venerdì 27 febbraio 2009

Hans Küng: “La Chiesa rischia di diventare una setta”. Deliri di un ottuagenario.

«Figura slanciata, viso glabro, ciuffo ribelle, Hans Küng, considerato il più grande teologo contestatore cattolico vivente, riceve nella sua casa, a Tubinga, in Germania, nella sua elegante proprietà dai muri tappezzati di libri. I suoi, moltissimi e tradotti in tutte le lingue, sono in bella evidenza nel suo ufficio personale. Torna a parlare della tempesta scatenata dalla mano tesa da Benedetto XVI agli integralisti cattolici.
D. Qual è la sua analisi a proposito della decisione di Benedetto XVI di revocare la scomunica dei quattro vescovi della corrente integralista di monsignor Lefebvre, di cui uno, Richard Williamson, è un notorio negazionista?
R. Non ne sono stato sorpreso. Fin dal 1977, in un'intervista ad un giornale italiano, monsignor Lefebvre indica che “dei cardinali sostengono – la sua – corrente” e che “il nuovo cardinal Ratzinger ha promesso di intervenire presso il papa per trovare – loro – una soluzione”. Questo mostra che la faccenda non è né un problema nuovo né una sorpresa. Benedetto XVI ha sempre parlato molto con queste persone. Oggi toglie loro la scomunica perché ritiene che sia arrivato il momento. Ha pensato che avrebbe potuto trovare una formula per reintegrare gli scismatici, che, pur conservando le loro convinzioni, potrebbero in apparenza sembrare in accordo con il concilio Vaticano II. Si è proprio sbagliato.
D. Come spiega il fatto che il papa non abbia considerato lo scandalo che la sua decisione avrebbe suscitato, anche al di là delle affermazioni negazioniste di Richard Williamson?
R. La revoca delle scomuniche non è stata un difetto di comunicazione o di tattica, ma ha costituito un errore di governo del Vaticano. Anche se il papa non avesse avuto sentore delle affermazioni negazioniste di monsignor Williamson e anche se lui stesso non è antisemita, ognuno sa che i quattro vescovi implicati lo sono. In questa faccenda, il problema fondamentale è l'opposizione al Vaticano II, e in particolare il rifiuto di un rapporto nuovo con l'ebraismo. Un papa tedesco avrebbe dovuto considerare questo come un punto centrale e mostrare senza ambiguità le sue posizioni sull'Olocausto. Non si è reso conto del pericolo. Contrariamente alla cancelliera Angela Merkel, che ha reagito duramente.Benedetto XVI ha sempre vissuto in un ambito ecclesiastico. Ha viaggiato molto poco. È rimasto chiuso in Vaticano – che è come il Cremlino di una volta -, dove non gli pervengono le critiche. Così non è stato in grado di misurare l'impatto di una tale decisione nel mondo. Il segretario di Stato, Tarcisio Bertone, che potrebbe essere un contro-potere, era un suo subordinato nella Congregazione per la dottrina della fede; è un uomo di dottrina, assolutamente sottomesso a Benedetto XVI. Siamo di fronte ad un problema di struttura. In quel sistema non c'è nessun elemento democratico, nessuna correzione. Il papa è stato eletto da dei conservatori, e oggi è lui che nomina i conservatori.
D. In che misura si può dire che il papa è ancora fedele agli insegnamenti del Vaticano II?
R. È fedele al Concilio alla sua maniera. Insiste sempre, come Giovanni Paolo II, sulla continuità con la “tradizione”. Per lui, tale tradizione risale al periodo medioevale ed ellenistico. Soprattutto non vuole ammettere che il Vaticano II ha provocato una rottura, per esempio, sul riconoscimento della libertà religiosa, combattuta da tutti i papi anteriori al concilio. La concezione profonda di Benedetto XVI è che bisogna accogliere il Concilio, ma che è opportuno interpretarlo; forse non alla maniera dei lefebvriani, ma in ogni caso nel rispetto della tradizione e in maniera riduttiva. Per esempio è sempre stato critico sulla liturgia del Vaticano II. In fondo, Benedetto XVI ha una posizione ambigua sui testi del Concilio, poiché non è mai stato a suo agio con la modernità e la riforma. Mentre il Vaticano II ha proprio rappresentato l'integrazione del paradigma della riforma e della modernità nella Chiesa cattolica. Monsignor Lefebvre non lo ha mai accettato, e i suoi amici della Curia nemmeno. Per questo Benedetto XVI ha una certa simpatia verso monsignor Lefebvre.Comunque trovo scandaloso che per il cinquantesimo anniversario dell'annuncio del concilio daparte di Giovanni XXIII – nel gennaio 1959 -, il papa non abbia fatto l'elogio del suo predecessore,ma abbia scelto di revocare la scomunica di persone in opposizione a quel concilio.
D. Quale Chiesa Benedetto XVI sta lasciando in eredità ai suoi successori?
R. Io penso che lui difenda l'idea del “piccolo gregge”. È un po' la linea degli integralisti, che ritengono che, anche se la Chiesa perde molti dei suoi fedeli, ci sarà alla fine una Chiesa di élite,formata dai “veri” cattolici. È un'illusione pensare che si possa continuare così, senza preti, senza vocazioni. Questa evoluzione è chiaramente un movimento di restaurazione. Ciò si evidenzia nella liturgia, ma anche in atti o gesti, per esempio quando dice ai protestanti che la Chiesa cattolica è la sola vera Chiesa.
D. La Chiesa cattolica è in pericolo?
R. La Chiesa rischia di diventare una setta. Molti cattolici non si aspettano più niente da questo papa. Ed è molto doloroso.
D. Lei ha scritto: “Come è possibile che un teorico così dotato, gentile e aperto come Jospeh Ratzinger sia potuto cambiare al punto da diventare in Grande Inquisitore Romano?” Allora, come?
R. Penso che lo choc dei movimenti di protesta del 1968 abbia risuscitato il suo passato. Ratzinger era conservatore. Durante il concilio si è aperto, anche se era già scettico. Con il 68 è tornato a posizioni molto conservatrici, che ha mantenuto fino ad oggi.
D. Il papa attuale può ancora correggere questa evoluzione?
R. Quando mi ha ricevuto nel 2005, ha fatto un atto coraggioso e ho veramente pensato che avrebbe trovato la via per riformare, anche se lentamente. Ma, in quattro anni, ha provato il contrario. Oggi mi chiedo se sia capace di fare qualche cosa di coraggioso. Innanzitutto occorrerebbe che riconoscesse che la Chiesa cattolica sta attraversando una crisi profonda. Poi potrebbe molto facilmente fare un gesto a favore dei divorziati e dire che a certe condizioni possono essere ammessi alla comunione. Potrebbe correggere l'enciclica Humanae Vitae – che ha condannato ogni forma di contraccezione nel 1968 – dicendo che in certi casi la pillola è possibile. Potrebbe correggere la sua teologia, che risale al Concilio di Nicea – nel 325 -. Potrebbe dire domani: “Abolisco la legge del celibato per i preti” È molto più potente del presidente degli Stati Uniti! Non deve rendere conto alla Corte suprema! Potrebbe anche convocare un nuovo concilio.
D. Un Vaticano III?
R. Potrebbe essere un aiuto. Una simile riunione permetterebbe di sistemare delle questioni alle quali il Vaticano II non ha risposto, come il celibato dei preti o il controllo delle nascite. Bisognerebbe anche prevedere un nuovo modo di elezione dei vescovi, nel quale il popolo dovrebbe poter dire la sua. La crisi attuale ha suscitato un movimento di resistenza. Molti fedeli rifiutano di tornare al vecchio sistema. Perfino dei vescovi sono stati obbligati a criticare la politica del Vaticano. La gerarchia non può ignorarlo.
D. La sua riabilitazione potrebbe essere uno di questi gesti forti?
R. Sarebbe in ogni caso più facile della reintegrazione degli scismatici! Ma non ci credo, perché Benedetto XVI si sente più vicino agli integralisti che alle persone come me, che hanno lavorato e accettato il Concilio». (Nicolas Boursier e Stéphanie Le Bars, Le Monde, 25 febbraio 200).

Fin qui l’intervista concessa ai giornalisti di Le Monde, e ovviamente rilanciata con grande risonanza da La Stampa. Che dire? Deliri di un ottuagenario!
Nonostante l'avanzare degli anni, il "più grande teologo contestatore cattolico vivente" non demorde e continua a pontificare ex cathedra. La cattedra, come al solito, sono i grandi mezzi di comunicazione, sempre pronti a fare da grancassa al suo infallibile magistero.
Dall'intervista, come appare evidente, traspare la stizza del teologo tedesco per non essere lui il Papa, ma il suo coetaneo-concorrente Ratzinger. Dopotutto, era lui l'esperto invitato al Concilio da Giovanni XXIII; Ratzinger era soltanto un semplice teologo privato al seguito dell'Arcivescovo di Colonia! Un altro motivo di astio è dato dal fatto che ai lefebvriani è stata rimessa la scomunica; lui invece non è stato ancora "riabilitato".
Secondo il profeta del progressismo cattolico, la revoca della scomunica ai quattro vescovi lefebvriani "non è stata un difetto di comunicazione o di tattica, ma ha costituito un errore di governo del Vaticano". Il vero problema non è il negazionismo di Mons. Williamson, "il problema fondamentale è l'opposizione al Vaticano II, e in particolare il rifiuto di un rapporto nuovo con l'ebraismo". Sembra di leggere il comunicato della Conferenza episcopale tedesca. Ancora una volta, il valore assoluto è il Vaticano II, ma un Vaticano II completamente ideologizzato: un sostenitore del Concilio dovrebbe essere ecumenico, dovrebbe avere a cuore il problema dell'unità della Chiesa. Ma, a quanto pare, anche l'ecumenismo di Küng è solo un'ideologia.
Papa Ratzinger vive fuori del mondo: "Ha viaggiato poco. È rimasto chiuso in Vaticano, che è come il Cremlino di una volta"; per cui "non è stato in grado di misurare l'impatto di una tale decisione nel mondo". Di quale mondo sta parlando? Del mondo virtuale dei mezzi di comunicazione (controllati sappiamo bene da chi), nel quale lui si trova tanto a suo agio? In Vaticano "non c'è nessun elemento democratico, nessuna correzione. Il papa è stato eletto dai conservatori, e oggi è lui che nomina conservatori".
Benedetto XVI "è fedele al Concilio alla sua maniera. Insiste sempre, come Giovanni Paolo II, sulla continuità con la tradizione". Che vuol dire con la "sua maniera"! Non dovrebbe essere la maniera cattolica di interpretare non solo un concilio, ma qualunque atto ecclesiale? Ma, a quanto pare, il Concilio di Küng non è quello contenuto nei documenti ufficiali, bensì quello contenuto nella sua mente (e probabilmente di molti altri che parteciparono al Concilio).
Secondo lui "il Vaticano II ha provocato una rottura, per esempio, sul riconoscimento della libertà religiosa". Non si accorge di dar ragione così ai lefebvriani? "Benedetto XVI ha una posizione ambigua sui testi del Concilio, poiché non è mai stato a suo agio con la modernità e la riforma". Ma che dice? Se c'è un appunto che si può fare all'attuale Pontefice da parte tradizionalista è proprio la sua insistenza sulla libertà religiosa (ha letto Küng il discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005?) e sulla modernità (nel suo dialogo con l'Islam, sembra quasi che gli stiano più a cuore i valori dell'illuminismo che non quelli del Vangelo!).
Peccato mortale: il Papa, in occasione del 50° anniversario del Concilio, non ha "fatto l'elogio del suo predecessore" Giovanni XXIII, ma ha "scelto di revocare la scomunica di persone in opposizione a quel Concilio".
Inoltre Papa Ratzinger difende l'idea del "piccolo gregge" (che, essendo espressione evangelica, non significa "chiesa di élite"). "È un'illusione pensare che si possa continuare così, senza preti, senza vocazioni". Ohibò, che succede? È la prima volta che sento un nume conciliare lamentarsi della crisi delle vocazioni! Significa proprio che il povero Hans sta invecchiando. Ma come? Dopo aver fatto di tutto per declericalizzare la Chiesa e promuovere il laicato, ora si lamenta che non ci sono più preti? E perché mai un giovane dovrebbe farsi prete, dopo tutto quel che è stato fatto per spogliarlo della sua importanza?
Ma il bello deve ancora venire. "La Chiesa rischia di diventare una setta". Ma non si accorge che, proprio grazie a gente come lui, la Chiesa è già diventata una setta? Quando si afferma che le religioni si equivalgono, costituendo ciascuna una via di salvezza, non si nega la cattolicità della Chiesa e non se ne fa in tal modo una setta? La Chiesa postconciliare, fatta di qualche (vecchio) prete e di tanti "operatori pastorali" (ministri straordinari dell'Eucaristia, lettori, catechisti, presidenti di consigli pastorali e comitati vari), rinchiusa nelle sagrestie senza alcun contatto col mondo esterno, non è forse una setta?
Che cosa dovrebbe fare Benedetto XVI? "Innanzitutto occorrerebbe che riconoscesse che la Chiesa cattolica sta attraversando una crisi profonda". Come se non lo avesse già fatto. Ci si potrebbe chiedere semmai: di chi è la colpa di questa crisi? Ma sentite quanto segue, perché, alla fine dell'intervista, viene fuori ciò che stava e continua a stare a cuore a certi teologi conciliari: l'ammissione dei divorziati alla comunione, la correzione dell'Humanæ vitæ (per dire che "in certi casi la pillola è possibile"), l'abolizione del celibato dei preti, un nuovo modo di elezione dei vescovi. Chissà come mai s'è scordato del sacerdozio alle donne! Ecco le grandi preoccupazioni degli esperti conciliari; ecco i veri motivi per cui è stato fatto il Vaticano II! E noi che pensavamo che la Chiesa avesse bisogno di un rinnovamento spirituale!
Visto che Küng & C. non sono riusciti a raggiungere i loro obiettivi col Vaticano II, continuano a sperare in un Vaticano III. Ma non si rendono conto (loro che vivono nel loro mondo virtuale) che, se davvero si facesse un nuovo concilio oggi, probabilmente avrebbero delle brutte sorprese...

La risposta ufficiale a queste critiche alla Chiesa e al Papa è venuta oggi stesso dal cardinal Sodano, Decano del Collegio cardinalizio attraverso i microfoni della Radio Vaticana, che così ha dichiarato al microfono di Roberto Piermarini:
R. Stamani sono stato interiormente ferito, nel leggere l’intervista che sarebbe stata rilasciata dal Rev.do Prof. Hans Küng al quotidiano francese “Le Monde” e che poi è stata diffusa in Italia dal giornale “La Stampa”. Se il testo è esatto, sento il dovere di dire che si tratta di affermazioni generiche e non provate. Personalmente, sono testimone dell’impegno del Santo Padre per fare della Chiesa una famiglia, la famiglia dei figli di Dio.
D. Eminenza, non è stato sorpreso che proprio un quotidiano italiano abbia ripreso questa intervista rilasciata a “Le Monde”?
R. Non comprendo, come un noto quotidiano italiano, ben al corrente dell’opera del Papa, abbia voluto offrire tanta pubblicità a tale intervista, dandole inoltre un titolo, fra virgolette, che è diverso da quello originale francese e cadendo poi nell’errore di parlare del Concilio Ecumenico di Nicea, nell’odierna Turchia, tenutosi nel lontano 325, come del Concilio di Nizza!
D. Cardinal Sodano, cosa pensa di queste critiche alla Chiesa?
R. Una critica fraterna è sempre possibile nella Chiesa, fin dai tempi di San Pietro e di San Paolo. Una critica amara, invece, tanto più se generica, non contribuisce all’unità della Chiesa, per la quale tanto sta lavorando il Papa Benedetto XVI, che lo Spirito Santo ha collocato a reggere in quest’ora importante della sua storia.

(Fonti: Dal blog “Senza peli sulla lingua”, e da Radio Vaticana, 26 febbraio 2009)

Facebook fa regredire il cervello dei giovani allo stadio infantile

Ce l'hanno tutti con Facebook: non solo fa venire il cancro, ma è in grado di far regredire i cervelli degli adolescenti e dei giovani che lo utilizzano (gli adulti sono meno esposti al rischio, perché hanno una maggiore esperienza al di fuori dei social network) allo stadio infantile: "come i bambini sono attratti da luci e rumori, hanno una bassa soglia dell'attenzione e vivono solo il presente".
L'ipotesi è di Lady Susan Greenfield (nella foto), neurologa e docente di Oxford, che ne ha parlato nientemeno che durante una seduta della Camera dei Lord.
Il problema sarebbe la velocità: passare da una schermata all'altra, da uno stimolo all'altro, in un mondo "basato sul modello dell'azione-reazione veloce" potrebbe portare il cervello ad assumere questa modalità come normale, formandolo "perché esso operi sulla stessa scala temporale".
Dal momento però che il mondo reale ha tempi di reazione diversi, generalmente più lunghi, ecco che questa disparità forse potrebbe portare all'"insorgere di un disturbo di deficit dell'attenzione".
In sostanza, "la mente del ventunesimo secolo è pressoché infantilizzata, caratterizzata da tempi d'attenzione ridotti, tendenza al sensazionalismo, incapacità di partecipazione empatica e da un debole senso dell'identità".
Passare tutto il tempo sui social network, insomma, aprirebbe le porte a una forma mentis che si troverebbe a disagio nel mondo reale, fatto di tempi più lunghi e di attese e in cui è necessario, a volte, concentrarsi anche a lungo su determinati argomenti, sebbene non abbiano niente di "sensazionale".
Addirittura, una frequentazione eccessiva di Facebook e soci potrebbe generare dipendenza nei giovani, che ne trarrebbero soddisfacimento immediato dei piaceri: "l'acuta dipendenza dal soddisfacimento concreto e immediato può esser posto in relazione con l'analogo funzionamento di quei sistemi cerebrali che giocano un ruolo nella creazione della dipendenza da droghe. Così non dev'essere sottovalutato l'elemento del piacere nell'interagire con uno schermo, quando ci arrovelliamo sul perché sia così attraente per i giovani".

(Fonte: Zeus News, 25 febbraio 2009)

Le balle spaziali del "teologo" Laurenti

Non ho visto Sanremo, se non a piccole e saltuarie dosi. Sanremo sarà pur sempre Sanremo ma mi cresce la barba ad ascoltare queste canzonette tutte uguali, praticamente clonate. Nemmeno la polemica pre-festivaliera su Povia mi ha indotto in tentazione più di tanto.
Ma se si può scampare al festival non si scampa ai suoi postumi; interviste, tirar di somme, speciali televisivi con auto-celebrazioni, e affondi psicologici sui vincitori, spulciando sulle loro faccende di famiglia fino alla settima generazione. Mi è capitato di leggere sul Giornale un’intervista a Luca Laurenti, la cosiddetta “spalla” di Bonolis, un tipo alla Walter Chiari di “vieni avanti, cretino!”, per intenderci.
Una macchietta d’uomo che indubbiamente farà anche ridere… ma i “comici” di razza sono ben altra cosa! Una “perla” di intervista, dunque, la sua, rilasciata a Giancarlo Perna. Ne do un assaggino:
«Siamo esseri di luce. Con l’orgasmo ti riconnetti all’uno…»
«Padreterno che sei ovunque: è la versione aramaica della Bibbia».
«Dietro ogni religione c’è un’unica cosa: la luce. Le religioni sono la fetta, la luce è la torta. Lo dice la teoria quantistica. Se prendo la fetta, limito. L’uno è il tutto, diviso si sminuisce…»
«Io non credo nella morte. L’aldilà è diviso da noi dal velo dell’elettromagnetismo. Noi siamo un frutto energetico. Quando andiamo via, in realtà ci trasformiamo…»
«L’amore è il motore di tutto. L’uomo però non è la macchina, ma chi la guida. Dio, ovvero l’energia. È lui che governa il mondo…»
E via sfarfallando. Mi sono chiesto: ma Laurenti è un comico o un teologo discepolo di Vito Mancuso, di Küng, o di qualche altro “luminare” che sonda con competenza il Trascendente? Penso, onestamente, che lui si senta un po’ tutto questo, altrimenti non si spiegherebbe tanto profondo e serioso convincimento nello snocciolare cotante corbellerie, anche se infarcite, a titolo di sottolineatura, con qualche gag altrettanto demenziale. Ci ha promesso (o minacciato?) che forse scriverà un libro con Augias; meno male: ne sentivamo molto la mancanza…
Infatti mi ha colpito molto la sua dissertazione su orgasmi e amore cosmico (?!)… Ma per ora di “cosmico” vedo e leggo solo le sue esorbitanti cazzate!

Le assurdità della Cassazione

Ma insomma, chi sono questi giudici della Corte di Cassazione che da un paio di anni a questa parte stanno emettendo le sentenze più strampalate nel nome del popolo italiano? Le pronunce che hanno reso possibile la soppressione fisica di Eluana Englaro e ora hanno mandato assolto Luigi Tosti, il giudice che si rifiuta di compiere il suo dovere se nell’aula del tribunale è presente un crocifisso, sono solo le ultime perle di un’incredibile collana che è stata prodotta in un tempo relativamente breve. A dare una scorsa ad alcuni dei recenti giudizi viene da pensare che alle sezioni della Corte siedano più spesso Pippo, Pluto, John Lennon e Lidia Ravera che non magistrati di lungo corso e profonda dottrina.Il giudice di Camerino, condannato a sette mesi di reclusione e un anno di interdizione dai pubblici uffici per interruzione di pubblico servizio e omissione di atti d’ufficio dalla Corte d’Appello dell’Aquila per uno dei suoi rifiuti a giudicare in presenza di Cristo in croce, è stato riabilitato dalla Sesta sezione penale della Corte di Cassazione, che ha stabilito che semplicemente «il fatto non sussiste». Le motivazioni non sono ancora note, ma forse coincidono con quelle per le quali il Sostituto procuratore aveva chiesto l’annullamento della sentenza con rinvio, e cioè che il servizio non fu in realtà interrotto, poichè un altro magistrato aveva sostituito Tosti. Da cui si deduce che se da domani qualche impiegato pubblico si rifiuterà di fornire i servizi a lui richiesti da un utente rom, o ebreo, o africano, potrà evitare una condanna per omissione di atti d’ufficio o per interruzione di pubblico servizio se troverà un collega disposto ad accollarsi l’incombenza che lui ha schifato.L’exploit più noto della Cassazione è senz’altro la sentenza n. 21748 depositata il 16 ottobre scorso, dove in 60 pagine la Corte ha spiegato che Eluana Englaro poteva essere fatta morire di sete perché idratazione e alimentazione artificiale sono trattamenti sanitari, e in quanto tali possono essere rifiutati dal paziente a norma dell’articolo 32 della Costituzione, e che se anche non esisteva attestazione formale della volontà della paziente, era sufficiente la ricostruzione della di lei volontà da parte del tutore legale (il padre) sottoposta all’esame dei giudici (senza contraddittorio, trattandosi di un caso di legislazione volontaria) per procedere all’interruzione dell’idratazione. Unica concessione per la condannata a morte: la sedazione con antidolorifici. Le asserzioni di Beppino Englaro e l’opinione di alcune società mediche assurta a dogma sono diventate le fondamenta di una sentenza “in nome del popolo italiano” che domani potrebbe essere usata per scardinare una legislazione approvata dal Parlamento (unico rappresentante autorizzato del popolo italiano) che non coincida con quanto opinato dalle Sezioni unite della Cassazione.Ma, dicevamo, gli exploit sono molto più numerosi di quanto si pensi. Novembre 2008: la quinta sezione penale della Cassazione annulla la sentenza con cui la Corte d’assise d’appello di Napoli ha condannato una madre rom per riduzione in stato di schiavitù del figlioletto di quattro anni, costretto ad elemosinare stando all’in piedi tutto il giorno anche d’inverno, sommariamente vestito. La Corte stabilisce che non si tratta di riduzione in stato di schiavitù ma di maltrattamenti, reato più lieve. Quel che fa venire i brividi sono le motivazioni: secondo i magistrati non si possono «criminalizzare condotte che rientrino nella tradizione culturale di un popolo». L’accattonaggio per «alcune comunità etniche costituisce una condizione di vita tradizionale molto radicata nella cultura». Di questo passo sarà ammessa la poligamia perché molti immigrati la praticano nei loro paesi in forza della tradizione e/o della religione; saranno tollerate le mutilazioni sessuali alle bambine perché decine di milioni di donne in Africa sono sottoposte a tale rito; si assolveranno i delitti d’onore come quello di cui fu vittima la pakistana Hina a Brescia perché la cultura di molte comunità di immigrati in Italia li permette e anzi li incoraggia.
Non è tutto. Luglio 2008. La Sesta sezione penale della Cassazione annulla la condanna a 1 anno e 4 mesi di un 44enne di Perugia trovato in possesso di un etto di marijuana. Motivo: bisogna essere tolleranti per rispettare la libertà religiosa dell’accusato, che è un rasta, cioè un adepto del rastafarianesimo. «Secondo le notizie relative alle caratteristiche comportamentali degli adepti di tale religione di origine ebraica», discettano con imperdonabile approssimazione i magistrati «la marijuana non è utilizzata solo come erba medicinale, ma anche come erba meditativa. Come tale possibile apportatrice dello stato psicofisico teso alla contemplazione nella preghiera, nel ricordo e nella credenza che l’erba sacra sia cresciuta sulla tomba di re Salomone, chiamato “il re saggio” e da esso ne tragga la forza». Dopo tale sentenza pare sia stata segnalata la nascita di una nuova religione in Italia: i suoi praticanti affermano di non poter pagare tasse se non alla divinità in persona, della quale attendono l’avvento in terra. Si rifiutano di pagarle a soggetti umani perché tale sacrilegio li condannerebbe all’inferno. Pare che il numero degli adepti stia rapidamente aumentando.Un’altra sentenza interessante sulla marijuana è datata gennaio 2009: la Cassazione annulla la condanna a 1 un anno e quattro mesi di un 44enne di Ancona scoperto a coltivare cannabis in un campo vicino a casa. Motivazione: le piante non erano ancora giunte a maturazione, dunque non contenevano alcaloidi dannosi, dunque non rappresentavano un pericolo per la salute pubblica. «L’intervento punitivo dello Stato», si legge nel dispositivo «deve esserci solo quando è concretamente minacciato il bene della salute. In caso contrario il giudice, guidato dai princìpi di ragionevolezza della pena in presenza di una condotta offensiva, deve chiedersi se possa esercitare il potere punitivo dello Stato, sacrificando la libertà personale, per tutelare il bene della salute, dinanzi a una offensività non ravvisabile neanche in grado minimo». Perciò, la prossima volta che la polizia coglierà in flagrante un terrorista che sta preparando una bomba, dovrà verificare prima di arrestarlo: se la bomba non è ancora pronta è innocua, dunque non c’è ancora pericolo per la salute pubblica.Si potrebbe continuare a lungo, ricordando la sentenza che ha stabilito che nella cifra dell’assegno di mantenimento al figlio non convivente il genitore separato deve comprendere anche il telefono cellulare e internet, quella che nega a un uomo la possibilità di disconoscere la paternità di un figlio accertata con l’esame del Dna se è trascorso più di un anno da quando ha appreso dell’infedeltà del coniuge, l’annullamento della sentenza di assoluzione dall’accusa di inquinamento ambientale per la Radio Vaticana, ecc. Ma la sentenza più creativa di tutte è senz’altro quella con cui, nell’ottobre 2008, la Cassazione ha respinto il ricorso della Germania contro la sentenza della Corte d’appello militare di Roma che ha condannato il governo tedesco a risarcire i parenti delle vittime di alcune stragi naziste. Con questa sentenza l’Italia diventa il primo paese al mondo a decidere che le vittime del nazismo vanno risarcite su base individuale. Passasse il principio, i parenti di 11 milioni di civili russi e di 5 milioni di polacchi caduti sotto il fuoco della Wermacht e delle SS potrebbero spennare la Germania. Ma anche libici, etiopici ed ex jugoslavi, vittime a migliaia della repressione italiana negli anni Trenta e Quaranta, potrebbero fare la festa al nostro bilancio dello Stato. Chissà che belle sentenze ci regalerebbe allora la Cassazione.

(Fonte: Rodolfo Casadei, Tempi, 23 febbraio 2009)

Melma morale: la deriva degli istinti peggiori

Gli ultimi episodi di cronaca nera sono allarmanti. Stranieri che stuprano una ragazza a Guidonia, gruppi di stranieri che fanno la stessa cosa ad altri stranieri, ma anche ragazzi bene italiani che operano nello stesso modo, fino ad arrivare al ragazzo che, per vendetta, violenta la sua ex. Altri che si divertono a dar fuoco a un indiano senza fissa dimora, utilizzando l'ultimo litro di benzina del loro rifornimento "fai da te”. Esaminando poi le confessioni degli interessati, la versione è sempre la stessa; nulla di eccezionale: avevamo bevuto, volevamo vivere una forte emozione, volevamo divertirci. La domanda è se si tratta di fatti casuali o di tendenze di comportamento. Purtroppo si tratta di tendenze. Rappresentano l"apice di una deriva. Si dirà che la situazione è complessa: forti tensioni sociali (immigrazione), degrado di periferie abbandonate, crisi economica, crisi di riferimenti educativi. Non è solo questo: si sta perdendo la rete di regole di convivenza. Impressiona il fatto che gli autori di crimini non abbiano coscienza dei loro comportamenti delittuosi. Sono lì a meravigliarsi che qualcuno si meravigli.
Eppure i fatti rivelano due caratteristiche: la violenza, la vigliaccheria. La violenza è matrice anche dei delitti sessuali. Prendere di mira una coppietta; bastonare il ragazzo e violentare la ragazza non risponde solo a un incontrollato istinto sessuale. La modalità sfida il rispetto dei due e, in qualche modo, li violenta entrambi. La vigliaccheria è l’altro elemento. I forti delinquenti scelgono le loro vittime perdenti. Lo fanno in gruppo: per sentirsi sicuri, per non soccombere ad eventuali reazioni. La donna è la preda preferita. Sola, indifesa, tenuta di mira. Ma i fatti di cronaca non possono essere ridotti a episodi isolati di comportamenti asociali. Rappresentano il culmine di una violenza e di una vigliaccheria ampiamente diffusa nel sentire sociale.
Tre riferimenti: l’economia, la politica, la vita familiare. Oggi tutti piangono per la crisi economica: pensata, attuata da menti diaboliche per arricchirsi. Senza pietà e senza rispetto. Il crollo del sistema economico è frutto della violenza dell’arricchimento: con inganni, con millantati crediti, con la coscienza della bolla dei numeri. Nessuna polizia nazionale e internazionale ha ancora colpito i criminali di stupri economici. Alcuni si sono arricchiti, mentre milioni di persone sono diventate povere. Così per la politica: il consenso da acquisire e conservare ad ogni costo autorizza a cavalcare emozioni, a dare notizie false, a comportarsi in modo indegno dei principi di uguaglianza e di equità. Con indifferenza, con convinzione: senza nessuno scrupolo per il bene generale per il quale si è stati chiamati a governare. Infine la vita familiare ridotta spesso a violenza, prevaricazioni, abbandoni, con l’unico obiettivo del proprio benessere, da ottenere ad ogni costo, calpestando sentimenti, legami, doveri.
La melma istintuale sta permeando il nostro sentire: più cattiva di quella animale, orientata solo alla propria conservazione. Nel profondo della vita quotidiana c'è un'indifferenza sottile a chi ci cammina accanto: quando si guida si è padroni della strada, quando si fanno le file alla posta si cerca di "fregare" la priorità di qualcun altro, quando si vive in condominio non si rispettano le regole-basi della convivenza... E si potrebbe continuare. Il non rispetto dell'altro in nome della propria libertà. Quindi l'altro non esiste: diventa invisibile. E, se esiste, mi dà fastidio e lo cancello, lo insulto, lo scanso, lo ignoro. Nei casi più gravi ed eclatanti, lo violento, lo picchio, lo brutalizzo. Assisto a scene di razzismo sulla metropolitana e per la strada. Parole velenose, sussurrate o gridate anche da donne, da persone anziane, da uomini cosiddetti "rispettabili"; sguardi di odio e gesti di stizza compiuti da nonne nei confronti di donne immigrate con un passeggino o con un bambino. Ho visto scene di bullismo nei confronti di ragazzi timidi. E ho deciso di accendere il meno possibile la televisione, dove si cerca in continuazione un fantomatico capro espiatorio e, trincerandosi dietro il diritto di cronaca, si aizzano gli odi, si dà voce ai linciaggi, si creano emulazioni. Il nemico è sempre fuori, altro da noi. Forse, invece, è nascosto - almeno in parte - proprio dentro quel magma pulsionale che si agita impazzito in ciascuno di noi, e che ciascuno di noi ostinatamente ignora. Certamente la vita sociale offre ancora esempi di rispetto, di donazione, addirittura di martirio. Ma la deriva degli istinti peggiori permea sempre più la società, dove valori come la distinzione tra bene e male; tra diritti e doveri; tra il possibile e il proibito stanno inesorabilmente scomparendo. E questo ce lo dimostrano i fatti di cronaca nera, che ci insegnano molto di più di quello che in realtà tristemente sono.

(Fonte: Vinicio Albanesi, Redattore sociale, 3 febbraio 2009)

Grazie, Povia!

Qui si parlerà di Festival. Qualcuno storcerà il naso, come se l’argomento non fosse abbastanza serio e importante. Forse dimentica che il fenomeno Sanremo ha coinvolto milioni di persone. Sottovalutare le canzonette e il loro impatto (specialmente sul pubblico degli adolescenti) è un grave errore. Noi non lo faremo, perché siamo più che certi che la musica, e in particolare, la canzone, è in grado di influenzare la mentalità della gente e in qualche modo di formare il suo orizzonte culturale. Del resto la rivoluzione degli anni Sessanta non sarebbe stata la stessa senza la colonna sonora che l’ha accompagnata.
Insomma, il discorso è molto più serio ed importante di quello che possa sembrare.
Dunque, Sanremo e, soprattutto, Povia col suo brano “Luca era gay”. Felici che si sia piazzato al secondo posto. Felici che la sua canzone abbia fatto breccia e che stia ottenendo molto successo. Nonostante tutto il casino pretestuoso e violento creato dalle associazioni dei gay. Nonostante il disprezzo veramente eccessivo dimostrato da certi critici musicali (su tutti Mario Luzzatto Fegiz, che lo ha praticamente stroncato, salvando invece prodotti molto più scadenti e cantanti dalle performance a dir poco imbarazzanti). Nonostante l’astuta aggressione di Benigni, che rischiava di fargli intorno terra bruciata.
La vicenda di Povia è stata esaltante, oltre, ben oltre il concorso canoro. Il personaggio ha dimostrato di avere quel coraggio che aveva già palesato quando, unico tra i suoi colleghi, molto attenti a non mettersi contro certe lobby di potere, era intervenuto al Family Day di due anni fa. Stavolta ha scelto di raccontare una storia assolutamente scorretta: quella di un omosessuale che scopre la bellezza di essere eterosessuale, di trovare la donna della propria vita e di diventare padre.
Beh, signori, grazie, veramente grazie a Povia, perché con il facile ritornello che ha creato (“Luca era gay e adesso sta con lei”) costringe la gente a pensare a qualcosa di diverso dallo schema unico diffuso in tutti questi anni dai mass media.
Noi siamo da tempo bombardati da storie alla Cecchi Paone: l’eterosessuale che abbandona la moglie e scopre la propria omosessualità, innamorandosi di un bel ragazzetto “dagli occhi di cerbiatto”. Noi siamo bombardati dalla presenza invadente e continua di personaggi alla Cristiano Malgioglio, che ostentano quasi istericamente la propria diversità. Noi abbiamo saputo (senza assistervi) della vittoria di Luxuria sull’isola degli pseudo famosi. E come non dimenticare la Tatangelo all'ultimo Festival? E’ la santificazione dell’omosessuale, della quale la performance di Benigni è stata solo l’ennesimo capitolo.
Storie a senso unico. Protagonisti a senso unico. Schema a senso unico.
Uno schema, tra l’altro, estraneo alla stragrande maggioranza degli italiani, che invece hanno normalmente dei rapporti eterosessuali, come natura ha fatto gli uomini. Poi arriva un cantante coraggioso e lo schema va in frantumi.
Grazie a Povia per aver reso “normale” ciò che, paradossalmente, sembra diventato anormale, e cioè l’innamoramento di un uomo per una donna, l’esperienza più normale e primitiva e viscerale degli uomini su questa terra, ora e in migliaia di anni di storia.
Grazie per aver parlato della gioia di trovare la donna della propria vita, insieme alla quale fare l’esaltante esperienza della paternità. E della famiglia (per giunta!).
Grazie per aver sdoganato la parola “padre”, altra grande parola sottilmente espunta dal vocabolario (nella Spagna di Zapatero anche dalla Costituzione!).
Grazie a Povia per aver travolto con una canzone il dogma deterministico-biologico per cui omosessuali si nasce. Invece no, omosessuali si diventa, spesso per esperienze traumatiche vissute in famiglia, come quella del protagonista della canzone. Come quella di Oscar Wilde, proprio quel Wilde citato da Benigni, che ebbe un’infanzia molto simile al Luca di Povia: padre assente, madre possessiva ed invadente.
Grazie a Povia, perché la sua canzone potrebbe aiutare molte madri di quel genere (che scaricano le loro frustrazioni sui figli) a ripensare il loro atteggiamento, la loro nevrastenia, la loro violenza.
Grazie a Povia per la spettacolare testimonianza di libertà di opinione e di espressione, perseguita coraggiosamente contro l’oscurantismo della lobby gay, che avrebbe voluto mettergli il bavaglio. Grazie per quei cartelloni esposti alla fine di ogni performance sul palco dell’Ariston, che rivendicavano il diritto a quella libertà.
Grazie a lui e a tutti quelli che osano cantare ciò che di bello e di umano c’è nella vita. Nella vita di tutti i giorni, nella vita della maggior parte della gente comune, banale, dei poveri cristi che s’innamorano, mettono su famiglia e fanno figli, e che hanno diritto, ogni tanto, a sentirsi protagonisti di una canzonetta. A Sanremo.

(Fonte: Gianluca Zappa, La Cittadella, 23 febbraio 2009)

E adesso il sig. Englaro ci insegna cos'è la barbarie

Aveva detto che aveva bisogno di silenzio e che si sarebbe chiuso nel silenzio. Invece, a poco più di una settimana dalla morte di sua figlia, eccolo già in prima linea a combattere la battaglia per l’eutanasia. Beppino Englaro, questa è la notizia, interverrà telefonicamente alla manifestazione indetta da Micromega contro la legge sul testamento biologico che sta per essere varata dal Governo. Parlerà, insomma, e pubblicamente, in modo pesante, spendendo la sua popolarità.
Interverrà a dire che questa legge è una “barbarie”. Chiederà, nel caso che venisse approvata, di ricorrere ai giudici della Corte Costituzionale (lui di giudici se ne intende) e, in seconda battuta, di ricorrere al popolo italiano con un referendum.
Faccia pure. Ci troverà schierati contro la sua voglia di morte, in nome di sua figlia Eluana, martire del partito dell’eutanasia.
Perché, adesso che il pathos della vicenda è evaporato, e adesso che il silenzio sulla vicenda è stato proprio violato da chi l’aveva tanto invocato, è ora di spiegarlo alla gente, all’opinione pubblica, chi sono gli amici di Englaro, quelli che in qualche modo hanno gestito la regia di questa battaglia durata anni e conquistatasi gli onori delle cronache.
E’ ora di svelare che molti dei suoi compagni di viaggio sono membri della Consulta di Bioetica, un’associazione nata nel 1989 e impegnatasi subito a sostenere la “liceità morale dell’eutanasia” quando si sia di fronte “a una persona che ne fa richiesta ripetutamente e senza incertezze, per evitare un’infermità inguaribile e una situazione degradante per la propria dignità”, come si legge in un documento risalente al 1993. Già tre anni prima la Consulta si presentava con la propria iniziativa della Carta di Autodeterminazione, in base alla quale ventilazione assistita, rianimazione cardiopolmonare, trasfusioni e alimentazione artificiale venivano equiparati tra loro e catalogati come “provvedimenti di sostegno vitale” da potersi rifiutare.
Questi sono gli “amici” che Englaro ha incontrato (sfortunatamente per sua figlia) nel 1995 e che l’hanno sostenuto, consigliato, indirizzato fino alla soppressione di Eluana. E’ lui stesso a citarli, nel libro Eluana, la libertà, la vita edito da Rizzoli. C’è Carlo Alberto Defanti, il neurologo che seguiva la ragazza, a quel tempo (ma guarda un po’!) presidente della Consulta; c’è l’avvocato Maria Cristina Morelli, quella che ha portato la “luce”, suggerendo ad Englaro il modo per vincere il contenzioso, che era quello di diventare il tutore della figlia; c’è il magistrato Amedeo Santosuosso, consigliere (arimaguarda un po’!) presso quella Corte d’appello di Milano che ha emesso il decreto decisivo del luglio 2008; e Carlo Augusto Viano, un filosofo, che scrive saggi dai titoli eloquenti, come “Elogio dell’ateismo” (pubblicato nel 2006 su Micromega, proprio la rivista che ha organizzato la manifestazione durante la quale parlerà l’Englaro); c’è Maurizio Mori, attuale presidente della Consulta, impegnato contro “i fantasmi del vitalismo ippocratico e della sacralità della vita”, per la “libertà dall’oppressione della medicina”. Del direttivo della Consulta fa parte un personaggio significativo, Mario Riccio, l’anestesista che ha aiutato Welby a staccare il respiratore. E così il cerchio si chiude.
Questo è il bell’ambientino frequentato dal sig. Englaro; questo è il circoletto che si è stretto intorno alla povera Eluana. Tutta brava gente dalle idee molto chiare, per la quale l’unica “uscita” possibile era quella dell’eutanasia.
Insomma, va completamente rivista la figura di Beppino Englaro, apparso ai più come un poveraccio, solo e inerme col suo problema, in lotta contro lo Stato cattivo e disumano. Va inserita all’interno di un gruppo d’opinione determinato a raggiungere degli scopi dichiarati, con degli obiettivi sostenuti da una precisa filosofia, atea, agnostica e razionalista. Che lui ha condiviso.
Tutto questo va ribadito e messo in evidenza, perché la vicenda di Eluana sia giudicabile con una maggiore cognizione di causa. A partire da tali presupposti, allora, non fa specie che Englaro si giochi la faccia in una battaglia politica. Non fa specie che rompa il silenzio proprio lui, che invece negli ultimi giorni di sua figlia appariva affranto e desideroso di nascondersi al mondo.
Fa specie, invece, che proprio lui si permetta di utilizzare la parola “barbarie” dopo la barbara esecuzione di sua figlia. Perché mettiamoci bene in testa una cosa: se Eluana non fosse morta così velocemente (e ancora aspettiamo di sapere per quale motivo il suo quadro clinico si sia tanto rapidamente deteriorato, contro ogni previsione dello stesso Defanti che l’aveva in cura) avremmo assistito alla barbara agonia di un essere umano per fame e sete. Uno spettacolo orribile, rievocato giorni fa dal padre di Terry Schiavo, il quale ha assistito impotente al calvario di sua figlia. Ha visto quella donna raggrinzirsi, accartocciarsi, strabuzzare gli occhi, digrignare la bocca.
Tutto questo ci è stato risparmiato, per fortuna nostra, ma soprattutto dello stesso Englaro e dei suoi amici. Seguire per 15 giorni l’agonia di Eluana sarebbe stato un boomerang per coloro che sostengono che l’idratazione e la nutrizione si possono negare, se il soggetto lo vuole.
Negare il sondino a una persona significa condannarla ad una prolungata, terribile agonia. Non prendiamoci in giro: significa favorire pratiche eutanasiche, perché non si può stare lì inermi a veder morire una persona in quel modo.
Adesso Englaro rompe il silenzio ed entra nell’agone. Avrebbe fatto meglio a mantenere la promessa. A starsene zitto, in silenzio, da una parte.
Ma forse è meglio così. Se non altro, adesso tutto è più chiaro.

(Fonte: Gianluca Zappa, La Cittadella, 20 febbraio 2009)

L’ultimo sfregio a Eluana: fotografata mentre moriva

C’eravamo abituati a quel suo sorriso solare. Era l’unica foto che Beppino Englaro aveva voluto far circolare in questi diciassette lunghi anni di sua figlia Eluana. Ecco perché consideravamo un po’ tutti quella foto qualcosa di simile a un’immaginetta sacra. O a una di quelle istantanee un po’ ingiallite di una persona cara, tenuta nel portafoglio da chissà quanto tempo. Che si vuole ricordare così com’era, nel fiore degli anni e della vita.Invece siamo costretti a svegliarci di soprassalto e a scoprire che è entrata in circolazione, violando una ben precisa disposizione, un’altra Eluana. L’Eluana della «Quiete» di Udine, sul letto dove avrebbe esalato l’ultimo respiro. L’Eluana delle polemiche. L’Eluana della morte per fame e per sete. Ci ha pensato l’anestesista Amato De Monte, sì, proprio il medico che ha accettato di accompagnarla a morire per rispettare una sentenza della magistratura italiana, a scattare e a far scattare quelle foto. Le foto dell’altra Eluana. Le ha scattate lui e le ha fatte scattare da un professionista del grandangolo e dello zoom, tale Francesco Bruni. In più, sempre De Monte, sì, proprio la stessa persona che aveva dichiarato di sentirsi «devastato come uomo e come medico», accompagnando Eluana a morire da Lecco a Udine, ha aperto la porta anche a una giornalista della sede Rai di Udine, Marinella Chirico. Che poi, nelle ore successive, ha dispensato interviste per, citiamo testualmente le sue dichiarazioni rese agli investigatori, «controbattere alle false e inaccettabili illazioni sulle effettive condizioni di Eluana».Risultato ci sono quattro indagati per questi fatti: De Monte, il fotografo professionista, la giornalista Rai e la compagna di De Monte, l'infermiera Cinzia Gori che, nel fatidico giorno dell’insolito reportage ha introdotto nella stanza di Eluana quelle macchine fotografiche e quegli ospiti che il protocollo vietava. Prima ancora che quest’ultimo deprimente e sconfortante strascico alla già grama vicenda di Eluana, entrasse nell’orbita mediatica, puntuale e impeccabile come sempre l'avvocato Giuseppe Campeis, sì, proprio il legale che ha salutato alcuni giornalisti il giorno prima della sepoltura di Elauna con una cena in grande stile nella magione avita alle porte di Udine, si è sentito in dovere di precisare ciò che non gli era ancora stato chiesto di precisare. Ovvero che «le foto sono state autorizzate da Beppino Englaro» per finalità di documentazione clinica, come corredo della cartella clinica. E che la famiglia Englaro si riserva ogni azione giudiziaria a tutela della privacy di Eluana se dopo queste iniziative delle forze dell’ordine le foto dovessero essere rese pubbliche». Le foto, precisa ancora Campeis «sono state date dal medico a Beppino Englaro che non ha alcuna nessuna intenzione di consegnarle senza un atto di sequestro». Dopo i battibecchi, dopo le uscite recenti di papà Beppino, sì, lo stesso uomo che aveva giurato «di non parlare più dopo la liberazione di Eluana» rimaniamo attoniti davanti a quest'altra novità che non aiuta certo a rasserenare gli animi. Ma che, al contrario, ci pare l’ennesimo affronto, «scientificamente e clinicamente» compiuto sulla pelle di Eluana. Per i carabinieri quanto emerge dalle indagini si configura come un reato: la violazione dell'articolo 650 del codice penale, che punisce l'inosservanza dei provvedimenti dell'autorità.
Ma se ci fosse un Codice Morale forse la fotografia, che uscirebbe dalla camera oscura dove Eluana è stata condannata a morte, sarebbe sbiadita e sfuocata. Come le coscienze di taluni primattori che hanno calcato questo surreale palcoscenico di una morte annunciata e documentata.

(Fonte: Gabriele Villa, Il Giornale, 26 febbraio 2009)

Il caso Englaro: “non ho mai provato uno schifo simile”.

In confronto Goebbels era un fanciullino. L’insieme di retoriche azionate a comando e vittoriosamente nel caso della ragazza presa di forza per sentenza giudiziaria e messa a morte senza moratoria si fondava sull’alone tragico del dolore di un padre. Sfida morale azzardata ma a suo modo grandiosa. L’agorà e la vita pubblica di un paese e delle sue istituzioni al servizio di una grande storia privata. Beppino ci aveva sempre assicurato di questo che solo contava per lui: offro la mia voce di padre a una bella ragazza, mia figlia, che mai avrebbe voluto vivere così, e basta. Invece niente basta. Beppino dava voce a se stesso, e perfino ai suoi ricordi ideologico-politici rispolverati a nemmeno due settimane dall’esecuzione pubblica di sua figlia, e dunque dava voce alla coorte dei suoi consiglieri e medici e specialisti e politici che hanno aspettato il giorno della morte di Eluana per scatenarsi e dire finalmente in pubblico la verità: è stata una nuova Porta Pia, un avanzamento nella eterna lotta dello spirito umano contro l’oscurantismo della chiesa. Loris Fortuna, il divorzio, l’aborto e poi, perché no?, l’eutanasia.
La famiglia Andreatta ha accudito nove anni il congiunto. Ha aspettato che arrivasse la sua ora senza violare il mistero, anche scientifico, di quel sonno. Ha fatto in tempo ad accompagnare Giorgio Napolitano, in visita a Bologna, al suo capezzale. Segno che Beniamino Andreatta era tanto vivo da potersi permettere una visita del capo dello stato, capace di firmare il registro degli ospiti ma non il decreto del governo per la ragazza. Non c’è stato chiasso, c’è stato rispetto intorno a quel letto. Un lungo silenzio di nove anni ha scandito un tempo di vita così particolare, dolori così particolari e privati. Nel caso in questione, invece, c’è stata una continua richiesta di silenzio, il silenzio come silenziamento delle ragioni degli altri, e un grande chiasso. E una continua richiesta di rispetto, ma nessun rispetto. Chi come alcuni di noi voleva lasciare Eluana Englaro alle suore che la accudivano ha espresso le sue idee con le corde vocali tarate sul dogma fuori discussione della sua libertà, espressa dalla voce del padre che parlava a nome della figlia. Eluana voleva evadere da quella prigione della carità cristiana, voleva essere “liberata”. Ma no, illusione, in un paese di bari come il nostro era chiaro quello che si poteva sospettare ma non si doveva dire: la voce non era quella di Eluana, era quella di Loris Fortuna e del suo devoto papà Beppino, pronto al comizio e al talk show, naturalmente per dare voce a tutti gli altri dopo Eluana.
È dunque acclarato che è stata compiuta una gigantesca operazione politica, giurisdizionale, ideologica e religiosa brandendo come strumento il corpo di una ragazza e un padre chino nell’ascolto della sua voce giovanile. Eppure, ecco perché dico che Goebbels al loro confronto era un fanciullino, sono riusciti a diffondere l’idea che fossero i preti e lo stato e altri orrendi devoti, nella figura di un papa tedesco e di un premier caudillo, ad accanirsi sul corpo di una ragazza e a violare un dolore privato. Bestiale. Chi accudiva quel corpo e desiderava rifornirlo di cibo e di acqua; chi non sarebbe mai uscito dal silenzio rispettoso che lo circondava, alla Andreatta, è stato imputato di estremismo chiassoso, di strumentalismo politico bieco, di uso di un corpo di donna a scopi ideologici. Chi ha messo in piedi il grande circo mediatico giudiziario, chi ha perseguito per la ragazza il destino dell’eutanasia passiva o, se preferite fidarvi di un baro, “l’omicidio del consenziente”; chi ha mentito dall’inizio alla fine, scambiando in una tragicommedia di imposture la propria flebile voce con la possente e simbolica voce di lei, passa o dovrebbe passare per rispettoso curatore e tutore della libertà di coscienza. Non ho mai provato un simile schifo in vita mia.

(Fonte: il Foglio, 22 febbraio 2009)

venerdì 20 febbraio 2009

Bonolis si e' detto orgoglioso. Ma di che?

Bonolis quando fa la faccia del cretino e gigioneggia con Laurenti è eccezionale. Quando, con la stessa faccia, vuole dire cose serie, fa la figura del cretino. Ieri sera l'abbiamo sentito dire, proprio con quella faccia lì, di sentirsi orgoglioso di essere italiano. Il concetto l'abbiamo sentito per la prima volta, in un Festival dove giovani incazzati vanno lì a cantare che l'Italia è una merda ed è piena di coglioni padroni.
Ma perchè si sentiva orgoglioso il bravo presentatore? Perchè aveva assistito allo show di Benigni. Un intermezzo del quale non si capisce perchè si debba essere orgogliosi. Innanzi tutto è costato svariati milioni di euro. Una cifra enorme, immorale, direi, che mette subito una pietra sopra al predicozzo morale del comico. E poi, diciamoci la verità, niente di nuovo, tutto trito e ritrito. Molto meglio un monologo di Brignano, sicuramente più economico e incisivo. Benigni ha messo in scena la versione buffa dell'antiberlusconismo. Non nego che mi abbia fatto fare qualche accenno di risata, ma basta: non c'è assolutamente nulla di geniale in quel minestrone di barzellette su Berlusconi. Ne girano tantissime...
La figura di Benigni, tra l'altro, era piuttosto triste, ieri sera. Non so se vi ricordate, ma il comico aveva messo la sua faccia allegra nell'ultima campagna elettorale per sponsorizzare Veltroni. Deve essere stato veramente imbarazzante per lui (una bella vendetta della storia) andare a far ridere la gente nel momento in cui avrebbe preferito piangere sul ritiro dalla corsa del cavallo sul quale aveva puntato tutto. Veltroni e il PD spazzati via in pochi mesi!
Ce n'era abbastanza per fare della satira politica a iosa: ma Benigni ha stornato l'attenzione sul fallimento proprio e delle proprie speranze, ributtandosi su Berlusconi. Un'ossessione. A volte anche divertente, che c'entra, ma comunque monotona. Insomma, un qualcosa per cui non è che ci si può gasare più di tanto.
Poi è arrivato il punto più tragico dello show (che, tra parentesi, non capiamo più cosa ci “azzecchi” con una gara canora). Benigni gioca basso, molto basso. Prima contro Iva Zanicchi. È stato una sorta di accanimento terapeutico (forse perchè la suddetta è stata eletta nelle file di Forza Italia?). Intendiamoci, i versi della sua canzone sono orrendi e per giunta squallidi, ma quanti ce ne sono di quel genere a Sanremo? E quanti ce ne sono stati nella storia? La Marchesini, anni fa, seppe davvero darcene un bel florilegio. Invece Benigni ha infierito solo su una cantante in gara. Una specie di entrata scorretta, a gamba tesa, nel bel mezzo di una partita. Un attacco diretto, immorale, sproporzionato. Assolutamente di cattivo gusto. O Bonolis, ma che ci vedi di tanto grande in questo?
E poi la ciliegina sulla torta. L'altro attacco, meno diretto, ma non meno evidente. La famosa tirata sull'omosessualità, contro tutte le polemiche che infuriano sul tema. E qui è stato il trionfo del pensiero unico che ci stanno imponendo. Dopo Benigni, sarebbe salito sul palco Povia a cantare "Luca era gay". Lo sapete, è una canzone che parla della storia di un ragazzo che, da omosessuale che era, trova il suo vero sé nell'incontro con la donna della vita e diventa marito e padre. Vi cito l'ultima strofa:
«Luca dice: per 4 anni sono stato con un uomo tra amore e inganni, spesso ci tradivamo, io cercavo ancora la mia verità, quell’amore grande per l’eternità; poi ad una festa fra tanta gente ho conosciuto lei, che non c’entrava niente: lei mi ascoltava, lei mi spogliava, lei mi capiva; ricordo solo che il giorno dopo mi mancava. Questa è la mia storia, solo la mia storia, nessuna malattia nessuna guarigione; caro papà ti ho perdonato anche se qua non sei più tornato - mamma ti penso spesso, ti voglio bene e a volte ho ancora il tuo riflesso, ma adesso sono padre e sono innamorato dell’unica donna che io abbia mai amato. Luca era gay e adesso sta con lei, Luca parla con il cuore in mano. Luca dice: sono un altro uomo. Luca era gay e adesso sta con lei, Luca parla con il cuore in mano, Luca dice: sono un altro uomo».
Su questa storia è scattata la censura preventiva ed oscurantista delle organizzazioni gay. Una storia così in Italia non si può, non si deve raccontare. Va bene una Tatangelo che ci canta del suo amico gay e delle sofferenze che deve sopportare per questo. Non va bene un Povia che osa raccontare la storia di Luca che da gay diventa eterosessuale. La violenza non l'ha fatta Povia, ma l'hanno fatta a Povia [incredibile, sottolineo, l’intervento “gigionato” dal partigiano Bonolis a favore di un patetico Franco Grillini, Presidente onorario dell’Arcigay, per dargli modo, non si sa bene a quale titolo, di dichiarare al microfono il suo disappunto e di censurare pubblicamente Povia, che dovrebbe invece imparare “che cos’è la felicità degli omosessuali”. Di fronte a tutto questo viene da chiederci: ma non è che anche san Remo è in mano alle lobby gay? Per carità, nulla quaestio: ma vorremmo saperlo].
E dunque Benigni che ha fatto? Si è messo a parlare delle persecuzioni agli omosessuali, preparando un'accoglienza ostile a Povia, che a quel punto non so con quale coraggio sarà andato a cantare. Benigni si è schierato, pregiudizialmente, e poi ha fatto un casino madornale, mettendoci dentro il peccato e la fede. E perfino il gay Oscar Wilde. Argomenti troppo importanti e profondi e seri per essere buttati lì in quel modo davanti a milioni di spettatori e senza contraddittorio.
Ora, si sa che Benigni è quello che è, e che del peccato originale capisce molto poco, perchè ha poco meditato il suo Dante. Tant'è vero che non è stata mai convincente la sua lettura del canto V dell'Inferno, quello di Paolo e Francesca. Benigni non ci ha mai parlato della purificazione dell'amore umano, così come Dante l'ha vissuta e così come emerge dal poema.
In conclusione, non si vede proprio di cosa rimanere estasiati davanti alla gag di Benigni. Non si vede perchè sentirsi addirittura "orgogliosi di essere italiani". Per il predicozzo di Benigni la televisione pubblica ha sborsato milioni di euro. Bonolis [anche lui circa duemilioni per neppure una settimana!] ha voluto farci credere che quei soldi sono stati spesi bene. Spiacenti: noi non abbiamo l'anello al naso.

(Fonte: Gianluca Zappa, La Cittadella, 18 febbraio 2009)

Peripezie sanremesi: fossero solo canzonette!

«Secondo lei il neo eletto presidente degli Stati Uniti Barack Obama avrà un compito arduo?». L'espressione interdetta del presidente dell'assemblea generale delle Nazioni Unite Miguel d'Escoto Brockmann di fronte alla domanda di Paolo Bonolis vale da sola il prezzo dell'abbonamento Rai [si fa per dire!]. Una sintesi dell'atmosfera del festival di Sanremo, che il conduttore cerca di rendere più frizzante con citazioni di letture dal sussidiario. Dalle Termopili a Pavese, Bonolis ce la mette tutta per garantire alla kermesse canora una vernice di alto spessore culturale, ma con risultati disarmanti. Surreale sembra soprattutto scomodare il gregoriano per poi presentare sul palco personaggi che, complice la diretta, sembrano a disagio proprio con il canto. Qualcuno pretenderà che per esibirsi occorrano doti vocali e tecnica, ma si tratta di critici musicali ormai superati e senza speranza. Con buona pace degli ottimi professori dell'orchestra chiamati anche a tamponare improvvise falle canore. Gli educatori dei futuri cantanti, che inoculano il loro sapere attraverso la televisione, hanno già provveduto a riformare i gusti del pubblico e le aspirazioni adolescenziali con metodi moderni: "Metticela tutta e tira fuori le emozioni". Sotto la doccia funziona sempre, in qualche caso anche in sala d'incisione, ma se si tratta di affrontare contemporaneamente un microfono e un pubblico le emozioni bisogna saperle gestire, a volte tenerle a bada, poi, magari, provare pure a trasmetterle. È un po' quello che succede quando si devono porre domande a una carica istituzionale mondiale: avere intorno qualcuno che abbia un'idea generica della personalità e del ruolo che ricopre l'interlocutore aiuta, ma in fondo si può sempre ripiegare su un tranquillizzante: "Faccia un bell'augurio agli italiani". In cambio si riceve un prevedibile "il mio augurio è che il popolo italiano si possa divertire, perché abbiamo tutti bisogno della musica per rinnovare il nostro spirito", che è pur sempre qualcosa. E allora, facendo proprio l'auspicio che viene dal Palazzo di Vetro, il festival di Sanremo potrebbe tentare di recuperare una sana dimensione di promotore di musica popolare. Puccini lo eseguono già in tutti i teatri dell'opera del mondo, in continuazione, non c'è bisogno che un'artista straordinaria come Mina, nascosta dietro i riverberi dei mixer digitali, renda insapore una delle arie più note della lirica. Largo alla musica popolare, in tutti i suoi risvolti, ma scritta da chi sa ancora tracciare sul pentagramma un motivetto di facile presa, o un ritmo irresistibile. Rap, pop, rock, melodico, jazz, etno, va bene tutto, ma il microfono sia offerto solo a quanti ne garantiscano l'incolumità - ma non sembra che siano poi molti - e la bacchetta del direttore solo a chi assicuri di avere frequentato non le polverose aule dei conservatori, ma almeno le peripezie bandistiche del maestro Antonio Scannagatti, il cigno di Caianello reso immortale da Totò.

(Fonte: Marcello Filotei, L'Osservatore Romano, 19 febbraio 2009)

I successi di Sanremo e del Grande Fratello: quando trionfa il relativismo

Invece di usarlo per sostenere i miei passi nelle escursioni montane, avrei volentieri usato il mio bastone per accarezzare la schiena degli 8 milioni che la sera della morte di Eluana hanno guardato il Grande Fratello. Non tanto per aver guardato un programma di intrattenimento invece di seguire noiose pseudo-dirette che inquadravano il cancello della Casa di Riposo dove si era concluso il dramma, quanto per aver guardato intenzionalmente un programma che mette in mostra sentimenti fasulli, e pianti e lacrime per motivi del tutto ingiustificati e inesistenti. Mentre c’era da piangere e commuoversi sul serio per ben altro.
Il mio bastone lo userei anche per gli oltre 14 milioni (di male in peggio!) che hanno guardato la prima serata del Festival di Sanremo. Non perché si trattasse del Festival della canzone italiana (che male c’è, in fondo, a distrarsi seguendo una gara canora?), ma perché buona parte di questi telespettatori sono caduti nella rete abilmente costruita da Bonolis, Del Noce & C. Scandali annunciati e coltivati (la canzone anti-gay di Povia, con Grillini dell’Arcigay - invitato in sala - cui è stato dato un microfono per replicare…), sbandieratissima “partecipazione” di Mina (che ha cantato virtualmente da par suo, ma sullo sfondo di un video assai modesto), grande attesa per Benigni che ha gestito anche lui da par suo il solito repertorio di smargiassate antiberlusconiane, seppellendo la povera Zanicchi (che se l’è davvero cercata, per la verità) sotto una montagna di trivialità. Finendo sul registro del “politically correct” con la recita di una famosa lettera di Oscar Wilde al suo giovane e maschio amante, e concludendo che quello che importa è l’amore, che sia poi etero, omo, chi se ne frega, tanto è tutto uguale.
Ci vogliamo scommettere che i critici del settore, che erano pronti a crocifiggere Del Noce e Bonolis, per via dei grandi ascolti li dichiareranno salvatori della patria per aver impedito al Festival di naufragare come meriterebbe? Lascio agli esperti analisi più approfondite, a un vecchio saggio preme assai di più sottolineare la gravità del momento che stiamo vivendo, dove tutto ruota intorno a un valore semplicemente quantitativo (l’audience), mentre di qualitativo non c’è più niente.
Alla prima serata del Festival le proposte musicali erano assai modeste, i cantanti di lungo corso (Mina a parte) pallide imitazioni di se stessi, giusto un paio di giovani promesse non male. Al Grande Fratello la “conversatio” tra gli abitanti della casa è a un livello che al confronto i camionisti sembrano membri dell’Accademia della Crusca. Bonolis e Benigni si sentono eroi per aver portato al grande pubblico di Sanremo la battaglia sociale per la parità sociale dei sessi (ma non tra uomo e donna, bensì tra etero e omo!).
In definitiva, commentava qualcuno all’interessante chat organizzata durante la prima serata da ilsussidiario.net, tutto si è risolto in un grande esempio di relativismo: etico, musicale, estetico. Ecco il vero punto: alla tv di oggi la verità, la dignità, la cultura, il rispetto dei valori non interessano. Tutto va bene purché si faccia audience.
Così che Bonolis possa dire di essersi meritato il suo milione e passa (più le telepromozioni, ci hanno fatto notare), Benigni altri soldi & ovazioni, e Del Noce possa continuare a distribuire tonnellate di relativismo quotidiano, insieme alla sua costante presenza dalla prima fila di ogni programma. Ma cosa avete fatto voi umani per meritarvi un simile triste destino?

(Fonte: Il Sussidiario, 19 febbraio 2009)

Gerhard Wagner: troppo “conservatore” per essere vescovo

È dall’episcopato austriaco, oltre che tedesco e francese, che sono arrivate nelle scorse settimane le critiche più aspre alla decisione del Papa di revocare la scomunica ai lefebvriani (un caso ancora non risolto: ieri, infatti, è intervenuto il superiore della Fraternità San Pio X, monsignor Bernard Fellay, a chiedere «chiarimenti urgenti» sulla revoca e sulla reintegrazione nella Chiesa Cattolica). Tra le critiche austriache, quella del vescovo di Salisburgo, Alois Kothgasserm, il quale senza mezzi termini ha detto che con Papa Ratzinger la Chiesa «si sta riducendo a una setta». Parole gravi, in merito alle quali, il presidente della Conferenza episcopale austriaca, il cardinale Christoph Schönborn, non ha preso alcun provvedimento.E, sempre Schönborn, nessun provvedimento ha pensato di prendere nelle scorse ore a seguito della notizia che riguarda un altro suo confratello, il vescovo Gerhard Wagner. Questi, soltanto due settimane fa (il 31 gennaio), era stato nominato dal Papa vescovo ausiliare della diocesi austriaca di Linz. Un po’ come è avvenuto con Richard Williamson, Wagner, appena nominato, ha subìto da parte dei media del suo paese una serie violentissima di accuse per colpa di alcune sue vecchie dichiarazioni. Se nel caso Williamson le dichiarazioni contestate erano quelle negazioniste sulla Shoah, qui a essere sotto torchio sono quelle che Wagner dedicò tempo addietro al ciclone Katrina che distrusse New Orleans e alla saga di Harry Potter (proprio così: alla saga di Harry Potter). Nel 2001 Wagner aveva messo in guardia i giovani dalla lettura dei romanzi del ciclo di J. K. Rowling perché, a suo dire, portano a forme di «satanismo». Mentre, nel 2005, il presule (allora era ancora un semplice sacerdote) disse apertamente che l’uragano Katrina era una sorta di punizione divina per l’immoralità di New Orleans: «Non per caso - spiegò - sono state distrutte le cinque cliniche dove si pratica l’aborto e i postriboli». «La catastrofe naturale - si chiese ancora Wagner - non è forse la conseguenza di una catastrofe spirituale?».Le accuse a Wagner sono montate giorno dopo giorno. Sui media austriaci il caso ha avuto sempre più spazio. I giornali lo hanno bollato come “ultraconservatore”, etichetta che in certi Paesi pesa come una maledizione. E, di fatto, visto anche il silenzio in merito dei suoi confratelli vescovi, hanno obbligato il presule alle dimissioni. Poche ore fa, infatti, Wagner ha deciso di rinunciare all’incarico affidatogli da Roma: «Alla luce delle pesanti critiche - ha detto - ho deciso, dopo preghiere e un consulto con il vescovo, di chiedere al Santo Padre di ritirare la mia nomina». Così, ha detto, «mi potrò sentire più leggero in confronto alle scorse notti».Questo sta succedendo alla Chiesa: mentre presuli e porporati possono liberamente attaccare il Pontefice per la revoca della scomunica ai lefebvriani, un presule ausiliare (dunque un monsignore che svolge semplicemente una funzione di supporto a quella del vescovo titolare) deve dimettersi per dichiarazioni rese in passato sui romanzi di Herry Potter e sull’uragano Katrina. Dichiarazioni (soprattutto quelle su Katrina) gravi ma che, rilasciate tempo addietro a dei media in modo estemporaneo, non dovrebbero costringere un vescovo appena eletto a dimettersi.In Vaticano si è indecisi sul da farsi. Anche se, secondo l’agenzia di stampa cattolica Kathpress, la Santa Sede avrebbe già acconsentito alla richiesta di Wagner, pare che le cose siano ancora in stand by. Da una parte c’è chi ritiene che non sia possibile che la congregazione dei vescovi non fosse a conoscenza, prima della nomina, delle dichiarazioni rese in passato da Wagner. E, quindi, c’è chi pensa che, avendo giudicato Wagner eleggibile, ora non si debba fare passi indietro e, anzi, occorra non accettare la richiesta di dimissioni. Dall’altra, c’è chi fa notare come non soltanto i media, ma anche la leadership dell’episcopato austriaco stia mantenendo una condotta parecchio critica nei confronti di Wagner e, dunque, per non provocare tensioni all’interno dell’episcopato, occorra accettare la volontà espressa dal presule.Ieri pomeriggio Schönborn ha convocato una riunione straordinaria dei vescovi per parlare del caso. In questa sede nessuno l’ha difeso. Anzi, il documento finale dell’assise di fatto sconfessa la scelta di Roma di nominarlo vescovo e, incredibilmente, chiede che il Vaticano (e quindi il Papa) faccia proprio un migliore processo di scelta ed esame nelle nomine episcopali. I vescovi hanno scritto che non vogliono un ritorno ai tempi del Kaiser, quando era l’imperatore a scegliere i vescovi. E nemmeno un balzo in una sorta di democrazia ecclesiastica, ma più che altro che prima che le decisioni del Papa vengano prese vi siano «fondamenti affidabili e ampiamente provati sui quali egli possa appoggiarsi». Si sente, dietro queste parole, il disappunto austriaco sul caso Williamson, e, insieme, si avverte un certo malcontento contro l’attuale governo vaticano. Nei prossimi mesi in Austria vi saranno parecchie nomine importanti e l’episcopato, con le parole scritte nel comunicato, ha lanciato un messaggio inequivocabile a Roma.Nella Curia romana, coloro che ritengono che non si debbano accettare le dimissioni di Wagner pensano che si debba mandare un segnale forte diretto alla leadership dell’episcopato austriaco. Un segnale che faccia capire chi è che comanda. Un segnale che arrivi sia alle orecchie del nuovo nunzio, l’arcivescovo Peter Stephan Zurbriggen, sia a quelle di Schönborn, un porporato considerato più ratzingeriano di Ratzinger.

(Fonte: Il Riformista, 17 febbraio 2009)

Il quotidiano “la Repubblica”: una corazzata nichilista

Breve storia del gruppo editoriale Repubblica-Espresso e del suo fondatore: Eugenio Scalfari. Un progetto culturale che non lascia spazio a Dio e che viene da lontano. Da non trascurare i contatti con la Massoneria.
Esiste un gruppo editoriale, in Italia, che ha plasmato e continua a plasmare buona parte della cultura del paese. Mi riferisco all’editore L’espresso, che possiede il quotidiano Repubblica (il secondo più venduto in Italia dopo il Corriere della Sera), il settimanale L’espresso e altri 15 quotidiani locali (oltre a due mensili, due trimestrali, tre emittenti radiofoniche nazionali, l’emittente nazionale All Music...). Un vero impero mediatico, insomma, rispetto a cui la stampa cattolica, cosi povera e divisa, fa una assai magra figura.
Tra i giornalisti di spicco che vi collaborano troviamo Umberto Eco, l’autore del celebre romanzo Il Nome della rosa; Natalia Aspesi e Miriam Mafai, vestali del pensiero nichilista al femminile; Aldo Schiavone, ex direttore dell’Istituto Gramsci, che oggi immagina un futuro in cui la tecnica sconfiggerà la morte e disgregherà finalmente la famiglia tradizionale; Umberto Veronesi, il famoso oncologo che si dedica soprattutto alla difesa dell’evoluzionismo materialista e della clonazione terapeutica e riproduttiva; Corrado Augias, autore di due pubblicizzatissimi libri in cui, senza conoscenza alcuna di esegesi biblica e di filologia, cerca di spiegare al credulone di turno che Cristo non è veramente risorto, e che il Cristianesimo è in realtà un «costantinismo», cioè una «religione civile» forgiata dall’imperatore Costantino per fini politici e di potere; Umberto Galimberti, di cui recentemente si è scoperta l’attitudine a copiare libri altrui, che ha caro il concetto per cui la tecnica sconfiggerà ed eliminerà la religione; il presentatore televisivo Gad Lerner, anch’egli omogeneo alla cultura anticattolica dominante nelle elite, e tanti altri opinionisti che hanno fatto della lotta alle radici cristiane dell’Italia il loro principale obiettivo.
All’origine di questa potentissima corazzata ideologica che ha sostenuto le campagne a favore del divorzio e dell’aborto, e che ora promuove il testamento biologico, oltre che ogni altro cambiamento di costume che vada in una ben precisa direzione, c’è una operazione culturale ben precisa, portata avanti dalla grande finanza laicista del nostro paese, che data a partire dal 1955, quando appunto venne creata la società editrice L’espresso, con Adriano Olivetti come principale azionista. Il 1955 è, non a caso, l’anno di nascita anche del Partito radicale, da una costola del Partito liberale italiano, erede a sua volta di quella borghesia elitaria che aveva (mal) fatto l’unità d’Italia. La storia dell’Espresso e poi di Repubblica, nata nel 1976, è strettamente legata alla figura di Eugenio Scalfari, primo direttore e vero padre ideale del suddetto quotidiano.
Chi e Eugenio Scalfari? Nel suo Scalfari, una vita per il potere, il noto giornalista Giancarlo Perna ricorda che il giovane Eugenio fu un membro del Guf fascista, che esordì come giornalista su Roma fascista, dimostrando una forte passione per il duce, lo stato etico, l’impero, la guerra. Perna ci dice anche che «Scalfari-padre era massone. Una tradizione di famiglia. Il capostipite fu don Antonio, che, a cavallo tra il Sette e l’Ottocento, fondô la Loggia della Calabria uniforme […] Eugenio ha i ritratti degli avi che indossarono il grembiulino appesi nella sua villa di campagna, a Velletri. Su ognuno c’è l’emblema rnassonico scalfariano: uno scudetto a due campi: uno con la scure e l’altro con il ponte […]. Con la caduta del fascismo […] Pietro (padre di Eugenio) fu tra i fondatori della loggia locale».
Ma per comprendere meglio la storia di questo celebre giornalista, occorre leggere il suo ultimo libro, L’uomo che non credeva in Dio (Einaudi, 2008), in cui l’autore rievoca «il laicismo massonico» del padre, la propria «infanzia solitaria», nutrita di «tristezza» e «malinconia», e la propria cupa e disperata visione dell’esistenza. Per Scalfari ogni uomo è solamente una delle «forme che la natura casualmente produce», un insieme di «cellule neuronali» casualmente connesse e intrecciate tra loro, gettate, quasi per uno scherzo maligno, «nel caos di una vita ancora tutta da inventare».
La domanda di senso, scrive Scalfari, «è il tema dominante della nostra specie»: «il filo d’erba vive ma non si pensa e così la farfalla, gli uccelli, il serpente... la vita dell’universo non ha bisogno di senso. Noi ne abbiamo bisogno, la nostra specie ne ha bisogno».Ma la verità è che questo senso non esiste, che il lungo interrogarsi dell’uomo non porta a nulla ed egli rimane «un animale tra i tanti, una forma tra le innumerevoli forme», segnata però da un io, una coscienza, una personalità distinta, unica e irripetibile, che non è assolutamente un segno della nostra natura spirituale, bensì una condanna, un errore, «una superstizione», una «maschera», una «gabbia», un «capriccioso dittatore»... Meglio sarebbe annullarsi in una natura panteisticamente intesa, «distruggere l’Io», come propongono le religioni orientali. Distrutto l’io, evidentemente, anche l’esigenza di un Dio trascendente, personale, creatore, che sia il senso della vita, scompare, ed insieme a lui perisce anche l’idea di una morale oggettiva, segno della nostra libertà e della nostra grandezza. L’uomo, per Scalfari, come per tutti gli evoluzionisti materialisti, non è libero, non sceglie tra il bene e il male, non aspira alla Giustizia e alla Verità: semplicemente agisce spinto dall’«istinto di sopravvivenza», e null’altro, esattamente come gli altri animali. Perché Socrate è morto per la giustizia? Perché Cristo ha dato la sua vita per gli altri? Perché un uomo può donare tutte le sue ricchezze a poveri che neppure conosce? Non certo per una libera scelta, per la nostra natura spirituale. «Chi mette a rischio la propria vita, scrive, per salvare qualcuno che sta annegando o per difendere un debole […] non obbedisce a concetti ma agisce sotto la spinta emotiva di pulsioni e di istinti» animali, impersonali, oscuri. Ecco perché ciò che ci muove non può essere l’amore, l’altruismo, il desiderio di santità. Ma solo «la volontà di potenza», quella stessa volontà che Scalfari, come giornalista, afferma di sentire fortemente nella propria vita, nel momento in cui scrive di altri, giudica tutti, si pone al di sopra di ogni cosa.
Oggi Scalfari non è più direttore di Repubblica, ma scrive ogni settimana la sua interminabile «predica» domenicale. L’impostazione del giornale rimane infatti quella delle origini. A garantirla un editore come Carlo De Benedetti, che, come racconta Ferruccio Pinotti, in un suo studio molto documentato, benché a tratti un po’ ingenuo, Fratelli d’Italia (Rizzoli), «risulta essere entrato nella massoneria a Torino, nella loggia Cavour del Grande Oriente d’Italia, regolarizzato nel grado di Maestro, il 18 marzo 1975». «L’impegno politico diretto — anche Eugenio Scalfari è stato, per un certo tempo parlamentare socialista — è stato sostituito da un’azione che, presentandosi come culturale, è in realtà di mobilitazione e di pressione sull’opinione pubblica.
Lo “scalfarismo” che attraversa diversi partiti si pone oggi come un “superpartito”, come lobby. Ne consegue che l’incidenza più importante dello “scalfarismo” non è sulle situazioni politiche immediate, bensì sui comportamenti della gente, attraverso l’imposizione di un modello neoborghese.Lo “scalfarismo”, che da sempre ha avuto appoggi ed ha esercitato pressioni negli ambienti economici, è oggi meno legato all’industria che non ai settori della grande finanza». (Cesare Cavalleri, Presentazione del Quaderno Il modello neoborghese: lo «Scalfarismo», in Studi cattolici, n. 329-30, p. 454).
Bibliografia: Eugenlo Scalfari, L’uomo che non credeva in Dio, Einaudi, 2008.
Giancarlo Perna, Eugenio Scalfari, una vita per il potere, Leonardo, 1990.
AA. VV., Il modello neoborghese: lo «Scalfarismo», in Studi cattolici, nn. 329-30, 332, 333 (1989).

(Fonte: Francesco Agnoli, © il Timone, dicembre 2008)

Le avventure della Daniela del Gf

Cosa pensare di Daniela Martani, la donna che disse No al ‘Grande Fratello’, la “Giovanna d’Arco delle hostess”, la valkiria che sventolava il cappio alla tv (al grido “la vera cordata è questa”) alla ricerca di quello stesso simulacro di giustizia che inseguiva nel vecchio West il mitico giudice Roy Bean, un ubriacone per nulla garantista che tendeva ad impiccare qualsiasi cosa gli passasse sotto il naso?
Daniela Martani, in realtà rispetto al giudice Bean, non ha sacrificato niente e nessuno. Se non a suo dire- i propri sogni da artista irrisolta in cambio di un posto fisso alla Cai: “anni di pianobar e lezioni di recitazione”, una fatica di Sisifo pompata nel nulla per ben 35 anni e ora immolata sull’altare di Roberto Colaninno. Non sappiamo davvero cosa pensare di questa sindacalista dei cieli. Una che da icona molto di sinistra della vertenza Alitalia, roba da Santoro, mutò in soubrette del reality più di destra sulla piazza (sta molto meglio comunque in bikini floreale nella piscina della Casa che in divisa..).
Una che dopo un accorato appello della madre (“Cara Dani pensaci a lasciare il tuo posto fisso”) si è autoesclusa dal Gf facendo fare a Canale 5 il botto all’audience, 7milioni di spettatori, e facendo bisbigliare alla compagna di ventura, la pettoruta Cristina: “Brava, dimostri di essere una gran donna, io non l’avrei fatto” e di questo siamo più che sicuri. Una che, in una sventagliata mediatica si è fatta dare della “opportunista” dall’appassionato Alfonso Signorini, della “pasionaria” dall’amica Alice e della “buona amica” da Massimo Giletti che l’aveva arruolata in trasmissione mentre in molti ne avevano immaginato la liaison. Una, la Martani, che praticamente era dappertutto tranne che sul posto di lavoro, posto che ad onor del vero- non si sapeva se avesse mantenuto o meno. Una che, dalle paillettes della Marcuzzi è rientrata all’affollato ovile aeroportuale del comandante Berti, spinta dalla voglia di “tornare a combattere” ma soprattutto pressata dalla prospettiva di un licenziamento entro 20 giorni per violazione di ogni norma contrattuale possibile. Cosa pensare di questa eroina moderna di cui la leggenda narra l’attenzione di Silvio Berlusconi in persona; delle sue preghiere buddiste; del suo saltellare nelle trasmissioni più variegate come un personaggio pirandelliano; della sua bellezza elegante e aggressiva, molto più sexy di qualsiasi velina media e molto più stuzzicante di qualsiasi Belen Rodriguez? Cosa pensare di Daniela, che le gole profonde già danno eurocandidata alle prossime Europee, chè , in fondo è la sacra e italica rappresentazione al posto sicuro in chiave politica?
Cosa pensare di un suo futuro in passerella sul corridoio di un Boeing mentre sussurra sorridendo: “The o caffè?”, “Signore, prego tiri dentro il tavolinetto e allacci la cintura”; e mentre si sbraccia nel silenzioso balletto indicante le uscite di sicurezza invece di danzare sul palco di X Factor? Cosa pensare? Mah...

(Fonte: Francesco Specchia, Libero News, 5 febbraio 2009)

Mentana-Eluana, i ceffoni ai palinsesti

Mentana, Eluana. Nelle ultime 48 ore, due sonore sberle hanno tramortito i palinsesti italiani. La morte di Eluana Englaro accompagnata dall’accanimento mediatico che ne ha avvolto le povere spoglie (una tragedia shakespeariana quasi e reti unificate); e le dimissioni di Enrico Mentana da direttore editoriale di Mediaset, causa, nonostante il lutto nazionale, la messa in onda -spietata, a suo dire- del Grande Fratello. Gf, per la cronaca, che ha toccato il record d’ascolto stagionale con 8 milioni di spettatori e 31% di share doppiando , appunto la tragedia di Eluana. Segno che la gente, nel bene o nel male, necessita di staccare la spina dalle umane nequizie, senza necessariamente sentirsi becera (per dire:noi, quella sera, ci siamo incollati a X Factor).
L’argomento Eluana, data la sua connotazione etica e giuridica, ha spaccato l’Italia e non è discutibile in questa sede dedita solitamente al cazzeggio. Ci sembrerebbe fuori luogo, pure se i questi giorni sono stati in parecchi fuori luoghi nei talk show e suoi giornali. Registriamo solo tanto frastuono televisivo ha coperto un silenzio necessario e misericordioso. Amen.
L’argomento Mentana attiene più alle nostre miserie terrene, ma non è meno insidioso. L’intellighenzia di sinistra –e Libero, il giornale cui mi pregio d’appartenere- si augurano che Chicco, dopo aver reso pubbliche le proprie dimissioni, cambi idea. Il problema è che bisogna vedere se la cambia Mediaset. C’è il particolare che le sue dimissioni Mentana le ha chieste a metà: lascio l’incarico di direttore editoriale del gruppo, ma resto conduttore di Matrix. Sticavoli, hanno risposto ai piani alti del Biscione. Mentana dunque ha commesso un errore madornale in Italia: non bisogna, in questo paese, mai dare le dimissioni, perché è capace che le accettino. Vero è che, qualora Mitraglia dovesse scusarsi pubblicamente, le cose rientrerebbe nel loro alveo. La diplomazia dall’una e dall’altra parte sta lavorando alacremente, come si dice in questi casi. Ad onore del vero bisogna aggiungere che l’Emilio Fede incaricato di coprire su Rete 4 il caso Englaro s’è comportato egregiamente: gli è rispuntato dentro l’ala del cronista che non ti dico, sembrava tornato ai tempi della Guerra del Golfo nel ’90 o delle guerre d’Africa quando lo chiamavamo Sciupone l’Africano per via delle note spese in Rai. Luca Mastrantonio sul Riformista cita l’Italia catodica come una sorta di Waste Land, la terra desolata del poeta T.S. Eliot. Molto colto, ma molto vero. Ma è anche vero che se 8 milioni di spettatori, laici o cristiani, ognuno maggiorenne e ognuno con la propria coscienza, decidono di rifugiarsi nell’intrattenimento mentre infuria la cronaca, significa due cose. O che l’intrattenimento si esprime troppo bene, o che la cronaca viene raccontata troppo male. In ogni caso la colpa –o il merito?- è dei cronisti…

(Fonte: Francesco Specchia, Libero News, 11 febbraio 2009)

Hanno ucciso Eluana Englaro. Lo spettacolo è finito, cala il sipario!

Chiuso. Finito. Si è girato pagina: nessuno più ne parla. Altre cose, serie o meno serie, come il Festival di San Remo, Il grande Fratello, le violenze sulle donne, gli arrivi clandestini, la tragicommedia veltroniana, polarizzano ora l’attenzione dei media. Ad Eluana Englaro nessuno dedica più una parola. Ma noi vogliamo chiudere questo caso nazionale con alcune considerazioni che valgono anche come valutazione complessiva dei vari comportamenti in questa dolorosa vicenda.
Il Comitato “Verità e Vita”, annunciando una denuncia alla Procura della Repubblica di Udine con l’ipotesi del reato di omicidio volontario nei confronti di Eluana Englaro, ha diramato questo comunicato, che volentieri rilanciamo, ritenendolo coerente con l’autentico pensiero cattolico: attribuire delle precise responsabilità a chicchessia, absit iniuria verbis, risponde semplicemente ad una logica “consecutio” da premesse fondamentali della nostra fede cristiana, e ad una razionale difesa dei suoi valori. L’amore per la verità e una inflessibile voglia di chiarezza ce lo impongono.
«Ci sono delle responsabilità penali, e toccherà alla magistratura accertarle. Ma vogliamo dire – con la nostra abituale schiettezza – che esiste anche una colpa morale, esiste una responsabilità che sfugge alle aule dei tribunali, ma che non può sottrarsi a un giudizio più profondo e decisivo.
Noi vogliamo dirlo forte: sono in molti ad avere sulla coscienza questo delitto.
L’uccisione di Eluana pesa innanzitutto sulla coscienza di suo padre Beppino, anche se fortissimi sono i condizionamenti che ha dovuto subire. Appare lui il principale artefice di questa infernale procedura, nella quale i padri vagano alla ricerca di un giudice che li autorizzi a togliere di mezzo i propri figli.
L’uccisione di Eluana pesa sulla coscienza di quegli avvocati che hanno abilmente difeso le ragioni della morte contro quelle della vita, continuando a conservare una cattedra come docenti in quella Università cattolica che fu fondata da Padre Agostino Gemelli, non certo per propagare in Italia il diritto a uccidere i malati per fame e per sete. L’uccisione di Eluana pesa sulla coscienza di quei magistrati che in questi anni hanno scritto decisioni di morte. O che non hanno impedito la consumazione del delitto. L’uccisione di Eluana pesa sulla coscienza di quei medici che, in spregio alla loro vocazione e alla deontologia ippocratica – hanno dichiarato ai mass media che “Eluana era già morta 17 anni fa”. L’uccisione di Eluana pesa sulla coscienza di quei politici che, in spregio al loro dovere di agire per il bene comune, hanno detto che si poteva lecitamente far morire per fame e per sete una donna inerme.
L’uccisione di Eluana pesa sulla coscienza di quegli altri politici “moderati”, che hanno spiegato che bisognava “abbassare i toni”. Come se, di fronte a uno che sta affogando nelle acque di un fiume, l’importante fosse non disturbare la quiete pubblica urlando con quanto fiato abbiamo in corpo “aiuto!”. L’uccisione di Eluana pesa sulla coscienza del Presidente della Camera Gianfranco Fini, che con le sue esternazioni si candida a raccogliere l’eredità politica non di Silvio Berlusconi, ma di Marco Pannella. L’uccisione di Eluana pesa sulla coscienza del senatore a vita Giulio Andreotti che, dopo aver firmato nel 1978 la legge 194 sull’aborto, in questa occasione ha parlato per dire che lo Stato non doveva intervenire per salvare Eluana. Ha parlato, e sarebbe stato meglio se avesse taciuto: non avrebbe aggiunto al computo tremendo dei 5 milioni di italiani uccisi dall’aborto di Stato un’altra vittima innocente.
L’uccisione di Eluana pesa sulla coscienza di tutti coloro che in questi mesi hanno riempito le nostre orecchie con il loro assordante silenzio: credenti e non credenti, intellettuali e gente comune, laici e vescovi, che – forse per codardia – hanno taciuto, abbandonando questa vittima muta al suo destino. L’uccisione di Eluana pesa – soprattutto – sulla coscienza del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. È stato lui a rifiutarsi di firmare un decreto che avrebbe letteralmente salvato la vita di questa donna. Questione di due-tre giorni: i due-tre giorni che sono serviti per ucciderla.
Può darsi che, adesso, la grande macchina organizzata per togliere di mezzo Eluana si metta a fare baccano per impedire che si dicano queste verità. A noi la cosa non fa paura. Andremo avanti, e chiediamo a tutti di fare lo stesso. Perché non ci sia, mai più, un’altra Eluana ammazzata così».

(Fonte: CR, 13 febbraio 2009)

giovedì 12 febbraio 2009

Eluana tra verità e inganni. Un vergognoso dossier di morte

Eluana è morta. Chi diceva di “amarla” ha finalmente ottenuto sul filo di lana la sua vittoria, ha coronato il suo sogno “caritatevole” di chiuderle per sempre gli occhi: una conquista per l’umanità, questa di uccidere gli inermi! I radicali e il padre Beppino finalmente possono tirare un sospiro di sollievo: «Oggi sono più tranquillo» sono le sue parole.
L’ultima concitata e convulsa corsa verso la sua salvezza si è improvvisamente arrestata, ponendo fine alle crescenti preoccupazioni di chi voleva la morte ad ogni costo e temeva eventuali “ingerenze” legislative che avrebbero potuto compromettere un progetto nettamente omicida.
Un progetto di morte voluto, invocato e preteso a tutti i costi.
Ha prevalso la legge delle tenebre: l’esecuzione capitale è andata a buon fine, la condanna a morte ha mietuto la sua ennesima vittima. Ora gli organizzatori, i sostenitori, gli esecutori di questo delitto, avranno di che gloriarsi e di complimentarsi per la loro “affermazione” politica: non certo per quella umana. Eluana è morta. Punto e a capo.
Ma a cose fatte, a vicende già diventate storia, con la serenità del “dopo”, ritengo irrinunciabile puntualizzare alcuni passaggi dell’intera vicenda, per molti, troppi, versi inquietante e oscura, riproponendo significative opinioni: perché tutti possano averne una visione d’insieme esauriente.

1) I volenterosi carnefici di Eluana
Che branco di mascalzoni questi gentiluomini. Ci dicono pagani, golpisti, sfruttatori del dolore, mestatori nel torbido, autori di uno scempio. Questi che si dicono laici e che sono soltanto relitti del vecchio familismo amorale degli italiani, specie quando recitano il coro vomitevole di papà Beppino e di una nichilistica libertà di coscienza per giustificare l'eliminazione fisica di una disabile, una esecuzione degna dei nazisti.
Secondo loro, un piccolo popolo che ha finalmente trovato a Udine un boia asettico e clinico, saremmo noi a usare il corpo di Eluana. Noi che lo vorremmo in pace, quel sinolo di anima e corpo che appartiene a una cittadina adulta e titolare del diritto alla cura e alla vita; loro che lo hanno sequestrato alle suore misericordine di Lecco e lo hanno gettato in una tetra stanza dove decine di volenterosi carnefici piagnoni lo affamano e lo assetano in reverente obbedienza a una sentenza definitiva. Alla faccia della moratoria contro la pena di morte, quel grido ipocrita della società abortista ed eutanasica ed eugenetica, quel gesto simbolico invocato contro le sentenze definitive di condanna a morte che ora viene rimproverato a noi, che vogliamo una moratoria anche per la Englaro, da questi sepolcri imbiancati.
Sarebbe il governo a fare un colpo di stato contro la Costituzione e il diritto. Bugiardi che non sono altro, calunniatori e mistificatori: è un quindicennio che i Defanti e i Mori e gli altri paranoici dell'eutanasia, insieme con i tiepidi testamentari biologici, fanno campagna sul corpo di Eluana Englaro. Una campagna disgustosa. Atrocemente sentimentale. Una campagna pubblica dissimulata nelle sordide cautele della pietà privata simulata. Che fa leva sulla paura della gente, sul pregiudizio ignorante in materia di disabilità, sulla spregevole indifferenza verso la carnalità pulsante, respirante, anelante della vita umana, quell'indifferenza morale che si dispiega nella società che loro amano, quella dell'aborto, dell'eugenetica, della distruzione della vita per migliaia e milioni di embrioni, dei protocolli che uccidono i down come le spine bifide.
Lo avevamo detto, con il professor Ratzinger, che in questo secolo si giocherà sulla vita la battaglia della ragione e del buonumore. Non pensavamo che ci saremmo trovati tanto presto, a queste tristi latitudini, di fronte a un protocollo costituzionale di morte per disidratazione. Non pensavamo che una generazione postideologica sarebbe rifluita tanto facilmente negli imperativi dell'etica nullista, e che questo vecchio popolo di sinistra sfregiato dalla distruzione della vita, della famiglia, della maternità, del sesso, dell'amore coniugale, dell'educazione, della cultura e della cura sarebbe riuscito a imporre una cappa di consenso coatto, totalitario, tale da portare in piazza gente che lotta contro la carità cristiana e la laica cura ippocratica dei malati, e che si prosterna di fronte all'idolo della morte. È un orrore funesto assistere a questa immonda accademia, uno schifo senza speranza.

2) «Eluana non voleva morire; le bugie del padre Beppino»
La redazione di Tg.com ha ricevuto questa lettera da Pietro Crisafulli (fratello di Salvatore che nel 2005 si risvegliò dopo due anni di stato vegetativo nel quale era caduto dopo un grave incidente stradale) e ha deciso di pubblicarla integralmente:
«In questi giorni di passione e sofferenza, nei quali stiamo seguendo con trepidazione il "viaggio della morte" di Eluana Englaro, non posso restare in silenzio di fronte a un evento così drammatico. Era il maggio del 2005 quando per la prima volta ho conosciuto Beppino Englaro. Eravamo entrambi invitati alla trasmissione "Porta a Porta". Da quel giorno siamo rimasti in contatto ed amici, ci siamo scambiati anche i numeri di telefono, per sentirci, parlare, condividere opinioni. Nel marzo del 2006 andai in Lombardia, a casa di Englaro, in compagnia di un conoscente. Dopo l'appello a Welby da parte di Salvatore, Beppino capì che noi eravamo per la vita. Da quel momento le strade si divisero. All'epoca anch'io ero favorevole all'eutanasia. Facemmo anche diverse foto insieme, e visitai la città di Lecco. Nella circostanza Beppino Englaro mi fece diverse confidenze, tra le quali che i rappresentanti nazionali del Partito Radicali erano suoi amici. Ma soprattutto, mentre eravamo a cena in un ristorante, in una piazza di Lecco, ammise una triste e drammatica verità.
Beppino Englaro si confidò a tal punto da confessarmi, in presenza di altre persone, che 'non era vero niente che sua figlia avrebbe detto che, nel caso si fosse ridotta un vegetale, avrebbe voluto morire'. In effetti, Beppino, nella sua lunga confessione mi disse che alla fine, si era inventato tutto perché non ce la faceva più a vederla ridotta in quelle condizioni. Che non era più in grado di sopportare la sofferenza e che in tutti questi anni non aveva mai visto miglioramenti. Entro' anche nel dettaglio spiegandomi che i danni celebrali erano gravissimi e che l'unica soluzione era farla morire e che proprio per il suo caso, voleva combattere fino in fondo in modo che fosse fatta una legge, proprio inerente al testamento biologico.
In quella circostanza anch'io ero favorevole all'eutanasia e gli risposi che l'unica soluzione poteva essere quella di portarla all'estero per farla morire, in Italia era impossibile in quanto avevamo il Vaticano che si opponeva fermamente. Ma lui sembrava deciso, ostinato e insisteva per arrivare alla soluzione del testamento biologico, perché era convinto che con l'aiuto del partito dei Radicali ce l'avrebbe fatta. (...)
Questa è pura verità. Tutta la verità. Sono fatti reali che ho tenuto nascosto tutti questi anni nei quali comunque io e i miei familiari, vivendo giorno dopo giorno accanto a Salvatore, abbiamo fatto un percorso interiore e spirituale. Anni in cui abbiamo perso la voce a combattere, insieme a Salvatore, a cercare di dare una speranza a chi invece vuol vivere, vuol sperare e ha diritto a un'assistenza e cure adeguate. E non ci siamo mai fermati nonostante le immense difficoltà e momenti nei quali si perde tutto, anche le speranze.
E non ho mai reso pubbliche queste confidenze, anche perché dopo aver scritto personalmente a Beppino Englaro, a nome di tutta la mia famiglia, per chiedere in ginocchio di non far morire Eluana, di concedere a lei la grazia, fermare questa sua battaglia per la morte, pensavo che si fermasse, pensavo che la sua coscienza gli facesse cambiare idea. Ma invece no. Lui era troppo interessato a quella legge, a quell'epilogo drammatico. La conferma arriva, quando invece di rispondermi Beppino Englaro, rispose il Radicale Marco Cappato, offendendo il Cardinale Barragan, ma in particolare tutta la mia famiglia. Noi tutti siamo senza parole e crediamo che il caso di Eluana Englaro sia l'inizio di un periodo disastroso per chi come noi, ogni giorno, combatte per la vita, per la speranza.
Per poter smuovere lo stato positivamente in modo che si attivi concretamente per far vivere l'individuo, non per ucciderlo. Vorrei anche precisare che dopo quegli incontri e totalmente dal Giugno del 2006, fino a oggi, io e Beppino Englaro non ci siamo più sentiti nemmeno per telefono, nonostante ci siamo incontrati varie volte in altri programmi televisivi" Pietro Crisafulli».

3) «La Chiesa non può impormi i suoi valori».
Lo ha detto Beppino Englaro, padre di Eluana, al quotidiano spagnolo El Pais, sottolineando che la Chiesa dovrebbe restare fuori dalla vicenda. "Non può impormi i suoi valori. Può dare un'opinione, ma quello che dice non ha niente a che fare con me o con Eluana", ha detto Englaro, aggiungendo che il magistero della Chiesa è morale e che lo Stato è laico.
Englaro ha affermato di aver chiesto aiuto nel 2004 a Berlusconi, con una lettera che però non ha mai ricevuto risposta, cosa che Palazzo Chigi nega. "È molto curioso che Berlusconi sia entrato ora in scena. Quando era primo ministro nel 2004 gli scrissi una lettera chiedendogli aiuto. Non rispose. Poiché la politica non ha fatto niente, mi sono rivolto ai giudici", ha aggiunto.
Una breve nota diffusa nel pomeriggio dal governo afferma però che "alla segreteria del Presidente del Consiglio non risulta una richiesta di intervento da parte del signor Englaro nell'anno 2004".
Una sentenza della Cassazione ha dato l'ok alla sospensione della nutrizione forzata che tiene in vita Eluana, trasferita martedì scorso in una clinica a Udine, ed Englaro ha sottolineato che il "protocollo sta andando avanti" così come ha previsto la legge. "I tre medici stanno tentando di attenersi al 100% al protocollo che ha deciso il giudice. Il nostro unico interesse è rispettare la legalità. Ci atteniamo scrupolosamente a quello che hanno detto i tribunali", ha spiegato Englaro.
Il padre di Eluana ha ribadito al giornale di agire per rispettare le volontà espresse della figlia: di vivere libera e con dignità, o morire."Essere condannati a vivere così è peggio di una condanna a morte", ha detto. "In famiglia, noi tre abbiamo parlato di questo molte volte, chiarendo la nostra posizione. Vita, morte, libertà, dignità. Siamo tre purosangue della libertà. Non abbiamo bisogno di ascoltare litanie. Né culturali, né religiose, né politiche".

4) Complimenti Napolitano!
«È morta all’improvviso, è morta da sola. È morta mentre il Parlamento discuteva e i soliti noti, da Dario Fo a Umberto Eco, firmatari di ogni sciagurato appello di questo Paese, si apprestavano a scendere in piazza per un girotondo. È morta, e se non altro la sua vita non ha dovuto subire anche l’ultima offesa di Oscar Luigi Scalfaro sul palco mentre lei moriva. È morta e suo padre era lontano. È morta di fame e di sete, con il respiro ridotto a un rantolo e il corpo disidratato che cercava acqua dentro gli organi vitali.
È morta in fretta, troppo in fretta per non generare sospetti. E intanto suona tragicamente beffardo leggere adesso, a tarda sera, le parole del suo medico curante che di prima mattina assicurava: «Lo stato fisico è ottimo, Eluana è una donna sana, pochi rischi fino a giovedì». Evidentemente la conosceva poco. Troppo poco. E forse per questo ha potuto toglierle la vita. È arrivata la morte, e la morte non è presunta. La volontà di morire di Eluana sì, invece, quella era e resta presunta: l’ha decisa un tribunale, sulla base di una ricostruzione incerta e zoppicante, con una selezione innaturale di testimonianze. Tre amiche (solo tre, le altre no), la determinazione del padre, un po’ di azzeccagarbugli: tanto è bastato per decidere di ucciderla nel modo più atroce.
Ricordiamolo: nessuna proposta di legge di quelle presentate in Parlamento, neppure quelle più favorevoli all’eutanasia, prevede la possibilità di una morte così. Eluana è stata la prima esecuzione di questo genere nella storia della Repubblica. E sarà l’ultima. Forse. Arriverà la legge, e non sarà presunta. Arriverà la legge e impedirà questo scempio. Ma oggi l’affannarsi di parlamentari alla Camera e al Senato, quel rincorrersi di cavilli e regolamenti, quelle riunioni di capigruppo, l’alternarsi di dichiarazioni e di emendamenti, appare soltanto quel che in realtà è: il nulla. Nulla di nulla. Un nulla che fa venire le lacrime agli occhi, però. La corsa contro il tempo, la convocazione notturna, i calcoli sui minuti: tutto inutile. Eluana è stata uccisa. Eluana era viva e adesso non c’è più. E allora, mentre molti chiedono il silenzio solo per nascondere le loro vergogne, non può non venire voglia di urlare le responsabilità che ricadranno su chi non ha fatto niente per impedire questo orrore.
In primo luogo i medici che non hanno accettato di ridare acqua e cibo a Eluana in attesa dell’approvazione della legge, nonostante i numerosi appelli. Poi Procura di Udine e Regione Friuli che hanno giocato per due giorni a scaricabarile.
E infine, sia consentito, anche il capo dello Stato che non ha firmato il decreto legge: in questa vicenda il Quirinale ha anteposto le ragioni di palazzo alla salvezza di una ragazza, ha preferito la cultura della morte al valore della vita. Siamo sicuri che se una responsabilità del genere se la fosse assunta il presidente del Consiglio, qualcuno della sinistra in questi minuti già chiederebbe le sue dimissioni. Ora, invece, vogliono che si taccia. D’accordo, ora taceremo. Non abbiamo nemmeno più voglia di parlare. Ma prima lasciateci dire un’ultima cosa. Prima lasciateci dire: complimenti, presidente Napolitano».

5) Il falso cinicamente travestito da verità: quando si mente sapendo di mentire!
«Non è possibile che Beppino abbia detto questo», mormorava ieri a Lecco Suor Rosangela, che con Suor Albina e le altre sorelle ha curato per 15 anni Eluana alla clinica Talamoni di Lecco, dopo aver letto sul Corriere di una Eluana che pesava 35 chili e il cui volto era deturpato dalle piaghe. «Forse si riferiva a questi ultimi giorni, dall’arrivo a Udine, ma come può essere cambiata così?», si chiedeva senza capire... Una settimana senza più cure né sollievi e quattro giorni senza cibo né acqua, sospesi per intero e all’improvviso [non doveva essere un processo graduale, lento, che si doveva concludere in una quindicina di giorni? Oppure è stato tutto anticipato per paura che il governo varasse una legge che impediva l’omicidio?], sono torture, è vero, ma possono bastare? «Da qui è andata via che era bella - taglia corto la suora - , del resto verranno pur fuori le cartelle cliniche, basterà andare a leggere l’ultimo bollettino di Defanti prima della partenza da Lecco. È scritta ogni cosa, qui in collaborazione con lui si seguiva un percorso ben preciso e dettagliato, risulterà tutto».
E le accuse di Beppino? Suor Rosangela alza le spalle lasciando trasparire solo affetto. «È un uomo tutto da capire». Ora che importanza può avere che Eluana avesse un aspetto salubre o malato, che fosse magra o in carne? Oggi davvero tutto questo sarebbe abissalmente lontano, persino grottesco. Se non fosse che quel corpo, anche ora che tace, continua a parlare, eccome se parla. E racconta anni di assistenza perfetta a tutti i livelli. O invece altrettanti anni di «violenze subìte», a sentire chi vorrebbe una Eluana scarnificata, «dalla faccia che si era rinsecchita come il resto del corpo», che «pesava meno di 40 chili», le cui «braccia e gambe erano rattrappite» , con il viso tutto piagato da «quelle lacerazioni che ai vecchi vengono sul sedere o sulla schiena ma a lei anche in faccia»... Questo si leggeva infatti sul Corriere della Sera di ieri a firma Marco Imarisio, questo il papà di Eluana gli riferiva «ancora ieri mattina » (cioè lunedì 9, giorno della morte), offrendo un quadro raccapricciante dello stato di sua figlia (che lui ha visto per l’ultima volta martedì 3, il giorno dopo l’arrivo a Udine: e poi? La presentazione del suo libro era più importante dell’assisterla, dello starle vicino nelle ultime ore di vita?).
Bisognerebbe solo tacere, adesso, ma simili dichiarazioni disorientano un’opinione pubblica che non sa più dove sta la verità e ha diritto di sapere: perché l’uccisione di Eluana non è (e non è mai stata) un fatto privato, e oggi sostenere che fosse in stato terminale, un lumicino che attendeva solo un soffio per spegnersi, suona come una gravissima e fuorviante deriva. L’ennesima. Difficile, peraltro, da sostenere: non solo lo stesso neurologo Carlo Alberto Defanti ancora l’altroieri (lunedì 9), non prevedendo il crollo della paziente, insisteva sulle sue “ottime” condizioni fisiche («al di là della lesione cerebrale è una donna sana, mai una malattia, mai un antibiotico, probabilmente resisterà più a lungo della media»), ma curiosamente lo stesso Corriere per due giorni consecutivi ha affidato a un’altra dei suoi inviati a Udine la descrizione dello stato di Eluana, di segno opposto a quella del collega: per altri tre o quattro giorni, scriveva infatti Grazia Maria Mottola sabato 7 febbraio, «il suo volto resterà ancora intatto, le guance piene, gli occhi allungati, le labbra rosa...», certo, aggiungeva poi, non ha più l’ombretto azzurro sulle palpebre né le pose da modella delle foto di vent’anni fa, ma è «pur sempre bella anche oggi, soprattutto per la pelle, ancora bianca e distesa». Solo tra qualche giorno, diceva dopo aver sentito Defanti e De Monte, «il viso comincerà ad affilarsi, e zigomi e naso spunteranno sempre più pronunciati. Ma nessuno permetterà che la sua pelle si raggrinzisca e perda il candore».
Ancora lo stesso quotidiano e la stessa cronista, domenica 8 febbraio, dedica un intero articolo a descrivere un’Eluana che è ovviamente «l’immagine sbiadita della bruna stupenda» di un tempo, ma ha gli stessi lineamenti solo più delicati ed è ancora bella. La giornalista rivela di averla vista dal vivo nella stanza di Lecco più volte, anche a ottobre nel giorno in cui un’emorragia se la stava portando via. Anche in quelle condizioni «la pelle è chiara e distesa, gli occhi profondi che non si fermano mai», ma la bocca «si apre e si chiude boccheggiando» per la morte che pare imminente. Invece la crisi passa e pochi giorni dopo «il viso è sempre lo stesso», la vita riprende i suoi ritmi con «le passeggiate in carrozzella, la ginnastica tra le mani delle suore». E, aggiungiamo noi, di quattro fisioterapisti che tutti i giorni si alternavano per tenere tonici i muscoli e sano il fisico. Girata continuamente nel letto antidecubito, Eluana non aveva una piaga e i suoi arti erano sodi grazie alla ginnastica passiva, quella che migliaia di altri pazienti in stato vegetativo purtroppo non ottengono, dati i costi di simili trattamenti. Allo stesso Defanti la sera dell’emorragia avevamo chiesto personalmente come Eluana potesse essere così florida e sana, senza una piaga, e il medico aveva attribuito senza esitazioni il merito «a queste suore che volontariamente la assistono con una competenza e abnegazione che io non ho mai visto altrove».
E così stridono ancora di più le ultime dichiarazioni rilasciate ieri sera da Beppino al TG del Friuli: «Non perdòno la mancanza di rispetto nei riguardi di Eluana e della mia famiglia tutti questi anni. Eluana ha subìto non un accanimento terapeutico, ma una violenza terapeutica: non voleva che nessuno le mettesse le mani addosso e loro lo hanno fatto continuamente per 17 anni». Anche dinanzi a queste insinuazioni ingiuriose le suore chiedono solo silenzio e preghiera, e ancora ieri si preoccupavano per Beppino, l’uomo che hanno sempre rispettato al punto da essere state inflessibili guardiane di quella figlia diventata anche loro, al cui capezzale non accedeva nessuno - senza eccezioni se non era accompagnato dallo stesso Englaro.
Ieri per ultima alla ridda di voci si è aggiunta quella di Marinella Chirico, giornalista Rai, che domenica pomeriggio, quando Eluana era già priva di cibo e acqua da tre giorni, proprio da papà Beppino è stata fatta entrare nella stanza della figlia assieme al fratello Armando Englaro: «Mi ha chiesto di vederla perché “critiche ferocissime e crudeli” mettevano in dubbio il suo stato reale», spiega la collega, che là dentro scopre che Eluana, dopo 17 anni di stato vegetativo, «è irriconoscibile rispetto alle foto» (di venti anni prima e di ragazza sana), che è «una donna completamente immobile», che «gli infermieri sono costretti a girarla ogni due ore», per evitare il decubito (come a Lecco si è fatto per 15 anni), che solo le orecchie «presentano lesioni» in quanto «unica parte del corpo non tutelabile nemmeno girandola»… C’è da chiedersi come immaginava che fosse uno stato vegetativo (incontrare questi pazienti è sempre una delle esperienze più toccanti) e se avesse nella sua vita avvicinato già altri pazienti del genere (ma certo non curati come Eluana).
A questo punto, però, di «ferocissimo e crudele» c’è solo un terribile sospetto: se davvero una settimana nella casa di riposo di Udine è bastata, come dice la Chirico, a fare di Eluana un corpo la cui vista era devastante, che cosa le hanno fatto? Come si distrugge in sette giorni un equilibrio stabile da quindici anni? Per Eluana ormai non c’è più nulla da fare, ma a chi di dovere ora almeno l’obbligo di far emergere tutta la verità.

6) Eluana, uccisa dall’amore di chi non sa più cosa vuol dire amare
Diceva Jean Cocteau che il verbo amare è uno dei più difficili da coniugare: il suo passato non è semplice, il suo presente non è indicativo e il suo futuro non è che condizionale. Poche figlie sono state più amate di Eluana Englaro, nata a Lecco il 25 novembre 1970 e morta per fame e per sete a Udine il 9 febbraio 2009. L’ha amata disperatamente sua madre, al punto da voler scomparire con lei dalla scena pubblica ben prima che questa catastrofe collettiva avesse un prologo e un epilogo. L’ha amata suo padre, tanto da pretendere per lei la morte pur di sottrarla alla cosiddetta «non vita». L’hanno amata suor Albina e le suore misericordine di Lecco, che l’hanno accudita con eroica abnegazione per 17 anni e se la sono vista portar via con la forza, avendo solo il tempo d’inviarle un’ultima carezza via etere, dal Tg1: «Eluana, non avere paura di quello che ti succederà». L’hanno amata i medici, che si sono prodigati prima per restituirla alla sua gioventù, poi per alleviarne le sofferenze e infine per «liberarla» dal suo corpo trasformatosi in gabbia. L’hanno amata i magistrati, che hanno decretato che cosa fosse buono e giusto per lei. L’hanno amata gli amici, che si sono presentati puntualmente nelle corti di giustizia per parlare a suo nome, per testimoniare che Eluana aveva detto così, che Eluana avrebbe voluto cosà. L’ha amata il signor presidente della Repubblica, che con accenti dolentissimi s’è preoccupato acciocché la sostanza non avesse a prevalere sulla forma. L’hanno amata gli eletti dal popolo, anche se non fino al punto di rinunciare al loro week-end. L’hanno amata i giornali, che si sono industriati per spiegare ai lettori argomenti per lo più oscuri alla maggioranza di coloro che vi lavorano. L’abbiamo amata noi, gli italiani, equamente divisi fra quelli che fino all’ultimo non si sono rassegnati a vederla condannata al più atroce dei supplizi e quelli che hanno ostinatamente cercato in tutti i modi di farla ammazzare per il suo bene.
Povera Eluana, uccisa dall’eccesso di amore! Accadde la stessa cosa ad Alessandro Magno, di cui i libri di storia ancor oggi narrano che morì grazie all’aiuto di troppi medici. Proprio come te. L’evidenza, sotto gli occhi di tutti, è che gli italiani non sanno più coniugare il verbo amare. Né al passato, né al presente, né al futuro. Dovrebbero andare a ripetizione. Già, ma da chi? Io un’idea, politicamente scorretta ai limiti dell’osceno, mi permetto di suggerirla: da Dio.
Sì, dall’Onnipotente, un tempo Onnipresente, che invece è divenuto il Grande Assente in questa nostra società, e non certo per Sua volontà. Ma poiché il signor Beppino Englaro ha spiegato che nessuno gli può imporre i valori della trascendenza, mi fermo sull’uscio del suo cuore, da ieri sera più vuoto che mai. Se solo questo padre sventurato ce l’avesse consentito, se solo avesse lasciato che sua figlia continuasse a sperimentare lo scandalo di mani pietose che per anni l’hanno lavata, pettinata, nutrita, vestita, girata nel letto, portata a spasso in giardino, oggi avrei provato a consolarlo, pur reputandolo il primo responsabile di questa tragedia, con le parole di don Primo Mazzolari, un parroco di campagna col quale si sarebbe inteso al primo sguardo: «Due mani che mi prendono quando più nessuna mano mi tiene: ecco Dio». Può non crederci, ma dalle 20.10 di ieri sera Eluana è in mani sicure. E anche con le parole di un Papa che passava per buono e che un giorno confortò così i malati radunati davanti al santuario della Madonna di Loreto: «La vita è un pellegrinaggio. Siamo fatti di cielo: ci soffermiamo un po’ su questa terra per poi riprendere il nostro cammino». Può non crederci, ma sua figlia era fatta più di cielo che di materia. Purtroppo gli uomini del terzo millennio ormai bastano a loro stessi. Hanno la Costituzione, il Parlamento, le Leggi, la Società Civile, la Laicità, le Opinioni, la Libertà di Coscienza e insomma un po’ tutto quel che gli serve per essere felici su questa Terra. Non hanno più bisogno di Dio. Per questo Dio è stato abrogato. Allora ascoltino almeno le parole di uno psicoanalista, Carl Gustav Jung. Così saggio da ricordare a se stesso e ai suoi pazienti che «il timor di Dio è l’inizio della sapienza». Così lungimirante da far scolpire sei parole nella pietra sulla porta della propria casa: «Vocatus atque non vocatus, Deus aderit». Invocato o non invocato, Dio verrà. E quel giorno, sarà un giorno d’ira!.

7) Ti hanno uccisa. adesso fa' che non disperino
Ce l’hanno fatta, Eluana. Ti hanno ucciso! Sono bastati pochi giorni di “cura” in quella stanza-lager, affittata a dei “volontari” della morte, per compiere la tua esecuzione.
Per 17 anni avevi vissuto tranquilla, nutrita, dissetata, accudita, lavata, amata. Poi sei finita nelle maglie del gelido protocollo dove tutto era già scritto, dove la condanna veniva cinicamente sancita e regolata, passo dopo passo, fino a stabilire cosa fare del tuo corpo dopo il decesso.
Da quando sei entrata nel lager, è iniziata la terribile corsa e il terribile duello. Da una parte gli angeli della vita, dall’altra quelli della morte. Hanno vinto loro, gli angeli della morte.
Quelli che dicevano che eri già morta, che eri solo un pezzo di carne. Quelli che emettevano sentenze nei tribunali facendo finta di conoscere la tua vera volontà. Quelli che hanno brigato a livello politico per ritardare, per ostacolare, per impedire che si facesse qualcosa per evitare il tuo sacrificio. Quelli che combattono la loro crociata per imporre l’eutanasia in Italia. Quelli che chiedevano il silenzio, per fare meglio il loro sporco lavoro. Quelli che non possono nemmeno più definirsi medici o infermieri. Quelli che, con tutta probabilità, hanno accelerato le procedure del protocollo.
Non potevi non morire, sola contro tutti, in quella stanza anonima, rigorosamente appartata dal resto del mondo, impenetrabile se non per i tuoi aguzzini.
Oggi, dopo la tua morte, siamo tutti affranti e tutti più deboli e indifesi. A cominciare da quei duemila che in Italia sono nelle tue stesse condizioni. Per continuare con gli handicappati, i malati gravi, i soggetti più deboli della società. Per finire con i bambini nelle pance delle madri, che qualcuno (pazzo) potrebbe ritenere eliminabili solo perché incapaci di nutrirsi da soli.
Oggi in Italia la cultura della morte ha messo a segno un’altra vittoria. Non le è bastato lo sterminio creato in vent’anni con l’aborto. Vuole aprire una nuova era, che porterà ad altre barbare uccisioni e ad un ulteriore affievolimento delle coscienze.
Sei stata usata. Ti hanno buttato sulle prime pagine dei giornali. Girano le pubblicità del libro che racconta la tua storia. Sei stata venduta. Prima ti hanno fatta diventare un personaggio da copertina, poi hanno preteso che nessuno s’interessasse più a te, nel momento in cui esercitavano il loro potere su di te.
Oggi siamo tutti sconfitti e tutti più deboli, perché oggi è stato nella pratica rafforzato il principio già introdotto con l’aborto, in base al quale un uomo ha potere di vita e di morte su un altro uomo.
In nome della libertà, della pietà, dell’autodeterminazione. E’ la barbarie più ipocrita.
Ma non bisogna piangere. La tua storia, il tuo sacrificio, aprirà spazi di bene, risveglierà coscienze smarrite e sonnolente. Quando il male tocca il culmine, è l’inizio della sua fine.
Sei giunta martire alla Casa del Padre. Adesso prega per noi. Aiutaci, da lassù, a ritrovare la via del bene, della ragione, del rispetto radicale della vita che ci è stata donata.
E prega per i tuoi genitori. Abbi pietà di loro. Consolali e illuminali con la tua presenza. Fa’ che capiscano, che si convertano, che non disperino.

8) L’hanno uccisa!
Eluana Englaro è morta ieri sera poco dopo le otto. La morte ha un potere tremendo, che è anche quello di far apparire di colpo futili, ignobili, vane («vanità della vanità», dice la Bibbia) tante nostre passioni, litigi, divisioni. Ma ha anche il potere di essere terribilmente reale, vera, tangibile pur se si tratta di un vuoto: così che all’improvviso tutti i discorsi fatti prima appaiono per quello che erano: teoria, astrazione, a volte inganno. Per settimane abbiamo parlato tutti di un qualcosa di cui abbiamo preso coscienza soltanto quando è davvero accaduto.
Eluana Englaro è morta, e se non fosse una tragedia farebbe sorridere l’ipocrisia di una cronaca d’agenzia letta ieri sera subito dopo il fatto: «Eluana Englaro ha cessato definitivamente di vivere», come se si potesse cessare di vivere anche non definitivamente. Arzigogoli verbali per sostenere, ancora una volta, una tesi, e cioè quella secondo cui Eluana era già morta, almeno un po’, diciassette anni fa, e adesso è morta del tutto. Ma come dicevamo la morte ha il potere di farci sbattere il muso contro la realtà. Solo ieri sera abbiamo fatto i conti davvero con la fine di Eluana. Quanti discorsi si sono rivelati grotteschi. Quello ad esempio del «vegetale»: ieri sera è morta una persona, non una pianta. Una persona privata di quasi tutto: ma una persona il cui valore e la cui dignità non erano inferiori di un nulla rispetto al più forte e il più sano degli esseri umani. Il Vaticano ha invocato il perdono di Dio per coloro che hanno deciso di accelerare il corso della natura. Noi più modestamente speriamo che un Dio esista, e che Eluana ora sia fra le sue braccia, godendo finalmente di una felicità che qui sulla terra un destino malvagio le ha negato. Se così fosse, non c’è dubbio che Eluana sta meglio adesso.
Eppure noi ci siamo battuti contro questo epilogo, che riteniamo un grave errore. Non abbiamo certezze sulla vita e sulla morte. Ma proprio per questo abbiamo pensato che nessuno le possa avere: e nell’incertezza, nel dubbio, noi crediamo che non spetti all’uomo porre fine alla vita di un altro uomo. Non raccontiamoci bugie sul rispetto della volontà di Eluana: chiunque capisce che è impossibile ricostruire una volontà su testimonianze tanto farraginose, su mezze frasi (forse) pronunciate in un’età in cui tutto urla per la vita, e nulla induce a riflettere sulla morte. Che la morte procurata alla «Quiete» (un nome che d’ora in poi sarà imbarazzante esibire) sia stata voluta da Eluana, è una pietosa bugia per coprire la scelta di un uomo disperato che non ce la faceva più, e che aveva certamente mille motivi per non farcela più. Abbiamo anche pensato, e continuiamo a pensarlo, che troppi lati oscuri rendono inaccettabile una morte così. Le modalità, intanto: per fame e per sete, un’agonia atroce come quella di Terri Schiavo.
L’illegalità, perché bisogna avere gli occhi, anzi la ragione bendata per non riconoscere che i giudici della Corte d’appello di Milano hanno autorizzato qualcosa che non è previsto dalla legge, travalicando il loro potere costituzionale. La sorprendente iniziativa del presidente Napolitano, che oggi molti considerano vittima di un attacco istituzionale da parte del governo, e che invece si è reso lui protagonista di un atto senza precedenti, e cioè l’invio di una lettera di bocciatura preventiva a un decreto non ancora emesso. La strumentalizzazione politica da parte di molti, e per favore non diciamo che tra gli strumentalizzatori ci sono anche coloro che hanno preso decisioni disapprovate dalla stragrande maggioranza degli italiani. Può darsi che noi avessimo torto, e che gli altri avessero ragione. Però, siccome come dicevo la morte ha il tremendo potere di metterci di fronte alla realtà, ci chiediamo: se aveva ragione chi la pensava diversamente da noi, perché adesso non esulta? Se davvero impedire la morte era «una violenza inaudita», come abbiamo letto, perché ora nessuno gode della fine di questa violenza? E coloro che parlavano della «battaglia di Beppino Englaro», hanno ora il coraggio di dire e di scrivere «Beppino Englaro ha vinto la sua battaglia»? Dov’è la vittoria, nella morte? «Lasciatemi solo», ha detto ieri sera il povero papà di Eluana. Resterà solo, resterà. Certo non troverà consolazione tra coloro che l’hanno utilizzato per sfondare una porta, per creare un precedente, per far sì che l’uomo sia sempre più padrone della vita propria (illusione: nessuno è padrone della propria vita) e di quella degli altri. Vedremo, fra qualche anno, se non sarà così. Se dai diciassette anni di coma non si passerà ai diciassette mesi o diciassette giorni; se non si dirà che in fondo anche l’Alzheimer è uno stato di totale incoscienza, e così via. È un film che abbiamo già visto con l’aborto. Si è partiti dai casi limite - le gravidanze per stupro, le gravissime malformazioni - e si è arrivati a totalizzare più di cinque milioni di aborti legali, solo in Italia, in trent’anni. Se davvero la battaglia di Beppino Englaro era per il suo bene, dov’è ora il suo sollievo? Dove la sua pacificazione? Non pretendiamo di entrare in quel che sta provando ora. Ma che sia sereno e sollevato, non ci crediamo neppure un po’. Fra i poteri tremendi della morte c’è anche quello di svelare, di colpo, un inganno. Lasciamolo solo come lui ci chiede, quest’uomo così sfortunato. Ne ha il diritto. Ma certamente un giorno, forse molto presto, la solitudine non gli basterà più, sarà lui a cercare qualcuno che lo possa capire, accogliere, amare. E guardate, magari ci sbaglieremo, ma secondo noi questa compagnia non la troverà fra coloro che lo hanno tanto spalleggiato in questi anni, assecondandolo e a volte usandolo. Più facile, molto più facile, che la troverà tra quelle suore misericordine che Eluana l’hanno accudita e amata per diciassette anni, senza chiedersi che cosa dice la Costituzione, senza chiedersi dove comincia e dove finisce una persona.


(Fonti: 1. Giuliano Ferrara, Il foglio, 9 febbraio 2009; 2. Tg.com, Pietro Crisafulli, 8 febbraio 2009; 3. Agenzia Reuters, 8 febbraio 2009; 4. Mario Giordano, il Giornale, 10 febbraio 2009; 5. Lucia Bellaspiga, Avvenire, 11 febbraio 2009; 6. Stefano Lorenzetto, Il Giornale n. 6 del 9 febbraio 2009; 7. Gianluca Zappa, La Cittadella, 10 febbraio 2009; 8. Michele Brambilla, Il Giornale, 10 febbraio 2009)