giovedì 25 luglio 2013

Appunti inquieti sul viaggio del Papa in Brasile. Con bagaglio a mano.

Papa Francesco, sulla scaletta dell’aereo in partenza, col suo bagaglio a mano. Qualche osservatore “cattivo” e irriverente, potrebbe chiedersi se queste quotidiane “trovate” mediatiche siano sue, o di qualche suo consigliere, di qualche consulente di “immagine”. Un che di geniale e spontaneo ce l’hanno, è innegabile: ma questo qualcuno vorrebbe essere certo che non si tratti veramente di uno sperpero di fosfati, di fatica, di tempo e, in caso, anche di denaro, da parte di un qualcuno; perché a lungo andare, e questo è un mio pensiero, potrebbero rivelarsi più inutili che utili, fini a loro stesse, quando non dannose e basta. Il mondo è una banderuola, lo sappiamo! Il gotha mediatico le traduce tout court come sincere e “spontanee”; ma – sempre in questo qualcuno – potrebbe comunque rimanere il dubbio che nell’insieme siano piuttosto “strategiche”, studiate e volute.
In ogni caso, il movente è secondario.
Oggi si sente ripetere ad ogni angolo: “Certo, come questo Papa non ce ne sono mai stati; è il meglio di tutti!”. “Meglio” per cosa, di preciso? La solita roba: anello d’oro, automobile, i “poveri”. Vale a dire, a un esame meno ipocrita e superficiale dei fatti, che sono tutte le cose per le quali noi “tiepidi” viviamo e senza le quali ci pare non valga la pena vivere, né vogliamo smettere: oro, auto di lusso, bei vestiti, per non diventare come i “poveri”, avendo noi in orrore quella povertà che, al contrario dei santi, pretendiamo per gli altri ma non per noi stessi; come dovrebbe invece essere. E poi la “simpatia! C’è pure quella, eccome! E qui ti rendi conto che per giudicare un successore di Pietro si usano gli stessi parametri che si userebbero per giudicare i politici e magari gli “amici” di Maria De Filippi. E questo la dice lunga sul valore di questi giudizi più o meno eterodiretti.
A me starebbe anche bene questa idolatria mediatica per il personaggio del Papa: se però comprendesse anche il suo magistero, se fosse a favore del Papa in quanto Pietro, non del Papa in quanto Bergoglio. O meglio: di quel che i media, strumentalizzandolo, hanno fatto di Bergoglio… sebbene egli ci metta spesso anche del proprio. Sarei entusiasta, perché ci eviterebbe, a noi cattolici scribacchini e “apologeti”, la fatica di dover difendere anche il Papa insieme a tutto il resto, su quegli stessi media che mettono alla gogna il resto della Chiesa.
Sarei entusiasta se non vedessi che questo culto è basato sull’equivoco, certe volte proprio sulla manipolazione, se non addirittura la menzogna vera e propria, a prescindere dalla volontà del Papa. E anzi, a dirla tutta, è lo sviluppo ulteriore di quanto Pio XII aveva con disincanto detto guardando agli ultimi secoli di storia cristiana e anticristiana: «Prima, Cristo sì Chiesa no (riforma protestante); dopo, Dio sì Cristo no (deismo illuminista); poi ,Dio no Cristo sì (agnosticismo liberal-massonico del Cristo “grande saggio” ma non divino); fino al grido empio: Dio è morto, anzi non è mai stato (l’ateismo marxista)». Adesso siamo al “Papa sì, Chiesa no; Dio forse…, ma come piace a ciascuno”. Purché al Papa si faccia dire ciò che piace a noi, purché lo si svincoli da ciò che la Chiesa è, e Dio sia un “secondo me” come gli altri e non quello incarnato e svelato dalle scritture e riproposto dal Magistero.
Questo io temo dei laudatores mediatici di Francesco, e questa paura trova riscontri ogni giorno: Papa sì, Papato no, Roma no, dottrina no; aborto sì, leggi contro natura sì, tutta l’agenda liberal-radicale sì; dottrina morale e sociale della Chiesa no. Bel risultato!
Di questo equivoco o malafede che fa da risonanza alla presumibile “strategia mediatica” di Francesco, ho avuto prova immediata oggi, mentre ero in auto. Come sempre ho fatto zapping sulle stazioni radio. E tutte a parlare encomiasticamente dell’affaire “Papa con borsa a mano”. Le solite stazioni da dove si propagandavano sino a un minuto prima tutti i feticci liberal-radicali, compreso il vegetarismo talebano, per cui una coscia di pollo è “una coscia strappata a un cadavere”, mentre poco dopo un bambino abortito “è solo un feto non un essere umano” (hanno detto proprio così!). Ebbene, tutti questi a parlare di Francesco. Con scialo di aggettivi superlativi. Ma non per dire niente di cattolico: ma per dire di “quest’uomo umile che spontaneamente porta i suoi bagagli a mano”. E quel che è peggio e lascia basiti - senza percepire la differenza tra Francesco e loro - con tutto il repertorio da corte dei miracoli liberal.
Va bene, lasciamo correre sul fatto che era solo una borsa per documenti, glissiamo pure sul fatto che era in pelle e magari firmata Coveri (un lusso! Che scandalo!: fate penitenza!!!); non è tutto questo che mi preoccupa. Mi preoccupa un po’ di più che il Papato sia ridotto solo a una questione di “borse a mano”, che un viaggio che doveva essere apostolico, sia così banalizzato dai media. Ma ancora di più mi preoccupa il disprezzo apertis verbis con cui tutti questi radio-DJ e radio-giornalisti hanno liquidato tutti i predecessori e il Papato stesso: quelli “prima di questo Francesco, che già dall’elezione porta scarpe nere consumate, orologio di plastica, che ha rifiutato la Papamobile e soprattutto ha respinto la croce e ogni simbolo del Papato”. E aggiungono: “Una salutare rottura totale con questa Chiesa ormai vecchia, fuori dal tempo, con teorie ormai senza senso che il Papa ha liquidato“. Un altro, se non erro sulla radio dei talebani del veganismo, Radio Voice, parla di un Papa “che ha superato la Chiesa” e che quindi sta avviandola a chiudere definitivamente i battenti “con la massima dignità possibile”.
Così è stato detto. Cosa raccoglieremo dopo tutto questo? cosa stiamo coltivando? cosa resterà? Morto Bergoglio che ce ne facciamo del culto bergoglioso (così come adesso non sappiamo più che farcene dell’antico culto giovanilistico per Wojtyla)? Cui prodest?
Il messaggio subliminale che è stato percepito, o che è stato lasciato passare, non lascia speranza: un odio furibondo verso tutto ciò che sappia inconfondibilmente di cattolico, per ogni tradizione cattolica, per ciò che la Chiesa è e rappresenta, respinta con sdegno persino nelle sue apparenze esteriori… ma “questo” Papa (e sottolineano “questo”) no, lui è roba non infetta, come tutto quanto è cattolico; lui al contrario è roba buona, anzi è “buono”: perché è “come noi” (e di per sé non dovrebbe essere gran cosa!…). Specialmente non è – così dicono fra le righe ma anche fuori – come gli “altri” Papi e cattolici, no, lui è “altro”, dai Papi, dai cattolici, dal cattolicesimo.
Ma cosa diavolo è allora? Il personaggio è “buono” e stop, e “non importa” quel che dice o rappresenta, contano i “gesti”, chiaramente interpretati secondo la vulgata mondana. Va da sé che tutto il resto sia “cattivo”. Questo è il messaggio che è stato percepito, che è passato, che è di dominio pubblico. Questo Papa, dicono tutti, in tutto, è una “rottura”. E chiaramente si rompe con le “cose” intrinsecamente maligne. Come, appunto, la “Chiesa”, il Magistero, i predecessori… compreso l’ex idolo di questi stessi osannatori mediatici professionisti: Giovanni Paolo II, a suo tempo utilizzato anche lui come “rottura” di qualche cosa. Ma Wojtyla è ormai passato; anche Wojtyla è diventato “cattivo”. Sic transit gloria mundi!
Pazienza se si finge ancora di non accorgersi, da parte di tanti cattolici sinceri, per solo amore verso il Papato, di cosa stia davvero succedendo. Di cosa davvero sia questo circo mediatico. E magari si lamentano di quelli come me, che hanno l’ardire di “criticare” il pontefice. Ma se ne facciano una ragione: certa papolatria prevede che non si possa neppure discutere della borsa di un vescovo di Roma. Ma lungi dall’essere zelo è cretineria: i simboli diventano pensieri, che si fanno parole, le parole gesti, i gesti si fanno storia, nel bene e nel male. Io mi voglio benevolmente “accanire” – preoccupato ma con un sorriso – sulla “borsa del Papa”, né più né meno di come fanno i progressisti sulle scarpe a seconda del colore. Per non dovermi “accanire” su tutto il resto, sulle cose importanti: quelle che in realtà hanno di mira proprio i media e certi laudatores mediatici interessati. Massì, facciamocela una risata, adesso che possiamo: per quando non ci sarà più niente da ridere, perché tutto questo castello di chiacchiere, prima o poi ci crollerà addosso. E dovremo, per tutto il resto del tempo, spaccarci la schiena a raccogliere cocci.
Va notato che si assiste a un fenomeno strano, anomalo, se non si fosse già verificato sotto Giovanni XXIII, sebbene in termini molto più cattolici e secondo parametri assai più ortodossi e meno frivoli. In ogni tempo il Papa “buono” è sempre stato quello appena morto, mai quello vivente; adesso il Papa “buono” è quello vivente e “cattivi” sono tutti quelli morti, e specialmente quello ancora vivo ma “fortunatamente” non più Papa, Ratzinger, il nemico pubblico numero uno del “Pensiero Unico Dominante” e di tutte le lobby e le caste liberal-radicali longa manus dei padroni del mondo e della stampa, i facitori di “opinioni” pubbliche.
Mi viene da riflettere pensando a un commento inquietante di un amico, un cattolico molto preparato e fedele al Papa. Il quale mi riporta alla mente cosa successe a Cristo meno di una settimana prima della crocifissione: fu accolto in Gerusalemme in groppa a un asino, e non a un purosangue come s’addiceva al re dei re, e nonostante ciò fu osannato e salutato con tanto di palme e salamelecchi. Mentre già la morte, la morte di croce, incombeva; il calice dell’amarezza stava per traboccare e riversarsi sulla sua testa. Si domanda e quasi afferma allora l’amico: «Questo è il segno che qualcosa di grosso è alle porte. In bene o in male. Il “dopo Francesco” o sarà la nostra persecuzione o sarà la nostra risurrezione. O forse entrambe le cose. Il Papa dopo di lui sarà di nuovo re o sarà di nuovo in croce». Per il momento, già il suo predecessore è finito in croce.
A Lampedusa Francesco ha augurato buon ramadan ai musulmani. Bene. E ora in Brasile, dove in questi ultimi anni sono scappati metà dei fedeli verso sette provenienti dal protestantesimo impazzito americano, cosa augurerà? “Crescete e moltiplicatevi”? Non è che al ritorno nel vecchio continente ci sarà anche un “rompete le righe” per quei cattolici “nostalgici”, ancora saldamente attaccati a quella fede trasmessa loro dai nonni e dai padri, e ormai così apertamente dileggiata? Anche se qui da noi già sta succedendo da tempo. Personalmente, per la mia vena pessimistica, mi aspetto molti fuochi d’artificio, tanto fumo, ma poco arrosto. E non per cattiva volontà di Papa Francesco. L’attuale applauso generale, l’attuale consenso universale sommergerà anche tutti e tutto, ma il sipario su questa rappresentazione mediatica della realtà cattolica, che oggi non è più una realtà, finirà per scendere. E allora voglio proprio sentire i media!
E concludo sorridendo… mentre ripenso alla recente omelia di Papa Francesco: «Gesù disse ai suoi discepoli “non portate con voi borse…».
 

(Ma.La, libero adattamento su: Antonio Margheriti Mastino, www.Qelsi, 23 luglio 2013)

 

giovedì 18 luglio 2013

Sobrietà del palco papale alla GMG di Rio

Intendiamoci, non credo che il Papa conosca per filo e per segno quanto gli stanno preparando a Rio. In ogni caso sarebbe interessante accostare la cronaca del volo papale senza letto approntato dall'Alitalia - simbolo supremo di sobrietà e umiltà papale - al mega palco in fase di ultimazione presso l'altisonante Campus Fidei a Guaratiba, dove si svolgerà lo "Show del futuro".
Detto palco - in foto - è stato commissionato allo studio di architettura di Joao Uchoa. Ed è interessante visitare il sito di detto architetto, perché il palco per Papa Francesco è posto sotto la categoria "Entretenimento". E non è un caso, visto che l'architetto Uchoa ha realizzato in passato una sfilza di palchi per concerti, per lo più rock, fruiti da folle oceaniche.
Certo, ci si domanda cosa siano quei corni che emergono dai lati dell'altare? Forse una stilizzazione del Corcovado? Mah... Un palco tutto sommato royal underground, una sorta di istituzionalizzazione dell'underground che ha tuttavia un che di inquietante, ma che soprattutto non trasuda né sobrietà né tantomeno umiltà. Costruito attorno ad una figura di pontefice che indubbiamente contrasta con quella di Francesco che celebra a Lampedusa su un altare-barca (dimostrando per inciso ai vari Vescovi italiani intenti a demolire gli altari antichi e a costruirne di nuovi rigorosamente in pietra, che forse ci si può accontentare di quel che si ha).
L'inseguimento da parte della Chiesa dello stile architettonico del "concerto rock" è tuttavia una costante cui non sembra ci si possa sottrarre. Sempre valide, così, le parole di Benedetto XVI pronunciate nel lontano 2008 (tutto ciò che lo riguarda sembra ormai lontano anni luce): 
"Qual è quindi la natura di ciò che succede in una Giornata Mondiale della Gioventù? Quali sono le forze che vi agiscono? Analisi in voga tendono a considerare queste giornate come una variante della moderna cultura giovanile, come una specie di festival rock modificato in senso ecclesiale con il Papa quale star. Con o senza la fede, questi festival sarebbero in fondo sempre la stessa cosa, e così si pensa di poter rimuovere la questione su Dio. [...] Anzitutto è importante tener conto del fatto che le Giornate Mondiali della Gioventù non consistono soltanto in quell’unica settimana in cui si rendono pubblicamente visibili al mondo. C’è un lungo cammino esteriore ed interiore che conduce ad esse. La Croce, accompagnata dall’immagine della Madre del Signore, fa un pellegrinaggio attraverso i Paesi. La fede, a modo suo, ha bisogno del vedere e del toccare. L’incontro con la croce, che viene toccata e portata, diventa un incontro interiore con Colui che sulla croce è morto per noi. L’incontro con la Croce suscita nell’intimo dei giovani la memoria di quel Dio che ha voluto farsi uomo e soffrire con noi. E vediamo la donna che Egli ci ha dato come Madre. Le Giornate solenni sono soltanto il culmine di un lungo cammino, col quale si va incontro gli uni agli altri e insieme si va incontro a Cristo. [...] Così anche il Papa non è la star intorno alla quale gira il tutto. Egli è totalmente e solamente Vicario. Rimanda all’Altro che sta in mezzo a noi."


(Fonte: Francesco Colafemmina, Fides et Forma, 15 luglio 2013)

 

Può un cattolico riconoscere i “diritti delle coppie gay”?

Si fa strada, anche nel mondo cattolico, una pericolosa convinzione: quella secondo cui il  riconoscimento giuridico delle convivenze omosessuali sarebbe l’unico rimedio per evitare il “matrimonio gay” che avanza. «No alle nozze gay, sì al riconoscimento dei diritti per le coppie di fatto e omosessuali», è la parola d’ordine di chi vorrebbe organizzare una linea di resistenza  fondata sul fallimentare principio del “cedere per non perdere”.
Non si tratta solo di un colossale errore strategico, ma anche, e soprattutto, di un grave errore morale. La morale non solo cattolica, ma naturale, ha infatti il suo cardine nel principio secondo cui bisogna fare il bene ed evitare il male: bonum faciendum et malum vitandum. Questo principio primo è immediatamente evidente all’uomo, in ogni tempo e luogo, e non ammette interpretazioni o compromessi. Postulando l’esistenza del bene e del male, esso presuppone l’esistenza di un ordine oggettivo e immutabile di verità morali che l’uomo scopre innanzitutto nel proprio cuore, perché esso è una legge naturale, incisa «sulle tavole del cuore umano col dito stesso del Creatore» (Rm. 2, 14-15).
Dal principio secondo cui bisogna fare il bene ed evitare il male scaturisce una conseguenza necessaria: non è mai lecito a nessuno, e in nessuna sfera, né privata né pubblica, fare il male. Il male, che è la violazione della legge morale, può essere in casi eccezionali tollerato, ma mai positivamente compiuto. Ciò significa che nessuna circostanza e nessuna buona intenzione potranno mai trasformare un atto intrinsecamente cattivo in un atto umano buono o indifferente. Mai e poi mai si può compiere un male, seppur minimo, e quali che siano le pur nobili motivazioni.
Il sistema morale del “proporzionalismo”, oggi in voga,  rifiuta l’idea di princìpi assoluti in campo morale e ammette la possibilità di compiere il “minor male” possibile in una situazione particolare, per ottenere un bene proporzionalmente maggiore. Questa teoria è stata condannata da Giovanni Paolo II nella enciclica Veritatis Splendor, che ribadisce l’esistenza di “assoluti morali”, aventi un loro contenuto, immutabile e incondizionato. «La ponderazione dei beni e dei mali, prevedibili in conseguenza di un’azione, – spiega il Papa -non è un metodo adeguato per determinare se la scelta di quel comportamento concreto è (…) moralmente buona o cattiva, lecita o illecita» (n. 77).
Il retto criterio del giudizio morale, infatti, è quello che valuta un atto come “buono” o “cattivo” secondo che rispetti o violi la legge naturale e divina, considerandolo innanzitutto in sé e per sé, ossia nell’oggetto, nelle circostanze e nelle conseguenze sue proprie. Invece il criterio proporzionalista è relativistico, perché valuta un atto come “migliore” o “peggiore” secondo che migliori o peggiori una situazione data. La Congregazione per la Dottrina della Fede, nella Nota del 21 dicembre 2010 a proposito della banalizzazione della sessualità, riferendosi a chi interpretava alcune parole di Benedetto XVI nel suo libro Luce del mondo, ricorrendo alla teoria del cosiddetto “male minore”, dichiarò che «questa teoria, è suscettibile di interpretazioni fuorvianti di matrice proporzionalista», condannate dalla Veritatis Splendor, perché «un’azione che è un male per il suo oggetto, anche se un male minore, non può essere lecitamente voluta». Ciò è cogente sia sul piano della condotta personale che su quello del comportamento pubblico.
I parlamentari cattolici possono essere impossibilitati a realizzare in concreto il massimo bene, ma non possono mai promuovere una legge in sé ingiusta, quale che ne sia la motivazione. Se si accetta il principio che il male minore possa essere compiuto per ottenere un bene maggiore, i cattolici potrebbero promuovere l’aborto terapeutico, per evitare quello selettivo, la fecondazione artificiale omologa per evitare l’eterologa, le unioni civili per evitare il matrimonio omosessuale. Ma, così facendo, crollerebbe la morale intera, perché, di male minore, in male minore, ogni arbitrio potrebbe essere pretestuosamente permesso.
Non manca chi, per giustificare il principio del male minore in campo politico, si riferisce ad una frase di Giovanni Paolo II, nella Evangelium Vitae, secondo la quale «potrebbe essere lecito offrire il proprio sostegno a proposte mirate a limitare i danni di una tale legge (abortista) diminuendone gli effetti negativi» (n. 74). Ma questo passo non può che essere interpretato in coerenza con la Veritatis Splendor e con il Magistero morale della Chiesa, il quale insegna che si può tollerare un male, rinunciando a reprimerlo; si può perfino regolare un male, nel senso di ridurne la libertà e il campo di azione; ma non si può permettere o regolare un male autorizzandolo, perché questo significherebbe approvarlo rendendosene complici (cfr. Ramon Garcia de Haro, La vita cristiana, Ares, Milano 1995).
Il Papa, in quel passo, non dice che al cattolico è lecito proporre una legge cattiva, ma che gli è lecito intervenire su una legge, in via di elaborazione parlamentare, modificandola mediante emendamenti meramente abrogativi o restrittivi di disposizioni permissive ed immorali. Si tratta, in questo caso, di emendamenti che impediscono che alcune proposte  normative, ottengano forza di legge. Va però precisato che, nel nostro ordinamento giuridico, la legge va votata non solo articolo per articolo, ma, alla fine, anche nel suo complesso, in segno di approvazione globale.
Pertanto, al parlamentare cattolico non sarebbe comunque mai consentito di dare il proprio voto finale positivo ad una legge che autorizzi azioni immorali, anche se tale legge risulti anche dall’approvazione dei suoi emendamenti. Egli infatti non può assumersi, in nessun caso ed in nessun modo, la responsabilità globale di un testo finale che autorizzi, ad esempio, pratiche abortive, anche solo in casi rari ed estremi. Ciò significa che egli potrà correggere la proposta di legge mediante emendamenti correttivi; ma non potrà approvarne il testo finale, se vi permangono disposizioni.
Per essere moralmente proponibile da un parlamentare cattolico, una legge deve avere una propria integritas: deve essere cioè totalmente giusta, nel senso che nessuna delle sue disposizioni contraddica la Legge naturale e divina. Ma se una legge contiene anche una sola disposizione intrinsecamente e oggettivamente immorale, essa è una “non-legge”. Un parlamentare cattolico non potrà in nessun caso votarla nel suo complesso, pena l’assunzione della responsabilità morale e giuridica dell’intero testo. «Bonum ex integra causa, malum ex quocumque defectu», non si stanca di ripetere san Tommaso d’Aquino (Summa Theologica, I-II, q. 71, a. 5, ad 2; II-II, q. 79, a. 3, ad 4).
In Italia esponenti del centro-destra e del centro-sinistra stanno trovando una “larga intesa” sulla riesumazione dei DICO (“Diritti e doveri delle persone stabilmente  conviventi”), il disegno di legge sul riconoscimento giuridico dei rapporti di convivenza presentato dal governo Prodi, nel febbraio 2007. Allora il progetto non andò in porto per l’opposizione dei cattolici. Oggi invece anche alcune personalità del mondo cattolico considerano il riconoscimento delle unioni omosessuali di fatto come un “male minore”, che si potrebbe compiere per evitare il “male maggiore” del “matrimonio gay”.
Ma dal punto di vista morale, il riconoscimento legale delle unioni omosessuali è altrettanto grave che la loro equiparazione legale al matrimonio. Per questo la Congregazione per la dottrina della Fede nel documento su I progetti di riconoscimento legale delle unioni tra persone omosessuali del 3 giugno 2003, approvato dal papa Giovanni Paolo II, stabilisce che «il rispetto verso le persone omosessuali non può portare in nessun modo all’approvazione del comportamento omosessuale oppure al riconoscimento legale delle unioni omosessuali».
Votare una legge del genere significa rendersi complici di un male che non viene certo cancellato dalla pretesa “riduzione del danno”. Se ci fossero in Parlamento due leggi, una che legalizza il matrimonio omosessuale e l’altra che riconosce i diritti delle coppie omosessuali, pur non equiparandoli al matrimonio, i cattolici non potrebbero votare la seconda legge, perché “meno cattiva” della prima, e se passasse la peggiore, la responsabilità sarebbe solo di chi l’avesse firmata. Come immaginare che un cattolico possa approvare una legge che protegge giuridicamente uno di quei «peccati che gridano verso il Cielo», come «il peccato dei sodomiti»? (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1867).


(Fonte: Roberto de Mattei, Corrispondenza Romana, 10 luglio 2013)
 

mercoledì 10 luglio 2013

Salvate il papa dai suoi interpreti

“Speriamo che capiscano questo gesto”, avrebbe confidato papa Francesco ai suoi collaboratori all’inizio della sua visita a Lampedusa, secondo quanto riportato da alcuni vaticanisti. Frase che esprimerebbe la consapevolezza del rischio fraintendimento che una presenza del Papa nell’isola dei naufraghi avrebbe comportato.
Rischio puntualmente trasformatosi in realtà, visto che spesso e volentieri parole e gesti del papa – ma sarebbe meglio dire di tutti i Papi –vengono ridotti a uso e consumo di chi li riferisce. Figurarsi su un tema come quello dell’immigrazione. Così abbiamo assistito a un balletto indecoroso sulle parole del Papa che, in alcune interpretazioni, avrebbe addirittura inteso dare una spallata alla legge Bossi-Fini.
Come abbiamo già detto ieri, in realtà il Papa ha posto la questione su tutt’altro piano, per cui appare piuttosto patetica la reazione – ad esempio - del presidente della Camera Laura Boldrini, ben contenta di poter affermare che il Papa è d’accordo con lei. Ma chissà se la Boldrini ha ascoltato quel passaggio dell’omelia in cui papa Francesco dice che l’origine della violenza sta nel peccato di Adamo, l’uomo che pretende di essere Dio, l’uomo che cancella Dio dal suo orizzonte. Invece di iscrivere d’ufficio il Papa nel partito di Vendola, la Boldrini farebbe molto meglio a pensare alle sue responsabilità nelle tragedie del mare, come di tutti quelli come lei che in questi anni hanno favorito in tutti i modi l’arrivo di immigrati illegali. Né si capisce come il ministro Cecile Kyenge ne abbia tratto spunto per riaffermare la necessità di garantire la cittadinanza per nascita. L’accoglienza umana, la partecipazione al dolore e alla sofferenza di chi vive certe esperienze, è altra cosa dal garantire l’impossibile, ovvero casa, lavoro e cittadinanza a tutto il mondo che eventualmente decidesse di sbarcare a Lampedusa.
Bisogna ridire con chiarezza che una cosa è l’attenzione alla singola persona (e in questo non sono mai stati ringraziati abbastanza i militari italiani che hanno sempre fatto di tutto per trarre in salvo e accudire gli immigrati in pericolo di vita, anche quando era in vigore la politica dei “respingimenti”); e un’altra sono le politiche migratorie che - nel decidere il numero di immigrati a cui dare la possibilità di risiedere in un Paese - devono tenere conto di tanti fattori diversi che permettano una reale integrazione, oltre che delle norme di diritto internazionale.
E quando il Papa ha fatto riferimento alle scelte socio-economiche che favoriscono migrazioni e tragedie, è assurdo ridurlo a una critica dell’Occidente o della globalizzazione. Dal punto di vista economico la globalizzazione ha portato vantaggi per tutti, anche se il processo non è privo di contraddizioni. Ma soprattutto, per la maggior parte di coloro che approdano sulle coste siciliane le scelte politiche dei paesi occidentali hanno avuto un rilievo marginale, se l'hanno avuto. Prendiamo il caso degli oltre 500 profughi arrivati solo ieri a Lampedusa: arrivano da Pakistan, Nigeria, Eritrea, Somalia. Vale a dire fuggono da povertà e persecuzione provocate dal fondamentalismo islamico o dagli ultimi residui di comunismo africano. E allora, la soluzione non è far arrivare mezza Asia e Africa in Italia, ma adoperarsi perché in quei paesi si creino quelle condizioni politiche ed economiche per cui fuggire non sia più necessario.
Perché – dobbiamo tenerlo sempre a mente – coloro che muoiono in mare cercando di raggiungere le coste italiane non muoiono a causa della mancata accoglienza nostra, ma perché qualcuno ne ha facilitato la partenza dalle coste tunisine o libiche. E se non ci fossero state le nostre motovedette il bilancio sarebbe enormemente più grave.
La reazione alle parole e ai gesti del Papa – in questa come in altre occasioni - pone però un problema di comunicazione che non può essere eluso. La quasi totalità dell’opinione pubblica si forma un giudizio su quanto il papa fa e dice leggendo i giornali o guardando i servizi in tv: sono un’infima minoranza coloro che seguono direttamente i suoi interventi o leggono integralmente i suoi discorsi. Nella fattispecie la stragrande maggioranza degli italiani ha un’idea di cosa ha detto il papa a Lampedusa dalle dichiarazioni della Boldrini o della Kyenge, tanto per fare un esempio. Questo dovrebbe spingere chi in Vaticano si occupa di comunicazione a trovare i modi per trasmettere il reale contenuto del messaggio del papa e, più in generale, del Magistero, non ultimo intervenendo quando ci sono distorsioni così plateali. Purtroppo si ha invece l’impressione, che a volte chi di dovere quasi si compiaccia di certe interpretazioni.

 
(Fonte: Riccardo Cascioli, La nuova bussola quotidiana, 10 luglio 2013)
 

La legge contro l'omofobia è una violazione della libertà

All’inizio di giugno è iniziato in Commissione Giustizia della Camera l’esame della proposta di legge, primo firmatario l’on. Ivan Scalfarotto, del PD, «per il contrasto dell’omofobia e della transfobia». Attesa l’importanza della cosa, è urgente manifestare con chiarezza le gravi perplessità che sconsigliano l’approvazione della legge. Il nocciolo della proposta, che reca aggiunte alla legge n. 205/1993 (destinata a contrastare la violenza discriminatoria motivata da odio etnico, nazionale, razziale o religioso), sta nella punizione, con la reclusione fino a 1 anno e 6 mesi, oltre di chi incita a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, altresì di chi incita a commettere o commette atti di discriminazione motivati dall’identità sessuale della vittima.
La portata della norma è difficilmente percepibile da chi non sia esperto di cose giuridiche. Per esemplificarne il senso va detto che, alla stregua di tale proposta, potrebbero essere sottoposti a processo, in quanto incitanti a commettere atti di discriminazione per motivi di identità sessuale, tutti coloro che sollecitassero i parlamentari della Repubblica a non introdurre nella legislazione il “matrimonio” gay e, ancor più, tutti coloro che proponessero di escludere la facoltà di adottare un bambino a coppie omosessuali. Invero, secondo l’ideologia appena accolta dalla Corte Suprema degli Stati Uniti, non ammettere una coppia gay al matrimonio costituirebbe discriminazione motivata dall’identità sessuale. Una campagna di opinione organizzata affinché i parlamentari si opponessero al “matrimonio” gay, costituirebbe, pertanto, incitamento a commettere atti di discriminazione penalmente punibili.
Una norma così concepita costituisce una inammissibile violazione del principio della libera manifestazione del pensiero, tutelato dall’art. 21 della Costituzione. Si tratta di un diritto inviolabile e insopprimibile, essenziale per la stessa esistenza di un sistema democratico, non modificabile neppure con il procedimento di revisione costituzionale. Alessandro Pace, tra i più autorevoli costituzionalisti italiani, ha scritto, sulla scia di numerose sentenze della Corte Costituzionale: «Il riconoscimento del diritto di libera manifestazione del pensiero caratterizza la forma di Stato vigente in Italia, costituendo esso la "pietra angolare" e il "cardine" del regime di democrazia garantito dalla Costituzione». Né può addursi, a sostegno della limitazione di tale diritto una pretesa «moralità costituzionale», ipoteticamente diretta a promuovere la pari dignità sociale delle persone, l’uguaglianza dei sessi o dei “generi”, il rifiuto della violenza.
Non si può infatti confondere il compito di promozione dei valori suddetti, che la Costituzione pone a carico delle istituzioni pubbliche, con un limite alla libertà di pensiero, che produrrebbe la funzionalizzazione autoritaria di un diritto fondamentale nella sfera più delicata dei convincimenti etici. Né si può risolvere il problema richiedendo la previsione di una causa di giustificazione speciale, quasi una obiezione di coscienza, a favore di coloro che ritengono le pratiche omosessuali contrarie alla natura metafisica, psicologica e biologica dell’uomo. Il punto è ben più grave. La proposta di legge costituisce la via per l’omologazione autoritaria della morale, facendo del relativismo etico un parametro legislativo incontestabile. Non è in gioco, infatti, soltanto la libertà di esprimere giudizi critici sulle pratiche omosessuali, bensì, più radicalmente, la libertà di manifestare il proprio pensiero contro la dittatura del relativismo, che vorrebbe l’equiparazione indistinta di tutte le pratiche sessuali, oggi dell’omosessualità, domani delle pratiche sadistiche e masochistiche e, infine, forse, della bestialità e di altre pratiche oggi ancora ritenute inaccettabili.
Coloro che propongono la legge sono consapevoli del suo significato epocale. Parlano, infatti, di norma a carattere simbolico. Lo ha detto Scalfarotto il 6 giugno scorso. Secondo lui, è questo: «Uno di quei casi in cui la norma penale ha un effetto simbolico e contribuisce a costruire la modernità di un paese e la cultura di una comunità».
Con le norme cosiddette simboliche si costruisce autoritariamente la morale attraverso la legge. Nel caso, lo scopo è rendere impossibile, attraverso la minaccia penale, ogni critica al modello relativistico di vita. Nella precedente legislatura, sentito come esperto in sede di Commissione Giustizia della Camera, avevo espresso alcune gravi perplessità sull’analoga proposta di legge pendente in Parlamento nel 2009 (la proposta fu poi accantonata perché la grande maggioranza dell’Aula la dichiarò incostituzionale). Rilevando il carattere ideologico della norma, avevo posto in luce che gli atti di discriminazione motivati dall’odio contro l’orientamento sessuale sono già puniti adeguatamente nella legislazione attuale, grazie all’aggravante dei motivi abietti. L’on. Scalfarotto, falsificando i dati, sostiene ora che l’aggravante da me indicata sarebbe stata quella dei «futili motivi», traendone spunto per definire «bizzarra» la mia obiezione alla pretesa esigenza di introdurre una nuova norma punitiva. In realtà, l’aggravante del carattere abietto dei motivi è lo strumento giuridico più congruo per stigmatizzare l’odiosità del comportamento di chi offende altri per via dell’orientamento sessuale: i motivi abietti, invero, sono quelli turpi e ignobili, espressione di un sentimento spregevole, che rivela un grado tale di perversità da destare ripugnanza al senso di umanità.
Non in tutti i paesi europei, peraltro, esistono norme del tipo di quelle di cui si propone l’introduzione. Nella Repubblica Federale tedesca il § 130 del codice punisce i comportamenti, idonei a pregiudicare la pace sociale, di coloro che istigano all’odio e alla violenza contro parti della popolazione ovvero che aggrediscono la dignità dell’uomo, calunniandolo o disprezzandolo, nonché i comportamenti di coloro che pubblicano scritti aventi le medesime caratteristiche. Nulla, nel modo più assoluto, v’è, nel codice germanico, di simile a ciò che si vorrebbe introdurre nel codice italiano.
La proposta di legge sull’omofobia, pertanto, non merita di entrare nel nostro ordinamento. Opporvisi non è una battaglia di retroguardia, tesa a garantire chissà quale privilegio o quale ingiustificata impunità. Ogni violenza, come ogni istigazione alla violenza, anche quella per motivi di orientamento sessuale, è già punita dal codice, con pene più gravi di quella comune, perché abietta e spregevole. L’opposizione alla legge va intesa come tutela della libertà di espressione del pensiero, fondamento di tutte le libertà civili nel quadro costituzionale vigente.
 

(Fonte: Mauro Ronco, Professore ordinario di Diritto Penale nell’Università di Padova, in Gianluca Zappa, Facebook, 9 luglio 2013)

 

giovedì 4 luglio 2013

Così la Cassazione istituzionalizza la religione dei “senza Dio”

È passata quasi sotto silenzio, come una notizia di minor conto. Ma di minor conto non è. Anzi, per molti versi è ben più importante dei fiumi di parole ogni giorno spesi dai media per voci di corridoio, gossip e paparazzate. Le sezioni unite civili della Corte di Cassazione hanno depositato una sentenza, che stabilisce come «anche le associazioni atee e agnostiche debbano ricevere dal governo la stessa tutela e gli stessi diritti riconosciuti dall’art. 8 della Costituzione alle confessioni diverse da quella cattolica, mettendo al bando la discriminazione tra le fedi acattoliche».
Dando torto così al ricorso del governo Monti, teso invece ad escludere intese con l’Uaar, l’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti. Ergo: la questione torna al Tar, che dovrà pronunciarsi sull’argomento. Quale la portata rivoluzionaria di tale verdetto? Innanzi tutto, rappresenta un pericoloso precedente, che interviene chirurgicamente sull’immaginario collettivo, introducendo in modo forzato ed indiscriminato un “pluralismo confessionale e culturale”, ch’è di fatto sincretismo di massa, più simile ad un mercato religioso che all’effettiva tutela delle minoranze.
Qui non si stanno proteggendo diritti calpestati, si sta banalizzando la sfera spirituale, degradandola riduttivisticamente al ruolo di semplice “centro commerciale” della fede, dove ognuno possa comprare quel che gli pare. A prescindere dal ruolo storico, dalle basi teologiche, filosofiche, culturali ed artistiche che ogni credo in quanto tale possa avere o non avere nella storia di un popolo, di un Continente, di ogni anima. Che, ad esempio, l’Europa delle Cattedrali con buona pace di illuministi e illuminati abbia le proprie radici in secoli di Cristianesimo non importa più nulla, anzi conta tanto quanto gli ultimi arrivati, quand’anche ininfluenti sul tessuto sociale e culturale contemporaneo.
Non solo: questa sentenza introduce una pericolosa destrutturalizzazione del sacro, intervenendo in una sfera, quella religiosa, che non dovrebbe essere codificata per legge, appartenendo all’ambito delle coscienze e ad una Tradizione, nel caso della Chiesa Cattolica, ultrabimillenaria. Qualcuno deve pur spiegare a confessioni dotate di una precisa liturgia, storicamente fondata, di una chiara gerarchia, territorialmente diffusa, di un diritto ecclesiastico, specificamente normato, come esse possano essere equiparate ad associazioni prive di una precisa configurazione, di una connotazione chiara e di una ritualità precisa, spesso anche di un’autorità riconosciuta.
Chi celebrerà i matrimoni tra atei? Che sacerdoti saranno abilitati a presiederli? Secondo quale cerimonia? Appare questo il grimaldello, con cui scalzare ed annientare anche ogni differenza di fatto tra il concetto di “religione” e quello di “setta”, finora scientificamente distinte e definite, anche per trarne conseguenze importanti sul piano del diritto: non a caso la Chiesa Cattolica fonda i propri rapporti con lo Stato Italiano sulla scorta di un preciso Concordato. Di cui l’Uaar chiede l’abolizione, contraddicendosi: da una parte spara a zero sul Concordato, dall’altro esulta per una sentenza della Cassazione, che di fatto introduce per tutti anche per loro – la  necessità di un riconoscimento istituzionale da parte dello Stato.
V’è poi un non indifferente risvolto anche di carattere economico con la prospettiva, alla luce di un simile pronunciamento, di poter, anzi dover estendere la distribuzione dell’8 per mille a chiunque, indiscriminatamente, prescindendo da qualsiasi credenziale, qualifica o attributo.
Non risulta che l’Uaar sia mai stato discriminato in alcun modo, penalizzato, sanzionato, emarginato per le proprie idee, inibito nella libertà d’espressione: dunque, salutare la sentenza della Cassazione quale riconoscimento dell’uguaglianza di tutti i cittadini, «indipendentemente dalle loro opinioni in materia religiosa», risulta un insulto a quei credenti, che ogni giorno nel mondo pagano la propria fede con la vita o con l’emarginazione sociale, un insulto alla Chiesa, quella vera, delle catacombe.
Anche fatti come questo confermano la verità delle parole di Gilbert Keith Chesterton, secondo cui «chi non crede in Dio non è vero che non crede in niente, perché comincia a credere a tutto». Ma probabilmente nemmeno Chesterton avrebbe mai immaginato che anche questo “tutto” potesse un giorno nell’Italia, che ospita il cuore della Cristianità, vedersi attribuire le stesse credenziali, gli stessi diritti normativi e la stessa patente di affidabilità della Fede Cattolica.


(Fonte: Mauro Faverzani, Corrispondenza Romana, 3 luglio 2013)

 

Autopsia di una Chiesa suicida: sofferta analisi di un prete innamorato di Dio e della Chiesa.

Mi è capitato di leggere sul web, qualche tempo fa, un lungo sfogo postato dal sacerdote cattolico don Ariel S. Levi di Gualdo. Gli spunti nel suo cahier de doléance erano tanti e tutti ben documentati; per cui non potendomene occupare immediatamente, l’ho accantonato per riprenderlo in mano in questi giorni di maggior tranquillità. Ritengo pertanto doveroso dare spazio a questo “grido di dolore” di un prete “vero”, pur non condividendo in toto le sue “colorite” espressioni nei confronti del Presidente della Cei, dei vescovi italiani e degli officianti presenti al rito. L’occasione per la sua filippica gli è stata offerta dal contesto “liturgico” inspiegabile e, per certi versi, difficilmente difendibile, verificatosi nella cattedrale di Genova durante le solenni esequie del “prete” don Andrea Gallo (parce sepulto), presiedute appunto da Sua Eminenza il Cardinale Angelo Bagnasco:

«Il 22 maggio, ricevendo notizia della morte del presbitero genovese Andrea Gallo, scrivendo su un pubblico forum di discussione, informai amici e conoscenti che il giorno dopo avrei celebrato una Santa Messa di suffragio per lui, senza omettere di indicarlo appresso come una autentica vergogna del collegio sacerdotale.
Andrea Gallo ha trascorso la vita a sposare e sostenere tutto ciò che è in aperto conflitto con la teologia, la morale e la dottrina sociale della Chiesa, ma soprattutto in aperto conflitto col Vangelo. Che egli abbia assistito i poveri e i disagiati, non fa di lui né un vero cristiano né un vero annunciatore del Vangelo. Se difatti così fosse, ogni filantropo ateo potrebbe costituire un modello di cristiano ideale, o come avrebbe detto quell’altro intoccabile seminatore di confusione di Karl Rahner: un “cristiano anonimo”[cfr. Giovanni Cavalcoli o.p. qui].
Alla santità e alla saggezza del padre della Rerum Novarum, il Sommo Pontefice Leone XIII che dette con essa vita alla Dottrina Sociale della Chiesa [vedere qui], Andrea Gallo ha preferito Hegel e Marx. Tutto ciò che la Chiesa dichiarava moralmente illecito lui lo dichiarava lecito, sempre e di rigore con critiche per nulla larvate, mirate non verso certe note aberrazioni dei clericali e del clericalismo, ma con critiche spesso accese e distruttive verso il magistero della Chiesa e dei suoi Sommi Pontefici, la dottrina e l’etica cattolica [vedere qui, qui, qui, qui, qui, qui, qui ecc..]. È stato un elemento di scandalo e soprattutto di divisione il povero Andrea Gallo, basti pensare quando al termine di una Santa Messa cantò “Bella Ciao” sventolando un fazzoletto rosso [ vedere qui].
Per noi preti non esistono fascisti e comunisti ma solo uomini e figli di dio; come sacerdoti dobbiamo accogliere tutti coloro che intendono veramente accogliere Cristo, cosa che molti nostri confratelli hanno fatto in periodi drammatici della nostra storia patria italiana. Molti preti hanno accolto — alcuni pagando persino con la vita — l’accoglienza e la protezione data ai partigiani rossi mossi da ideali comunisti e ai partigiani bianchi d’ispirazione cattolico-popolare e liberale. Abbiamo accolto e nascosto i giovani socialisti ricercati dalla polizia fascista direttamente dentro il palazzo di San Giovanni in Laterano, sede del Vescovo di Roma. Allo stesso modo abbiamo accolto i giovani fascisti e i giovani della Repubblica di Salò, quando all’apertura dei conti rischiavano il massacro da parte di coloro che per vent’anni avevano subìto le angherie del regime fascista. Per i santi preti che grazie a Dio l’Italia ha conosciuto in anni purtroppo ormai lontani, erano da proteggere dall’ira i ventenni manganellati dai fascisti e i ventenni diventati repubblichini di Salò che alla caduta del regime e dopo l’uccisione di Benito Mussolini rischiavano più o meno analoga fine.
Questo è il prete, questo è il sacerdozio. Non dovrei spiegarlo io al Presidente dei Vescovi d’Italia, Mons. Bagnasco, che noi siamo servi istituiti a servizio della Chiesa di Cristo e dell’uomo, di ogni uomo, per la salvezza dell’uomo.
Il presbitero Andrea Gallo è stato un paradigma di prete ideologizzato a servizio dell’ideologia, che per propria natura è escludente; che non guarda all’uomo ma al “credo” politico al quale appartiene o dice di appartenere l’uomo. E avere usato il pretesto del Vangelo per simili scopi, è di per sé cosa malvagia e perversa. Nonostante ciò, le autorità ecclesiastiche hanno scelto di cedere all’immagine mediatica e di soprassedere su tutto questo, camuffandosi dietro al dito medio di una non meglio precisata misericordia e carità.
Della verità noi siamo servi e non padroni: «Tu non possiedi la Verità, è la Verità che possiede te» [Cfr. S. Tommaso, De Veritate, 1257]. Sia chiaro: la grazia, la misericordia e il perdono di Dio costituiscono tutti assieme un mistero che valica di molto ogni giudizio umano, che di rigore non va dato perché non spetta all’uomo giudicare la coscienza dell’uomo. Compito nostro non è condannare con l’arrogante spirito di chi si sostituisce al giudizio di Dio pensando di poter leggere dentro l’intimo delle coscienze altrui. Compito e dovere nostro è indicare sempre con decisa amorevolezza al Popolo di Dio ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ciò che è lecito e ciò che invece è disordinato o intrinsecamente malvagio. La Chiesa mater et magistra ci indica e ci insegna da sempre in che modo si può giungere alla beatitudine celeste e in qual altro si può correre il serio rischio di compromettere l’eterna salute della nostra anima. Perché Dio è «Lento all’ira e grande nell’amore» [Salmo 144 (145)]. Essere lenti all’ira non vuol dire però essere privi di ira divina, come narra il racconto della distruzione di Sodoma e Gomorra [Gn 18,16-22], così particolarmente azzeccato nello specifico contesto in questione.
Nella sua vita pubblica Andrea Gallo ha vissuto, predicato e ubbidito la Chiesa sua sposa e i vescovi che reggono le membra del Corpo Mistico del Cristo, in modo conforme al Vangelo? Il tutto nella gravosa misura alla quale sono chiamati in responsabilità coloro che partecipano non solo al sacerdozio regale di Cristo come battezzati, ma coloro che sono chiamati col sacro ordine a partecipare per mistero di grazia al sacerdozio ministeriale di Cristo? Era chiaro — od era stato in qualche modo chiarito ad Andrea Gallo —, che noi sacerdoti abbiamo una dignità superiore a quella degli Angeli [Cfr S. Tommaso, cf. 3 p., q. 22, art. 1] essendo chiamati a celebrare il Sacrificio Eucaristico, memoriale vivo e santo di Dio incarnato, morto e risorto? Oltre alle opere dei sociologi comunisti, Andrea Gallo ha letto qualche libro di teologia o di patristica in vita sua? A parte l’Arcivescovo di Genova Angelo Bagnasco e i suoi eminenti predecessori Dionigi Tettamanzi e Tarcisio Bertone, questo prete ha avuto qualche vera e autorevole figura episcopale e qualche buon formatore che gli spiegasse con le parole di San Gregorio Nazianzeno che «Il sacerdozio è venerato anche dagli Angeli»? [cfr. Sermo 26 de Sanct. Petr.]. E del sacerdozio, che a lui come a tutti noi è stato dato solo in comodato d’uso, non per nostro merito ma per servire la Chiesa e il Popolo di Dio, nel concreto, che cosa ne ha fatto Andrea Gallo, sotto gli occhi di tutti, pubblicamente, per anni e anni?
Di questo prete che ha trascorso la propria esistenza in modo alquanto confuso, tutti abbiamo sempre vivo il ricordo umiliante e imbarazzante di un ideologo e di un demagogo che ha concorso a dividere anziché unire, facendo uso distorto del Vangelo per supportare la propria ideologia marxista [vedere qui] , anziché usare il Vangelo per liberare se stesso e il Popolo di Dio dalle devastazioni che da sempre hanno prodotto le ideologie. Cosa questa che lui, nato nel 1928, quindi protagonista del Novecento, avrebbe dovuto sapere meglio di chiunque altro, circa i prezzi pagati dal mondo per le ideologie sia di destra che di sinistra.
Non sono mai stato scandalizzato dalle stravaganze di Andrea Gallo, anche perché nel nostro clero si cela di più e di peggio. A scandalizzarmi è stato invece il suo vescovo e i suoi predecessori  che non hanno mai preso alcun provvedimento verso di lui. Mai sono state applicate le sanzioni canoniche a carico di questo chierico che i canoni li ha violati tutti, assieme alle regole più basilari del cristiano e sacerdotale buon comportamento. E parlando del suo vescovo, non parliamo di un vescovo qualsiasi, ma del presidente dei Vescovi d’Italia. Pertanto, il vero errore — invero gravissimo — lo ha commesso l’Arcivescovo Metropolita di Genova, al quale tempo fa inviai una lettera per la quale non ho mai ricevuto risposta. Capisco che per essere degnati di attenzione da un cardinale, di questi tempi bisogna essere un rabbino ebreo o un imam mussulmano, perché in tal caso le risposte giungono subito, amabili, ecumeniche e interreligiose.
Il senso di quella lettera è più che comprensibile: quando l’autorità è completamente priva di quella evangelica e cattolica autorevolezza che di fatto la priva di ogni credibilità, non resta altro che la pacata e rispettosa presa di giro. Quelle prese di giro alla San Filippo Neri, per intendersi, profondamente cattoliche e rammaricate, quanto più sono ironiche nella forma.
La vera e profonda vergogna sta nel fatto che l’Arcivescovo Metropolita di Genova si sia esposto e abbia esposto la Chiesa italiana al ridicolo, dato il particolare ufficio da lui ricoperto nell’assemblea dei Vescovi d’Italia. Il vergognoso e indignitoso teatrino di quei funerali ha offeso la Chiesa, la sua dottrina cattolica e la dignità dei veri credenti. Una sconcia passerella di gay, transessuali, anticlericali, comunisti irriducibili ideologizzati sino al midollo e aggressivi scapestrati dei centri sociali che hanno egemonizzato la triste scena, cosa peraltro facilmente prevedibile e che proprio per questo andava prudentemente evitata. Una sfilata di tutto ciò che non è, ma che soprattutto esige, in modo deciso e spesso anche violento, di non essere cattolico. “Stupendo” il commiato del cabarettista ebreo Moni Ovadia, agnostico dichiarato e orgoglioso che non crede nella religione propria e tanto meno in quella degli altri. Un Ovadia affetto da evidenti corti circuiti psicoanalitici dati dal fatto che da una parte si proclama agnostico e dall’altra mangia cibo kasher, anzi glatt kosher. Grottesco oltre ogni limite, quando riferendosi al defunto ci ha rassicurato: «Sono ebreo e agnostico ma secondo me il Gallo risorge» [vedere qui]. Da questo guitto che gioca a fare l’aschenazita e che per i rabbini ortodossi è come fumo agli occhi, mentre per diversi amici miei che sono ebrei osservanti costituisce da sempre pessimo esempio di israelita che cavalcando la moda ebraica ha trovato solo modo per fare soldi, ci siamo dovuti sorbire anche una “lezione” di dogmatica trinitaria: «Andrea» — ha detto l’Ovadia con demenziale serietà — «riusciva a essere uno e trino» [vedere qui  e qui].
La vera vergogna [però] è stato tutto ciò che di ovattato, di untuoso e di cosparso d’olio di vaselina hanno scritto l’Osservatore Romano diretto da Giovanni Maria Vian [vedere qui] e l’Avvenire diretto da Marco Tarquinio, che sul giornale dei Vescovi d’Italia lascia pontificare quel piccolo eresiarca di Enzo Bianchi [vedere qui], impendendo al tempo stesso a un nostro stimatissimo confratello, l’eminente teologo e filosofo metafisico Antonio Livi [vedere qui], di contraddirlo pacatamente e d’indicare l’ovvio: quella di Enzo Bianchi non è teologia cattolica, anzi può essere ed è — aggiungo io — autentico veleno, specie per le giovani menti. In particolare per coloro che si stanno formando al sacerdozio e che solo certi nostri vescovi ormai fuori dalla grazia di Dio possono mandare a fare i ritiri spirituali nella comunità cattoprotestante di Bose prima di impartire loro i sacri ordini. Per non parlare poi dello scivoloso commiato di Radio Vaticana [vedere qui e qui]. Siamo davvero al capovolgimento …
… questa somma di vergogne si edificano su una tragica realtà: viviamo in una Chiesa ridotta ormai alla totale inversione, dove il bene diventa male e il male bene, l’eterodossia ortodossia e l’ortodossia eterodossia da condannare e da perseguitare. Per questo assieme alla mia lettera del 18 aprile rimasta senza risposta, inviai in omaggio ad Angelo Bagnasco anche una copia del mio penultimo libro E Satana si fece Trino [vedere qui], dove illustro e analizzo questo processo di inversione ecclesiale. Sono certo e fiducioso che quando Sua Eminenza avrà imparato a leggere, quel libro forse lo leggerà. Quando avrà imparato a scrivere, mi risponderà come si conviene a un gentiluomo detto anche “Principe della Chiesa”. Infatti, lo spirito principesco, io non lo misuro sulla base dei titoli o di certe dignità onorifiche, per le quali sempre più preti e vescovi in carriera si venderebbero l’anima al diavolo. Lo misuro in base alla buona educazione e al devoto servizio reso alla Chiesa, in nome del quale spesso bisogna avere la forza di esibire i virili attributi per andare contro corrente e per prendersi la dolorosa responsabilità di non piacere alle masse. Per propria natura le masse sono quasi sempre brutte e irragionevoli, non piacque ad esse neppure il Signore Gesù. Tanto che alla domanda rivolta da Ponzio Pilato alla folla su chi dei due liberare, si levò deciso un terribile grido: «Libera Barabba!».
Come sacerdote che vive la liturgia come un sacro mistero che appartiene alla Chiesa e non certo a me che ne sono solo servo devoto, non padrone o primo attore, ho vissuto come un vero colpo basso quella processione filmata di preti “trasgressivi … fuori dal coro … disobbedienti … progressivi … arcobalenisti … filocomunisti …” capitanati da quell’altro notorio squallore sociologico-demagogico di Luigi Ciotti [vedere qui], il cui commiato durante la sacra celebrazione è stato — come suo uso — una gazzarra di sociologia politica [vedere qui] priva di teologia, priva di dottrina, intrisa di buoni pensieri sociali, ai quali Cristo e il Vangelo nelle parole di quest’altro arruffapopoli, fanno da sempre secondario contorno, come cornice di tutt’altro quadro. Che tristezza quelle sciarpette multicolore dei preti pacifondisti, pronti sempre a fare a pezzi i loro confratelli legati alla sana ortodossia cattolica, indossate sopra ai camici al posto di sobrie e consone stole viola, come prevede il rito e la liturgia delle esequie funebri. Che squallore, quell’altra indecente vergogna del sacerdozio di Vitaliano Della Sala, prete filo-omosessualista formato no global [vedere qui e qui] , che ha dichiarato: «Quella di Don Gallo è la vera Chiesa» [vedere qui]. Quanta ignoranza cristologica e teologica, quanta pubblica eresia tollerata dal nostro debole e pavido episcopato italiano! Poveri preti fallimentari fabbricanti di fallimenti e di falliti ecclesiali, grotteschi residuati sessantottini da discarica appartenenti alla “religione” di un non meglio precisato “sociale”, alla “religione” dell’ideologia che nel primo come nel secondo caso finisce spesso per essere una religione senza Cristo Dio, che si serve all’occorrenza di Cristo ma, beninteso: come uomo sociale, come “grande rivoluzionario liberatore”, non come il Verbo Incarnato proclamato e annunciato nel prologo giovanneo [Cfr. Gv. 1,1].
Non aveva l’Arcivescovo Metropolita di Genova un vicario generale, un vicario episcopale o un presidente del capitolo metropolitano al quale far celebrare quel funerale al posto del presidente dei Vescovi d’Italia, semmai nella chiesa di appartenenza anziché nella chiesa cattedrale?
Io vivo nel mondo del reale, al contrario del Cardinale Angelo Bagnasco che vive nel proprio palazzo feudale circondato da devoti e compiacenti segretari e collaboratori ai quali non passerebbe mai per la mente di dire in coscienza al proprio potente prelato: “Ritengo che questo sia sbagliato, ma detto ciò decida come meglio crede perché è Lei l’autorità episcopale e, a meno che non mi comandi cose contrarie alla dottrina e alla morale della Chiesa, io che non la penso come lei, proprio per questo sarò il primo a ubbidirle”.
Diversamente dal Cardinale Angelo Bagnasco io non mi sposto con la scorta perché qualche burlone ha scritto nottetempo sui muri “Morte al Padre Ariel”. Io ho accolto e accolgo tutti, ma lo faccio in modo pastorale, paterno, evangelico e soprattutto cattolico, sempre e di rigore nel silenzio e nel nascondimento. Nel mio confessionale sono giunte decine di omosessuali afflitti e, come di recente ho dichiarato in una intervista a una rivista cattolica [vedere qui] nessuno di loro ne è mai uscito senza assoluzione. Quando celebravo il Sacrificio Eucaristico in una basilica romana, ogni domenica sera, in fondo a quel maestoso tempio, quasi nascosti un gruppo di transessuali sudamericani partecipava sempre alla liturgia eucaristica. Non osavano presentarsi a ricevere il Santissimo Corpo di Cristo poiché consapevoli della vita che vivevano e che avrebbero seguitato a vivere, ma partecipavano con sincera devozione. Poi, dopo la celebrazione, venivano da me a chiedermi la benedizione. Io tracciavo sempre sulla loro fronte un segno di croce col pollice destro e poi li abbracciavo e li baciavo a uno a uno.
Vorrei far notare all’Arcivescovo Metropolita di Genova la sostanziale differenza che corre tra queste anime sofferenti e combattute, che spesso mantengono col loro lavoro di prostituzione intere famiglie nei propri paesi di origine, coscienti che quel loro vivere non è bene ed è molto sbagliato; e l’arrogante trans Vladimiro Guadagno, detto Luxuria, ex politico, ideologo rasente l’integralismo, fiero e orgoglioso e, soprattutto, per nulla contristato dal proprio stile di vita …
… È stata [quindi] cosa imprudente e pure vergognosa l’Eucaristia amministrata dal Presidente dei Vescovi d’Italia al transessuale Luxuria durante la Messa funebre di Andrea Gallo [vedere qui e qui]. Semmai ciò non fosse stato sufficiente, l’Arcivescovo Metropolita di Genova ha concesso a questa creatura di prendere la parola all’interno della sua chiesa cattedrale dall’ambone da dove si amministra la Mensa della Parola di Dio, per fare a tutti noi questo predicozzo: «Grazie per averci aperto le porte della tua Chiesa e del tuo cuore. Grazie per averci dimostrato che in una Chiesa comprensiva, inclusiva, che non caccia via nessuno è possibile. Grazie per averci fatto sentire noi tutte creature transgender figlie di Dio amate da Dio. Noi ci auguriamo che tanti seguano il tuo esempio e ci auguriamo anche che qualcuno ti chieda scusa, Don Gallo» [vedere qui].
Due parole sulla accoglienza, posto che queste persone, notoriamente strapiene di un ego narcisista, disordinato e orgoglioso, aggressive oltre ogni umano limite verso chiunque osi non pensarla come loro, pare non abbiano chiaro che essa procede da Cristo e che la vera Chiesa è quella di Cristo, non certo quella “di base … di piazza … alternativa … disobbediente … arcobalenista” di Andrea Gallo. Il problema è che a questi ideologi del transgender non interessa che la Chiesa apra le porte. Loro vogliono che la Chiesa apra solo per poterla infiltrare da dentro e distruggerla con seme venefico. Ovviamente in nome di una strana carità evangelica e di una non meglio precisata accoglienza e misericordia. È consapevole Luxuria cosa voglia dire e che cosa comporti in senso ecclesiologico ed escatologico aprire le porte a Cristo per essere accolti da Cristo e dalla Chiesa suo corpo mistico? Comporta anzitutto accogliere Cristo e tutte le regole di vita contenute nel suo messaggio di salvezza, non certo pretendere di sovvertire le regole di Dio per andare incontro ai capricci della cultura gender e ai gravi disordini umani e morali di certi soggetti, che non reclamano affatto accoglienza, perché nei concreti fatti vogliono solo sfondare le porte per prendere possesso della casa cristiana alle loro condizioni, in massimo spregio a quelle che sono le regole dettate dalla divina rivelazione.
È consapevole Luxuria che la Chiesa deve sì accogliere, ma al tempo stesso deve evitare che lupi rapaci facciano irruzione nell’ovile dove il buon pastore dovrebbe custodire e proteggere le pecore che il Signore ha lui affidato? O forse dobbiamo farci distruggere l’ovile e divorare le pecore perché i lupi travestiti da agnelli ci vengono a parlare di accoglienza, invitandoci a prendere esempio dai Gallo, dai Ciotti e dai Dalla Sala che la Chiesa l’hanno così male servita, con tanto di perentorio invito a chiedere scusa fatto da sotto ai nostri altari a chi la Chiesa intende invece proteggerla, il tutto proferito da un alto esponente di coloro che rivendicano il “sacrosanto” diritto a trasformare la Sposa di Cristo in una prostituta, affinché possa corrispondere alla loro desolante immagine e somiglianza da casa di tolleranza transgender?
È consapevole l’Arcivescovo Metropolita di Genova che quel Santissimo Corpo di Cristo da lui amministrato a Vladimiro Guadagno detto Luxuria, noi preti, in devota obbedienza a quanto la Chiesa ci comanda [vedere qui, qui, qui], dobbiamo negarlo a coppie di divorziati risposati?
Forse, a questo punto, al Cardinale Angelo Bagnasco non resta che andare a celebrare un solenne pontificale direttamente al Gay Village con Luxuria che fa da madrina alla manifestazione con tutte le accoglienti transgender travestite da agnellini rosa. Per molte volte Luxuria è stata infatti madrina delle parate del Gay Pride [vedere qui] alle quali ha partecipato col politico e determinato spirito ideologico di chi esige che la Chiesa accolga e apra le porte. E semmai, tutti gli integralisti gay che di prassi mettono in scena pantomime satirico-dissacranti marciando travestiti da suorine vogliose in calze a rete o da vescovi con mitrie color fucsia [vedere qui e qui], l’eminentissimo cardinale potrebbe portarseli dietro come chierichetti. Siamo o non siamo una Chiesa accogliente, includente, caritatevole, misericordiosa? Però, con debita e caritatevole misericordia, anziché nascondere la testa sotto la sabbia come gli struzzi, tra una accoglienza e l’altra si dia uno sguardo a certe ripetute immagini dissacranti del gay pride, per avere idea del tasso di rispetto verso l’altrui fede e l’altrui patrimonio di sacralità che alberga in coloro che pretendono di farti sbattere in galera per omofobia, se solo osi semplicemente non condividere il loro stile di vita, improntato sull’evidente disordine umano e morale.
Tutti quanti sappiamo bene che genere di mestiere svolgeva la pubblica peccatrice pentita e perdonata [Lc, 7, 36-50] che bagnò con le proprie lacrime i piedi del Signore, asciugandoli coi propri capelli e cospargendoli col prezioso olio profumato contenuto nel suo vaso di alabastro. Ma sappiamo anche che dopo quell’incontro e quel pianto sui piedi del Redentore, cambiò mestiere e vita. Non divenne certo paladina e ideologa pre-cristiana dell’associazione delle libere prostitute per la liberalizzazione e la legalizzazione del meretricio nel nome del Cristo risorto accogliente, caritatevole e misericordioso.
Devo proprio invitare io, il Presidente dei Vescovi d’Italia, a leggere bene e con attenzione quel Vangelo di cui egli è supremo maestro in sua qualità di sommo sacerdote?
Assicuro le mie sincere preghiere al Cardinale Angelo Bagnasco, perché temo che assieme all’anima di Andrea Gallo oggi si debba cominciare a pensare di salvare anche quella del suo vescovo, nonché presidente dei Vescovi d’Italia, che tutt’oggi, nel proprio presbiterio, può vantare un’altro celebre, impunito e ahimè intoccabile ideologo: Paolo Farinella [vedere qui].
A tempo e luogo, dobbiamo forse attenderci un altro tripudio di plebaglia da osteria e da pornografico bordello transgender, con rumoroso seguito di giovani spinellari da centro sociale che egemonizzano col pugno chiuso alzato anche la scena dei funerali di quest’altra vergogna del sacerdozio, con la turba ebbra di cieca ideologia che dentro la Casa di Dio rinnova ancora il disumano grido sacrilego: «Barabba … Barabba!», ovviamente in nome di una non meglio precisata accoglienza, carità e misericordia?
Possa Dio perdonare Angelo Bagnasco per il male che ha recato in questo delicato frangente alla Chiesa d’Italia e per l’umiliazione inferta ai devoti sacerdoti di Cristo e alle membra vive sempre più sofferenti del Popolo di Dio».
 

(Fonte: Ariel S. Levi di Gualdo, presbitero cattolico, su Papalepapale.com, maggio 2013)