Si
racconta che un giorno un giovane fratello che viveva nel deserto andò di corsa
da un vecchio monaco e gli disse «Oh, Padre, sai una cosa? Fratel Giovanni se
ne è andato ed è tornato nel mondo». L'anziano, senza scomporsi, gli rispose:
«Figlio mio, non essere sorpreso perché molti se ne vanno. Meravigliati
piuttosto che qualcuno rimanga!».
È un
episodio pieno di quella sapienza che troviamo di frequente nei detti dei Padri
del deserto. Lo racconta Fratel Ben Harrison, un missionario della Carità di
Madre Teresa di Calcutta, che ha lavorato nella formazione e nell'apostolato
delle sua comunità per i senzatetto, i prigionieri e i drogati, in un articolo
apparso nella rivista americana “Human development”, e dedicato al tema della
perseveranza nella vita religiosa.
La reazione provata da quel fratello che andò costernato dal vecchio monaco è
probabilmente la stessa che avverte ognuno di noi quando qualcuno della nostra
comunità decide di andarsene, abbandonando la vita che aveva abbracciato. E la
reazione è forse ancora più forte se l'abbandono ha avuto come protagonista
qualcuno che ha lavorato e contribuito alla nostra formazione e che magari era
ritenuto un esempio e un modello di virtù. Indubbiamente è molto difficile
conoscere le ragioni profonde che portano una persona a compiere questo passo
increscioso.
In
effetti, osserva Ben Harrison, «ci turba che tante persone brave e promettenti
lascino la vita religiosa, spesso dopo molti anni di servizio apparentemente
appagante e impegnato». Ma, osserva, «grazie a Dio, ogni tanto si celebrano dei
giubilei per ricordarci che ci sono anche quelli che rimangono. E poi c'è la lista
dei confratelli defunti che è lì per dirci che c'è chi ha perseverato fino alla
fine».
Non dare la perseveranza mai
per scontata.
A
convalida di quanto scrive, Ben Harrison racconta la sua esperienza per
mostrare come la perseveranza nella vocazione non è data per scontata fin
dall'inizio, ma richiede un assiduo lavoro di fedeltà giorno per giorno, in
mezzo alle prove inevitabili della vita.
«Ricordo,
scrive, quando venni la prima volta in convento. Non ero sicuro di riuscire a
farcela per una settimana. Poi, mentre passavano i mesi, continuavo a essere
sorpreso nel trovarmi ancora lì presente. Prendevo le cose solamente "un
giorno alla volta" e aspettavo per vedere quanto questo sarebbe durato.
Finalmente, dopo alcuni anni di voti temporanei, giunse il tempo di decidere se
fare la professione perpetua. Pensai a lungo e con difficoltà alle possibili
opzioni che stavano davanti a me».
Non fu
una decisione facile, perché «avevo sempre avuto paura di assumere un impegno,
così che il pensiero di consacrare il resto della mia vita a Dio (ma anche alle
altre realtà in questo campo) mi sembrava impossibile».
Aveva
l'impressione di assomigliare a un alcolista, preoccupato dell'idea di non
poter più bere un bicchiere per tutta la vita. Pensò allora a ciò che viene consigliato
agli alcolisti per aiutarli a uscire dall'abitudine contratta e che li tiene
come prigionieri, e cioè di non fare propositi a lungo termine - cosa
impossibile da osservare - ma cercare di non bere "giorno dopo
giorno". È un suggerimento che sembra possibile, rileva, «così continuai a
resistere un giorno per volta».
In
tutte le comunità religiose, in preparazione alla professione si è soliti
premettere a questo appuntamento un corso di esercizi spirituali. Così fu anche
per Ben Harrison, il quale racconta: «Il terzo giorno di quegli esercizi
spirituali, qualche mese prima della professione perpetua, mi resi conto di
avere un forte desiderio di consacrarmi a Dio in questa strada, di donarmi in
modo definitivo all'Assoluto. Sapevo però che la grande gioia che provavo
allora non sarebbe durata per sempre, che sarebbe venuto il giorno quando avrei
avuto dubbi e tentazioni. Come avrei potuto perciò compiere quel passo e
assumere un così grande impegno sapendo che tutto sarebbe cambiato? Bene,
c'erano ancora mesi o settimane prima della vera data e così continuai a vivere
la mia vocazione un giorno per volta».
Ma la
paura non era del tutto scomparsa. «Più o meno un mese prima di quella data, mi
fu concesso un giorno di preghiera. Mi sentivo inquieto e avevo mal di testa.
Al momento di chiedermi se questo fosse un segno della mia paura per il
prossimo impegno, mi sembrò che la spiegazione non fosse del tutto convincente.
E siccome qualche volta il contrasto dei sentimenti produce questi effetti, mi
chiesi: "Non potrebbe essere magari che questi sentimenti siano il sintomo
non della paura, ma della felicità?". Mi resi così conto che stavo
reprimendo una gioia esagerata, che finalmente avevo trovato qualcosa o
Qualcuno, e che volevo consacrarmi senza riserva. Continuai a contare i giorni,
deciso a godermi l'intera preparazione a quel grande evento, e il giorno
fissato per la professione perpetua, semplicemente chiesi a Dio: "Che cosa
vuoi che io faccia oggi?". Nel mio cuore sentii una tranquilla sicurezza:
"Voglio che oggi tu ti consacri a me con totalità, per sempre"».
Ciò che conta è il dono
assoluto di sé.
Ricordando
quell'esperienza, Ben Harrison scrive: «È una cosa strana. Certe volte noi
pensiamo alla professione come a un impegno che dura per un certo tempo, solo
un tempo più lungo della professione temporanea. Nella formula dei voti, nella
mia fraternità, noi diciamo che li facciamo "per tutta la vita". Ma
io ho capito che il profondo significato dei voti non si misura in anni, o in
una vita o in altra maniera. In quest'atto di fede e di amore io sto dicendo
che ora, in questo momento, voglio dare a Dio tutto quello che sono, tutto
quello che ho, tutto quello che amo, tutto ciò che faccio e tutto ciò che
diventerò, e che voglio farlo in modo assoluto, totale, oggi, per sempre nel
tempo e al di là del tempo. Questo è il mio desiderio. Perpetua non qualifica
la professione per quei dieci, venti o cinquant'anni che ancora mi restano
prima di morire. Perpetua vuol dire: per tutto il tempo e al di là di tutto il
tempo. desidero essere unito al mio Dio senza interruzione a partire da questo
momento fino all'eternità».
Ma, si
domanda: «come è possibile fare un tale dono di me stesso? Se non sono padrone
di me stesso, come posso offrire me stesso? Se non sono padrone dei miei giorni
o delle mie ore, e ancora meno del mio futuro, come posso consegnarli a un
altro?».
Ed
ecco la sua risposta: «So solo che ho questo desiderio e che questa voglia mi è
stata messa nel cuore in questo preciso momento. E che questo desiderio lo
posso anche perdere nell'attimo che viene subito dopo. Non posso quindi fare
affidamento su di me o su qualcosa che è in me, non posso fidarmi di me stesso
né della mia parola o della mia promessa solenne. Posso solo fidarmi di Dio,
della sua misericordia e della sua grazia. Tuttavia il desiderio di appartenere
a lui è, in questo momento, così grande che io sono pronto a rendermi ridicolo,
a rischiare il fallimento e il disonore. Sono pronto a correre il rischio di
sfidare Dio a fare per me quello che io non riuscirei mai a fare da solo. E
così mi decido e faccio la mia professione perpetua».
Si
tratta di un impegno che abbraccia tutta vita, ma da vivere "giorno per
giorno". Infatti, osserva: «trovo che devo vivere la mia vocazione un
giorno per volta. Il mio maestro di noviziato ci ha detto che anche Madre
Teresa, quando era più giovane, era solita dire: "Non meravigliatevi,
sorelle, se un giorno la Madre dovesse andarsene con un uomo"».
Ben
Harrison commenta: «Suppongo che non si trattasse tanto per lei della
tentazione di sposarsi, quanto piuttosto della sua intenzione di far capire, in
modo umoristico, alle sue sorelle che esse dovevano dipendere dall'intima
unione con Gesù e non da lei». Questo indica che «anche le sante persone sanno
che non possono essere sicure di se stesse. Più sono sante e più fermamente ne
sono convinte. Quanto a me, preferisco riconoscere tutto questo e dire:
"Sarà un miracolo se io non me ne vado via," anziché credere che non
avrò mai un dubbio».
Bisogna
pertanto mettere in conto nella propria vita i dubbi e le difficoltà. Essi
hanno una funzione a dir poco provvidenziale: «Ci mantengono onesti, ci
ricordano di che cosa siamo fatti, e quanto bisogno abbiamo di Dio. Ci
costringono a fare e rifare la decisione di seguirlo, una decisione che ogni
volta che la rifacciamo, si consolida sempre di più».
Ma il problema non è solo questo perché è vero che anche noi cambiamo. Infatti,
«io non sono più lo stesso uomo di quando ho emesso i primi voti. Anche le
cellule del mio corpo sono cambiate e alcune di loro molte volte. Dio mi ha
guarito da molte debolezze, mi ha dato un po' di sapienza, coraggio e
convinzione che prima non avevo. Con questi doni, nel mondo potrei far fortuna;
dopo tutto quello che ho ricevuto in questi anni, potrei avere una vita molto
più proficua, più felice, più equilibrata di quella che avrei se non fossi mai
diventato fratello. E allora perché non prendere su i soldi e andarmene?».
«Qualcuno
potrebbe dire: "Ma come puoi pensare una cosa simile?" Altri
potrebbero aggiungere: "Hai dato la tua parola solenne, hai fatto una
promessa a Dio. Come puoi contraddire tutto questo?". Potrei rispondere di
avere tante ragioni per fare una simile cosa, e mi conosco abbastanza per
sapere che potrei trovare, in un modo o in un altro, una giustificazione:
"Non sapevo ciò a cui andavo incontro"; "sono cambiato nel corso
degli anni"; "l'Istituto è cambiato"; "ero troppo
giovane." No, non basterebbe la vergogna per essere sufficientemente forte
e farmi essere fedele. Se io non fossi qui per amore di Dio, perché dovrei
difendere il mio onore?».
Che
cosa allora può dare la forza per perseverare? Se uno guarda a se stesso e alla
propria debolezza potrebbe dire: «Non so se ci sia qualcosa in grado di
mantenermi fedele. Potrei finire per andarmene domani. Ma ciò che credo è che
devo fidarmi di Dio, pregarlo e chiedergli di continuare a darmi il desiderio
di essere tutto suo, ogni giorno, un giorno per volta. Devo essere pronto a
vivere nell'insicurezza totale, povero in spirito, senza fiducia nella mia
volontà. Devo essere pronto a credere che Dio mi darà tutto ciò di cui ho
bisogno per essere fedele, un giorno per volta. Posso chiedere a Dio che non
permetta che io abbandoni questa strada. Posso implorarlo perché mi faccia
capire l'assoluto bisogno che ho di lui, così da rimanergli attaccato come se
fosse lui colui che … salva la mia vita durante una bufera. Posso impegnarmi di
nuovo, molte volte ancora. Al momento di cambiare e di crescere, di trovare
salvezza e nuova vita, al momento dei dubbi e degli interrogativi, io devo dare
tutto, sempre e ancora, devo sentire nuovamente il mio nulla e la gioia che
viene dall'appartenere sempre di più a lui, dandogli oggi quello che fino a
ieri non avevo ancora ricevuto. Perché, se il fuoco non brucia sempre più
intimamente nel cuore del tronco, finirà per spegnersi».
Utile avere una vera guida
spirituale.
Ben
Harrison osserva che per essere perseveranti e sostenere la propria fedeltà,
oltre a pregare, a nutrirci con la lettura spirituale, ricevere la comunione in
azione di grazie e rinnovarci attraverso la confessione, è importante avere un
direttore spirituale, ossia «uno che mi obblighi alla sincerità con me stesso».
In effetti, rileva, «so bene di essere capace di ingannare me stesso e di
giustificare i miei desideri. Perciò ho bisogno di qualcuno che mi aiuti a
vedere gli inganni miei e quelli del nemico. Anche i miei fratelli e i poveri
continuano a richiamarmi sulla retta via, a condizione che io presti loro
attenzione e sia disposto ad ascoltarli!».
Riprendendo
il consiglio iniziale della fedeltà vissuta un giorno alla volta, Harrison
racconta un altro interessante episodio dei Padri del deserto e che ha per
protagonisti ancora una volta un giovane monaco e un anziano: «Un giovane
monaco va dall'anziano e gli dice: "Padre, non ce la faccio più. Me ne
vado". E il vecchio monaco: "Aspetta fino a domattina, dormi bene e
sarai in forma per il viaggio". La mattina dopo il giovane monaco viene di
nuovo: "Va bene, Padre, adesso me ne vado." "No," gli dice
il vecchio, "aspetta solo un giorno, non lavorare, dì le tue preghiere.
Puoi sempre partire domani". "Cerchi di imbrogliarmi?", gli
chiede il giovane, "domani mi dirai di nuovo la stessa cosa".
"Certo", gli dice l'anziano, "è questo il modo con cui io ho perseverato
nella mia vocazione, un giorno dopo l'altro. Così è stato per diciassette anni
e poi ho trovato la mia pace" ».
Ben
Harrison conclude: «Per quanto mi riguarda, sono ora ben più di diciassette
anni, e non ho ancora trovato la pace di una certezza totale. Chi sa quanto
durerò? A dir la verità, non mi interessa. È Dio il Fedele. Egli ci dona
"il volere e l'operare" (Fil 2,13). Possa egli continuare a darci
questi due doni e possiamo noi continuare ad essere aperti ad essi, solo per
oggi».
(Vocazioni.net,
"Il segreto della perseveranza nella vocazione" da Testimoni, n.
19/2011 p. 8)