deduco che non si accetta la posizione della Chiesa, ma non si fa nessun riferimento ai perché. Di più, si contrappone una Chiesa “di tutti i giorni” ad una presunta Chiesa ufficiale, omettendo che la Chiesa non è un fenomeno associazionistico. Ancora una volta la ricerca paziente e onesta di soluzioni condivise coniuga la laicità del cattolico come un derogare a motivazioni di tipo morale, relegandole solo all'ambito privato. A supporto si cita una presunta “Chiesa di tutti i giorni” che nella pratica pastorale parrebbe avvallare presumo perdonando, ma questo non è in discussione.
“Eluana e altre storie”: pag. 55 “Non ho certezze sulla storia di Eluana, ma penso che mi sarei comportata in modo diverso dalla sua famiglia. Però non mi sento di giudicare il padre”. Ok, quindi? “Leopoldo Elia parlava a questo riguardo di “leggi facoltizzanti” che non impongono comportamenti, ma consentono di fare scelte secondo la coscienza di ciascuno. Anche queste vanno contro la legge di Dio? ... laicità e democrazia sono valori anche per la Chiesa, e mi dispiace quando la Chiesa lo dimentica.” (Ma la democrazia e la laicità su quali valori si fondano? Solo sulla conta dei voti?)
pag. 61 – “L'embrione è quindi intoccabile? Lascio alla scienza le risposte su quando cominci la vita, che però è senza soluzione di continuità. Non ci sono dubbi che l'embrione sia principio di vita, di certo non è una persona.” (Istruzione della Congregazione della Dottrina della Fede Dignitatis personae n°4: L'essere umano va rispettato e trattato come una persona fin dal suo concepimento.)
pag. 66 – “il suo giudizio oggi (sulla L.194)? Una legge che attende di essere pienamente attuata...”. (No comment)
pag. 68 – incalzata sul tema contraccezione si arriva infine all'Humanae Vitae con ovvia citazione del Card. Martini e la sua proverbiale apertura sul tema. La Bindi risponde “Stiamo parlando di quarant'anni fa, l'atteggiamento pastorale educativo può cambiare e cambia, lentamente, ma cambia.” (Se cambia l'atteggiamento pastorale-educativo, cambia anche la norma morale della Dottrina Cattolica? Se sì perché? Non sa stare al passo con i tempi?)
A pag. 69 arriviamo finalmente ad un passaggio chiave dove si dice che la “fede è un salto”. Deve intendersi nel buio? oppure c'è una ragionevolezza della fede che è raggiungibile da tutti? Più avanti a pag. 71 si dice che “la Chiesa ha diritto di parola in ogni ambito della vita collettiva. Ma oggi non si limita ad annunciare il Vangelo, propone anche un progetto culturale e offre una nuova (!!??) antropologia. E qui siamo sul filo e corriamo il rischio di ridurre la novità e il salto della fede a un insieme di regole morali e precetti da imporre.”
Eccoci al cuore del problema perché il moralismo non piace a nessuno. Il dramma è tutto qui. La fede è si un salto, ma tutt'altro che nel buio, qui di fatto si rischia di cadere in quella deriva fideistica di stampo relativista che riduce la fede ad una questione privata, qui si innesta tutta quella teologia post-conciliare che volente o nolente strizza l'occhio al protestantesimo estromettendo la possibilità di una ragionevolezza della fede. Questa ragionevolezza, valida per tutti coloro che si lasciano interrogare con umiltà e riconoscono almeno la loro creaturalità, porta a riconoscere la Verità della legge morale. Di cui non ci si deve vergognare, né vi si può abdicare per “contaminarsi” con il fine politico di “trovare soluzioni valide per tutti”.
Ora proviamo a spiegare e azzardiamo quel fil rouge tra Rahner e la Bindi introducendo il lavoro di critica a Rahner svolto da P. Cavalcoli e recentemente pubblicato da Fede&Cultura. Il teologo domenicano dice che Rahner è “il grande architetto della teologia del XX secolo” il quale non si è accontentato di proporre una visione alternativa al magistero della Chiesa, ma si è fatto, alla maniera protestante, «maestro e correttore di presunti errori», imponendosi anche all'interno della gerarchia stessa come teologo di riferimento di una presunta ortodossia.
Citando lo stesso Rahner arriviamo a dare un fondamento teologico anche alle “nuove soluzioni” prospettate dalla Bindi: «Sempre e dappertutto l'uomo, nelle decisioni assolute e irrivedibili della sua vita, si basa su realtà storiche sulla cui esistenza e natura egli non possiede teoreticamente alcuna assoluta sicurezza». Se il percorso della conoscenza è immerso nella nebbia dei condizionamenti storici, P. Cavalcoli sottolinea come a maggior ragione Rahner non possa ammettere concetti dogmatici che non siano macchiati dalla relatività. In questo lavoro del teologo domenicano viene messa in discussione radicalmente una certa interpretazione del Concilio, quel consesso di cui Rahner era perito e da cui successivamente ha tratto interpretazioni di alcuni insegnamenti della Chiesa che Cavalcoli non teme di giudicare «eretici».
«Occorre correggere gli errori di Rahner alla luce della dottrina della Chiesa e della sana filosofia», uno sforzo che implica «un intervento prudente, mirato, sistematico e organizzato dell'episcopato sotto la guida della Santa Sede».
Per tentare di dirla in parole povere il fil rouge sta nel modo in cui “stare al passo con i tempi”, “la mediazione tra fede e storia” che la Bindi vuole applicare nelle sue scelte politiche, questo può essere a sua volta un dogma che finisce per cancellare qualsiasi altro riferimento; anzi dimostra di fondarsi su di un probabilissimo errore teologico quando appunto il processo di conoscenza della verità viene subordinato a condizionamenti contingenti, perdendo così il suo carattere di riferimento assoluto.
Inoltre su questo si innesta anche il lavoro svolto nel post-concilio dalla cosiddetta Scuola di Bologna che, sulle ali del dossettismo politico, procedeva teologicamente nel rifiuto dell'opposizione della Chiesa Cattolica alla modernità.
Questa “sfiducia nella verità” (Cfr. Lett. Enc. Fides et Ratio Giovanni Paolo II) che nasce dalla riduzione della ragione a ragione strumentale è alla base del fraintendimento della laicità che a nostro parere emerge dall'intervista della Bindi. Se non c'è una verità, o meglio se non c'è una verità che è anche il bene dell'uomo, ogni norma morale è ovvio che divenga relativa e sia vissuta solo come un'ingerenza. L'affermazione dell'esistenza della verità non è assolutamente in contrasto con la misericordia, anzi ne è il fondamento. (Cfr. Lett. Enc. Caritas in Veritate di Benedetto XVI)
Chiudo citando Romano Amerio che nel famoso e riscoperto Iota Unum al n. 4 diceva: “comune è la sentenza secondo la quale la crisi della Chiesa è crisi di inadattamento alla civiltà moderna e il superamento della crisi è da ricercare in una apertura. (...) Però l'accomodazione che è essenziale alla Chiesa non consiste nel conformarsi al mondo, ma nel confermare la propria contrarietà al mondo secondo le varie attinenze storiche, e nel variare, non nel deporre, quell'essenziale contrarietà.”
PS: I recenti appelli del Santo Padre circa la necessità di una “nuova generazione di politici cattolici” (Cfr. Viaggio Apostolico a Cagliari) speriamo possano essere ascoltati in tutto il panorama politico italiano ed europeo. Preghiamo anche per questo.

(Fonte: Lorenzo Bertocchi, Parati semper blog, novembre 2009)

Le “allegre teologie” contemporanee: Fra Alberto Maggi

Teologo cattolico e frate dell'Ordine dei Servi di Maria. Direttore del Centro Studi Biblici. «G. Vannucci» di Montefano (MC). Cura la divulgazione, a livello popolare, della ricerca scientifica nel settore biblico attraverso scritti, trasmissioni radiofoniche e televisive e conferenze in Italia e all’estero. Ha studiato nelle Pontificie Facoltà Teologiche «Marianum» e «Gregoriana» (Roma) e all’«École Biblique et Archéologique française» di Gerusalemme.
Alcuni passaggi della sua “allegra teologia”: ...
Ancona 12 maggio 2009 ad una conferenza dello UAAR a tema “Il Dio che non c’è”: (..) è necessario eliminare dal concetto di Dio tutte quelle scorie che tradizioni, superstizioni, devozioni hanno accumulato sul suo volto rendendolo irriconoscibile.
Palermo 21-22 marzo 2009, al Sesto incontro seminario biblico: (…) nel giro di pochi anni, dalla teologia della liberazione si è passati alla teologia della riesumazione: si riesumano cadaveri, si riesumano dalla naftalina paramenti, teologie che si speravano defunte, dimenticate, ormai perse nel museo dell’inutile. (…) La chiesa oggi possiede oro e argento e non solo è incapace di alzare quelli che non camminano ma fa inciampare quelli che stanno camminando.(…) Sembra che le persone, per vivere la spiritualità debbano rinunciare alle parti importanti e costituenti della propria esistenza: l’affettività, la sessualità… E dunque la morale cattolica si fa estremamente rigorosa su quegli argomenti sui quali Gesù non ha mai aperto bocca; Gesù non ha mai parlato di sesso e di sessualità. (…) altro libro che influì negativamente nella spiritualità fu l’Imitazione di Cristo. Qui si leggeva, pensate che allegria: “la mattina fa conto di non arrivare alla sera. E quando poi si fa sera non osare sperare l’indomani. Sii dunque sempre pronto”. E poi “quando ti alzi la mattina non sai se arrivi alla sera e la sera non sai se arriva domani”. Tutto ciò ha creato delle turbe religiose, delle turbe psichiche. (…) Oggi possiamo chiudere questa squallida pagina grazie al concilio vaticano che ci ha invitato a riscoprire nei vangeli la sorgente della fede, la sorgente della spiritualità, la sorgente della predicazione. (…) nell’antica spiritualità era Dio che assorbiva l’uomo, assorbiva le energie dell’uomo e l’uomo doveva orientarsi verso Dio. Nella nuova spiritualità è invece Dio che chiede di essere accolto dall’uomo. (…) Quindi quello che motiva la vita e l’insegnamento di Gesù non è tanto quello che offende Dio, il peccato, ma quello che offende l’uomo l’ingiustizia. (…) L’invito di Gesù è, invece, assomigliare al Padre, come? Attraverso la pratica della misericordia: siate misericordiosi come misericordioso è il padre vostro. Mentre la santità non è alla portata di tutti (chi può vivere la propria esistenza con tutte quelle preghiere, con tutte quelle devozioni, con tutte quelle rinunce?), la misericordia si. La misericordia è alla portata di ogni persona. Perché essere buoni fino in fondo, questo è possibile a tutti. (…) ci sono in noi degli aspetti negativi, difetti, atteggiamenti negativi, di questi non siamo noi che ci dobbiamo preoccupare. La nostra unica occupazione, ci chiede Gesù: occupatevi e preoccupatevi del bene degli altri. I nostri atteggiamenti negativi, penserà Lui ad eliminarli. (…) le autorità religiose sono le prime a non credere nella dottrina che impongono. E la impongono proprio perché sanno che non è credibile. Perché un qualcosa si deve imporre? Se qualcosa si impone, significa che non è qualcosa di buono. Quando qualcosa si impone, significa che non è riconosciuta come qualcosa di positivo. (…) Non chi guarda indietro è in sintonia con il Signore ma chi con lui e come lui va verso il futuro con e per i fratelli.
Cefalù 13-16/11/2008 intervento “Chiesa del concilio dove sei?”: (…) E pensate l’idea tremenda che ha frustrato l’esistenza di tante generazioni, che ha impedito alle persone di vivere pienamente la propria vita, la propria affettività, gioiosamente la propria sessualità: per paura di cosa? La paura dell’inferno! Finalmente! Fosse soltanto per questo la nuova traduzione è meritevole! nella nuova traduzione (oh, della Conferenza Episcopale Italiana, eh!) è sparito l’inferno. Non c’è più l’inferno. Ah! Che respiro. Fosse soltanto per questi due aspetti, valeva la pena di questa traduzione.
Ora sì che siamo liberi… di fare quello che ci pare, l’importante è che siamo buoni, ognuno a modo suo. Ma allora cosa è il Bene?
– Dalla Lettera Enciclica “Caritas in Veritate” (Benedetto XVI): Sono consapevole degli sviamenti e degli svuotamenti di senso a cui la carità è andata e va incontro, con il conseguente rischio di fraintenderla, di estrometterla dal vissuto etico e, in ogni caso, di impedirne la corretta valorizzazione. In ambito sociale, giuridico, culturale, politico, economico, ossia nei contesti più esposti a tale pericolo, ne viene dichiarata facilmente l'irrilevanza a interpretare e a dirigere le responsabilità morali.
– Dalla Lettera Enciclica “Fides et Ratio” (Giovanni Paolo II): Un'espressione oggi diffusa di tale tendenza fideistica è il «biblicismo», che tende a fare della lettura della Sacra Scrittura o della sua esegesi l'unico punto di riferimento veritativo. Accade così che si identifichi la parola di Dio con la sola Sacra Scrittura, vanificando in tal modo la dottrina della Chiesa che il Concilio Ecumenico Vaticano II ha ribadito espressamente. La Costituzione “Dei Verbum”, dopo aver ricordato che la parola di Dio è presente sia nei testi sacri che nella Tradizione, afferma con forza: «La Sacra Tradizione e la Sacra Scrittura costituiscono un solo sacro deposito della parola di Dio affidato alla Chiesa. Aderendo ad esso tutto il popolo santo, unito ai suoi Pastori, persevera costantemente nell'insegnamento degli Apostoli». La Sacra Scrittura, pertanto, non è il solo riferimento per la Chiesa. La «regola suprema della propria fede» infatti, le proviene dall'unità che lo Spirito ha posto tra la Sacra Tradizione, la Sacra Scrittura e il Magistero della Chiesa in una reciprocità tale per cui i tre non possono sussistere in maniera indipendente.
PS: gli interventi di Fra Alberto sono stralci, invito alla lettura integrale per approfondire. Materiale on-line c'è n'è molto su cui continuare allegramente queste considerazioni.

(Fonte: Parati semper blog, novembre 2009)

Ad ognuno il suo ruolo di rivoluzionario

Venti anni fa cadeva il Muro di Berlino. Bene, bravi, 7+ ! Sinceramente mi pare che tutti i comunisti abbiano di che rallegrarsi, perché cadendo il muro si è potuta avviare la vera ed autentica realizzazione del loro sogno: il socialismo reale! Eh, sì cari signori noi oggi in occidente viviamo in una realtà culturale e sociale che è la realizzazione autentica del comunismo, grazie ad un’alleanza inaspettata: l’ideologia liberal. Chi l’avrebbe mai detto…Peppone si sta rivoltando nella tomba.
C’è di più. Per uno strano gioco del destino Marx e Nietzsche si ritrovano insieme laddove l’ateismo eretto a sistema si congiunge ad un nichilismo esistenziale, che tradotto alla buona suona circa così: vivi come se Dio non ci fosse e non ti preoccupare, l'esistenza è solo un'opportunità per sensazioni ed esperienze in cui l'effimero ha il primato.
La logica del mercato, in cui regna il principio del criterio di efficienza economica, riduce i rapporti sociali a puri rapporti economici e si ciò fonda sulla democrazia in cui la forza della quantità di voti è l’unica autorità valoriale. Con la benedizione della borghesia che per ciò ha accettato, in accordo al marxismo, la perdita della dimensione del passato.
Fiumi d’inchiostro e illustri pensatori si sono dedicati al tema e direi che i germi di questo abbraccio vadano ricercati negli anni ’30 del secolo scorso quando alcuni pensatori comunisti come Gramsci e la cosiddetta Scuola Tedesca di Francoforte cominciarono a strutturare il cosiddetto “post-comunismo”, il cui apice va ricercato nella cosiddetta “rivoluzione culturale” deflagrata nel ’68. «L’idea tradizionale di rivoluzione è tramontata – proclamava Herbert Marcuse, filosofo del ‘68 – adesso dobbiamo intraprendere una sorta di diffusa e totale disintegrazione del sistema» e l’attacco frontale fu rivolto al cosiddetto principio di autorità, qualsiasi autorità.
Ma qual è fra i tanti il punto nodale su cui post-comunisti e liberal si incontrano definitivamente? Senza ombra di dubbio la rivoluzione sessuale, che è l’elevazione a mito della trasgressione e dell’orgasmo. Questa è la via maestra in cui la “rivoluzione” è passata dalla vita degli Stati, alla vita intima degli uomini. Proprio nella trasgressione sessuale si realizza quella rivolta al principio di autorità che è rifiuto di ogni norma e qui Marx, Freud e Nietzsche hanno una certa paternità avendo fornito fior di sospetti sulla morale come valore.
A che punto è la notte?
Beh, siamo già alle politiche di gender per cui sentirsi uomo o donna sarebbe un fatto culturale, alle donne che stanno diventando uomini e partecipano al Grande Fratello, alla pedo-pornografia dilagante, all’apologia dell’erotismo senza fini che offre orgasmi in cui l’individuo si annulla e si perde. E qui non tiene l’accusa di oscurantismo moralista, basta non mettersi due fette di prosciutto sugli occhi e guardarsi attorno per vedere la decadenza dei costumi come causa di molti disagi sociali. Le “conquiste di libertà” che questa rivoluzione ha contribuito a realizzare sono il divorzio, l’aborto, in molti paesi i matrimoni tra persone dello stesso sesso, le coppie di fatto, …
La sessualità è certamente uno dei tratti fondamentali della persona umana che si traduce in molteplici manifestazioni della volontà, del sentimento, dei sensi e rischia facilmente di trasformarsi in un assoluto, se però non è più possibile avere una gerarchia di valori non solo diviene un assoluto, ma diviene un vero e proprio padrone di ogni scelta che in teoria dovrebbe essere libera, ma finisce appunto per non esserlo più.
In tale prospettiva non stupisce che, in seguito alla pubblicazione dell’”Anglicanorum coetibus” di Benedetto XVI, non si faccia altro che porre l’accento sul celibato sacerdotale. C’è nell’aria quell’interesse un po’ pruriginoso per qualsiasi argomento che possa riferirsi al tema “sessuale”. Molti, per sostenere un’eventuale apertura ai preti sposati nella Chiesa latina, sottolineano tutte le questioni tecnico-giuridiche del diritto canonico e vanno a ripescare nella storia altre situazioni, ma è il solito “formalmente corretto” che nasconde, invece, una visione sostanzialmente diversa rispetto al Magistero del significato di “tradizione”.
All’interno del mondo cattolico c’è tutta una serie di personaggi che vorrebbero il superamento di certe discipline. Perché? Perché sostengono che la realtà è tale per cui ci si dovrebbe adeguare, adattarsi.
La rivolta contro qualsiasi principio di autorità sappiamo benissimo ha messo radici anche dentro la Chiesa e, guarda caso, sono in molti a pensare che questo sia iniziato con particolare virulenza proprio in seguito alla lettera enciclica “Humanae vitae” di Paolo VI (quella sull’immoralità della contraccezione per intendersi).
Sarei curioso di sapere cosa pensano, questi signori così attenti alla realtà, in merito alla pastorale dei fidanzati e cosa raccontano nei corsi pre-matrimoniali.
Ad ognuno il suo ruolo di rivoluzionario.

(Fonte: Parati semper blog, novembre 2009)

Indro il laico, raccontato con nostalgia cristiana

Questo “Non avrete altro Indro” (Ancora editrice, pagg. 135, euro 13) di Giorgio Torelli s’inserisce nel folto scaffale dei saggi su Montanelli. Sono centotrenta paginette in parte già pubblicate in altre sedi, ma assemblate con intelligenza e con affetto. Torelli ha le carte in regola per regalarci un Indro non di maniera, non banale. È stato per lunghi anni una delle firme più note del Giornale, è stato accompagnatore di Montanelli in molte passeggiate a Cortina. Insomma, non uno di quegli usurpatori della memoria montanelliana così bene da lui descritti. «Tu sai - il tu è rivolto a Montanelli - quanti millantino a posteriori un rapporto confidenziale con te e quanti ancora lascino pubblicamente intendere di avere lucrato un rapporto speciale con il Maestro (sei sempre tu) o di aver tessuto con il Principe del giornalismo un sodalizio o una qualche consuetudine». Montanelli e Torelli sono stati davvero vicini. E lontani. Da una parte un anarco-conservatore profondamente laico, dall’altra un cattolico di stretta osservanza e di sincera fede, qualche volta autorizzato perfino a predicare dal pulpito. Con i suoi diari personali e familiari, con la sua scrittura avvolgente e colloquiale, Torelli s’era acquisita una vasta popolarità tra i lettori del Giornale. Molti lo adoravano, ma c’era chi lo aveva in uggia.
Niente vie di mezzo, o piaceva - e piaceva a tantissimi - o infastidiva per un certo profumo d’incenso che usciva dalle sue righe.
A un certo punto ci fu una incomprensione, o per essere più schietti una rottura, tra Montanelli e Torelli. Quest’ultimo offre, al riguardo, una sua spiegazione. Montanelli, considerandolo il suo Papa casereccio, gli aveva affidato il compito di chiosare il Vangelo della Domenica in una pagina tutta sua. «L’impresa del Vangelo commentato da un credente dell’ultimo banco durò incredibilmente due anni. Poi, per scelta di Indro (troppe lettere favorevoli e persino entusiaste rivolte al Torelli domenicale, una distonia), l’avventura si concluse, in bellezza ma con un addio. Indro avrebbe voluto che tornassi a fare l’inviato. E io no».
Questa versione del dissenso è a mio avviso sostanzialmente esatta tranne che per un particolare importante: può dare la sensazione che in Indro vi sia stata dell’invidia o della gelosia nei confronti di Torelli. Il quale in un altro passaggio del volumetto ribadisce: «Ho visto molta gente dissipare la fedeltà degli amici, ma mai con altrettanto scialo e secondo motivazioni arbitrarie... Un esperto di giornali e giornalisti m’ha detto: «Indro è il Re Sole, non tollera ombre di sorta, anche da una fronda».
Dissento da questa diagnosi. Montanelli si rendeva conto di quanto valesse il suo inviato con la croce, anche se personalmente era allergico alla sagrestia. Temette tuttavia - questa almeno è la mia convinzione - che il torellismo diventasse una deriva clericale del Giornale, e reagì alla sua maniera, ridimensionando Torelli. Aveva agito allo stesso modo quando - soprattutto per l’influenza di Enzo Bettiza - era parso che il Giornale abbracciasse il disegno d’un lib-lab italiano, con i socialisti alla ribalta insieme ai liberali. Non volle agganciare il Giornale a quel carro politico, e se pensiamo a quale fu, con Tangentopoli, la sorte successiva del craxismo, dobbiamo riconoscere che ebbe buon intuito.
Mi pare esemplare, nel rapporto tra gentiluomini e galantuomini che caratterizzava il giornalismo d’antan, il biglietto con cui Montanelli rispose a Torelli che gli aveva mandato in visione uno scritto su di lui: «Caro Giorgio, ho visto e letto, e ti ringrazio di cuore. Vedo con sollievo che il distacco non ha minimamente scalfito il rapporto umano che si era stabilito tra noi, e che deve sopravvivere a tutto. Ti rimpiango molto, caro Giorgio. Tuo Indro».
Era inevitabile che il credente Torelli - cui toccò d’essere testimone delle nozze civili di Indro con Colette Rosselli, celebrate a Cortina - s’interrogasse sulla religiosità e irreligiosità di Indro. Interrogandosi, Torelli è approdato alla conclusione che il suo amico miscredente o piuttosto diffidente e deluso anelasse a una religione più alta di quella che vedeva intorno. E gli ha messo in bocca questa riflessione: «Voi cattolici non me la contate: fate la giostra attorno al Firmatario del Cosmo (se ha davvero un indirizzo) e prendete eccessi di confidenza, ci andate a braccetto, fate perfino le giaculatorie pappa e ciccia. No cari cristiani della domenica. Se davvero io dovessi diventare dei vostri - Dio mi scampi - vorrei volgermi verso la più radicale delle testimonianze: prendere i voti perpetui e farmi monaco trappista, claustrale, vegetariano e penitente. Diverrei uomo di preghiera e di digiuni nel succedersi dei giorni e delle notti».

(Fonte: Mario Cervi, il Giornale, 19 novembr2 2009)

Gheddafi e Gesù

Il leader libico Mu'ammar Gheddafi, giunto domenica 15 novembre in Italia per partecipare al vertice mondiale della Fao che si sta svolgendo a Roma, ha incontrato giovani e avvenenti ragazze italiane per impartire loro una non richiesta lezione sull’Islam, invitandole poi espressamente a convertirsi alla religione maomettana. Invito corroborato dal dono a ciascuna delle partecipanti di una copia del Corano e di un altro libro, scritto dal relatore.
Nel suo discorso, il neo-predicatore islamico ha sostenuto, tra altre cose, che Gesù di Nazareth non sarebbe morto in croce: «Voi – ha detto – credete che Gesù è stato crocifisso ma non lo è stato, lo ha preso Dio in cielo. Hanno crocefisso uno che assomigliava a lui».
Questa affermazione ha la sua radice nel Corano, che al versetto 157 della Sura 4, accusando i giudei di avere deviato dalla via indicata da Dio, mette loro in bocca queste parole: «Abbiamo ucciso il Cristo, Gesù figlio di Maria, Messaggero di Dio» e le commenta denunciandone l’infondatezza: «… mentre né lo uccisero né lo crocifissero, bensì qualcuno fu reso ai loro occhi simile a Lui».
Ora, è sufficiente dimostrare – come è stato abbondantemente fatto – che Gesù Cristo fu realmente crocifisso «sotto Ponzio Pilato» per documentare l’inconsistenza della credibilità storica del Corano. Almeno su questo punto. Che è decisivo per l’attendibilità dell’intera religione islamica.
Tuttavia, volendo dare per assodata l’affermazione del Corano, se ne dovrebbe dedurre una serie davvero improbabile di concomitanze.
La prima: l’ingenuità dei Romani che, dominatori del mondo grazie ad una civiltà, cultura, organizzazione militare e giurisprudenza impareggiabili a quel tempo, si sarebbero fatti beffare non si sa bene da chi (da Dio?) crocifiggendo un sosia al posto di Gesù.
La seconda: la sprovvedutezza dei notabili Giudei e di gran parte del popolo di Gerusalemme, che dopo aver brigato in tutti i modi per far condannare a morte il Cristo, che ben conoscevano anche di vista, se lo sarebbero lasciato sfuggire, facendosi gabellare da un suo sosia.
La terza: l’incomprensibile, autolesionistico comportamento degli amici di Cristo, i quali, a breve, sarebbero andati incontro al martirio per imitarlo, senza accorgersi che inchiodato alla Croce non c’era finito il loro Messia, ma un altro uomo.
La quarta: l’onniscienza di Maometto, il quale, ben sei secoli dopo i fatti accaduti sul Calvario, sarebbe stato il solo a conoscere come era andata, realmente, la vicenda.
Pare doveroso, dunque, se si vuole prestar fede al Corano su questo punto e dare ragione al leader libico, ammettere una serie di coincidenze del tutto inverosimili.
Forse, è più ragionevole pensare che, almeno qui, il testo sacro “dettato” a Maometto abbia preso un colossale abbaglio. Al quale crede, purtroppo, oltre un miliardo di uomini.

(Fonte: Gianpaolo Barra, Tempi, 16 novembre 2009)

giovedì 19 novembre 2009

Influenza? Il vero malato è il giornalismo

Pochi giorni fa la notizia con grande evidenza: “Primo morto di influenza A nel Veneziano”. Le locandine vicino alle edicole lo annunciano con poche parole, stampate nelle dimensioni più grandi possibili.
Bisogna arrivare alle parole piccole e nel testo, dentro agli articoli, nei quotidiani o, ancora prima, in internet, per venire a sapere che il pover'uomo era da anni affetto da diabete, bronchite cronica e, purtroppo, anche da leucemia.
Ma gli esempi potrebbero essere moltiplicati: in questi giorni i telegiornali, per esempio, si sono messi a fare la conta. I titoli che annunciano i servizi, o l'avvio del pezzo, dicono: “Tot morti per l'influenza A”; oppure: “Con i due di oggi le persone che hanno perso la vita per colpa dell'influenza sono saliti a tot”.
L'impressione che cresce, imbattendosi in questa informazione, è che ad essere davvero malati - e non d'influenza, ma di una malattia più grave - siano i giornalisti che propongono le notizie in questo modo.
La malattia di cui sono afflitti si chiama deformazione della realtà. Anche in questo caso la diffusione avviene per contagio, quando cioè ci si convince, sull'esempio di altri, che il modo migliore per avere successo in questo mestiere è dare la notizia, sempre e comunque.
Per ottenere quest'obiettivo, nel caso dell'influenza, si procede così: si prende un pezzo della realtà e lo si amplifica, mentre si riduce ad un francobollo la restante parte della notizia. Si strilla una parte e si contrae l'altra. Il risultato è che la notizia esplode e la verità evapora.
Tornando all'influenza, non c'è dubbio che i poveretti venuti a mancare in questi giorni siano stati contagiati dal virus della “suina”. Ma è altrettanto vero che l'influenza non ha fatto altro che condurre a morte chi, purtroppo, era già ad un passo da essa per via di patologie gravi e compresenti.
Parimenti, nessuno (o quasi) racconta che una dinamica di questo tipo è uguale ogni anno, con influenze stagionali e più anonime che, sommandosi ad altre malattie pesanti, sono causa di mortalità.
Ma quest'anno no, quest'anno l'importante è sottolineare il protagonismo di questo presunto killer, il virus dell'influenza A.
Eppure siamo convinti che, ben lungi dal produrre l'esito sperato dal giornalista, il morbo della realtà deformata finirà per dare un'altra bottarella alla salute già inferma dei mass media.
La logica della notizia a tutti i costi (al costo della realtà resa irriconoscibile) ha il respiro corto: premia al momento e punisce ben più pesantemente dopo poco. La sensazione è che il destinatario del lavoro giornalistico - la gente - alla fine usi il metro del buon senso e del realismo per decidere se comprare il tal giornale o il talaltro.
E oseremmo perfino aggiungere che le buone notizie, di cui la realtà è punteggiata con molto maggiore frequenza di quanto non si pensi, dovrebbero essere assai di più il pane quotidiano dell'informazione.

(Fonte: Giorgio Malavasi, GVonline, n. 44/2009)

La Giornata mondiale delle mezze stagioni

Per l'anno in corso l'Onu ha dichiarato 61 giornate mondiali di mobilitazione su temi universalmente considerevoli. Troverete l'elenco consultando internet. Ad alcune di queste giornate mi sarebbe proprio piaciuto partecipare: il 16 settembre mi sono perso la Giornata mondiale per la preservazione della cappa di ozono e il 21 febbraio la Giornata mondiale della lingua madre; addirittura, il 9 luglio, mentre io sguazzavo nel mare di Varigotti, vigeva la Giornata mondiale per la distruzione delle armi di piccolo taglio; per non parlare del 26 aprile, giorno del mio compleanno: io mi abbuffavo con le meringhe e nel mondo si celebrava la Giornata mondiale per la proprietà intellettuale.
Ho preso un impegno con me stesso: cascasse il mondo, il prossimo 7 dicembre, Giornata mondiale dell'aviazione civile, andrò in pellegrinaggio all'aeroporto di Orio al Serio.
Bisogna ammetterlo: questa vecchia istituzione, l'Onu, avrà perso un pochino di autorevolezza nel dirimere i conflitti a livello mondiale, ma la sua attenzione ai problemi dell'umanità è rimasta inalterata. Certo, molto resta da fare, innumerevoli sono le categorie, i gruppi sociali, gli oggetti che sono continuamente vilipesi, subiscono soprusi o, peggio ancora, rischiano l'estinzione.
È per questo che vorrei suggerire qualche tema: Giornata mondiale a difesa delle mezze stagioni, Giornata mondiale a sostegno del pisolino post-prandiale, Giornata mondiale della carpa d'acqua dolce, Giornata mondiale del gorgonzola e dei formaggi di fossa, Giornata mondiale dello skilift a piattello e della famigerata àncora, Giornata mondiale della virgola e del punto e virgola, Giornata mondiale della scopa d'assi, Giornata mondiale delle colf e badanti in regola, Giornata mondiale del parcheggio gratuito. Che siano forse troppe?

(Fonte: Giacomo Poretti del trio Aldo, Giovanni e Giacomo, novembre 2009)

In piena crisi, erogati fondi per corsi gratuiti di masturbazione per studenti

Per l'Estremadura, la regione spagnola attaccata al Portogallo, gira da qualche settimana una comitiva itinerante che, di città in città, dà corsi di educazione sessuale gratuiti per i ragazzi tra i 14 e 18 anni. Da qualche giorno però l'attenzione mediatica si è rivolta a questo seminario voluto dalla regione e dal titolo «Il piacere è nelle tue mani» il cui prossimo appuntamento di venerdì si prevede affollato. A lanciare il primo grido è stato un giornalista che ha messo le mani su un fax diretto a uno dei comuni interessati, dove si dettagliava il contenuto del workshop. Secondo le parole scritte da un tecnico dell'Istituto per la Gioventù dell'Estremadura, il seminario servirà a «facilitare lo sviluppo di autostima, sicurezza e la loro messa in pratica attraverso l'autoesplorazione sessuale e l'autoconoscimento erotico». Il documento elenca anche i temi trattati, come «lo studio del piacere, le carezze, la masturbazione ed i gadget erotici». A vincere l'appalto per il singolare corso è stato infatti un negozio erotico chiamato «I piaceri di Lola», che ha sede a Madrid.
Le prime critiche sono piovute sul corso perché costerà alla regione circa 14mila euro. «Quando la crisi stringe, il piacere è nelle tue mani» ha ironizzato il giornale Abc, citando le critiche del Partito popolare alla regione a guida socialista. I popolari vedono infatti come «uno scandalo e una provocazione» che la terza regione con più disoccupati di Spagna «sperperi i soldi pubblici in corsi del genere». Ma il dibattito sul piacere è andato oltre alla questione pecuniaria. Il partito UPyD ha infatti chiesto alla regione Estremadura di ritirare la «campagna per la masturbazione» perché considera «assolutamente non necessaria una spesa del genere in un tema che riguarda strettamente la sfera personale». Sulla stessa onda si è mossa anche l'Associazione cattolica dei genitori di alunni Concapa che, parafrasando infelicemente il titolo della campagna, ha chiesto di «togliere le mani dall'educazione affettiva e sessuale dei propri figli».
In regione, la direttrice dell'Istituto per la gioventù Laura Garrido si è detta invece «specialmente orgogliosa» di questa campagna diretta a «smontare i falsi miti che sorgono tra i giovani». Raquel Traba, coproprietaria del negozio «I piaceri di Lola» ha detto al Giornale che si sente «esterrefatta» per le reazioni provocate e ha assicurato che il seminario è tenuto da una pedagogista con master in educazione sessuale che lavora da 8 anni con adolescenti. Traba ha spiegato che «la polemica dimostra che c'è bisogno di molta più educazione sessuale», mentre ha voluto minimizzare l'importanza dedicata ai gadget sessuali all'interno del seminario gestito dal suo negozio.
Il workshop itinerante, che ha già visitato Merida e Castuela, arriverà, con tutto il polverone sollevato, alla località di Navalmoral questo venerdì, e la settimana successiva a Trujillo. Questa volta nessuno potrà dire di non averne sentito parlare.

(Fonte: Davide Mattei, Il Giornale, 12 novembre 2009)

Romano Amerio è la risposta a Enzo Bianchi

Sono reduce dalla lettura dell’ultimo libro di Enzo Bianchi, Per un’etica condivisa (Einaudi), e non posso non riflettere sulla spaventosa distanza che esiste tra il pensiero di questo famoso monaco mediatico e l’ortodossia cattolica. L’errore di fondo, che inficia tutto il ragionamento di Bianchi, è quell’ ottimismo mondano che si è insinuato profondamente nel pensiero ecclesiastico e cattolico nell’epoca del post Concilio. Mondano, intendo, perché ignora o sminuisce del tutto l’esistenza del peccato. “Quando la Chiesa, scriveva parecchi anni fa il Cardinal Journet al cardinal Siri, prenderà coscienza sino a che punto lo spirito del mondo è penetrato dentro essa, si spaventerà”. Ma come è penetrata questa mentalità, di cui Bianchi è oggi uno dei massimi alfieri? A mio modo di vedere all’epoca del Concilio, allorchè in molti si diffuse l’idea che col mondo, inteso in senso evangelico, occorresse trovare un modus vivendi pacifico e conciliante, sempre e comunque. Bisognerebbe anzitutto ritornare a quegli anni, per evitare di costruire leggende e miti come quelli che piacciono ai vari Melloni, Mancuso e, appunto, a Enzo Bianchi: il concilio non fu una pacifica e simpatica riunione di vescovi e periti, tutti in perfetto accordo tra loro, ma fu una lotta dura, che vide la presenza di posizioni problematiche e critiche, rispetto alla volontà di “aggiornamento” e “innovazione”, di molti uomini di grande spessore, dal cardinal Siri, più volte papabile, ai cardinali Ottaviani, Ruffini, Bacci, sino al Coetus Internationalis patrum, formato da centinaia di padri conciliari, e raccolto intorno a mons. Marcel Lefebvre.
I documenti conciliari sorsero dunque in mezzo alla tempesta, agli scontri, talora veramente aspri, tra “conservatori” e “progressisti”, con correzioni, emendamenti, e ambiguità, inevitabili laddove un documento nasca come mediazione, come compromesso tra posizioni divergenti. A mio modo di vedere, l’ambiguità più grande fu quella sull’atteggiamento da tenere, appunto, rispetto al mondo, allo spirito moderno e alle sue filosofie. Il concilio volle essere pastorale, e quindi soffermarsi proprio e soprattutto, in questo caso senza godere dell’infallibilità, sui modi, le strategie, per una nuova evangelizzazione, efficace e fruttuosa. Il principio guida, che fu indicato da Giovanni XXIII, fu quello di utilizzare, rispetto alla “severità” del passato, la “medicina della misericordia”.
Ci fu insomma un cambio di passo, che Romano Amerio, oggi riscoperto e finalmente ristampato da Fede & Cultura, commentò tra l’altro con queste profetiche parole: “Questo annuncio del principio della misericordia contrapposto a quello della severità sorvola il fatto che, nella mente della Chiesa, la condanna stessa dell'errore è opera di misericordia, poiché, trafiggendo l'errore, si corregge l'errante e si preserva altrui dall'errore. Inoltre verso l'errore non può esservi propriamente misericordia o severità, perché queste sono virtù morali aventi per oggetto il prossimo, mentre all'errore l'intelletto repugna con un atto logico che si oppone a un giudizio falso. La misericordia essendo, secondo S. theol., II, II, q. 30, a. 1, dolore della miseria altrui accompagnato dal desiderio di soccorrere, il metodo della misericordia non si può usare verso l'errore, fatto logico in cui non vi può essere miseria, ma soltanto verso l'errante, a cui si soccorre proponendo la verità e confutando l'errore. Il Papa peraltro dimezza un tale soccorso, perché restringe tutto l'officio esercitato dalla Chiesa verso l'errante alla sola presentazione della verità: questa basterebbe per sé stessa, senza venire a confronto con l'errore, a sfatare l'errore. L'operazione logica della confutazione sarebbe omessa per dar luogo a una mera didascalia del vero, fidando nell'efficacia di esso a produrre l'assenso dell'uomo e a distruggere l'errore” (Romano Amerio, Iota unum, Fede & Cultura).
Questo brano magistrale mi sembra possa essere utile per far fronte anche oggi a questo ottimismo mondano, che nasce all’interno del mondo cattolico, e che si presenta con alcune caratteristiche costanti: la condanna più o meno aspra delle decisioni e della pastorale della Chiesa del passato; il ripudio della Tradizione e il tentativo di presentare il Vaticano II come una sorta di nuova Pentecoste, di vero e proprio atto di nascita della cosiddetta “Chiesa conciliare”. Ottimismo mondano di cui il citato Bianchi costituisce uno degli esempi più solari, in quanto espressione di un tipo di cattolicesimo adulterato che ritiene che l’essenziale sia raggiungere una posizione condivisa, una mediazione, un punto di incontro, quale esso sia, tra la Verità di Cristo e le posizioni, anticristiche, del mondo. Se analizziamo il libro citato ne troviamo subito, nell’incipit, il significato di fondo: Bianchi vuole fare pulizia, anzitutto all’interno del mondo cattolico, mettere i puntini sulle i, spiegare quale debba essere il comportamento dei suoi fratelli di fede. Costoro, scrive Bianchi, debbono smetterla di riunirsi in “gruppi di pressione (sic) in cui la proposta della fede non avviene nella mitezza e nel rispetto dell’altro, per diventare intransigenza e arrogante contrapposizione a una società giudicata malsana e priva di valori”. La lettura del seguito fa capire bene il significato di queste parole, del tutto simili a quelle di un Augias o di un Odifreddi: esse sono una condanna chiara, anche se un po’ ipocrita nelle modalità, della posizione della Chiesa e dei cattolici, riguardo al referendum sulla legge 40 e alla questione dei pacs-dico.
Una condanna, in generale, di ogni tentativo legale e leale da parte dei cattolici, e non solo, di affermare valori non negoziabili in politica. Bianchi lo ripete più volte, spiegando quello che è ovvio, e cioè che “il futuro della fede non dipende da leggi dello stato”, ma dimenticando che i cattolici, come tutti gli altri cittadini, sono chiamati ad esprimere la loro visione di società, qui e oggi, e non a ritirarsi nelle sagrestie. Il cattolicesimo che Bianchi vorrebbe è invece insignificante e inesistente sul piano culturale e politico, e finisce addirittura per delineare una religiosità amorfa, astratta, spiritualista, che è lontanissima dall’idea originaria del cattolicesimo.
Ogni scontro e polemica attuale, ogni rinascita odierna dell’anticlericalismo, continua il monaco, è sempre colpa dei credenti, “è sempre una reazione a un clericalismo che si nutre di intransigenza, di posizioni difensive e di non rispetto dell’interlocutore non cristiano”. A parte che non si capisce bene, a leggere queste parole, a quale dibattito abbia assistito Bianchi in questi anni, il punto centrale è un altro: nel togliere al cristianesimo la sua capacità di incarnarsi nella realtà, per plasmarla concretamente, Bianchi finisce per negare cittadinanza al cristianesimo stesso e per scegliere come punto di riferimento assoluto e ingiudicabile, quasi metafisico, la Costituzione repubblicana. Da essa deriverebbe, udite, udite, “l’assoluto diritto dello stato di legiferare su tutte quelle realtà sociali fondate o meno sul matrimonio (sia religioso che civile)”. “Diritto assoluto”, scrive Bianchi: una affermazione, a ben vedere, che oggi, dopo l’esperienza delle statolatrie totalitarie, neppure il più laicista tra i giuristi arriverebbe, almeno nella teoria, a sostenere. In tutto il suo argomentare Bianchi annulla il concetto di Verità, affermando un relativismo pieno; sostiene la perfetta equivalenza tra fede e ateismo (“l’uomo può essere umanamente felice senza credere in Dio, così come può esserlo un credente”); nega di fatto in più passaggi, con linguaggio equivoco, ma chiaro, il primato petrino, a vantaggio del “primato del Vangelo”, e propone come unico riferimento del suo argomentare, da buon protestante, solo e soltanto la bibbia, la sua “lettura personale e diretta” (sic), etsi Ecclesia non daretur. “Per un’etica condivisa” è appunto un inno ad un “modo”, ad uno “stile”, al “come”, con cui i cristiani dovrebbero presentarsi oggi ai non credenti: un modo, uno “stile”, inaugurato dal Concilio Vaticano II, che sarebbe “importante quanto il messaggio”. Coerentemente, in tutto il libro manca, appunto, il messaggio! Non vi è mai una affermazione chiara di una verità teologica o morale: si parla di “etica condivisa”, si lanciano frecciatine piuttosto velenose ai cattolici, al centro destra, a Berlusconi, a Maroni, a Mel Gibson, a Ferrara, come fossero loro i problemi della cristianità, ma poi non si arriva mai ai contenuti: tutto puro stile, buonismo a buon mercato, mai una parola, una posizione, quale che sia, sulla clonazione, la fecondazione artificiale, la famiglia, l’eutanasia, la sessualità, e tutti i problemi più scottanti dell’etica odierna. Al massimo qualche vago riferimento alla pace, e un accenno, velatissimo, per carità, alla 194, la legge che legalizza l’aborto, ricordando però, anzitutto e soprattutto, che i cattolici dovrebbero rispettare ogni legge nata dal “confronto democratico”, e proclamata, lo si ricordi, da quello Stato che ha potere “assoluto” di vita e di morte.
A Bianchi sfugge, come avrebbe detto Amerio, che lo stile è questione secondaria, nel senso che viene dopo, logicamente e non cronologicamente, perché l’Amore procede dalla Verità, e non viceversa. Gli sfugge, inoltre, che il suo irenismo indifferentista e relativista è stato già bollato da san Pio X, allorché deprecava quanti alla sua epoca si adoperavano per un “adattamento ai tempi in tutto, nel parlare, nello scrivere e nel predicare una carità senza fede, tenera assai per i miscredenti”, all’apparenza, ma in realtà priva di vera misericordia, perché spoglia di verità. A chi continuava a sponsorizzare una “conciliazione della fede con lo spirito moderno”, Pio X indicava il crocifisso, e ricordava che certe idee “conducono più lontano che non si pensi, non soltanto all’affievolimento, ma alla perdita totale della fede”. Perché se io non fossi un credente, e leggessi, per cercavi una parola di verità, il libro di Bianchi, arriverei alla conclusione che la verità non esiste, e che la mia sete di verità è roba da persone senza “stile”. Caro Bianchi, la verità nella carità, mi dice sempre un’amica pro life; ma: la verità, per carità! Questo è l’unico stile, della Chiesa, di Cristo e del suo Evangelo, cioè della buona novella (vede che la novella, il messaggio, è importante?).

(Fonte: Francesco Agnoli, Il Foglio, 26 aprile 2009).

La contraffatta teologia di Karl Rahner

Nell’immaginario educato dal trionfante relativismo, “buono” è il qualunque pensatore inteso a scongiurare i conflitti scatenati dall’affermazione che esistono princìpi tra loro irriducibili.
Padre Giovanni Cavalcoli o.p., l’autore del magistrale saggio “Karl Rahner – Il Concilio Tradito” sulla teologia del teologo tedesco, edito in questi giorni dalla veronese Fede & Cultura, rammenta, al riguardo, che “Il voler distinguere con assolutezza il vero dal falso sembra a molti espressione di presunzione e di intolleranza, sorgente di discordia e mancanza di rispetto per le idee e la coscienza degli altri. Il concetto stesso di una religione assolutamente vera che primeggi sulle altre appare a molti una pretesa imperialistica di questa sulle altre religioni” (“Karl Rahner Il Concilio tradito”, pag. 16).
Il pregiudizio buonista, infatti, esige pro bono pacis che un’affermazione vera dal punto di vista di colui che la pronuncia, sia vera anche dal punto di vista di colui che dichiara l’esatto contrario.
Soggiacente alla bontà che vuole il sacrificio della ragione sull’altare dell’armonia ad ogni costo, è la sentenza del guru sessantottino Herbert Marcuse, che (nel saggio “Eros e civiltà”) ha definito fascista (che per lui significava intollerante e intrinsecamente violento) il principio di non contraddizione, secondo cui un’affermazione non può essere vera e falsa nello stesso tempo e sotto il medesimo profilo.
Va da sé che il contrasto tra l’intollerante verità e la pace è una figura sofistica, concepita dai filosofi ultramoderni di scuola francofortese per nascondere la decisione di aggirare i princìpi indeclinabili della logica, princìpi che (a loro avviso) non sono iscritti e leggibili nella realtà ma inventati dal fascista Aristotele.
Ora padre Cavalcoli cercando i possibili ispiratori della patologica avversione alla verità, non ha incontrato gli apostoli della pace ma il maestro di Karl Rahner, Martin Heidegger, l’autore dello stravolgente principio secondo cui “la verità non sta nel giudizio col quale l’uomo adegua il suo pensiero all’essere, ma sta nella comprensione atematica, nell’esperienza trascendentale, come situazione esistenziale emotiva del soggetto autocoscienze, nel quale l’essere si identifica con l’essere pensato, in modo tale che la verità del pensiero è al contempo la verità dell’essere e la verità del soggetto” (op. cit., pag. 41).
Heidegger (e al suo seguito Rahner) vantavano la loro appartenenza alla più alta e aggiornata scuola di metafisica. In realtà il loro pensiero approda a risultati non molto diversi da quelli ottenuti da Jean Paul Sartre e da Claude Levy Strauss, autori di uno sgangherato sistema antimetafisico, tendente ad abbassare l’intelletto umano al livello della sensazione animalesca.
Svilimento della ragione umana e retrocessione dell’immanentismo moderno al panteismo antico, costituiscono l’orizzonte ultimo del pensiero heideggeriano e rahneriano.
Ridotto la filosofia ad universale esperienza emotiva, l’errore , la non adeguazione dell’intelletto alla realtà, sprofonda in un cappello a cilindro: di qui l’opinione temeraria (affermata da Rahner) che tutti conoscano la verità attraverso la c. d. esperienza trascendentale.
Rahner afferma che la concordia inizia dal riconoscimento che tutti sono nella verità e nessuno sbaglia. Di conseguenza propone la tesi che attribuisce agli atei la qualifica di cristiani anonimi, che in quanto tali sono naturalmente destinati alla beatitudine eterna.
Per attingere un tale pensiero Rahner è costretto ad aderire al disconoscimento modernista della dottrina cattolica sulla grazia: “la natura-grazia è sufficiente ad assicurare la felicità e la divinizzazione dell’uomo” (op. cit. pag. 173).
Oscurata la nozione della grazia la trascendenza divina svanisce: Rahner “finisce nel vedere nel soprannaturale niente più che uno sviluppo totale e finale del naturale o un approfondimento di quest’ultimo, come se l’uomo elevandosi al massimo delle sue possibilità potesse diventare Dio”.
Il sottotitolo del saggio (“Il Concilio tradito”) manifesta l’opinione dell’autore sull’influsso dell’opinione rahneriana sui cristiani anonimi nelle stravaganze ecumeniche elucubrate in nome di un presunto “spirito del concilio Vaticano II”.
Ma non solo nelle stravaganze postconciliari: padre Cavalcoli, infatti, facendo propria e sviluppando una tesi di monsignor Brunero Gherardini, dimostra che il buonismo di Rahner si è insinuato di soppiatto nei testi conciliari, ad esempio nella traduzione della Gaudium et Spes, che invita ad un esame più serio e profondo delle ragioni che si nascondono nella mente degli atei, quasi che esistano delle serie ragioni per essere atei.
Di qui l’auspicio, formulato nella magnifica conclusione, che il Magistero della Chiesa sconfessi la finzione buonista e “metta in luce con chiarezza quali sono le dottrine nuove del Concilio, non secondo un’esegesi di rottura, ma come esplicazione della Tradizione, lasciando così una giusta libertà di critica nei confronti invece di quelle disposizioni pastorali che sembrano o si sono verificate meno opportune e magari rivedibili o abrogabili per assicurare e promuovere il bene e il progresso della Chiesa nella Verità” (op. cit., pag. 345).
Senza ombra di dubbio l’auspicio di padre Cavalcoli corre incontro alle sagge intenzioni di Benedetto XVI, oltre che alle speranze di tutti i credenti. La lettura del suo pregevole saggio, pertanto, è raccomandata a quanti hanno a cuore il vero bene della Chiesa cattolica.
Questo testo – scrive il Prof. Giovanni Zenone, Direttore dell’editrice Fede & Cultura – per ben due volte non ha ricevuto l'autorizzazione ecclesiastica alla pubblicazione, prima dal superiore domenicano italiano poi dal Maestro generale dell'Ordine. Solo all'ultimo istante siamo riusciti ad ottenere il buon diritto di P. Giovanni Cavalcoli e dell'autentica ricerca della Verità. La potentissima setta filo-rahneriana tutt'ora sta facendo di tutto perchè questo libro prezioso e contro-rivoluzionario non sia pubblicizzato e recensito. Ma la fedeltà al Magistero petrino, alla Verità e alla Fede Cattolica ci spingono a gridare sui tetti quello che qualcuno vorrebbe fosse sottaciuto.

(Fonte: Piero Vassallo, Fede e cultura blog, 10/2009)

Scuola: la versione dal latino per insultare Silvius

Al liceo scientifico di Trani «V. Vecchi», una prof di latino della 3ª C, Angela Di Nanni, in un impeto di accecamento ideologico e di virtuosismo creativo, ha proposto agli studenti non una comune versione di Stazio o di Tito Livio, ma un testo spavaldamente riferito all’attualità. Silvius Berlusconi apud iudices vocabitur, cioè «Silvio Berlusconi sarà chiamato davanti ai giudici». [a parte che "apud" specifica una particolare determinazione di luogo: vale come "nei pressi di... vicino a..."; in questo caso quindi Cicerone avrebbe usato o "coram judicibus = a cospetto dei giudici" o meglio ancora "in iudicium"...; ma evidentemente la prof è più introdotta nel gossip berlusconiano che nei classici latini! (Nota aggiunta dall'apologeta)].
Che ci fa Berlusconi in un testo in latino? È forse un antenato di Silvio, che viveva ai tempi dell’antica Roma e si chiamava col suo stesso nome? Si tratta magari di Silvio, il figlio di Enea, cantato anche da Dante («di Silvio il parente», Inferno, Canto II) e progenitore di Romolo e Remo (pardon, di Romolo e Remolo)? È uno che ha fondato la città di Mediolanum (intesa come Milano) prima ancora che Berlusconi fondasse l’azienda Mediolanum? Ma no, è proprio il nostro premier Silvio Berlusconi, promotore di Vis Italiae (Forza Italia), e poi creatore del Populus Libertatis (Popolo della Libertà).
Ma allora, come si ritrova in una versione in latino? Non l’avranno mica scritta Cicerone o Giulio Cesare? Non l’avrà mica scritta Virgilio, in un sussulto di lungimirante profezia? E non esisterà forse un’ignota Berlusconeide, opera epica di un homo novus, che si è fatto da solo strada in politica?
Nulla di tutto questo. Si tratta di una versione creata ad hoc per adeguare il latino alle nostra temperie politica, con la speranza che anche una lingua morta «sparli» di Berlusconi. Il testo si presenta infatti come una catilinaria mordace contro il premier. Vi si parla del Lodo Alfano (legem nomine ministri Alfano appellatam) e della sua incongruenza con la Costituzione italiana (legi supremae incongruam esse). Si sottolinea anche la necessità che Berlusconi compaia davanti ai giudici per i reati di cui è accusato (in ius vocabitur). Vi lasciamo immaginare, d’altronde, che la versione è scritta in un latino italianizzato, quasi maccheronico, con una sintassi schiacciata su quella della nostra lingua, che nulla ha a che vedere con i costrutti di Ovidio o i periodi di Sallustio. Un latino fai-da-te, ad uso e consumo della militanza politica. Desta quindi una certa ilarità leggere le «colpe infami» di Berlusconi nella lingua che fu di Seneca. Corruptela, fraus e adulteratio, cioè «corruzione, frode e falsificazione». Dove adulteratio sembra anche alludere al suo peccato di adulterio, al fatto che Berlusconi sia un marito fedifrago.
Da qui viene il sospetto che l’ira funesta della prof militante presto si possa scagliare anche contro la vita privata di Berlusconi. E le suggerisca di trattare in una versione, non solo del Lodo Alfano, ma anche dei festini con le escort (malae mulieres o meretrices), di Tarantini (che non sono gli alleati di Pirro), e delle Guerre Peniche del Silvio. Magari immortalando la figura di Patritia D’Addarius come quella della nuova Cleopatra.
Il materiale, a ben vedere, non manca. Anche se, per par condicio (toh, un altro termine latino), la prof dovrebbe occuparsi anche delle vicende scabrose del governatore del Lazio Petrus Marrazzus. La versione sarebbe più che mai idonea, vista la sua ambientazione romana. Chissà, il testo si potrebbe intitolare «Scandalum in Urbe». E non mancherebbe neppure la possibilità di tradurre «trans», dato che il termine esiste già in latino, e le figure androgine erano presenti già nell’antica Roma. Anche se, in questo caso, più che di una versione si tratterebbe di una per-versione.
Passando dal faceto al serio, lasciatemi dire qualche parola a difesa dei classici. Cari prof, «compagni» di banco e di cattedra, vorrei ricordarvi che, adeguando il latino ai nostri tempi, trattando nelle versioni di vicende che riguardano l’attualità, non contribuite a rendere questa lingua più attraente, più affascinante, più viva. Piuttosto la ridicolizzate, la banalizzate, la rendete una barzelletta. Il latino è una lingua morta che non ha bisogno di essere riesumata attraverso stratagemmi e virtuosismi linguistici. Il suo fascino sta nell’essere inattuale, nel suo trattare temi eterni, che parlano agli uomini di ogni tempo, proprio perché non si confondono con la contemporaneità. Così facendo, invece, trasformate la storia in cronaca, la letteratura in gossip, fate di un classico una cosetta buffa. Il latino si regge da sé, perpetuando formule, riti, espressioni che sono retaggio di una tradizione storica, sedimentate dal passato. Per questo ha più senso dire in latino una messa, piuttosto che trattare in latino del Lodo Alfano.
E poi, professorucoli sessantottardi, non contaminate i classici con il vostro furore ideologico, non strumentalizzate una nobile tradizione per i vostri scopi meschini, badate ad insegnare bene il latino ai vostri alunni piuttosto che indottrinarli al vostro antiberlusconismo.
Anche perché così rischiate di ottenere l’effetto opposto. Sapete che orgoglio, per un uomo che già di suo aspira ad essere eterno, venire immortalato perfino in latino e diventare, a suo modo, un «classico»? Sapete che incentivo al suo ego smisurato, che contributo alla sua autostima, sentirsi cantato nella stessa lingua in cui hanno scritto Orazio e Catullo? Altro che Napoleone. Il rischio è che, tra qualche tempo, Berlusconi inizi a farsi chiamare Augusto, e nomini Giulio Cesare i suoi fedeli collaboratori Giulio Tremonti e Cesare Previti. Già pronto il motto della nuova repubblica. S.P.Q.R.: Silvius Populusque Romanus.

(Fonte: Gianluca Veneziani, Il Giornale, 13 novembre 2009)

giovedì 12 novembre 2009

Claudia Mori ha Fede ma non fede

Claudia Mori, moglie del cantautore Adriano Celentano e giudice di X Factor, ha dichiarato in un’intervista al settimanale A che «a mio parere i preti sono i primi ad avere meno fede (in minuscolo nel testo, ndr) altrimenti nelle prediche sarebbero più convincenti, più profondi. La Fede (in maiuscolo nel testo, ndr) è importante per me, anche se non pratico da un po’ di tempo. Un po’ per pigrizia, un po’ perché i preti mi annoiano. Sentirli parlare come se stessimo a catechismo mi annoia. Sono banali: non tutti, ma molti. Il cardinale Martini, invece, lo ascolto sempre volentieri».
Interessante questa distinzione tra la Fede (maiuscola) e la fede (minuscola). Lo stesso ragionamento si potrebbe fare su tutto: le Preghiere della Mori sono più maiuscole delle nostre. I Miracoli in cui crede la Mori sono più maiuscoli dei nostri. I Misteri della fede della Mori sono più misteri dei nostri. Insomma, i Gesù della Mori sono più maiuscoli dei nostri. Però con il Martini con la maiuscola della Mori, a differenza di quello minuscolo nostro, non ci fai nemmeno uno straccio di party.

(Fonte: Tempi, 10 novembre 2009)

I grandi teologi secondo Carlo Maria Martini

Segnaliamo la risposta che sul Corriere della Sera del 25 ottobre il cardinal Carlo Maria Martini ha dato alla richiesta di un lettore che chiedeva consiglio sulla lettura dei «grandi teologi contemporanei».
L’ex arcivescovo di Milano ha elencato i seguenti nomi: «Blondel, Danielou, de Lubac, Congar, Chenu, Bouillard, Benoit, Guardini, Urs von Balthasar, Rahner, Cullmann, Colombo, Moioli. Io ricorderei anche Teillhard de Chardin e moltissimi altri. A lei l’imbarazzo della scelta».
Giusto. Qui arriva l’imbarazzo: chi potrebbe ancora esserci tra questi «moltissimi altri?». Umberto Eco no, perché, sebbene acuto, non è un teologo. Ignazio Marino no, perché, sebbene coautore di diversi volumi col cardinale, non è ancora teologo. Forse uno che potrebbe non sfigurare nella lista è Eugenio Scalfari, il fondatore di Repubblica che è solito parlare con Io e Dio. Uno che conosce bene la teologia, tanto da squalificare Joseph Ratzinger come un «pensatore modesto». Ratzinger? E chi è questo Ratzinger che non c’è nemmeno nella lista di Martini?

(Fonte: Tempi, 10 novembre 2009)

Il ministro Carfagna “sdogana” l’ideologia di genere

Il ministro per le pari opportunità Mara Carfagna ha investito due milioni di euro per rilanciare un disegno di legge contro l’omofobia, uno spot tv, migliaia di opuscoli da distribuire anche nelle scuole. Dopo la felice bocciatura in Parlamento del progetto di legge che con la scusa dell’omofobia avrebbe introdotto in Italia i principi dell’«ideologia di genere», i sostenitori di questa ideologia ci riprovano.
E forse il ministro dovrebbe avere qualche sospetto di fronte all’entusiasmo con cui le associazioni lesbiche, gay, bisessuali e transessuali hanno applaudito la sua iniziativa. Infatti, l’obiettivo di queste forze politiche è quello di negare l’esistenza di una natura che si manifesta anche attraverso la differente identità sessuale del maschio e della femmina e di punire penalmente chi affermasse questa diversità come un dato naturale di cui la società deve tenere conto. Il governo italiano lamenta, in pendenza della crisi economica che ha investito il mondo, la mancanza di soldi per finanziare il quoziente familiare o la parità scolastica, ma poi trova i fondi per finanziare una campagna ideologica che in tutto il mondo ha il dichiarato obiettivo di affermare che «niente è dato, niente è definito, tutto è sottoposto all’arbitrio dell’uomo» (Cfr. Roberto Marchesini, L’identità di genere, Quaderni del Timone, 2008).

(Fonte: Marco Invernizzi, Il Timone, 11 novembre 2009)

La Costituzione "Anglicanorum coetibus": grande vitalità della Chiesa

Ho letto la Costituzione apostolica Anglicanorum coetibus con le Norme complementari emanate dalla Congregazione per la dottrina della fede. Ormai conoscevamo già a grandi linee il contenuto di tali documenti, per cui non provocano alcuna meraviglia. Eppure non si rimane indifferenti a leggere il loro testo ufficiale.Il primo sentimento che ho provato è stato quello dello stupore nel constatare come la Chiesa cattolica sappia di volta in volta adattarsi alle diverse situazioni. Questo nuovo tipo di istituzione giuridica (gli “ordinariati personali”) non è prevista nel diritto canonico. Esistono già gli “ordinariati militari” (anch’essi assenti nel CJC e istituiti con speciale Costituzione apostolica), ma finora quel modello non era stato applicato ad alcun’altra categoria di fedeli.Ora si è presentata una situazione nuova: gruppi di fedeli anglicani, con i loro pastori, hanno chiesto di essere accolti, in maniera “corporativa”, nella Chiesa cattolica. E questa che fa? Si inventa una nuova circoscrizione ecclesiastica personale apposta per loro, per venire incontro alla loro richiesta e per accontentarli nelle loro legittime aspirazioni.L’unica condizione posta è stata: “Accettate il Catechismo della Chiesa cattolica?” Nient’altro. Una volta che si condivide la stessa fede, tutto è possibile; si trova sempre una soluzione. “Volete continuare a seguire le vostre tradizioni?”. No problem. “I vostri preti (sposati) vogliono continuare a essere preti?”. OK, verranno riordinati sacerdoti, rimanendo sposati. “I vostri vescovi vogliono continuare a essere i vostri pastori?”. È possibile: se celibi, possono essere ordinati vescovi e diventare “ordinari”; se sposati, possono essere ordinati sacerdoti, e diventare ugualmente “ordinari”; se non lo diventano, possono chiedere addirittura di usare le insegne episcopali e partecipare alla Conferenza episcopale come i vescovi emeriti.Mi vien da dire: davvero non ci sono limiti alla fantasia! E ciò viene dalla Chiesa cattolica, che solitamente passa per essere conservatrice, tradizionalista, lenta nell’adeguarsi ai cambiamenti. Ma, a quanto pare, in questo caso i conservatori sono proprio gli anglicani. Sentite che cosa ha detto il Vescovo John Broadhurst, Presidente di “Forward in Faith”: «Sono rimasto inorridito per il fatto che la Chiesa d’Inghilterra, mentre cercava di soddisfarci, abbia ripetutamente affermato che non possiamo avere la giurisdizione e la vita indipendente di cui la maggior parte di noi pensa di aver bisogno per continuare il nostro pellegrinaggio cristiano. Ciò che Roma ha fatto è offrire esattamente ciò che la Chiesa d’Inghilterra ha rifiutato». Avete capito? Questi anglicani, che non accettavano le novità introdotte nella loro Chiesa, prima di rivolgersi alla Chiesa cattolica, si erano rivolti alla Chiesa d’Inghilterra, chiedendo di avere una legittima autonomia (in una Chiesa dove pure c’è sempre stato spazio per le posizioni piú diverse, talvolta addirittura contraddittorie); ma la risposta è stata negativa: “No, signori; per voi non c’è posto; o vi adeguate, o... arrangiatevi!”. Quel che non è stato concesso dalla liberale Chiesa d’Inghilterra è stato concesso dalla retriva Chiesa cattolica.E questo è un segno di grande vitalità della Chiesa cattolica. Quelle Chiese che si considerano “aperte” e moderne, semplicemente perché concedono il sacerdozio alle donne o perché ammettono omosessuali praticanti all’episcopato o perché benedicono le coppie dello stesso sesso, in realtà sono Chiese “morte”. Staremo a vedere ora che cosa succederà; ma, se consistenti gruppi aderiranno alla Chiesa cattolica, la Comunione anglicana rischia di trasformarsi in una conventicola di pochi nostalgici esagitati.Naturalmente non dobbiamo nasconderci le difficoltà che ci aspettano. Non tutto sarà facile. Già leggendo la Costituzione apostolica e le Norme annesse si percepisce una certa confusione che inevitabilmente verrà a crearsi per la sovrapposizione dei nuovi ordinariati alle circoscrizioni territoriali esistenti (le diocesi). Negli stessi documenti emergono alcune situazioni difficilmente sanabili: i preti in situazioni matrimoniali irregolari e i sacerdoti cattolici che erano passati all’Anglicanesimo per potersi sposare. Aggiungiamoci poi le difficoltà che preti e comunità incontreranno con le Chiese di origine, soprattutto per motivi economici. Non dimentichiamo infine che, per quanto “tradizionalisti”, questi anglicani provengono da ambienti ultraliberali, per cui, inevitabilmente porteranno con sé una certa mentalità, che in qualche caso scontrerà con la tradizione cattolica. Si tratta di difficoltà reali, che non possiamo nasconderci, ma che neppure devono bloccarci: sono le difficoltà caratteristiche di una realtà vivente. Per intanto, godiamoci questo momento di grazia; e ringraziamo il Signore, che ci dimostra, anche attraverso queste vicende, che la Chiesa cattolica (quella Chiesa data da molti per spacciata e da noi stessi spesso criticata per i suoi limiti e i suoi errori) è la vera Chiesa, della quale noi — indegnamente, ma con fierezza — facciamo parte.

(Fonte: Querculanus.blogspot.com, 10 novembre 2009)

Il crollo del muro e la profezia di Leone XIII

Siamo in prossimità di uno dei grandi anniversari della storia: 20 anni fa cadeva il muro di Berlino. La storia ha sempre bisogno di date simboliche, e questa data segna ormai il crollo del comunismo sovietico. Spiegarlo non è affatto facile, perché, come tutti gli eventi storici, anche quel crollo è figlio di molteplici cause. Ma è certo che la sensazione che si ebbe allora e che si ha anche oggi è che, per dirla con il grande François Furet, “nato da una rivoluzione, il comunismo scompare in un’involuzione”.
Si era ormai di fronte ad un regime esausto, con un partito corrotto, dominato da ubriachezza, cinismo e pigrizia. Il comunismo sovietico era autoimploso, i suoi sudditi non ne potevano proprio più. L’abbattimento vigoroso, fulmineo, gioioso di quel muro della vergogna, ci diede la sensazione di un rito liberatorio. C’era un’umanità schiava e afflitta che finalmente usciva dalla prigione.
Il comunismo veniva condannato dal solo tribunale che aveva sempre ritenuto legittimo: quello della storia. Fu un fallimento epocale, che creò non pochi problemi agli irriducibili ed entusiasti sostenitori occidentali. In pochi mesi, spiega Furet nelle ultime pagine del suo fondamentale “Il passato di un’illusione”, “i regimi comunisti hanno dovuto lasciar spazio alle idee che la Rivoluzione d’Ottobre aveva creduto di distruggere e di sostituire: la proprietà privata, il mercato, i diritti dell’uomo, il costituzionalismo... l’intero arsenale della democrazia liberale”.
Cosa cercavano i sudditi di quel regime? La libertà, innanzitutto, ma anche il soddisfacimento di bisogni più elementari: come ad esempio quello di avere una casa propria, magari pagandola a rate con sacrificio. Avevano disimparato a creare, ad entusiasmarsi del loro lavoro, perché avevano perso ogni obiettivo personale. All’inizio il regime sovietico aveva fatto leva sull’orgoglio nazionale, sull’essere parte dell’unico luogo sulla terra dove il socialismo era stato realizzato. Aveva chiesto ai propri sudditi di collaborare, di lavorare con entusiasmo per un futuro radioso. Ma era durato poco. Presto si era dovuti passare a ben altre strategie: lo stakanovismo (per il quale i lavoratori tornavano a non essere più tutti uguali) e addirittura la violenza, la coercizione (sotto Stalin, com’è noto, bastava arrivare in ritardo una volta sul lavoro per essere dichiarato nemico dello Stato e quindi scomparire come individuo).
La gente chiedeva libertà d’iniziativa, libertà di possedere qualcosa, libertà di rischiare il proprio destino. Capitalismo e democrazia. L’idea comunista aveva cercato con tutti i mezzi di separare la libertà e il mercato. Alla fine del XX secolo questi due elementi tornavano ad essere inseparabili: non esiste libertà senza il mercato. Il comunismo sovietico, che aveva cercato di sfuggire a questa dura legge, era andato incontro alla catastrofe politica ed economica.
Eppure c’era chi, con lucida ed incredibile lungimiranza, aveva previsto tutto, un secolo prima. In quel mirabile documento che è l’enciclica Rerum Novarum di Leone XIII, datata 1891, ci sono dei passaggi che stupiscono per la carica profetica. In particolare quelli che condannano il socialismo come una dottrina che propone delle soluzioni nocive alla stessa società.
A parte la ferma condanna dell’odio di classe, ci sono in quel testo delle considerazioni che effettivamente aiutano ad interpretare alcuni dei motivi che hanno fatto crollare il comunismo. Come quelle che riguardano la proprietà privata, definita come un diritto naturale dell’uomo, per cui disumana è quella dottrina che la nega: “non è difficile capire che lo scopo del lavoro, il fine prossimo che si propone l'artigiano, è la proprietà privata. Poiché se egli impiega le sue forze e la sua industria a vantaggio altrui, lo fa per procurarsi il necessario alla vita: e però con il suo lavoro acquista un vero e perfetto diritto, non solo di esigere, ma d'investire come vuole, la dovuta mercede. Se dunque con le sue economie è riuscito a far dei risparmi e, per meglio assicurarli, li ha investiti in un terreno, questo terreno non è infine altra cosa che la mercede medesima travestita di forma, e conseguente proprietà sua, né più né meno che la stessa mercede”. Un passaggio che oggi nessuno metterebbe in dubbio, ma che in un certo periodo della storia del mondo venivano bollate come conservatrici e reazionarie, non in linea col progresso dell'umanità. Ma c’è un passaggio ancor più profetico, un vero e proprio ritratto di quello che poi effettivamente si è verificato, laddove Leone XIII afferma che con la società socialista “le fonti stesse della ricchezza, inaridirebbero, tolto ogni stimolo all'ingegno e all'industria individuale: e la sognata uguaglianza non sarebbe di fatto che una condizione universale di abiezione e di miseria”. Proprio da questa condizione di abiezione e miseria la gente voleva fuggire, vent'anni fa, abbattendo quel muro.
Noi sappiamo che molti popoli usciti dall’oppressione di quel sistema inumano, oggi con gran fatica hanno dovuto riappropriarsi del proprio destino, ritrovare quello “stimolo all’ingegno e all’industria individuale” di cui il regime li aveva privati. Era stato tutto, incredibilmente, già scritto. E un altro grande Papa, che sulla Rerum Novarum si era formato e aveva studiato, un Papa venuto proprio da quel mondo comunista, contribuiva col suo carisma ad abbattere quel muro. Ancora una volta la Chiesa aveva avuto ragione.

(Fonte: Gianluca Zappa, La Cittadella, 7 novembre 2009)

Il Crocifisso: i retroscena di quella sentenza

Ma insomma, è vero o no che si vorrebbe, con l’aiuto di organismi sottratti al controllo popolare, scalzare una delle maggiori radici identitarie (la solita…) del nostro continente?
Di certo un qualche sospetto appare giustificato alla luce della recente clamorosa sentenza della Corte europea che decreta l’espulsione del crocefisso (causa notoria di gravi danni psicologici e morali nei giovani) dallo spazio pubblico. I giudici sono tutta una garanzia: uno è una vecchia conoscenza del partito radicale transnazionale; due rappresentano i paesi con i più alti tassi di suicidio del mondo; uno è stato nominato dalla Turchia che però non fa ancora parte della UE; un altro è il fratello di uno dei più noti columnnist del noto giornale anticattolico La Repubblica. Hanno sparato la sentenza ignoranti del fatto che il crocifisso sta sui muri delle aule scolastiche italiane non dai tempi di Mussolini (si è sentito parlare infatti di Concordato e di Fascismo), ma di Cavour (essendovi stato appeso nel lontano 1859) e si sono dimostrati sprezzanti del fatto che una recente sentenza della nostra Corte di Stato definiva il crocifisso non un qualsiasi “oggetto di culto”, ma un simbolo civile, richiamo storico a quei valori di tolleranza, giustizia, rispetto degli altri e laicità che sono patrimonio comune di tutto il nostro popolo (credenti e non credenti).
Avranno sentenziato per amore delle altre religioni? Ma quando mai! Souad Sbai (mussulmana maghrebina) ci ha raccontato che il crocefisso in Marocco lo si trova esposto anche in abitazioni mussulmane accanto al Corano, mentre l’ebreo Giorgio Israel ha denunciato senza mezzi termini il tentativo delle istituzioni comunitarie di cancellare i tratti giudaico-cristiani dell’identità europea...
Colei che ha dato origine al ricorso, tal Soila Latsi, è stata presentata dai soliti giornaloni laicisti come una comune madre di famiglia preoccupata per l’educazione dei figli, portatrice per le sue origini finlandesi di una prospettiva culturale più emancipata (noi infatti non abbiamo gli occhi azzurri e siamo asserviti al secolare potere della Chiesa). I giornaloni laicisti hanno tuttavia trascurato il dettaglio che la suddetta è moglie di un noto militante radicale italiano e che la battaglia è stata organizzata e sostenuta dall’unione degli atei italiani.
I Finlandesi una richiesta simile la riterrebbero quantomeno pretestuosa: la Finlandia espone infatti il principale simbolo cristiano addirittura sulla propria bandiera nazionale. Si tratta della cosiddetta “Croce del Salvatore”, di colore celeste in campo bianco. La croce è pertanto presente in ogni spazio pubblico ed istituzionale di quel paese. Chissà se la signora aveva fatto mai qualche ricorso contro questo celeste vessillo, perturbatore della gioventù… Pertanto, la nuova “scrociata” sembra trovare i suoi più accesi supporters (e suggeritori) non tanto nel nord-europa, quanto sui nostrani giornaloni laicisti, non pochi di area PD: l’altro ieri si levava il peana trionfalistico de La Repubblica (con parziale marcia indietro del giorno successivo), tutti i giorni il “dacci Barabba” de L’Unità, mentre Europa ha messo in pagina finora solo un assordante (ed imbarazzato) silenzio.
L’Unità soprattutto, ridotta a megafono dei salotti radical chic, si è resa protagonista di una gaffe clamorosa: ha dimenticato di aver affidato, in precedenza, nientepocodimenoché alla penna di Natalia Ginzburg una commossa difesa del crocifisso negli spazi pubblici! Se l’erano scordato? Non se lo rileggono quello che loro stessi scrivevano? Ma cosa volete che ne sappiano i “compagni” di oggi di Natalia Ginzburg o di una certa Italia pasoliniana dai “calzoni coi rattoppi / e rossi tramonti sui borghi / vuoti di macchine / pieni di povera gente / tornata da Torino o dalla Germania”? E poi, al di là delle odierne frequentazioni alto-borghesi, la memoria è sempre stata corta da quelle parti. Ma per scoprire i cosiddetti “pensieri reconditi del loro cuore” basta dare un’occhiata all’ennesima ridicola provocazione reclamizzata dal quotidiano del PD: “LaiCal, il calendario di Virus”, un tipo di calendario mirato a cancellare le memorie cristiane da tutti i 365 giorni dell’anno. L’intento polemico è evidente già nel titolo. Sul piano pratico, al Santo del giorno verrebbe a sostituirsi un cosiddetto “laico del giorno”: Aldo Fabrizi (ma non era un cattolico pure lui?) entra al posto della festività di Ognissanti; Karl Marx (anche lui un laico ed un liberale?) sostituisce San Carlo Borromeo, e via di seguito…
Come si concilia un’operazione simile con la vocazione del giornale di partito a rappresentare con pari dignità le diverse “anime” presenti nel PD? A Concita il compito di chiarire perché L’Unità insista tanto nel dar voce solo alle istanze dell’area più spudoratamente laicista e continui a colpire con puerile stupidità i riferimenti più cari alla grande maggioranza dei cittadini-elettori italiani. Masochismo politico? È sul libro-paga di Berlusconi?
Comunque, due più due fanno quattro e qui vediamo che si inneggia alla sentenza della Corte europea e, nel medesimo tempo, si celebrano tutte le iniziative (anche le più ridicole) volte alla cancellazione dei segni della storia cristiana dalla civiltà europea. Non credo pertanto sia frutto del pregiudizio affermare a chiare lettere che si tratta di un tentativo non nuovo (ci avevano già provato Robespierre, Hitler, Stalin, Pol Pot…) e che questo desiderio di “guerra di religione” sia rivelatore di quell’intima vocazione totalitaria che si annida ancora nell’animo di chi si riempie ogni giorno la bocca con una parola (laicità) di cui, evidentemente, non conosce ancora bene (forse per i trascorsi marxisti-leninisti-maoisti…) il significato e tanto meno l’origine.

(Fonte: Stefano, La Cittadella, 6 novembre 2009)

venerdì 6 novembre 2009

Strasburgo: prova di accecata sentenziosità

La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che condanna l’Italia per l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche, non si basa di certo su argomentazioni nuove o approfondite, ma si limita a ribadire il principio laicista, che vede in qualunque simbolo religioso cui venga dato rilievo in un’istituzione pubblica un attentato alla libertà religiosa e per quel che concerne le scuole alla libertà di educazione. La sentenza richiama sommariamente, ma con una certa precisione, le argomentazioni in base alle quali la magistratura italiana, dopo qualche tentennamento, era giunta a concludere che nella tradizione del nostro Paese il crocifisso non è un simbolo esclusivamente religioso, ma culturale e civile: in esso si condensa gran parte della storia italiana, in esso si riassume una sensibilità diffusa e presente non solo nei credenti, ma anche nei non credenti. In quanto icona dell’amore, della donazione gratuita di sé e della violenza estrema cui può soccombere l’innocente, quando le forze del male lo aggrediscono, il crocifisso è un simbolo universale, non confessionale.
Gli spiriti veramente grandi l’hanno sempre compreso: se non tutti credono in Gesù come Cristo, nell’umanità sofferente dell’uomo Gesù, appeso alla croce e che accetta il supplizio, dobbiamo se non credere, almeno avere tutti un profondo rispetto, se non vogliamo ridurre la convivenza tra gli uomini a un mero gioco di forze anonime e crudeli. Tutto questo, evidentemente, non è stato percepito dalla signora Soile Lautsi, la madre che pur di fare eliminare il crocifisso dalle aule, ha iniziato (nel 2002) una lunga, complessa (e, presumo, anche costosa) procedura giudiziaria, né è stato percepito dai giudici che alla fine hanno accolto le sue ragioni. La vicenda giudiziaria potrà riservarci ancora sorprese. Quello che non ci sorprende più, purtroppo, è l’accecamento ideologico che sorregge questa vicenda, la completa indifferenza per le ragioni della storia e della cultura, l’illusoria pretesa che la mera presenza di un crocifisso possa fare violenza alla sensibilità degli scolari e giunga ad impedire ai genitori di esercitare nei loro confronti quella specifica missione educativa, che è loro dovere e loro diritto.
E non ci sorprende più, purtroppo, il fatto che i giudici della Corte europea non percepiscano di agire con queste loro sentenze contro l’Europa, contro il suo spirito, contro le sue radici, rendendo così l’Europa stessa sempre meno 'amabile' da parte di molti che, pure, ritengono l’europeismo un valore particolarmente alto. Ancora: è sfuggito alla ricorrente e – cosa ancor più grave – è sfuggito ai giudici che hanno redatto la sentenza che la laicità non si garantisce moltiplicando gli interdetti o marginalizzando le esigenze di visibilità della religioni, ma impegnandosi per garantire la loro compatibilità nelle complesse società multietniche tipiche del tempo in cui viviamo. La laicità non prospera nella freddezza delle istituzioni, nella neutralizzazione degli spazi pubblici, nell’abolizione di ogni riferimento, diretto o indiretto, a Dio.
Quando è così che la laicità viene pensata, propagandata e promossa si ottiene come effetto non una promozione di quello specifico bene umano che è la convivenza, ma una sua atrofizzazione. La sensibilità religiosa, ci ha spiegato Habermas (un grande spirito laico) non è un residuo di epoche arcaiche, che la sensibilità moderna sarebbe chiamata a superare e a dissolvere, ma appartiene piuttosto e pienamente alla modernità, come una delle sue forze costitutive: tra sensibilità religiosa e sensibilità laica non deve mai istaurarsi una conflittualità, ma una dinamica di 'apprendimento complementare', alla quale non può che ripugnare ogni logica di esclusione. Quanto tempo ancora ci vorrà perché simili verità vengano finalmente percepite dai tanti ottusi laicisti, che pensano ancora che sia dovere fondamentale degli educatori quello di indurre le giovani generazioni a vivere «come se Dio non ci fosse»?

(Fonte: Francesco D'Agostino, Avvenire, 4 novembre 2009)

L'Europa rinnega se stessa: vietando il crocifisso, la cristianofobia sale al potere

L’Europa ha deciso: niente crocefissi nelle scuole italiane. Ancora una volta i soloni europei hanno sentenziato: il crocifisso rappresenta "una violazione del diritto dei genitori ad educare i figli secondo le loro convinzioni" e una violazione "della libertà di culto degli alunni".
La storia che sta all’origine di tale sentenza è presto detta. Soile Lautsi, cittadina italiana di origini finlandesi e socia dell'Uaar (Unione atei e agnostici razionalisti), nel 2002 aveva chiesto all'istituto statale "Vittorino da Feltre" di Abano Terme, in provincia di Padova, frequentato dai suoi due figli, di togliere i crocifissi dalle aule. Inascoltata nelle sue richieste fece ricorso al Tar.
Il tribunale amministrativo, aveva sollevato la questione alla Corte Costituzionale, che la dichiarò inammissibile perché questo tipo di materie sono regolate con norme di rango regolamentare e rientrano di fatto sotto la competenza dei tribunali amministrativi. Rispedita al mittente la spinosa questione, il Tar non ha avuto dubbi, rigettando la richiesta della donna. Non soddisfatta del primo grado di giudizio la signora Lautsi è ricorsa a quello superiore. Ma anche il Consiglio di Stato non le diede soddisfazione delle sue richieste, con una sentenza di rigetto. Sostenuta tecnicamente nell'iter giuridico dall’Uarr, la giovane mamma finlandese, dopo aver già passato Tar del Veneto, Corte Costituzionale e Consiglio di Stato, è approdata a Strasburgo, con l’esito giudiziario che conosciamo.
Una sentenza, questa, che segna il passaggio decisivo della cristianofobia imperante in Europa da una fase larvata ad una più aggressiva, toto coelo esplicita.
A questo punto non ci si limita più a colpire il cristianesimo attraverso l'invenzione di «nuovi diritti» e di nuove leggi, in diretto contrasto con l’insegnamento morale della Chiesa; ma si attacca la fede cristiana al suo cuore, la croce appunto.
Povera Italia! Poveri italiani! Vogliono rubarci l'anima, strapparci via dalle nostre radici, cancellare la nostra storia.
Nel nome della tolleranza e di una falsa e deformata idea di libertà e democrazia vogliono spolpare la nostra identità. Vogliono oscurare la fede dei nostri padri e dei nostri nonni. Con le poche pagine di una sentenza vogliono condannare venti secoli del nostro cammino di civiltà. E pretendono di farlo, come si suol dire, «in punta di diritto», cioè avendo come fine la giustizia. Infatti, secondo i giudici della Corte europea dei diritti dell'uomo che hanno condannato l'Italia per la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche, «l'esposizione nelle classi delle scuole statali di un simbolo che può essere ragionevolmente associato con il cattolicesimo» non può garantire «il pluralismo educativo che è essenziale per la conservazione di una "società democratica"». Inoltre tale esposizione rappresenterebbe «una violazione del diritto dei genitori a educare i figli secondo le loro convinzioni» e una violazione della «libertà di religione degli alunni».
Povera Europa, ridotta ad affidare la tutela dei diritti umani ad un'élite di giuristi che rinnega l'essenza stessa dell'identità europea, nella convinzione che una presunta neutralità religiosa possa portare vantaggi in termini di convivenza col «diverso», di crescita della qualità civile, di progresso sociale del Vecchio Continente. Una tesi talmente astratta che ogni volta che essa è stata messa in pratica concretamente - si veda il caso francese - ha prodotto soltanto disastri, acuendo i conflitti e lasciando campo libero ad un laicismo nichilista e sbracato le cui nefaste conseguenze oggi si iniziano soltanto ad intravedere. Arrivare ad imporre all'Italia il pagamento di un'ammenda di 5.000 euro come risarcimento per «danni morali» al figlio della donna che ha presentato ricorso a causa della presenza del crocifisso a scuola, è veramente uno dei punti più bassi mai raggiunti da un'Europa che sembra incamminata a passo svelto verso il più drammatico tradimento di se stessa, della sua storia, delle sue fondamenta spirituali.
Ma, più di tutto, quello che lascia sgomenti di fronte alla sentenza della Corte europea è la totale incomprensione del significato più profondo della presenza del crocifisso nei luoghi pubblici: che non è innanzitutto quello di propagandare una religione; non è quello di indottrinare gli «infedeli»; non è quello di affermare il predominio di un credo sulle istituzioni laiche. Quel pezzo di legno con la figura del Cristo morente può essere invece guardato, rispettato e amato da tutti, credenti o non credenti, devoti o atei, perché in esso si concentra la misteriosa esperienza di un uomo che si è detto Dio non attraverso una manifestazione di potenza, e quindi di potere e di predominio, non con le spade e con gli eserciti, non con l'uccisione del nemico, bensì attraverso il dono di sé, l'umiliazione, la debolezza, attraversando fino in fondo la condizione umana, assumendo su di sé il vertice della sofferenza, offrendo se stesso come sacrificio «per la salvezza di molti».
I giudici europei non hanno compreso che qui non siamo di fronte a una religione, a una dottrina, a un insieme di precetti, ma a un fatto. Un fatto che sfida la coscienza e la libertà di ognuno senza nulla imporre. Un fatto che, a partire dalla Gerusalemme di 2000 anni fa, nel corso della storia - e in modo così particolare nella storia europea - è stato capace di generare una civiltà dove la persona è difesa, tutelata e valorizzata proprio in forza dell'evento sorgivo della croce. Perciò il crocifisso non è la «violazione dei diritti», ma è la fonte del rispetto che ad essi si deve, in ogni tempo ed in ogni spazio.
Ora in Italia la signora Lautsi intascherà cinquemila euro dai contribuenti - un piccolo omaggio della Corte di Strasburgo - e avrà diritto di far togliere i crocefissi dalle aule dove studiano i figli.
Certo, ci sarà l'appello, e giustamente il nostro governo rifiuterà di applicare questa sentenza ridicola e folle, così caparbiamente voluta e patrocinata da un manipolo di atei.
Ma, come se non bastasse, le «toghe rosse» italiane si sentiranno quantomeno incoraggiate dai colleghi europei. Che, a guardar bene, non sono poi tutti «stranieri», dal momento che uno dei firmatari della sentenza è tale dottor Vladimiro Zagrebelsky, italiano, già componente del Consiglio Superiore della Magistratura, già responsabile dell'Ufficio legislativo del Ministero della Giustizia, ora giudice della Corte Europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, gran commentatore di “la Repubblica”, campione insigne - insieme al fratello minore Gustavo - del laicismo giuridico nostrano.

(Fonti: Gianteo Bordero, Ragionpolitica, 3 novembre 2009)