martedì 22 giugno 2010

Quei preti in carriera che non piacciono a Benedetto XVI

«Il carrierismo, la ricerca del potere, era più di tanti altri mali, “il male” presente nella chiesa (soprattutto nel clero) che il cardinale Joseph Ratzinger aveva denunciato nelle meditazioni della via crucis del 2005 quando, poche settimane prima di succedere a Giovanni Paolo II, disse: “Quanta sporcizia c’è nella chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui!”.
Su questo tema Benedetto XVI è tornato più volte, ad esempio quando ha detto il 3 febbraio 2010: “Non è forse una tentazione quella della carriera, del potere, una tentazione da cui non sono immuni neppure coloro che hanno un ruolo di animazione e di governo nella Chiesa”.
Il Papa, in modo più potente, ne aveva parlato il 12 settembre del 2009, quando elencò le caratteristiche che non devono mancare nella vita del prete. A un certo punto disse: “Non leghiamo gli uomini a noi; non cerchiamo potere, prestigio, stima per noi stessi. Conduciamo gli uomini verso Gesù Cristo e così verso il Dio vivente. Con ciò li introduciamo nella verità e nella libertà, che deriva dalla verità. La fedeltà è altruismo, e proprio così è liberatrice per il ministro stesso e per quanti gli sono affidati. Sappiamo come le cose nella società civile e, non di rado, anche nella Chiesa soffrono per il fatto che molti di coloro, ai quali è stata conferita una responsabilità, lavorano per se stessi e non per la comunità, per il bene comune”. Leggi qui l’omelia per l’ordinazione episcopale di cinque nuovi sacerdoti.
Oggi, ancora, durante la messa per l’ordinazione presbiterale di 14 nuovi preti, poche ore dopo la notizia che il cardinale Crescenzio Sepe, arcivescovo di Napoli, importante uomo-macchina del pontificato wojtyliano, ex segretario della Congregazione del clero, ex prefetto di Propaganda Fide, viene iscritto nel registro degli indagati a Perugia nell’inchiesta sulle grandi opere, il Papa ha ribadito il concetto di sempre: “Il sacerdozio, non può mai rappresentare un modo per raggiungere la sicurezza nella vita o per conquistarsi una posizione sociale. Chi aspira al sacerdozio per un accrescimento del proprio prestigio personale e del proprio potere ha frainteso alla radice il senso di questo ministero. Chi vuole soprattutto realizzare una propria ambizione, raggiungere un proprio successo sarà sempre schiavo di se stesso e dell’opinione pubblica. Per essere considerato, dovrà adulare; dovrà dire quello che piace alla gente; dovrà adattarsi al mutare delle mode e delle opinioni e, così, si priverà del rapporto vitale con la verità, riducendosi a condannare domani quel che avrà lodato oggi. Un uomo che imposti così la sua vita, un sacerdote che veda in questi termini il proprio ministero, non ama veramente Dio e gli altri, ma solo se stesso e, paradossalmente, finisce per perdere se stesso. Il sacerdozio – ricordiamolo sempre – si fonda sul coraggio di dire sì ad un’altra volontà, nella consapevolezza, da far crescere ogni giorno, che proprio conformandoci alla volontà di Dio, «immersi» in questa volontà, non solo non sarà cancellata la nostra originalità, ma, al contrario, entreremo sempre di più nella verità del nostro essere e del nostro ministero”».
Fin qui l’articolo di Rodari. Ma – per inciso – quello che trovo inconcepibile nei preti, ancor di più che il desiderio del potere, è la brama di arricchimento. Mi sconcerta che ogni qual volta un prete muoia, lascia ai nipoti il vecchio miliardo di lire (una volta) o il milione di euro (adesso). Secondo me un sacerdote – per essere veramente coerente con la propria vocazione – dovrebbe arrivare alla vecchiaia solo con quanto gli assicuri una sopravvivenza dignitosa e al più quel tanto che serva al suo funerale! Altro che eredità ai parenti! Ci si accorge di questa sconvenienza più nei piccoli paesi che nelle grandi città; ma in entrambi i casi fanno comunque pensare lasciti di palazzine, vari appartamenti e di cospicui conti in banca. [ndr]

(Fonte: Blog Palazzo Apostolico, 21 giugno 2010)

Commemorare Saramago?!

Fortuna che esiste una voce libera e diversa come l’Osservatore Romano nel panorama piatto e sconfortante del giornalismo contemporaneo! Una voce, tra l’altro, forte e decisa, che osa giudicare in modo autonomo ed originale rispetto al polically correct imperante.
E’ morto Josè Saramago e tutti giù a scrivere coccodrilli. Un premio Nobel non si discute, non si giudica, non si tocca. E perché no? Perché non metterne in luce le contraddizioni, le viltà, i silenzi colpevoli, le collusioni? E’ proprio questo che ha fatto l’Osservatore Romano. E più che stare ad ironizzare su presunte scomuniche o demonizzazioni, occorrerebbe invece confrontarsi con il contenuto delle critiche.
«E’ stato un uomo e un intellettuale di nessuna ammissione metafisica, fino all'ultimo inchiodato in una sua pervicace fiducia nel materialismo storico, alias marxismo». Un ritratto che va bene per Saramago, ma chissà per quanti altri, devoti di Marx e del suo materialismo, “inchiodati” a quella fede, senza possibilità di scampo.
E questa incrollabile “fiducia” lo ha portato ad un singolare strabismo. Ha condotto, come chissà quanti altri, una feroce guerra alla fede cristiana e alla Chiesa cattolica, occultando le colpe, le responsabilità, le atrocità della propria “chiesa”: «si dichiarava insonne al solo pensiero delle crociate, o dell'inquisizione, dimenticando il ricordo dei gulag, delle purghe, dei genocidi, dei samizdat culturali e religiosi». Brutto vizietto, squallido giochetto che è stato possibile fare, per Saramago e quelli come lui, fino all’89, quando la caduta del muro di Berlino ha sbaragliato il muro di omertà che era calato in Occidente, grazie proprio al prono ossequio di intellettuali alla Saramago che hanno fatto i reggi bastone al comunismo sovietico, impalcandosi ad autorità morali.
Sono andati avanti per decenni a ricordare i mali compiuti dalla Chiesa medievale, omettendo di guardare in faccia e denunciare al mondo intero le atrocità contemporanee che si commettevano nei Paesi sottomessi al giogo dei rossi. Hanno letteralmente costruito ed imposto la leggenda nera di Papa Pio XII e dei suoi colpevoli silenzi, mentre loro erano i primi ad osservare un rigiso e colpevolissimo silenzio. Un populista estremistico come Saramago, “che si era fatto carico del perché del male nel mondo, avrebbe dovuto anzitutto investire del problema tutte le storte strutture umane, da storico-politiche a socio-economiche, invece di saltare al per altro aborrito piano metafisico e incolpare, fin troppo comodamente e a parte ogni altra considerazione, un Dio in cui non aveva mai creduto, per via della Sua onnipotenza, della Sua onniscienza, della Sua onniveggenza". Se la prendeva con l’Onnipotente, e non si azzardava a criticare gli onnipotenti dittatori marxisti che ammazzavano, torturavano, perseguitavano, affamavano la loro gente.
Gli hanno dato il premio Nobel. Aveva tutte le carte in regola per ottenerlo (ce l’aveva anche un “grande intellettuale” come Dario Fo, che riuscì a strapparlo ad un grande della letteratura italiana come Mario Luzi): si era dato la missione di distruggere Dio e in particolar modo Gesù Cristo. E chi si dà da fare in questo senso ha le carte in regola per essere premiato. Scrisse il “Vangelo secondo Gesù”, lanciando una «sfida alla memoria del cristianesimo di cui non si sa cosa salvare se, tra l'altro, Cristo è figlio di un Padre che imperturbato lo manda al sacrificio; che sembra intendersela con Satana più che con gli uomini; che sovrintende l'universo con potestà senza misericordia. E Cristo non sa nulla di Sé se non a un passo dalla croce; e Maria Gli è stata madre occasionale; e Lazzaro è lasciato nella tomba per non destinarlo a morte suppletiva». Roba scottante, pruriginosa. Da Premio Nobel.
La bella stroncatura dell’Osservatore Romano è totale: «Irriverenza a parte, la sterilità logica, prima che teologica, di tali assunti narrativi, non produce la perseguita decostruzione ontologica, ma si ritorce in una faziosità dialettica di tale evidenza da vietargli ogni credibile scopo».
Insomma, un ideologo anti religioso, con una mente “uncinata” da una “destabilizzante banalizzazione del sacro e da un materialismo libertario che quanto più avanzava negli anni tanto più si radicalizzava” Il suo assunto teologico era semplicistico in modo sconfortante: “se Dio è all’origine di tutto, Lui è la causa di ogni effetto e l’effetto di ogni causa".
E bisognerebbe commemorare e glorificare sugli altari della cultura questo illustre signore?

(Fonte: Gianluca Zappa, La Cittadella, 20 giugno 2010)

Per favore, che la giustizia per don Gelmini sia almeno rapida

Don Piero Gelmini ha 85 anni. L'altro giorno è stato rinviato ai giudizio con l'accusa di molestie sessuali a dodici ragazzi della sua comunità. Non conosco don Piero Gelmini e non sto qui neppure a parlare del mare di bene che ha fatto in tanti anni di lavoro e assistenza dei più deboli. Provo a fare solo un discorso ragionevole e chiudo con una considerazione amara. Il discorso ragionevole: secondo l'accusa (cioè: da 12 ragazzi che dicono di essere stati molestati da lui) Gelmini sarebbe un'autentica furia sessuale: per ore e ore (anche sei ore nel corso di una giornata) avrebbe voluto soddisfare i suoi istinti. Non 40 anni fa (e al limite ci potrebbe stare) ma solo qualche anno, quando don Pierino era già arrivato a 80 anni suonati. Metteteci pure il viagra e tutto quello che volete, ma secondo voi un 80enne riesce ancora ad essere una macchina da sesso?Considerazione amara finale: il processo (di primo grado) ci sarà l'anno prossimo, quando don Gelmini avrà 86 anni. Poi ci sarà il prevedibile Appello, quindi la Cassazione e magari si tornerà di nuovo indietro. Auguro a don Gelmini altri 100 anni di vita, ma temo che andrà a finire diversamente: Don Pierino arriverà al termine dei suoi giorni con questa macchia, magari sarà riabilitato da morto. Posso scrivere che non mi sembra giusto?

(Fonte: www.massimopandolfi.it, 19 giugno 2010)

È esistita una papessa Giovanna?

È vero, come racconta un film, che nella Chiesa c’è stata una donna diventata papa e che la cosa è stata nascosta per evitare lo scandalo?
Una volta tanto lo studioso può rispondere con chiarezza e senza tanti accorgimenti verbali: la papessa Giovanna non è mai esistita; sulla cattedra di Pietro non è mai salita una donna, come lascerebbe intendere un film in circolazione nelle sale cinematografiche.
Lo storico, tuttavia, può aiutare a comprendere come è nata questa leggenda dai tratti popolari e carnevaleschi. Verso la metà del Duecento si svilupparono a Metz, in Francia, delle accese dispute tra i sostenitori del potere imperiale e i fautori della supremazia del papa, una versione transalpina dei nostri guelfi e ghibellini. Tra questi ultimi, peraltro, non mancavano i religiosi e fu proprio il domenicano Jean de Mailly a redigere la prima versione scritta di una storiella che tra la gente circolava già da alcuni decenni.
Di origine inglese, Giovanna era una giovane vissuta circa 400 anni prima in epoca carolingia. Innamorata di una coetaneo dedito agli studi, si travestì da uomo per seguire il suo amore. Entrata in un mondo esclusivamente maschile, Giovanna si trovò a suo agio e divenne una studiosa di successo. Sempre in compagnia del suo amante fu ad Atene e di lì i due si trasferirono a Roma dove Giovanna venne accolta nella curia romana.
Ancora qualche anno e la donna venne eletta papa con il nome di Giovanni l’inglese. Il suo pontificato sarebbe durato solo due anni, dall’853 all’855. Anche da papa, difatti, la donna non riusciva a rinunciare al suo amore. Restò incinta e durante una processione da san Pietro al Laterano, fece deviare il corteo verso san Clemente per poter partorire. I fedeli, tuttavia, si accorsero della manovra e inferociti uccisero la donna.
La leggenda, nella quale confluiscono elementi tipici di una società rigidamente maschilista, venne fatta circolare con evidente intento polemico verso il papato. Un altro domenicano, Martino di Polonia, la riprese verso il 1280 e le diede una forma più articolata. Nel secolo successivo furono, invece, i Francescani spirituali a diffondere la storia della papessa Giovanna in segno di protesta verso Giovanni XXII (1316-1334), il papa che li condannò ripetutamente.
La vicenda, tuttavia, sembrava talmente incredibile che a lungo Roma non si preoccupò di confutarla. Nei secoli successivi, però, la storia di Giovanna venne ripresa da Boccaccio, poi se ne impadronirono i luterani che la raccontavano come la prova più evidente della corruzione del papato, immagine di Roma prostituta al pari dell’antica Babilonia.
Solo a questo punto gli studiosi cattolici si accorsero della forza eversiva del racconto e si preoccuparono di contestarlo. Paradossalmente furono degli studiosi calvinisti a dimostrare in modo inequivocabile, già verso la fine del Seicento, la mancanza di fondamento della vicenda di Giovanna. Espulsa dalla storia, la papessa ha continuato a vivere nelle polemiche anticattoliche e nella letteratura anticlericale dei secoli successivi. Ora approda al cinema sulla scia di un becero pregiudizio anticattolico che negli ultimi tempi risulta essere facile e molto redditizio.

(Fonte: Elio Guerriero, Famiglia Cristiana, 18 giugno 2010)

Propaganda Fide: il Papa vuole vederci chiaro

«Chi cerca il sacerdozio per un accrescimento del proprio prestigio personale e del proprio potere ha frainteso alla radice il senso di questo ministero». Benedetto XVI pronuncia queste parole nell’omelia della Messa di ieri, durante la quale ha ordinato 14 nuovi sacerdoti. E sono parole che risuonano ancora più forti, il giorno dopo la notizia dell’avviso di garanzia al cardinale di Napoli Crescenzio Sepe. Sono momenti difficili all’interno di Propaganda Fide: raccontano che le riunioni si sono susseguite, e che si sono anche intensificate dopo l’incontro del Papa con il Prefetto della Congregazione Ivan Dìas, lo scorso venerdì. Sarebbe stata presa in considerazione anche l’apertura di un’inchiesta interna.
Sulla vicenda, e - sempre stando ai rumors - un cardinale starebbe facendo pressione perché si dia un riscontro positivo alla rogatoria internazionale sul conto Ior di Balducci. Se questo dovesse accadere, si tratterebbe di un evento senza precedenti.
La situazione, in realtà, è monitorata da tempo: Dìas fu chiamato alla Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli per avviare l'operazione trasparenza, e la Segreteria di Stato è sempre stata informata sia della situazione della Congregazione, sia - quando questo si è aperto - dell'andamento del processo di Perugia. L'avviso di garanzia a Sepe era, a detta di alcuni, addirittura atteso. D'altronde, il nome del cardinale, e del suo consultore Francesco Silvano, era stato messo in ballo da Bertolaso. Sepe, da parte sua, si dice tranquillo: d'altronde, è nelle prerogative del Prefetto di Propaganda Fide (incarico che ha ricoperto fino al 2006) di assegnare le case della Congregazione a chi vuole e al prezzo che vuole.
Anche la Santa Sede è collaborativa: padre Lombardi, direttore della Sala Stampa Vaticana, auspica che «la situazione venga chiarita pienamente e rapidamente», tenendo conto «degli aspetti procedurali e dei profili giurisdizionali impliciti nei corretti rapporti fra Santa Sede e Italia, che siano eventualmente connessi a questa vicenda». Ci sarà da aspettare un mese, un mese e mezzo per fare chiarezza. In questo periodo, Sepe lavorerà in contatto strettissimo con la Segreteria di Stato: non solo per definire la posizione e la linea da seguire, ma anche per coordinare la comunicazione della vicenda.
Se dovesse risultare estraneo ad ogni addebito, Sepe conseguirebbe una importante vittoria anche sul piano personale. Una vittoria che potrebbe essere spesa per dare nuovo lustro ad una carriera che appariva in irresistibile ascesa fino a quando Benedetto XVI lo ha designato arcivescovo di Napoli. Certo è che il Papa vuole vederci chiaro sugli affari della cricca: in poco tempo, ha già incontrato due volte Dìas, il dossier è sul suo tavolo, e soprattutto sono in analisi le connessioni d'affari «pericolose».
È forse anche in questa ottica che si può leggere il richiamo del Papa ai sacerdoti ieri.
No al carrierismo, perché «un sacerdote - dice - che veda in questi termini il proprio ministero, non ama veramente Dio e gli altri, ma solo se stesso e, paradossalmente, finisce per perdere se stesso, perché per essere considerato, dovrà adulare; dovrà dire quello che piace alla gente; dovrà adattarsi al mutare delle mode e delle opinioni e, così, si priverà del rapporto vitale con la verità, riducendosi a condannare domani quel che avrà lodato oggi». «Prendere la Croce - aggiunge Ratzinger - significa impegnarsi per sconfiggere il peccato che intralcia il cammino verso Dio». Parole che confermano la volontà del Papa di fare davvero pulizia nella Chiesa Cattolica.

(Fonte: Andrea Gagliarducci, © Copyright Il Tempo, 21 giugno 2010)

Ru486: dietro gli slogan la banalizzazione di un dramma

Per una battaglia politica e culturale che si rispetti, bisogna dichiarare apertamente il proprio obiettivo, con argomentazioni solide a sostegno, ed essere disposti a un confronto franco e aperto con gli interlocutori. Ma non è andata così a chi si è adoperato per introdurre la Ru486, la pillola abortiva, in Italia.
Dopo anni di dibattito pubblico, ancora oggi nella gran parte dei cosiddetti grandi media il metodo abortivo farmacologico è spacciato come facile, più sicuro e meno doloroso di quello chirurgico, in barba a tutte le evidenze scientifiche e di pratica clinica. Le morti delle donne dopo l’assunzione dei farmaci abortivi vengono ignorate, sottovalutate o addirittura negate.
Continuiamo a sentirci ripetere che altrove la Ru486 si usa tranquillamente da vent’anni, senza però che sia detto che in quegli stessi Paesi dov’è più diffusa – Francia, Gran Bretagna e Svezia, gli unici con percentuale di uso a due cifre – la situazione è di allarme sociale, e non solo per le morti: i numeri degli aborti sono costanti ed elevati, da tempo, o continuano ad aumentare, con un’incidenza sempre più alta fra le minorenni. Non si capisce, francamente, cosa avremmo da imitare, almeno in questo ambito. Dovrebbe accadere piuttosto il contrario (fermo restando che anche un solo aborto è di troppo, e che neppure i nostri numeri, migliori di quelli degli altri Paesi, possono tranquillizzarci).
Se ben tre pareri della più autorevole istituzione nazionale in campo sanitario – il Consiglio superiore di sanità – espressi in anni diversi, con componenti e direzioni differenti, arrivano sempre alla stessa conclusione (per chi usa la Ru486 è necessario un ricovero ordinario in ospedale fino a che l’aborto è completato), i paladini della pillola abortiva anziché porsi qualche domanda in merito gridano al «boicottaggio». Non solo: contestando la scelta del governatore del Lazio Renata Polverini – posti letto dedicati a chi abortisce con la pillola – c’è chi ha affermato che sarebbe «un’esagerazione: del resto per i casi di appendicite non è così».
E allora, giù la maschera e affrontiamo il vero problema posto dalla Ru486: l’aborto può essere considerato un atto medico come tanti altri, oppure è comunque un grave problema sociale, pure per chi ne condivide la legalizzazione? Anche tra chi ritiene che l’aborto sia sempre e comunque la soppressione di un essere umano (e tale rimane, indipendentemente dal metodo) la risposta che si dà a questa domanda non è indifferente. Se per la nostra società l’aborto è comunque un disvalore, una piaga sociale pure quando se ne ammette la legalizzazione, allora ci sono le condizioni culturali e politiche per combatterlo. Se invece è ridotto a un atto medico, una richiesta privata al servizio sanitario nazionale, allora è un fatto che riguarda solamente chi lo chiede e chi lo esegue.
La Ru486 serve a mascherare culturalmente l’aborto, nascondendolo dentro una scatola di pillole, che si possono prendere pure a casa propria, anche quando sarebbe necessario per la salute della donna rimanere in ospedale. È l’aborto a domicilio il vero obiettivo dei sostenitori della Ru486, perché solo in questo modo abortire diventa un fatto esclusivamente privato, una questione di scelta fra tecniche mediche.
Allora se ne parli apertamente, senza nascondersi – com’è accaduto ieri, tra manifestazioni pubbliche e articoli di giornale contro la scelta della Regione Lazio – dietro vecchi slogan e inutili pretesti. Ricordandosi però che se questo è lo scopo, bisogna anche dire che la legge 194 non lo prevede affatto, e che non si vuole applicare questa legge ma cambiarla come si è già fatto nella vicina Francia, rendendo così legittimo l’aborto a domicilio. È questa la vera posta in gioco: lo si dica con chiarezza.

(Fonte: Assuntina Morresi, Avvenire, 17 giugno 2010)

Lettera di un liberale difensore della privacy al maestro censore Saviano

Lettera aperta del vicepresidente dei senatori del Pdl Gaetano Quagliariello a Roberto Saviano sul tema delle intercettazioni e sul diritto alla riservatezza sancito dalla Costituzione.
Egregio Roberto Saviano, sono quello di cui non si ricorda il nome, quello che si chiama più o meno come il centravanti del Napoli. A quanto pare, c'è un problema tra di noi. E vengo subito al punto. Sul tema delle intercettazioni abbiamo letto in questo periodo diverse sue affermazioni. Lei ha accusato la maggioranza di voler "troncare la libertà di informazione in nome della difesa della privacy", sostenendo dunque che la privacy, pur essendo come lei dice "uno dei pilastri del diritto e della convivenza civile", dovrebbe inchinarsi di fronte alla libertà di stampa. Lei ha scritto che "pubblicare le intercettazioni soltanto quando c'è il rinvio a giudizio genera un enorme vuoto". Che i politici avrebbero paura delle intercettazioni perché esse mostrerebbero "come si costruisce il meccanismo del potere" (a tal proposito ha preso a esempio, e la cosa è significativa, un'inchiesta che è finita giudiziariamente nel nulla ma ha portato sui giornali pagine intere di conversazioni prima che i magistrati le mandassero al macero per assoluta irrilevanza penale).
E ancora. Lei ha sostenuto che vi sono alcune persone per le quali anche il più intimo margine di vita privata debba essere violato e scandagliato (e divulgato). Che le garanzie degli indagati, anche quelle previste dalla Costituzione, devono cedere di fronte all'esigenza della stampa di far conoscere senza indugi all'opinione pubblica "quei dati che poi, a distanza di tempo, non avrebbe più senso pubblicare". Infine, lei ha difeso la libertà dei giornalisti di poter fare il proprio lavoro senza divenire oggetto di insulti sul piano personale.
Di fronte al suo pensiero, liberamente veicolato attraverso ripetuti articoli di giornale, rivendico a me stesso (e a tanti altri) una concezione profondamente diversa, per certi versi diametralmente opposta; e questo non per capriccio o per amore di polemica, ma per una precisa scelta culturale e politica che non ho difficoltà a motivare.
Noi siamo consapevoli che il tema delle intercettazioni chiama in causa diritti diversi e concorrenti, come il diritto alla riservatezza e il diritto all'informazione. Entrambi sono riconosciuti e tutelati dalla nostra Costituzione, rispettivamente all'articolo 15 e all'articolo 21, e questo ci impone di armonizzarli e trovare il migliore equilibrio possibile, ben sapendo che si tratta di un conto a somma zero in cui non si possono dilatare i margini di libertà da una parte senza farlo a scapito dell'altra. Ma è evidente che i padri costituenti hanno stabilito che il diritto alla riservatezza venisse prima del diritto di cronaca: non solo per una ragione di progressione numerica, ma anche perché ad esso hanno attribuito un aggettivo - "inviolabile" - che il diritto alla riservatezza condivide soltanto con la libertà personale, con la libertà di domicilio e con il diritto di difesa in giudizio.
La nostra posizione non è dunque improvvisata o frutto di chissà quale calcolo o convenienza. Essa affonda le radici nella Carta fondamentale, ed ha alle spalle una profonda sedimentazione di cultura giuridica, la stessa che nel corso dei decenni ha irradiato la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, la Convenzione internazionale sui diritti civili e politici, la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, fino alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, che oltre a riconoscere (art. 8) il diritto al rispetto della vita privata e familiare, sancisce che la stessa libertà di espressione (art. 10) debba essere esercitata con responsabilità e comporti la salvaguardia della riservatezza delle persone.
E' innegabile che la privacy sia un concetto a geometria variabile, che si allarga o si restringe a seconda dell'esposizione pubblica di ognuno. Ma è altrettanto evidente che un margine di riservatezza debba essere riconosciuto a tutti, dall'uomo più potente a quello più lontano da qualsiasi riflettore.
Allo stesso modo, nessuno mette in dubbio la libertà di stampa che è sacrosanta, ma si richiede che essa venga interpretata con responsabilità. A questo proposito, la previsione della pubblicazione per riassunto degli atti di indagine contenuta nel disegno di legge approvato in Senato dovrebbe essere difesa innanzi tutto da quei giornalisti che tengono al decoro della loro professione. Essa infatti valorizza il loro ruolo attivo nella proposizione delle notizie: la capacità di salvare l'essenziale rifiutandosi di essere strumento anche involontario della violazione della dignità delle persone. E scoraggia peraltro il malvezzo da parte di alcuni magistrati di riempire gli atti giudiziari di una selva di informazioni non pertinenti sotto il profilo penale ma funzionali alla gogna mediatica. Non le sfuggirà che questa pessima abitudine ha contribuito non poco a trasformare il giornalismo d'inchiesta nella mortificante, pedissequa e talvolta acritica propalazione di atti d'accusa (le cosiddette "lenzuolate"), se non altro per esigenze di concorrenza editoriale.
Quanto infine alla volontà di assicurare che vi sia una fase delle indagini durante la quale gli atti siano protetti da un efficace regime di riservatezza, è evidente che si tratta di una iniziativa finalizzata non a limitare l'attività degli investigatori e degli inquirenti (che ovviamente è cosa diversa dalla sua divulgazione a mezzo stampa) ma al contrario a garantirne la serietà e il sereno svolgimento.
Per queste ragioni, egregio Roberto Saviano, fermo restando il rispetto per le sue idee, confermo di trovarmi in ferrea contrapposizione in tema di intercettazioni. Rispetto il suo lavoro e il suo romanzo (per quanto, personalmente, Attilio Veraldi con il suo "Naso di cane" sulla camorra mi ha insegnato di più e in maniera più pregnante). Non ho mai affermato che le sue posizioni offendono l'Italia. Ma, sul tema che in queste settimane appassiona l'opinione pubblica, e che al fondo chiama in causa l'idea che ognuno di noi ha della persona e della sua libertà, esse denotano una concezione politica e culturale assolutamente antitetica alla mia e rispetto alla quale, proprio in nome di quella libertà di espressione alla quale lei costantemente si appella, rivendico il diritto di manifestare un'opinione contraria e di chiedere al mio partito di aprire un confronto serio, alto e libero da sudditanze culturali di qualsiasi tipo.
E' singolare che proprio nel momento in cui lei si erge a paladino della libertà di manifestazione del pensiero, censuri di fatto come illegittimo l'esercizio di quella stessa libertà da parte di un'altra persona, e addirittura arrivi a negare a quella persona la sua identità. Forse indicandomi come "quello che si chiama come il giocatore del Napoli" lei pensava di offendermi. Invece devo confessare che per me è un onore. Tifo infatti per quella squadra da quando sono bambino. E condivido con la curva del Napoli sentimenti certamente meno degni di essere ammessi nei salotti nei quali lei dialoga con Vargas Llosa, ma che forse sono i sentimenti delle tante storie ignobili di intercettazioni con le quali si è fatta strage di umanità, e che nessuno - nemmeno lei - ha il diritto di espellere dal dibattito pubblico del nostro Paese.

(Fonte: Gaetano Quagliariello, Il Foglio, 18 giugno 2010)

Allarme prostituzione: Milano, il racket delle orfane

Le costringevano a prostituirsi anche se avevano le ossa rotte, in alcuni casi perfino con il braccio ingessato. E quando non erano in strada le tenevano nude fuori al balcone, a sette gradi sotto zero. Sevizie e torture, senza il minimo rispetto per la vita umana. Dal 2008 sono state 104 le ragazze romene, di cui 24 minorenni e molte altre rapite da orfanotrofi del Paese balcanico, che venivano vendute a cifre che andavano dai 1200 ai 3000 euro.
È quanto emerge dall’operazione “Fata”, che si è conclusa con i carabinieri di Monza che hanno arrestato 47 persone (38 delle quali finite in carcere) nelle province di Milano, Rimini, Pavia e Como. Sono accusate a vario titolo di associazione per delinquere finalizzata allo sfruttamento della prostituzione e, nel caso di quattro soggetti, di tratta degli esseri umani.
I cittadini romeni arrestati sono 35, di cui 16 rintracciati nel Paese d’origine in collaborazione con le autorità di polizia locali, a cui si aggiungono un albanese un egiziano e un cittadino italiano, che forniva appartamenti all’organizzazione criminale. L’ordinanza di custodia cautelare è stata emessa dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano su richiesta del sostituto procuratore della Direzione distrettuale antimafia.
Il giro d’affari del gruppo era di circa 10 milioni di euro all’anno. L’organizzazione era talmente potente da avere il controllo e il monopolio notturno di alcuni marciapiedi di Milano, dove le lucciole adescavano i clienti. Tratti di strada, come quello in via Fulvio Testi, venivano “affittati” a cifre da capogiro: 100 mila euro per 12 mesi, come risulta da una intercettazione tra due componenti della banda criminale. Il giro di prostituzione aveva il suo fulcro a Milano, in viale Sarca e in via Testi, ma si diramava fino a Pavia, Rimini, Roma e Siracusa.
Gli sfruttatori andavano a reclutare le ragazze in un istituto per orfane di Giurgiu, un paesino a 60 chilometri da Bucarest, dove le giovani potevano stare fino alla maggiore età, dopo nessuno si prendeva più cura di loro. Come ha spiegato nel corso di una conferenza stampa il sostituto procuratore Ester Nocera non mancano però i casi di mogli inserite nel giro di prostituzione dagli stessi mariti e ragazze portate in strada dopo essere state condotte in Italia con l’inganno e le solite promesse di un lavoro. Molte sono state illuse con la promessa di un impiego come badante o baby-sitter, o convinte a venire a battere i marciapiedi italiani «per tanti soldi e pochi problemi». Sei 14enni sono state rapite direttamente dall’orfanotrofio: una ragazza ha raccontato che gli sfruttatori le hanno portate via in pigiama.
particolari sulle torture e sulle condizioni disumane in cui venivano tenute in Italia le giovanissime ragazze sono emersi grazie alle intercettazioni telefoniche. L’operazione - ha aggiunto il sostituto procuratore Nocera - ha sgominato «una delle più organizzate e ramificate bande dedite allo sfruttamento della prostituzione». L’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, fondata da don Oreste Benzi, plaude all’operazione “Fata” e si rivolge direttamente al ministro delle Pari Opportunità Mara Carfagna, chiedendole «il massimo impegno per l’approvazione del suo ddl contro la prostituzione coatta».


(Fonte: Luca Mazza, Avvenire, 19 giugno 2010)

giovedì 17 giugno 2010

Elogio del prete «feriale»

Contro il rischio di trasformare il sacerdote nell'esteta della perfezione rituale o nel super manager, torniamo a stupirci del miracolo di una Chiesa quotidiana.
Si conclude l'Anno sacerdotale, che Benedetto XVI aveva indetto per riportare al centro dell'attenzione il sacerdozio ordinato e l'esempio del Santo curato d'Ars, e che ha coinciso con la bufera dello scandalo-pedofilia e con una rappresentazione spesso distorta della realtà della Chiesa.
Credo che sia utile tornare con la memoria alle storie di ciascuno di noi, e ai tanti esempi di bravi preti che abbiamo incontrato. Penso al parroco che ha sposato i miei genitori, battezzato me e mio fratello, che mi ha preparato alla prima comunione e poi alla cresima, che conosce a memoria i numeri civici dei suoi parrocchiani, sempre presente e sempre disponibile, pronto a confessarti e persino a prestarti la macchina quando dovevi andare a trovare la fidanzata... Preti che ci hanno insegnato che cosa significhi vivere in Dio, con Gesù e per i fratelli, esempi di dedizione, pur con i loro mille difetti umani.
Vittorio Messori, parlando dei sacerdoti, ha espresso la sua gratitudine per questi uomini che – nonostante mediocrità e angustie – «tengono aperte le infinite chiese del mondo, dove si celebrano le messe di ogni giorno e quelle per le tappe fondamentali della vita di ciascuno: battesimi, matrimoni, funerali. Chiese dove talvolta c'è anche il dono – ché tale è – di un vecchio confessore che attende paziente per renderci certi, se solo lo vogliamo, del perdono di Cristo; dove ci sono panche, penombra e fiori, silenzio, lumini accesi, anche opere d'arte, se l'edificio è antico; dove, forse, è restato persino un sentore di incenso; dove chiunque può entrare, restare quanto gli aggrada, pregare o pensare o anche solo sostare senza che nessuno gli chieda conto del suo essere lì o lo importuni, perché non si è tolto le scarpe o non si è calcato lo zucchetto in testa o non ha uno scialle sulle spalle... Ho affetto, stima e direi pure tenerezza per gli uomini che chiamo "feriali", di una Chiesa anch'essa feriale».
Immagine forse troppo idilliaca o infantile? Non credo. Nell'epoca in cui si rischia talvolta di trasformare il prete in esteta della perfezione rituale (con la mania dei paramenti old stile e la moda dei pizzi e merletti, come se risiedesse lì l'autentico spirito della liturgia) oppure in perfetto manager capace di organizzare e di gestire online la sua parrocchia, c'è forse bisogno di tornare a stupirci per il miracolo di una Chiesa «feriale», fatta di poveri Cristi che quotidianamente, agendo in persona Christi, ci donano i sacramenti aprendo la via della grazia. E ogni giorno sono là ad aspettarci se solo lo vogliamo.

(Fonte: Andrea Tornielli, Vino nuovo, 10 giugno 2010)

Turchia: il Papa è “mal consigliato” dai diplomatici vaticani

“Credo che anche in Vaticano abbiano capito che ho ragione io: l’omicidio di Luigi Padovese ha soltanto motivazioni religiose. L’assassinio mostra infatti elementi esplicitamente islamici. Non c’entra il governo turco. Non c’entra Ankara. Non c’entrano le motivazioni personali. C’entra soltanto l’islam. Lo so, il papa ha detto prima di atterrare a Cipro che ‘non si tratta di un assassinio politico o religioso ma di una cosa personale’. Credo sia stato mal consigliato. Il Vaticano certe cose non può insegnarle a noi”.
Questo è il folgorante avvio dell’intervista del vescovo di Smirne, Ruggero Franceschini (nella foto), a Paolo Rodari, su “il Foglio” di sabato 12 giugno. Intervista che è da leggere tutta. Molto dettagliata sull’assedio islamico ai cristiani di Turchia. Sulle scuole che incitano all’odio religioso e umiliano gli alunni battezzati. Sulla dinamica dell’uccisione di Padovese. Sul profilo dell’assassino e della sua famiglia: “È sempre un rischio assumere i musulmani del posto. Ormai l’abbiamo imparato a nostre spese”.
Il vescovo Franceschini è un veterano della Chiesa in Turchia. È il predecessore di Padovese a Iskenderun e lo stesso giorno in cui è uscita la sua intervista al “Foglio” è stato nominato dal papa vicario apostolico di Anatolia, al posto dell’ucciso. È lui che ha presieduto i suoi funerali e tenuto l’omelia. È lui che fin dall’inizio ha tenuto desta l’attenzione sulle ragioni reali dell’uccisione, che non poteva essere liquidata come opera isolata di un pazzo.
Ed è lui, ora, a denunciare pubblicamente l’errore compiuto dalle autorità vaticane prima con la voce di padre Federico Lombardi, ma poi, soprattutto, con le parole dette da Benedetto XVI in persona sull’aereo in volo per Cipro, il giorno dopo l’uccisione di Padovese.
Che in questo caso il papa sia stato “mal consigliato” dalla segreteria di Stato è ormai un dato assodato, grazie alla franchezza di un vescovo come Franceschini che ha tutte le ragioni per dire: “Il Vaticano certe cose non può insegnarle a noi”.
Per il sinodo dei vescovi del Medio Oriente in agenda il prossimo ottobre questo errore è stato un disastroso preliminare. Non c’è di peggio che eccitare i musulmani nemici del cristianesimo con dichiarazioni che per loro suonano come atti di pura sottomissione.
Post Scriptum – Nel segnalare domenica 13 giugno la nomina del vescovo Ruggero Franceschini a vicario apostolico di Anatolia, il quotidiano della conferenza episcopale italiana “Avvenire” ha scritto di lui: “Franceschini, 71 anni, è l’arcivescovo di Smirne che ha celebrato le esequie del suo confratello assassinato denunciando le falsificazioni riguardo al movente del delitto e rilevando come esso sia avvenuto secondo le modalità e il rituale degli estremisti islamici”.

(Fonte: Sandro Magister, Settimo cielo, 12 giugno 2010)

Bugie anticattoliche: ecco la bufala della foto di Ratzinger "nazista"

Nel suo saggio autodefinito "documentatissimo", il giornalista-scrittore Eric Frattini parla di un’immagine in cui un giovane Papa fa il saluto hitleriano in tonaca. Ma è un falso: l’altro braccio è stato "tagliato". Quell’immagine un po’ inquietante viene esibita sul Web come la prova regina: Joseph Ratzinger, oggi Papa Benedetto XVI, non è stato soltanto iscritto a forza nella Hitlerjugend, come lui stesso ha raccontato nella sua autobiografia, ma era così convinto dall’ideologia hitleriana da fare il saluto nazista persino mentre indossava i paramenti sacerdotali.
La foto, ripresa da molti siti Internet e inserita in brevi filmati su Youtube, ritrae un Ratzinger giovanissimo, magro, con i capelli neri, con lo sguardo serio e compunto, mentre veste la stola sacerdotale e ciononostante alza convinto il braccio destro con la mano tesa. Una delle tante bufale antiratzingeriane, come se ne trovano a bizzeffe navigando in rete, ma che da qualche giorno ha ricevuto la sua consacrazione scritta nientemeno che in un «saggio documentatissimo e sconvolgente» - come si legge nella quarta di copertina – un libro-inchiesta scritto da Eric Frattini, «professore universitario, giornalista e scrittore eclettico, appassionato di storia e di politica», autore di una ventina di volumi, alcuni dei quali schierati contro il Vaticano. La sua ultima creatura è “I papi e il sesso” (ed. Ponte alle grazie).
Non è questo il luogo per citare le innumerevoli perle presenti nel testo, che denotano la scarsa conoscenza che l’autore ha della materia trattata, e ci riferiamo - ovviamente - alla storia della Chiesa, non a quella del sesso.
Ad attirare l’attenzione, a pagina 377, è la citazione dell’esistenza di una foto «in cui si vede il futuro Papa vestito da sacerdote mentre fa il saluto nazista». Quale attinenza abbia l’argomento nazista con il tema portante del libro – il sesso – non è dato di saperlo, anche se appare piuttosto evidente che Frattini, non riuscendo a trovare nulla che possa accostare l’attuale Pontefice a qualcuno dei suoi lontani predecessori dai costumi non irreprensibili, abbia voluto presentarlo almeno come un nazista.
Frattini, essendo «professore universitario» nonché «appassionato di storia», come si legge nell’autobiografia all’inizio del volume, alla foto di Ratzinger che sembra fare «Heil Hitler!» ha voluto dedicare anche una nota in calce (numero 28, pag. 426) che recita: «L’autore non è riuscito a risalire alla persona che scattò questa seconda foto, in cui Ratzinger è ritratto vestito da sacerdote mentre fa il saluto nazista, né a verificare se si tratta di un fotomontaggio. La fotografia potrebbe essere stata realizzata tra il 1944 e il 1945, quando il futuro Papa aveva diciassette o diciotto anni».
In effetti, invece di cercare negli archivi l’autore della foto, sarebbe bastato navigare qualche minuto sul Web, per accorgersi della bufala, anzi del taglio tattico. Sarebbe bastata una Garzantina, il sito Internet della Santa Sede oppure Wikipedia per scoprire che l’attuale Pontefice è stato ordinato prete a Frisinga il 29 giugno 1951, dunque sei anni dopo la fine del Terzo Reich e della guerra. Qualche «clic» in più con il mouse, senza dover consultare polverosi archivi (basta digitare su un motore di ricerca le chiavi «Ratzinger» e «1951»), gli avrebbe permesso di scoprire che quella foto è stata scattata nei giorni immediatamente successivi all’ordinazione sacerdotale, quando Joseph Ratzinger, insieme al fratello maggiore Georg, anch’egli ordinato prete lo stesso giorno, e a un altro sacerdote novello originario del paese, Rupert Berger, celebrarono la loro prima messa a Traunstein, nella parrocchia di Sant’Osvaldo. La presunta foto nazista è in realtà un tarocco: nell’originale – reperibile facilmente sul Web – si vede benissimo Ratzinger, accanto al fratello, che impone entrambe le mani per benedire i fedeli. Dunque non faceva alcun saluto romano o nazista, peraltro fuori tempo massimo, ma semplicemente benediceva. Ovviamente rivestito della stola sacerdotale. Non c’è che da sottoscrivere almeno in parte la presentazione forse un tantino trionfale che l’editore ha posto in quarta di copertina: il volume di Frattini non è «documentatissimo» ma nemmeno documentato. Rimane, invece, inequivocabilmente «sconvolgente». Sì, che si continui a dar credito a certe bufale anticattoliche.

(Fonte: Andrea Tornielli, © il Giornale, 12 giugno 2010)

Il Vescovo di Liegi non va alla processione del Corpus Domini

C’è una notizia che viene dal Belgio, da Liegi, dove quest’anno è stata ripristinata la processione con l’eucaristia, caduta in disuso dagli anni Settanta.
Il 2 giugno, il quotidiano della città “La Meuse”, ripreso il giorno dopo da “Le Soir“, il più diffuso quotidiano del Belgio francofono, ha chiesto a varie persone se approvavano o no il ripristino della processione.
E tra quelli che hanno risposto no chi c’è? Monsignor Aloysius Jousten, il vescovo di Liegi. Il quale ha detto: “Riguardo a questa processione ho delle riserve, perché penso che sia di natura tale da dividere invece che unire”.
Jean Hermesse, docente di antropologia e animatore del Comité de la Lune Barrée che è stato tra i promotori della processione, grande ammiratore di papa Benedetto XVI e del nuovo arcivescovo di Bruxelles, il conservatore André Léonard, ha detto di non essere stupito: “Quella del vescovo di Liegi è la logica del nascondimento, che vuole che i fedeli spariscano come il lievito nella pasta”.
Nel nome di questa logica e soprattutto del “non dividere”, nella scorsa Quaresima nella cattedrale di Liegi hanno fatto predicare il quaresimale a intellettuali non credenti e a un paio di cattolici in dissenso con la Chiesa: Gabriel Ringlet, José Reding
Iniziativa non nuova né isolata, quest’ultima. Basta vedere cosa capita dentro il Duomo di Milano. Dove, ad esempio, a un quaresimale di qualche anno fa invece dei quattro Vangeli si leggevano testi di Oscar Wilde, Marguerite Yourcenar, Pier Paolo Pasolini e Jack Kerouac. Il tutto accompagnato dalla cantante Alice e da videoinstallazioni di Bill Viola e Michiel van Bakel.

(Fonte: Sandro Magister, Settimo cielo, 10 giugno 2010)

Evoluzione della specie umana o involuzione?

Tutti sanno che la teoria evoluzionista afferma che l’uomo discende dalle bestie per un processo inarrestabile di miglioramento per gradi, durato milioni di anni. Così dalla scimmia si è passai all’homo erectus, all’uomo di Neanderthal, all’homo faber, all’homo sapiens. Secondo questa teoria, ci si attende un ulteriore miglioramento della specie; l’homo economicus, l’homo ludens, l’homo tecnologicus, ad esempio sono dei mostri per bravura in economia, nel gioco, nell’uso delle nuove tecnologie. Sono gradini verso il “super-uomo”, a cui certo prima o poi si arriverà. Purtroppo, però, anche le migliori teorie hanno, a volte, qualcosa che non quadra. Ad esempio, da qualche tempo si vede in giro un tipo di ominide che non si pensava mai possibile e che invece si va diffondendo a macchia d’olio. Ecco le sue note distintive:
* vive imboscato, con pochi legami con chi lo ha generato. Però è da questi che attinge i soldi;
* il maschio si distingue per la capigliatura: a cresta di gallo o a porco-spino, a cespuglio; i pantaloni stretti di sopra e larghi di sotto, a campana; bretelle a penzoloni a destra e a manca; occhi spenti e sigaretta in bocca; anelli al naso e diversi orecchini alle orecchie;
* la femmina si caratterizza per capelli dipinti a fantasia, occhi super-truccati, gonna strettissima o pantaloni abbassati tanto da mostrare la biancheria intima; seno all’aperto e ben visibile e poi un gran numero di piercing: alle orecchie, al naso, sulla lingua, tra i denti, sull’ombelico scoperto;
* estesi tatuaggi di serpi, draghi, segni zodiacali e bestie varie fanno bella mostra di sé su collo, braccia, dorso, spalle, per ricordare l’ascendenza ancestrale o per mostrare un feeling;
* sia il maschio che la femmina escono all’imbrunire e vanno subito nel branco. È qui che si ritrovano al naturale: sono se stessi e sono accettati;
* amano la notte e non sopportano la luce del sole;
* parlano in gergo o grugniscono, spesso urlano e gridano; non fanno discorsi;
* fumano molto, bevono Coca-Cola, birra o superalcolici, ma solo in compagnia, esperti in * cocktail strani e forti come bombe, con l’aggiunta di ecstasy e marjuana;
* portano in mano il cellulare, da cui non si staccano mai, col continuo tic tic dei messaggini;
* vanno allo sballo e si scatenano in discoteca fino al mattino, con luci rosse e nubi di fumo;
* si rintronano la testa con rumori assordanti e ritmi sconvolgenti ed eccitanti;
* si accoppiano, fanno sesso, ma senza restare legati, perché contro la libertà;
* hanno un solo scopo nella vita: divertirsi sempre e cogliere l’attimo fuggente per inebriarsi.
Non vogliono figli né responsabilità. Dovrebbero perciò estinguersi presto e invece si moltiplicano assai. Ormai l’Europa ne è piena, in paesi e città. Ora si pone il grande quesito: questo ominide è da annoverare come “Homo”? E di che tipo? Non certo “sapiens”, ma forse “insipiens” o meglio “demens”, viste le sue caratteristiche. Ma, come la mettiamo con la teoria evoluzionista di un progresso indefinito della specie? Poiché qui è evidente non un progresso, ma una degenerazione della specie. Povero Darwin! Ce n’è abbastanza per farlo rivoltare nella tomba.

(Fonte: Giuseppe Tagliareni, Petrus, 28 novembre 2009)

Il Concilio e il terremoto nella Chiesa

Se la società civile ha sentito le prime scosse telluriche col '68, la Chiesa è entrata in clima di revisione almeno sei anni prima, col Concilio Ecumenico Vaticano II, aperto nel '62 e chiuso nel '65. E con il rinnovamento (comprensibile e, per certi aspetti, accettabile e necessario), si son fatti sentire i primi segnali del terremoto che stava esplodendo. Qualcuno, ben più autorevole di me, ha già denunciato i cambiamenti tentati e riusciti per far cambiare rotta alla Chiesa: una diversa visione teologica su Dio, su Gesù Cristo, sulla Chiesa e sull'uomo, una diversa impostazione pastorale del rapporto Chiesa/mondo e del rapporto tra la Chiesa cattolica e le altre confessioni cristiane o tra la Chiesa cattolica e le altre religioni, un diverso modo di concepire la disciplina.
Nel maggio dell'89, il presidente della C.E.I., il Cardinale Ugo Poletti, preoccupato per quanto sessantatre cultori di scienze ecclesiastiche hanno scritto alla Chiesa italiana, ha ravvisato “alterazioni profonde del contenuto della fede cattolica e conseguenti divisioni nella compagine clericale”. E ancora: “Le preoccupazioni riguardano in particolare gli allievi dei nostri seminari e istituti teologici, coloro che domani saranno i nostri nuovi sacerdoti, e che certo non ricevono oggi da alcuni loro maestri un esempio formativo, sotto il profilo della teologia, della spiritualità e del senso della Chiesa”.
Mi chiedo: se i vescovi italiani non si fossero limitati solo a qualche piagnisteo inconcludente, a delle lamentele senza un seguito, se avessero preso la decisione coraggiosa e dolorosa, ma necessaria, di disinfestare i seminari, non sarebbero usciti dei nuovi sacerdoti in piena sintonia con la dottrina, con le direttive e con le necessità della Chiesa?
Dunque, il terremoto ormai permanente di cui da quarant'anni è vittima la Chiesa, è stato veicolato in basso dalle nuove generazioni di preti formati male nei seminari: l'infezione che essi hanno contratto negli anni della loro formazione (o deformazione!), l'hanno trasmessa poi nelle loro parrocchie.
Oggi molti vescovi non governano più la Chiesa: davanti a certi comportamenti gravissimi di alcuni preti, si limitano a qualche amara constatazione e a dei pii consigli, ma nulla più. Pare che si vergognino del potere di governo, come se fosse il segno di una durezza di cuore. Non governano per timore dei contraccolpi che quasi sicuramente riceverebbero da una base (e sto parlando di sacerdoti) ormai anarchica e ingovernabile. Governare significa fare le Leggi, farle rispettare e colpire chi le viola. Gesù ha fondato la sua Chiesa su tre “gambe”: il potere di insegnare, il potere di santificare e il potere di governare. Cercare di far stare in piedi la Chiesa con due sole gambe, senza il potere di governo, è una pura e dannosa illusione. E l'anarchia presente oggi nella Chiesa lo dimostra ampiamente. Quando persino dei sacerdoti favorevoli all'aborto (e dunque assassini) restano impuniti, ogni altro ribelle sa che avrà garantita l'impunità. Se invece un prete sputa in faccia a Cristo con eresie e ribellioni sistematiche, qualche vescovo è sempre pronto a tirare in ballo la carità, la pazienza, la doverosa comprensione verso un fratello che sbaglia, la capacità di saper attendere un suo ravvedimento... Se fosse necessario, perché rinunciare a richiamare anche i vescovi?
È San Paolo che ci insegna a farlo, criticando niente meno che l'apostolo Pietro, capo della Chiesa, il primo Papa, “di simulazione, di ipocrisia, di comportamento non retto secondo la verità del Vangelo” e lo corregge “in presenza di tutti” (Gal 2, 11-14). È il caso di meditare attentamente su quanto ha scritto Giovanni Paolo II parlando di sé: “Al ruolo del Pastore appartiene certamente anche l'ammonire. Penso che, sotto questo aspetto, ho fatto forse troppo poco... Forse devo rimproverarmi di non aver abbastanza cercato di comandare. In certa misura, ciò deriva dal mio temperamento. Se il vescovo dice: “Qui comando solo io”, oppure “Io sono qui solo a servire”, manca qualcosa: egli deve servire governando e governare servendo”.
La critica è un bene quando nasce dall'amore alla Chiesa e dalla volontà di rendere migliore i nostri Pastori. E quando si critica il loro operato non in base a criteri nostri, ma ai criteri di Gesù Cristo. Se un vescovo non rimuove un prete abortista o eretico, gli altri preti e tutti i fedeli, pur soffrendone, non possono far nulla. Questo peccato di omissione ha permesso ai lupi di restare indisturbati in mezzo al gregge a far strage delle pecore indifese.
Sono cosciente che chi avanza anche solo qualche riserva nei confronti del Concilio viene subito attaccato come ribelle alla Chiesa. Ma che qualcosa di poco chiaro ci sia stato in questo benedetto Concilio Ecumenico Vaticano II è fuori dubbio.
Papa Paolo VI ha avuto l'onestà di riconoscere la tempesta spaventosa in cui naviga la Chiesa: “In numerosi campi, il Concilio non ci ha dato fino ad ora la tranquillità, ma ha piuttosto suscitato turbamenti e problemi non utili al rafforzamento del Regno di Dio nella Chiesa e nelle anime. […] Gran parte dei mali non assale la Chiesa dal di fuori ma l'affligge, l'indebolisce, la snerva dal di dentro”. Le dimensioni dello sfascio, Montini, le denuncia quando dice: “Il fumo di Satana è entrato nel tempio di Dio... Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio”.
Del resto, il teologo olandese padre Edward Schillebeeckx, lo ha affermato senza esitazioni: “In Concilio abbiamo usato dei termini equivoci e non sappiamo che cosa poi ne ricaveremo”. E Giovanni Paolo II si associa nella denuncia e nel lamento: “Bisogna ammettere realisticamente e con sofferta sensibilità che i cristiani oggi in gran pare si sentono smarriti, confusi, perplessi e perfino delusi, si son sparse a piene mani idee contrastanti con la verità rivelata e da sempre insegnata; si sono propalate vere e proprie eresie in campo dogmatico e morale, creando dubbi, confusioni, ribellioni; si è manomessa anche la liturgia. Immersi nel relativismo intellettuale e morale e perciò nel permissivismo, i cristiani sono tentati dall'ateismo, dall'agnosticismo, dall'illuminismo vagamente moralistico, da un cristianesimo sociologico, senza dogmi e senza morale oggettiva”. Responsabili sono quei teologi che, nelle facoltà universitarie, pure pontificie, e nei seminari, insegnano da anni vere e proprie eresie o hanno messo il silenziatore a verità scomode (inferno, purgatorio, comandamenti, castità, penitenze, indulgenze...).
Responsabili sono quei pastori d'anime che, nella catechesi e nella predicazione, non tengono conto delle norme della Chiesa in campo liturgico e disciplinare. E responsabili sono anche quei laici che si sono rassegnati alle balordaggini di certi Pastori senza protestare. È lo stesso Benedetto XVI che ci esorta: “E’ tempo di ritrovare il coraggio dell'anticonformismo, la capacità di opporsi e di denunciare molte delle tendenze della cultura circostante, rinunciando a certa euforica solidarietà postconciliare". In poche parole, ha esortato il Pontefice regnante in occasione della chiusura dell’Anno Sacerdotale, “la Chiesa usi il bastone contro i sacerdoti indegni”. Speriamo che questo saggio richiamo non cada nel vuoto.

(Fonte: Irene Bertoglio, Petrus,12 giugno 2010)

Il Papa che non è scappato davanti ai lupi

Doveva essere un Papa di transizione. Eletto alla soglia dei settantasette anni, Giovanni XXIII regalò alla Chiesa universale la più grande rivoluzione pacifica del Novecento: il Concilio Ecumenico Vaticano II, destinato a rinnovare profondamente il volto della più antica istituzione del mondo, nella fedeltà alla tradizione ereditata dai Padri. Nei suoi cinque anni di pontificato, il ‘Papa buono’ seppellì le critiche di coloro che videro la sua elezione al soglio di Pietro come un tempo di attesa, preparatorio alla venuta di una guida giovane che avrebbe traghettato la Chiesa verso la modernità. Roncalli dimostrò che anche in soli cinque anni si può rinnovare un’istituzione che a volte viene presentata dai suoi più aspri critici come fuori dal tempo.
Cinque anni sono quindi un tempo adeguato per tracciare un primo bilancio del pontificato di Benedetto XVI, che ha visto in questi mesi presentarsi dinanzi a sé, puntali e affamati, quei lupi di cui saggiamente aveva parlato all’inizio della sua avventura al timone della Chiesa di Cristo. “Pregate per me, perché io non fugga per paura dinanzi ai lupi”, aveva chiesto timidamente nella Messa di inizio del suo pontificato.
La bufera seguita alla sua lezione di Ratisbona, vide il Papa accusato di essere un nemico dell’Islam e un accanito sostenitore dello scontro tra le civiltà. Lui che in quell’intervento aveva affermato con chiarezza che la diffusione della fede mediante la violenza è irragionevole e che non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio. La mancata lezione all’Università “La Sapienza” di Roma, dove il Santo Padre fu accusato di essere un nemico della ragione moderna e della scienza. Lui che in questi anni di pontificato ha dimostrato di essere il Papa della ragione. Accusato ripetutamente di essere un Papa anticonciliare, lui che fu nominato da Giovanni XXIII tra i teologi ufficiali del Vaticano II. La liberalizzazione della Messa in latino, ancora oggi guardata con una certa diffidenza da parte di alcuni vescovi cattolici. La revoca della scomunica ai vescovi lefebvriani, con l’accusa di condividere le tesi negazioniste sulla Shoah sostenuti da uno dei quattro presuli graziati dal suo provvedimento di paterna misericordia. E, infine, l’accusa più infamante: quella di aver coperto, prima come Arcivescovo di Monaco, e dal 1981 nella veste di Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, i preti che si sono macchiati di abusi sessuali su minori, arrivando a coinvolgere il fratello Georg negli anni in cui dirigeva il famoso coro del Duomo di Ratisbona. Mentre Benedetto XVI è “il campione della lotta alla pedofilia nella Chiesa”, come ha ricordato il vescovo di Washington. Il Papa che ha incontrato, e continuerà a farlo nel futuro, vittime di abusi commessi da preti pedofili. Il Papa che pochi giorni prima di essere eletto al soglio di Pietro, nella meditazione alla nona stazione della Via Crucis al Colosseo, aveva gridato con forza: “Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui!”.
Perché questo Papa è così sotto attacco, dall’esterno ma anche dall’interno della Chiesa, nonostante la sua evidente innocenza rispetto alle accuse? “Un principio di risposta - afferma Sandro Magister - è che Papa Benedetto è sistematicamente attaccato proprio per ciò che fa, per ciò che dice, per ciò che è”.
Dinanzi a questi ripetuti, violenti quanto ingiustificati attacchi, la Chiesa si stringe in modo particolare attorno alla sua guida, al Successore di Pietro. Benedetto XVI sa che il popolo di Dio non si lascia impressionare dal chiacchiericcio del momento e che la Chiesa di Cristo, edificata sulla roccia indefettibile del Principe degli Apostoli, non vedrà prevalere su di essa le porte degli inferi.
Con questa certezza, Benedetto XVI può continuare a guidare con serenità e mano ferma la barca della Chiesa, affrontando i lupi che certamente non gli daranno tregua, e cercheranno di sbranare tutto il suo delicato e difficile lavoro in favore del dialogo trilaterale tra ebrei, cristiani e musulmani, della pace, della dignità dell’uomo che non viene meno quando la malattia mina la sua efficienza, della sacralità della vita dal suo concepimento fino al suo termine naturale, della santità della famiglia.
Tutti temi che stanno a cuore a Benedetto XVI e che sono al centro dell’agenda del suo pontificato. Ma che turbano la quiete dei suoi aggressori. La dolce rivoluzione di Ratzinger non sarà sconvolta dalle accuse infondate di cui questo Papa è quotidianamente vittima. Benedetto XVI non si dimetterà come chiedono i critici più accesi. Non ne ha motivo. E l’affetto e il sostegno spontaneo del miliardo di cattolici in tutto il mondo sono per lui di incoraggiamento ad andare avanti senza paura.
L’abbraccio dei fedeli per i suoi primi cinque anni di papato si concretizza nell’augurio che gli ha rivolto il Cardinale decano Angelo Sodano la mattina di Pasqua: “Dolce Cristo in terra, la Chiesa è con te”.

(Fonte: Francesco Antonio Grana, Petrus, 13 aprile 2010)

giovedì 10 giugno 2010

Preti. Il complesso di superiorità

Si finisce per chiudere il prete in un vicolo cieco disumano: deve apparire sempre «perfetto», «maestro», dissuaso a mostrare i limiti e incapace di confessare gli errori.
«Sono educati ad essere persone elette, innalzate a una speciale condizione, e ciò inevitabilmente condiziona e stravolge la loro vita anche nelle relazioni personali. Soffrono (e fanno soffrire a chi hanno accanto) le conseguenze di una visione distorta che li mette su un piedistallo, in una condizione di potere. E’ uno stato di cose che favorisce il fenomeno patologico e tragico della pedofilia in ambito ecclesiastico».
Trovo questa dichiarazione nell’intervista (La Stampa, 28 maggio) di una signora che ha amato ed è stata poi lasciata da un prete e devo dire che ¬- fatta salva la conclusione, sulla quale non ho competenze da psicologo per giudicare - mi trovo perfettamente d’accordo. Nel prete viene inculcato una sorta di «complesso di superiorità» che, se da una parte agisce come compensazione a determinate rinunce (al sesso, alla famiglia), dall’altra finisce per chiudere il sacerdote in un vicolo cieco disumano: quello di apparire sempre «perfetto», «guida», «maestro», dissuaso a mostrare i propri limiti e incapace di confessare gli errori. L’«uomo che non deve chiedere mai», perché tutto sa e tutto dirige; almeno nella sua parrocchia... Col risultato di costringersi talvolta in una situazione d’innaturale solitudine.
Ma se torno su tale teoria, non certo nuova, è perché noto una tendenza a ricadere nel medesimo difetto in tanti preti giovani. Complice il calo di vocazioni, che tanto terrorizza vescovi e superiori, si è portati infatti a enfatizzare oltre misura la «superiorità» del sacerdozio sugli altri stati, l’«eccezionalità» della «chiamata di Dio» (perché, forse che il Padreterno non «chiama» anche chi non si fa prete?); il messaggio inconscio è che il sacerdote non è uno «normale», inteso come «uno qualunque». E’ diverso, è sopra, è di più, è meglio...
E se il poveretto non ha la forza di sottrarsi a tale subdola trappola, che apparentemente lo esalta ma in realtà lo priva della sua umanità, le conseguenze (anche senza arrivare alla pedofilia) sono sempre pesanti. Anzitutto per lui e poi per la comunità in cui vive. Preti «normali»? Si, grazie!

(Fonte: Roberto Beretta, Vino nuovo, 8 giugno 2010)

Se la parrocchia «chiude per ferie»

Sarà logoro, ma il luogo comune vale anche per la pastorale: non ci sono più le stagioni di una volta. E bisognerebbe prenderne atto anche nelle verifiche pastorali.
«Chiusa per ferie (dei parrocchiani)»: a qualcuno viene la tentazione di affiggere sulla porta della chiesa questo laconico avviso, quando ai primi di giugno l’assemblea domenicale si presenta già dimezzata e brilla per le assenze. Come se con la consegna delle pagelle fossero fatalmente terminate anche le lezioni alla scuola del Vangelo e la festa parrocchiale avesse sancito un mesto congedo: «…andate in pace», e arrivederci a settembre.
Tanto che qualche parroco, avvertendo una sorta di sindrome da nido vuoto, già nelle settimane di maggio ha provato dal pulpito a prevenire il clima da «rompiamo le righe». «La vita di fede non dipende dal calendario scolastico - ha ricordato - la campanella non suona per noi».
Sarà logoro, ma il luogo comune vale anche per la pastorale: non ci sono più le stagioni di una volta. Tra il prenderne atto e il correre ai ripari, il tema merita di entrare nell’ordine del giorno delle verifiche pastorali e nel dopo-pizza dei catechisti. «Noi ci arrabattiamo a condensare tutto in otto mesi: feste, gite, sacramenti. Ma gli altri quattro? Vuoto pneumatico?» protestano i consiglieri dai capelli bianchi, memori dei «bei tempi andati» in cui le famiglie non si disperdevano d’estate, “desaparecide”.
Al contrario, i promotori degli affollati Grest di giugno o settembre o degli inossidabili campi estivi offrono alle famiglie sprazzi di vita comunitaria talvolta più produttivi di un intero anno di riunioni, riabilitando le settimane-cuscinetto prima e dopo il lungo sonno estivo. Cambia la pedalata, ma non s’interrompe di fatto il ritmo. La carovana parrocchiale cadenza solo l’andatura sulle possibilità e lo sforzo dei suoi membri, senza girare a vuoto ma dosando le energie.
Applicando un saggio federalismo pastorale, molte comunità hanno adattato le tappe al proprio contesto, come evidenzierebbe un panoramico Giro d’Italia: ecco lassù la parrocchia alpina ad alta vocazione turistica (tutti i genitori impegnati negli alberghi sette giorni su sette), che sceglie di riservare i mesi di novembre o quello di aprile per le proposte più significative. O la parrocchia marina che s’impegna ad aggiornare la sagra patronale, con proposte spiritualmente esigenti rivolte proprio ai villeggianti.
Troppo apocalittici o troppo integrati? È tutt’altro che inutile il confronto sulle scelte di fondo del calendario pastorale (il «cogliere i segni dei tempi» del Vaticano II oggi vuol dire anche saper «cogliere i tempi») e non va risolto con rigide e colpevolizzanti prese di posizione.
Forse dovrebbero essere meno sottovalutate le esigenze «interne» alle stesse famiglie: salvaguardiamo i rari spazi per una relazione «liberata nel tempo» tra genitori e figli! Al contrario, dovrebbero essere più valorizzate le loro possibilità di portare o ricevere una testimonianza di stile evangelico negli ambienti in cui trascorrono i vari segmenti d’estate.
Con la fiducia che il kairos, il momento di grazia, non dipende soltanto dal planing strategico del Consiglio pastorale e può rivelarsi sempre anche in un impensabile «altrove». La distanza fisica dalla «propria» chiesa non comporta necessariamente distacco dall’appartenenza ecclesiale, anzi può essere vissuta con provvidenziale nostalgia. Al punto che quel dirsi in giugno «arrivederci» diventa l’inizio di un’attesa.

(Fonte: Diego Andreatta, Vino nuovo, 8 giugno 2010)

Il Papa: la tela da ritessere

I viaggi di Benedetto XVI, al di là del loro grande valore pastorale, si stanno rivelando un utile strumento per approfondire la conoscenza del pensiero e della personalità del Pontefice. È accaduto anche nella tre-giorni di Cipro, una visita che aveva all’inizio diversi fuochi d’interesse (pace in Medio Oriente e presenza dei cristiani, rapporto con gli ortodossi, dialogo con i musulmani i tre sicuramente preminenti), e che proprio nei giorni della vigilia si era colorata di tinte inopinatamente fosche a causa dell’attacco israeliano alle navi degli attivisti filo-palestinesi e dell’omicidio di monsignor Luigi Padovese.
Invece, una volta di più, Papa Ratzinger ha dimostrato di avere, di fronte alle acque agitate della cronaca, la fermezza propria di chi è stato chiamato a governare con saggezza la barca di Pietro. Non solo ha raccomandato di seguire la rotta della pace, della riconciliazione e del dialogo in tutti gli incontri della fitta agenda del viaggio.
Ma ha anche fornito la bussola sicura per far sì che da quella rotta non ci si allontani anche quando il barometro dei rapporti tra i popoli e le religioni – e, putroppo, continua ad accadere – si mette a tempesta. «Bisogna avere il coraggio e la pazienza di ricominciare sempre di nuovo», ha detto ai giornalisti nella consueta conferenza stampa tenuta sull’aereo durante il volo di andata. Più che una semplice esortazione, una regola d’oro che offre la cifra interpretativa non solo del viaggio, ma anche di tutte le bufere che questo pontificato ha attraversato in poco più di cinque anni. In sostanza, quasi capovolgendo la famosa immagine della tela di Penelope, Benedetto XVI invita a ritessere alla luce della retta ragione quello che altri distruggono e disfano nelle ombre di inumane passioni.
Lo dice naturalmente in primis ai cristiani, ma con loro anche a tutti gli uomini di buona volontà, a partire da quelli che operano negli organismi politici nazionali e internazionali. Mai pensare che di fronte alla violenza, anche la più ingiusta ed efferata, nulla ci sia da fare. Al contrario, le vie della pace, proprio come quelle di Dio, sono infinite. Un messaggio, questo, che da Cipro risuona innanzitutto sulle vicine sponde del Medio Oriente martoriato.
Ma che si può applicare anche ai rapporti cattolico-ortodossi, alla ricerca della difficile soluzione della questione cipriota, al dialogo non sempre agevole con l’islam. Pazienza e coraggio, dunque, per ricominciare a trattare, per fermare il bagno di sangue, per promuovere la pacifica convivenza tra cristiani, ebrei e musulmani. Pazienza e coraggio per non arrendersi di fronte alle «gelate» (che pure ci sono state e non molto tempo orsono) del cosiddetto «inverno ecumenico». Pazienza e coraggio, infine, per ricordare a tutti (musulmani compresi) che i diritti umani hanno valore universale. E che, tra di essi, la libertà di religione e di coscienza non sono certamente degli optional.
Per Benedetto XVI queste non sono solo parole. Egli per primo ha mostrato di crederci a tal punto da applicarle anche quando per fraintendimenti causati in gran parte dai media (discorso di Regensburg e conseguente crisi con gli islamici, remissione della scomunica ai lefebvriani e problemi con gli ebrei) o per colpe altrui (questione dei preti pedofili) ha dovuto ritessere da capo rapporti e ricentrare attenzioni. Le stesse parole pronunciate sull’omicidio di monsignor Padovese si iscrivono in questo contesto. Cioè nella profonda convinzione di un uomo del Vangelo che ha in Cristo la vera pace e non si stanca di annunciarla al mondo, vivendola ogni giorno. Anche quando le vicende della vita costringono a ricominciare da capo. Con coraggio e pazienza.

(Fonte: Mimmo Muolo, Avvenire, 8 Giugno 2010)

Non convincono i baci gay in formato gigante

Baci gay a colori da un metro per settanta centimetri ciascuno, una lei che bacia sulla bocca lei, e un lui che bacia sulla bocca un lui: dopo quindici giorni di pioggia (molta) e di sole (poco), restano ancora in bella mostra le centinaia di grandi manifesti affissi nelle città di Udine e Pordenone per celebrare la Giornata mondiale contro l`omofobia. Iniziativa che ha ottenuto il patrocinio delle amministrazioni comunali delle due città. Due città piuttosto piccole: meno di centomila abitanti Udine, il resto a Pordenone.
Centocinquantamila persone in tutto: magari tutte d`accordo nella giusta lotta contro l`omofobia (e non c`è pubblica scuola che non abbia ospitato, in orario scolastico, le associazioni di “categoria” impegnate in un giro di “informazione”). Ma non tutte d`accordo sul fatto che il modo scelto per condurre tale battaglia sia stato il migliore. A Pordenone, il vescovo Ovidio Poletto ha detto di “non poter tacere” la propria contrarietà, se non altro nel nome dei diritti dei minori; se non altro in nome dei rapporti, fin qui sempre ottimi, con l`amministrazione comunale (che,a sua volta, non ha mai lesinato lodi e ringraziamenti per l`apporto di insostituibile quantità e qualità di soluzioni fornito dalle organizzazioni diocesane, Caritas in primis, sul fronte sociale dell`integrazione degli immigrati e altri emarginati di ogni tipo e genere).
Il presidente di Confcommercio, poi, si è lamentato del fatto che le foto di baci gay siano state riprese ai bordi di tavolate imbandite con tipici prodotti locali (vini e prosciutti). A Udine, dalla curia arcivescovile, hanno fatto sapere di essere disponibilissimi a un confronto con le associazioni organizzatrici, Argigay e Arcilesbica: confronto, sì, ma senza che questo elimini un disaccordo di fondo sull`iniziativa, per i ragionati motivi sopraesposti e altri ancora.
Pur restando aperti a un sereno confronto sul tema con chi la pensa diversamente,siamo su questa linea. C`è da chiedersi se, anche a bambini e giovani, sia proprio indispensabile imporre, in formato gigante, il modello della “coppia” gay che, di per sé, è una coppia sterile. Cosa che non è certamente una colpa, ma che non si vede come possa diventare in qualche modo un merito.
In una regione come il Friuli Venezia Giulia, afflitta da uno dei più pesanti cali demografici d`Italia e d`Europa, avremmo preferito che le amministrazioni comunali di Pordenone e Udine avessero individuato altre campagne prioritarie da patrocinare, altre politiche da preferire. Prendendo esempio, magari, dalle “Città per la famiglia” che, con Parma in testa, già da quattro anni organizzano tutta la politica amministrativa intorno alla famiglia aperta alla generazione, a sostegno di chi ha figli. Sappiamo bene che la comunità gay ha una capacità di spesa dieci volte superiore a quella eterosessuale; e tuttavia , come la gravissima crisi economica dimostra ogni giorno, i paesi giovani (Cina, India etc.) riescono a farvi fronte molto meglio di quelli vecchi. Nell`Italia più giovane del 1975, la pressione fiscale era al 25%; nell`Italia rapidissimamente invecchiata di oggi è al 45%. La vecchia Europa, su cinquecento milioni di abitanti, ne ha ottanta di giovani. In Turchia, su ottanta milioni di abitanti, quaranta milioni, la metà, hanno meno di trent`anni . Quando essa
entrerà a far parte dell` Europa, forse anche nel vecchio continente , che più vecchio non si può, si comincerà a capire e a toccare con mano che, pur nel rispetto dei diritti di tutti, omosessuali compresi, forse ci sono altre priorità da promuovere. E altre nobili cause cui concedere il pubblico patrocinio.

(Fonte: Gabriella Sartori, Piùvoce.net, 7 giugno 2010)

venerdì 4 giugno 2010

Una vicenda imbarazzante

Continuando a scavare nella storia della pedofilia nella Chiesa cattolica, ci imbattiamo in un personaggio singolare, salito agli onori delle cronache nazionali proprio qualche giorno fa. E’ un prete, si chiama don Domenico Pazzini, ha 73 anni, ed è stato fermato a Milano per violenze su un ragazzino tredicenne che aveva adescato. Nella sua abitazione è stato ritrovato del materiale pornografico omosessuale.
Ora, questo don Pazzini non è un sacerdote come molti altri. E’ uno studioso, un uomo di cultura, conferenziere, autore di libri, docente universitario a Verona e (un tempo) anche all’Università Cattolica, che si era sobbarcato della missione di guidare gli omosessuali cattolici. Uno dei suoi ultimi libri s’intitola “Le mani del vasaio: un figlio omosessuale. Che fare”. Un prete in trincea, dunque, in una trincea molto particolare, quella del mondo omosessuale, contro il quale sarebbe schierata la Chiesa. E infatti don Pazzini, in un articolo scritto nel 2005, pare che abbia criticato l’allora cardinal Ratzinger proprio per le sue posizioni sui gay e fu per questo cacciato dal seminario.
A quell’epoca il sacerdote insegnava a Verona. L’articolo in questione apparve sul Corriere del Veneto. Vi si leggeva: “In certi ambienti mi hanno anche accusato di gettare confusione nel popolo di Dio” e, più avanti, si parlava di Ratzinger, il cui nome, non aveva allora (e supponiamo anche oggi) “buon corso” nell’ambiente gay, anche cattolico.
Cinque anni fa il don Pazzini avrà fatto la figura dell’onesto perseguitato, del perfetto esempio della Chiesa “buona” che lotta contro la Chiesa “cattiva” e intollerante, quella dei tipi alla Ratzinger. Oggi, però, la cronaca dovrebbe imbarazzare non poco chi aveva tirato troppo in fretta una tale conclusione. Don Pazzini è sotto accusa per quello squallido delitto di cui la stampa del mondo intero sta accusando certi uomini di Chiesa. Pedofilia. Sfruttamento di un tredicenne, in una relazione omosessuale. E la Chiesa di Ratzinger, quella che lo espulse dal seminario (luogo, è bene ricordarlo, frequentato da giovani minorenni), risulta non essere stata “cattiva”, ma accorta e lungimirante.
Don Pazzini fu accusato allora (parole sue) di “gettare confusione nel popolo di Dio”. Chi lo accusò all’epoca era stato un buon profeta, non un maligno inquisitore. Oggi questo sacerdote è uno di quelli che con la sua vicenda sbatte di nuovo la Chiesa in prima pagina, con grave scandalo per il popolo di Dio. Don Pazzini ha commesso un peccato gravissimo, che lo rende pronto per l’inferno. Ha trascinato nel peccato un’altra persona e ha dato grave scandalo. Gli auguriamo, ovviamente, di imparare la lezione e di ritrovare la necessaria umiltà per riprendere in mano la propria vita e salvare la propria anima.
Comunque, tutta questa vicenda è assai interessante. C’è un dato di fatto che emerge con chiarezza (del resto evidenziato dalle stesse autorità ecclesiastiche): la stragrande maggioranza dei reati di pedofilia coinvolge dei sacerdoti e dei maschietti, quindi avviene in un contesto di omosessualità. Il sacerdote che ha pulsioni verso l’altro sesso, di solito ha una strada davanti: si spreta e va a vivere con la sua donna. Dopo il Concilio Vaticano II è noto che i casi di questo genere sono stati moltissimi. Sono casi che provocano una ferita nel popolo di Dio, ma uno scandalo meno grave rispetto a quello di un don Pazzini, che statisticamente è il più diffuso.
Ecco allora che la vicenda dei preti pedofili diventa come un boomerang per tutti coloro che vorrebbero insegnare alla Chiesa a trattare con gli omosessuali. Perché in realtà la Chiesa farebbe bene a controllare di più e meglio quello che avviene nei seminari, per esempio, e dovrebbe allontanare senza troppe esitazioni coloro che manifestano certe tendenze. Qualcuno griderà ancora allo scandalo, all’intolleranza, all’oscurantismo medievale. Faccia pure. Ma quando si tratta di evitare il ripetersi di casi come quello di don Pazzini, nessuna misura cautelativa è mai di troppo. bisognerebbe davvero pensarci due, tre, quattrocento volte prima di mettere una persona con inclinazioni omosessuali a fare il parroco o il viceparroco in una parrocchia.
Paradossalmente ci troviamo nella situazione in cui la gerarchia va accusata non di aver "discriminato" degli omosessuali, ma di non averlo fatto. La Chiesa che prudentemente si cautela,dimostra infatti,di volere veramente il bene delle persone, molto più di coloro che si trincerano dietro la facile accusa di omofobia.

(Fonte: Gianluca Zappa, La Cittadella, 30 maggio 2010)