venerdì 28 marzo 2014

Ferrara e Gnocchi alla Fondazione Lepanto

Non un laico minuto di silenzio, ma una convinta, partecipata preghiera recitata per Mario Palmaro dagli oltre 200 presenti ha aperto la conferenza, promossa da Fondazione Lepanto martedì scorso a Roma, per presentare Questo Papa piace troppo (ed. Piemme, Milano 2014, €15,90), il libro, l’ultimo, scritto da Palmaro a sei mani con Alessandro Gnocchi e Giuliano Ferrara, presenti all’evento.
«Mario Palmaro non è presente soltanto nel ricordo – ha detto, aprendo la serata, il Prof. Roberto de Mattei – ma anche con l’esempio ed il modello lasciatoci di cristiano integro e libero». Appassionato e coinvolgente l’intervento del direttore del “Foglio”, Giuliano Ferrara, che fin dall’inizio ha avuto il coraggio ed accettato la sfida di ospitare senza filtri, senza infondati timori e senza inutili censure gli articoli di Gnocchi e Palmaro sul proprio giornale, aprendo così le sue pagine  ad un interessante dibattito teologico e culturale. «La Chiesa aveva bisogno di nuovo cemento – ha detto ad un pubblico numeroso ed attento – dopo la pastoralità arrembante e vigorosa di Giovanni Paolo II e dopo il dialogo forte avviato col mondo da Joseph Ratzinger, come Cardinale prima, come Benedetto XVI poi».
Ma il nuovo Pontefice, Papa Francesco, divenuto sacerdote dopo il Concilio Vaticano II, latinoamericano con radici europee, corrisponde a questo cemento? Il fatto che di botto le violente critiche, vomitate dal mondo sulla Chiesa flagellata dall’accusa di pedofilia, fossero sparite di fronte al «gesuita che dice buonasera» ha ingenerato in Ferrara la percezione che «le forze che vogliono democratizzare e laicizzare la Chiesa ce l’avessero fatta». Bastano il «patetismo e il sentimentalismo mimetico versato nell’abisso del perdono, trascurando i rigori della giustizia, dell’etica cattolica, della pedagogia esterna all’interiorità del credente», bastano «uno stile ed un atteggiamento pastorale diverso», per «operare la riconquista» del mondo secolarizzato?
La «Chiesa Cattolica esce indebolita dalla frattura, dall’abisso tra ciò che insegna e le pratiche dei credenti – ha detto Giocando la carta della collegialità confusa, si passerà dalle nuove forme di pastoralità ad una nuova esperienza di dottrina e questo rappresenta un cedimento strutturale, il trionfo del relativismo. Io – ha proseguito – sono innamorato della Chiesa che contraddice il mondo e che si lascia anche contraddire dal mondo , portando Verità e Tradizione. Una rottura dottrinale sulla famiglia, ad esempio, costituirebbe un dramma dalle conseguenze incalcolabili».
Alessandro Gnocchi ha invece proposto un sentito, commosso ricordo dell’«amico fraterno» e collega Mario Palmaro: «Io e Mario parlavamo quotidianamente del fatto di non essere di fronte ad una cesura tra tradizione e progresso, bensì tra Chiesa e mondo», una Chiesa lentamente, progressivamente privata delle proprie connotazioni più specifiche ovvero degli aspetti sacramentale, dogmatico e liturgico. Dal «“buonasera” di Papa Francesco è giunta una popolarità mediatica, che ne ha fatto un leader invece del Sommo Pontefice». Ciò cui siamo oggi di fronte è uno «stravolgimento di quella che è la struttura della Chiesa» e questo «con la connivenza dei mezzi di comunicazione.
Ciò che ha spaventato me e Mario è stato constatare come tutti coloro ai quali questo nuovo Pontificato piace tanto siano gli stessi, che noi abbiamo sempre combattuto». Ma Mario Palmaro oggi porta avanti la propria battaglia ad un altro ed alto livello, dopo aver accolto con «piena sottomissione» la volontà divina. Osservarlo attraverso le lenti del male che progrediva, della sofferenza che avanzava inesorabile, ma anche della serenità con cui attendeva l’abbraccio col Padre, «è stato per me un motivo di Grazia», ha ricordato Gnocchi, commuovendosi e commuovendo con le parole e con uno sguardo, in cui si leggeva con chiarezza la profonda fraternità cristiana vissuta con l’amico e collega.
Il prof. de Mattei, dopo un ampio, partecipato dibattito, ha concluso, proponendo un confronto: «Se pensiamo allo stile della Compagnia di Gesù, una formidabile armata guidata come da un generale da S.Ignazio di Loyola e capace di fermare il protestantesimo dilagante della Riforma, e lo confrontiamo con certe scelte quali lo show canoro proposto in tv da Suor Cristina, capiamo come certe parole e certe movenze non esprimano una Chiesa capace di conquistare il mondo, bensì un mondo capace di secolarizzare la Chiesa». Una prospettiva, cui è urgente opporre, invece, un progetto di riconquista culturale e spirituale della società e dell’uomo.

(Fonte: Mauro Faverzani, Corrispondenza Romana, 27 marzo 2014)

Rai1: Gogna e Arena

Gogna e Arena. Il sangue almeno è stato risparmiato domenica su Rai 1, ma tutto il resto invece è scorso abbondantemente. A cominciare dalla messa in stato d'accusa del parlamentare Ncd Carlo Giovanardi, vittima sacrificale della trasmissione che domenica pomeriggio aveva come tematica clou la presenza di Luxuria al liceo Muratori di Modena. Lui, il Vladimiro più famoso d'Italia, era presente all'Arena su Rai 1, ospite di Massimo Giletti, e non poteva essere altrimenti, dato che era assiso al centro della scena attorniato da diversi commentatori, da Luisella Costamagna a Daniela Santanché e Klaus Davi, da Simona Bonafè (Pd) a Irene Tinagli (Scelta civica).
A fare da guastafeste il senatore modenese, che nei giorni scorsi si è battuto per inserire all'interno del dibattito scolastico la presenza di un relatore che rappresentasse anche un punto di vista diverso da quello espresso da Luxuria e dal presidente Arcigay. Dalla tv di Stato ci si aspetta sempre un'equidistanza di posizioni in grado da tutelare tutti. Invece, vuoi la scelta degli ospiti, vuoi la tematica, che è quanto di più politicamente corretto possa esserci sulla piazza oggi, Giovanardi ha fatto la parte del brutto, dello sporco e anche del cattivo. Con buona pace del dibattito che si è svolto a senso unico e con un unico scopo recondito: demolire la presenza dei cattolici. Provare a vedere per credere.
Salvate il soldato Giovanardi, verrebbe da dire dopo aver visto il poco “democratico” show che ha certificato come la censura di Stato sia già in atto in applicazione delle linee guida dell'Unaar. Luxuria è a suo agio: dice che «l'incontro è saltato perché ci sono stati 30 genitori che hanno fatto fuoco e fiamme su un giornale locale». Una palese falsità che Giletti non si è minimamente preoccupato di verificare dato che i genitori erano oltre 50 e il fuoco e fiamme a cui allude il transgender è semplicemente una lettera in cui richiedevano un adeguato contraddittorio. Nella fiera delle falsità c'è anche il fatto che l'incontro sia saltato. Non è vero e i lettori della Bussola lo sanno. È stato soltanto posticipato di un mese per permettere ai genitori di trovare due relatori che offrissero un'altra visuale sul tema transessualità. Ma ormai il titolo della puntata era “Luxuria censurata”, quindi tutti gli interventi dei commentatori, giornalisti e politici annoiati alla domenica pomeriggio presenti per dovere di firma alla causa, si sono adeguati.
Significativo anche come Giletti abbia liquidato il rifiuto dei genitori a partecipare in studio. “Incomprensibile”. Peccato che non abbia parlato del sacrosanto diritto che i genitori hanno di tutelare la privacy dei loro figli, i quali, va detto per dovere di cronaca, nei giorni caldi sono stati anche minacciati dai coetanei pasdaran, che avevano promosso l'incontro.
Dopo le interviste a senso unico fatte a scuola, dove uno studente è persino arrivato a dire che erano contrari 4 genitori, Luxuria ha ricevuto il suo primo applauso a scena aperta quando ha detto che «avevano paura che i figli potessero essere influenzati irrimediabilmente.
Ma la transessualità non si trasmette per via aerea, mentre ciò che si può trasmettere è l'educazione al rispetto». Applausi scroscianti. In questa storia, di rispetto, soprattutto dei giovani, sembra essercene stato poco.
Così Giovanardi, in collegamento da Bologna, ha ribadito come l'assemblea sia stata confermata dopo che l'Istituto ha accettato la presenza di un relatore che facesse da contraltare al transgender e al presidente dell'Arcigay. Niente da fare. Il fuoco incrociato contro Giovanardi è stato immediato. Klaus Davi è stato patriottico: «Giovanardi, con tutti i problemi che ha l'Italia, questa è una polemica nata sul nulla».
Il senatore Ncd ha denunciato di voler combattere la censura perché con la presenza a senso unico di Luxuria si voleva impedire un contraddittorio. «È Luxuria che vuole la censura – ha tuonato – spalleggiato dal Pd che voleva trasformare l'assemblea in un direttivo di partito». A quel punto Luxuria ha fatto notare che in democrazia bisogna rispettare le decisioni «anche per un solo voto di scarto». «Una bella manifestazione di dittatura della maggioranza», ha ribattuto il parlamentare.
Il transgender capisce che con la dialettica stava soccombendo, così ha sfoderato l'arma del consenso: «Lei Giovanardi è un omofobo di mestiere», ha ribattuto più volte mentre un ascoltatore, timidamente, faceva presente che i genitori hanno esercitato il loro ruolo. Ambigua Daniela Santanché la quale ha detto che «da madre non delego alla scuola l'educazione, ma l'istruzione, quindi bisogna avere un approccio laico perché i ragazzi si formino un'opinione. Il mondo di Giovanardi non esiste più». La deputata di Forza Italia però si è dimenticata di dire che cosa avrebbe fatto quando una scuola, come è successo a Modena, rompendo il patto di alleanza educativa con i genitori, si mette ad educare a senso unico.
Irene Tinagli di Scelta Civica pilatescamente, come è nel dna della creatura politica fondata da Mario Monti sentenzia: «I ragazzi devono farsi un'opinione» mentre la Bonafè tocca l'apice dell'applauso facile quando si chiede a che cosa serva il contraddittorio: «Se parlo di olocausto devo chiamare per forza un nazista?». A chiudere il quadro dei supporter di Luxuria ci ha pensato la giornalista Luisella Costamagna che ha ribadito come la scuola pubblica sia laica e non cattolica. In realtà anche la scuola non statale è pubblica, ma queste informazioni ai soloni della domenica annoiata non arrivano. Ecco il cuore del problema, che Luxuria non si è nemmeno sporcato le mani a sollevare: censurare le opinioni non conformi e impedire ai cattolici di parlare nell'arena pubblica. Un rischio che Giovanardi, indignato per il paragone con il nazismo, ha subito denunciato rivendicando di essere stato l'unico a difendere il pluralismo. In effetti paragonare un cattolico non allineato ad un nazista potrebbe essere solo l'ultima frontiera della gender strategy. Monitoriamo questa deriva, potrà presto diventare realtà.
Giovanardi viene così liquidato da Giletti con l'invito a “rispettare le minoranze”. Ma che succede se le minoranze ormai sono i cattolici? Silenzio. Il resto, estromesso dall'Arena pubblica il nemico numero uno, è stato un monologo a senso unico di Luxuria, che gli ospiti hanno ascoltato in religioso silenzio: «Avrei voluto dire a quella scuola di quando la maestra mi bacchettò le mani perché mi piacevano i bambini», ha detto lui commuovendo gli astanti e utilizzando un pathos, che neanche un capitolo finale di libro Cuore sarebbe in grado, di raccontare”.
Resta solo una domanda: perché quel “avrei voluto dire?”. Forse perché all'incontro di aprile con i controrelatori presenti, Luxuria non si presenterà? Il giorno dopo Giovanardi – al telefono con la NbQ - è amareggiato per il trattamento riservato. «I genitori in questa vicenda sono stati minacciati, mentre la tv di Stato si permette di paragonare i cattolici ai nazisti. Una trasmissione così faziosa non l'avevo mai vista. C'è sempre una prima volta». Nel frattempo i genitori di Modena hanno ottenuto una sponda anche nel consiglio dei genitori dell'altro liceo classico di Modena, il San Carlo. In una lettera ai giornali Andrea Mazzi, Giuliano Ferrari, Mariangela Grosoli e Ludovica Levoni hanno detto che «è grave se un gruppo di genitori che interviene nell'attività scolastica, venga tacciato di "invasività", quasi che questi si occupassero di una questione che non li riguarda, al di fuori delle proprie competenze». «Proprio perché la scuola è una realtà educativa, che ha il compito di favorire negli studenti la creazione di uno spirito critico, è importante che quando si affronta qualunque tematica, ci sia un confronto a più voci, di pari competenza e autorevolezza, in modo da favorire la ricerca e l'analisi critica dei luoghi comuni e delle visioni stereotipate. Solo in tal modo l'assemblea si traduce in una crescita dello spirito critico degli studenti posti così in grado di valutare ed orientarsi in una pluralità di scelte di vita e di opinioni», hanno detto.

(Fonte: Andrea Zambrano, La nuova bussola quotidiana, 25 marzo 2014)

Concistoro Segreto: cosa accadde.

Doveva essere segreto, il Concistoro del 22 febbraio, per discutere della famiglia. E invece dall’alto si è deciso che fosse opportuno rendere pubblica la lunga relazione del card. Walter Kasper in tema di eucarestia ai divorziati-risposati. Probabilmente per aprire la pista in attesa del Sinodo di ottobre sulla famiglia. Ma una metà del Concistoro è rimasta segreta: e ha riguardato gli interventi dei cardinali. E forse non a caso, perché dopo che il card. Kasper ha illustrato la sua lunga (e a quanto pare non lievissima, quando pronunciata) relazione parecchie voci si sono levate per criticarla. Tanto che nel pomeriggio, quando il Papa gli ha dato il compito di rispondere, a molti il tono del porporato tedesco è parso piccato, se non stizzito.  
L’opinione corrente è che il “teorema Kasper” tenda a far sì che possano comunicarsi in generale i divorziati risposati, senza che il precedente matrimonio venga riconosciuto nullo. Attualmente questo non avviene; in base alle parole di Gesù, molto severe ed esplicite sul divorzio. Chi ha una vita matrimoniale completa senza che il primo legame sia considerato non valido dalla Chiesa si trova, secondo la dottrina attuale, in una situazione permanente di peccato. 
In questo senso hanno parlato chiaro il cardinale di Bologna, Caffarra, così come il Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il tedesco Mueller. Altrettanto esplicito il card. Walter Brandmuller (““Né la natura umana né i Comandamenti né il Vangelo hanno una data di scadenza…Serve il coraggio di enunciare la verità, anche contro il costume corrente. Un coraggio che chiunque parli in nome della Chiesa deve possedere, se non vuole venir meno alla sua vocazione…Il desiderio di ottenere approvazione e plauso è una tentazione sempre presente nella diffusione dell’insegnamento religioso…”. E in seguito ha reso pubbliche le sue parole). Anche il presidente dei vescovi italiani Bagnasco si è espresso in maniera critica verso il “teorema Kasper”; così come il cardinale africano Robert Sarah, responsabile di “Cor Unum” che ha ricordato, in chiusura dei suo intervento come nel corso dei secoli anche su questioni drammatiche ci siano state divergenze e controversie all’interno della Chiesa, ma che il ruolo del Papato è sempre stato quello di difendere dottrina.  
Il cardinale Re, uno dei grandi elettori di Bergoglio, ha fatto un intervento brevissimo, che si può riassumere così: prendo la parola un attimo, perché qui ci sono i futuri nuovi cardinali, e magari qualcuno di loro non ha il coraggio di dirlo, allora lo dico io: sono del tutto contrario alla relazione. Anche il Prefetto della Penitenzieria, il card. Piacenza si è detto contrario e ha più o meno detto: siamo qui adesso e saremo qui a ottobre per un Sinodo sulla Famiglia, e allora volendo fare un Sinodo in positivo non vedo perché dobbiamo toccare solo il tema della comunione ai divorziati. E ha aggiunto: Volendo fare un discorso pastorale mi sembra che dovremmo prendere atto di un pansessualismo diffusissimo e di un’aggressione dell’ideologia del gender che tende a scardinare la famiglia come l’abbiamo sempre conosciuta. Sarebbe provvidenziale se noi fossimo lumen gentium per spiegare in quale situazione ci troviamo e cosa può distruggere la famiglia. Ha concluso esortando a riprendere in mano le catechesi di Giovanni Paolo II sulla corporeità perché contengono molti elementi positivi sul sesso, sull’essere uomo, l’essere donna e la procreazione e l’amore.  
Il cardinale Tauran, del Dialogo Inter-Religioso, ha ripreso il tema dell’aggressione alla famiglia, anche alla luce dei rapporti con l’islam. E anche il cardinale di Milano, Scola, ha elevato perplessità teologiche e dottrinali.  
Molto critico anche il card. Camillo Ruini. Che ha aggiunto: non so se ho preso bene nota, ma fino a questo momento circa l’85 per cento dei cardinali che si sono espressi paiono contrari all’impostazione della relazione. Aggiungendo che fra quelli che non hanno detto niente e non si possono classificare coglieva dei silenzi “che credo che siano imbarazzati”.
Il cardinale Ruini ha poi citato il Papa Buono. Dicendo, in buona sostanza: quando Giovanni XXIII fece il discorso di apertura del Concilio Vaticano II disse che si poteva fare un Concilio pastorale perché fortunatamente la dottrina era pacificamente accettata da tutti e non c’erano controversie; quindi si poteva dare un taglio pastorale senza timore di essere fraintesi, poiché la dottrina rimane molto chiara. Se avesse avuto ragione in quel momento Giovanni XXIII, ha chiosato il porporato, lo sa solo Dio, ma apparentemente in buona parte forse era vero. Oggi questo non si potrebbe più dire nel modo più assoluto, perché la dottrina non solo non è condivisa ma è combattuta. "Sarebbe un errore fatale" voler percorrere la strada della pastoralità senza fare riferimento alla dottrina.  
Comprensibile dunque che il card. Kasper sembrasse un po’ piccato, nel pomeriggio, quando papa Bergoglio gli ha permesso di rispondere, senza però permettere che si desse vita a un vero contraddittorio: solo Kasper ha parlato. Da aggiungere che alle critiche elevate in Concistoro al “teorema Kasper” se ne stanno sommando, in forma privata verso il Papa, o pubblica, altre, da parte di cardinali di ogni parte del mondo. Cardinali tedeschi, che conoscono bene Kasper, dicono che è dagli anni ’70 che questo tema lo appassiona. Il problema rilevato da parecchie voci critiche è che su questo punto il Vangelo è molto esplicito. E non tenerne conto – questo il timore – renderebbe molto instabile, e modificabile a piacere, qualunque altro punto di dottrina basato sui Vangeli. 

(Fonte: Marco Tosatti, La Stampa, 24 marzo 2014)

Come ti uso il Papa: il metodo Jesus

Il numero di marzo della rivista Jesus, edita dalla San Paolo, è dedicato al primo anniversario dell'elezione di Papa Francesco. In sole dieci righe di editoriale il direttore condensa una vera e propria summa dell'ideologia progressista circa il passaggio da Benedetto XVI a Papa Francesco.
Ecco la summa dei Paolini: "E' passato un anno dall'elezione di Papa Francesco, il 13 marzo 2013, ma la sensazione è che si siano fatti enormi passi in avanti nella Chiesa, riducendo quel ritardo di 200 anni di cui parlava il cardinale Martini". In occasione di questo anniversario bisogna "riflettere sulla Chiesa del futuro, sulle prospettive aperte dalla rinuncia di Benedetto XVI, gesto profetico che ha desacralizzato la figura del Papa, e l'elezione di Bergoglio che ha rimesso al centro il Vangelo".
Il direttore di Jesus ha una grande capacità di sintesi: tante forzature in così poche righe. 
Innanzitutto non è vero che la rinuncia di Benedetto XVI abbia desacralizzato la figura del Papa equiparandola a quella di un presidente di consiglio di amministrazione o di un assessore comunale. E non solo perché costoro non si dimettono mai, ma perché il Papa rimane il Vicario di Cristo. Anche Papa Francesco lo è. Esserlo o non esserlo non dipende dal colore delle scarpe che si indossano. Certamente molti hanno spinto nel senso della desacralizzazoione, ma le grandi masse di persone che vanno in piazza San Pietro all'Angelus domenicale vanno dal Papa, dal Vicario di Cristo, e non da un assessore comunale.
Che Papa Francesco sia gesuita non significa che egli debba approvare qualsiasi cosa i gesuiti di ieri e di domani dicano. Che lo Spirito Santo avesse poi in mente di realizzare il programma del cardinale Martini sembra ancora meno plausibile. Papa Bergoglio è il Papa e non un supporter del cardinale Martini. Ormai comincia a stonare questo tentativo di "gesuitizzare" il Papato. A questo, del resto, bastan padre Spadaro e La Civiltà Cattolica, non c'è bisogno che ci si mettano anche i Paolini. Ma si capisce che l'intento è di ascrivere Papa Francesco ad una corrente. I Papi, però, non partecipano a cordate. 
La rinuncia di Papa Benedetto avrebbe aperto non solo all'attuazione del programma del cardinale Martini, ma anche al ritorno al Vangelo. Papa Francesco, infatti, per la rivista Jesus avrebbe rimesso al centro il Vangelo. E allora uno subito pensa che Paolo VI, Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II e soprattutto Benedetto XVI non abbiano messo al centro il Vangelo. Giovanni Paolo II verrà canonizzato nel prossimo aprile senza che avesse messo al centro il Vangelo. Papa Francesco pensa alla Chiesa del futuro, mentre i predecessori a cosa pensavano? Ma come è possibile che quanto hanno fatto e insegnato questi giganti della fede e della dottrina cristiana venga sepolto sotto queste frasi fatte e liquidato con queste banalità? 
Ma sotto questa fede ridotta a slogan c'è qualcosa che abbiamo già visto. C'è il progressismo applicato alla Chiesa e l'insostenibile idea che la Chiesa di prima fosse peggiore della Chiesa di dopo solo per il fatto di essere prima. Qui la Chiesa vende la sua realtà ontologica alla storia, ossia si vende allo spirito del tempo. Ed è qui che si insinua l'equivoco della pastorale, che viene invocata per aggiornare la Chiesa ai tempi che cambiano, ma il progressismo che fa da sfondo produce inevitabilmente cambiamenti dottrinali.
Sembra un paradosso, ma non c'è frase più equivoca per un cristiano di quella che dice "al centro il Vangelo". L'abbiamo sentita innumerevoli volte - anche nella sua variante "Il Vangelo basta" - da chi, su questa base, voleva distruggere Chiesa, dottrina e tradizione.
La storia si ripete? La frattura tra il prima e il dopo, tra istituzione e carisma, tra lettera e spirito, tra il Papa Francesco reale e un Papa Francesco virtuale, è prodotta dai media e dai loro luoghi comuni, a cui partecipa purtroppo anche la rivista Jesus.

(Fonte: Stefano Fontana, La nuova bussola quotidiana, 21 marzo 2004)

Alessandro Gnocchi: «Chi diventa Papa, non è più lui: è il vicario di Cristo sulla terra»

Vittorio Feltri, pur dichiarandosi ateo, dice che non bisogna mai parlare male del Papa e cita a mo' d'esempio il caso di Umberto Bossi, che nel 2004 attaccò Giovanni Paolo II e pochi giorni dopo fu colpito da ictus cerebrale. «Essendo cattolico, le superstizioni non mi sfiorano», sorride mesto Alessandro Gnocchi, che firma con Giuliano Ferrara e Mario Palmaro il saggio Questo Papa piace troppo, «un vademecum al vetriolo» - così lo presenta l'editrice Piemme - contro Jorge Mario Bergoglio: «I gesti e le parole di Papa Francesco sono un campionario di relativismo morale e religioso; le sue esibizioni di ostentata povertà stucchevoli e ben poco francescane; la sua proclamazione dell'autonomia della coscienza in palese contrasto con il catechismo e il magistero dei papi precedenti».
Anche a Gnocchi, per la verità, è accaduto qualcosa di terribile. Mercoledì 12 marzo, appena 24 ore dopo che il volume era arrivato nelle librerie, ha dovuto accompagnare al camposanto Palmaro, 45 anni, l'amico di una vita, del quale nel 1998 era stato testimone di nozze insieme con Eugenio Corti, autore del celebre romanzo Il cavallo rosso. «Martedì 4, ormai consumato dal cancro al fegato, ha voluto inviarmi alcune integrazioni per il nostro articolo sulla relazione con cui il cardinale Walter Kasper aveva aperto il concistoro sulla famiglia, uscito l'indomani sul Foglio: conservo le note battute al computer con caratteri rossi come se fossero una reliquia. Giovedì 6 ha fatto in tempo a vedere la copia staffetta di Questo Papa piace troppo: era felice. Domenica 9 ha reso l'anima a Dio».
Ma è il modo in cui quest'anima è tornata a Dio che forse dovrebbe impressionare, più del libro, l'augusta persona oggetto degli strali di Gnocchi e Palmaro. «Sono arrivato a casa di Mario alle 19.30. Al capezzale c'erano la moglie Annamaria con i figli Giacomo, 14 anni, Giuseppe, 12, Giovanna, 8, Benedetto, 7, la matrigna, perché la madre morì nel 1968 partorendolo, e due vicine. L'agonia è stata dolorosa, tremenda. Alle 22 abbiamo cantato il Salve Regina. Alle 22.10 è spirato».
Papa Francesco sapeva che quel suo censore, laureato in giurisprudenza alla Statale di Milano con una tesi sull'aborto procurato, docente di filosofia teoretica, etica e bioetica al Pontificio ateneo Regina Apostolorum e di filosofia del diritto all'Università Europea di Roma, era gravemente malato, senza speranza, da quasi due anni. E lo scorso 1° novembre, festa di Ognissanti, intorno alle 18 gli telefonò nella sua casa di Monza, senza passare per il centralino del Vaticano. «Sono Papa Francesco», si presentò. «La riconosco dalla voce, Santo Padre», rispose con candore la moglie, «attenda un attimo». Non disponendo di un cordless, la signora andò a chiamare il marito, che giaceva nel letto. «So che sta male, professore, e prego per lei», si sentì confortare Palmaro, dopo aver raggiunto con fatica la cornetta. «Mario fu molto rincuorato dalla chiamata», racconta Gnocchi. «Al momento del congedo, disse a Francesco: “Santità, forse lei saprà che le ho dedicato alcuni rilievi assai severi. Voglio però confermarle che la mia fedeltà al successore di Pietro resta intatta”. Il Pontefice gli rispose: “Penso che abbia scritto per amore verso la Chiesa. E comunque le critiche fanno bene”».
Adesso guardi, a pagina 35, il capitolo iniziale dell'ultimo libro, con quell'intestazione assai più assertiva del titolo, «Questo Papa non ci piace», e quella firma commerciale, «di Gnocchi & Palmaro», e potresti scambiarlo per un copione farsesco alla Garinei & Giovannini o per un pamphlet ingiurioso. Invece la poco premiata ditta Gnocchi & Palmaro, ben nota ai lettori del Giornale, è stata un'autentica fucina di libri - una ventina - sempre molto documentati, rigorosissimi, dettati soltanto da ardore apologetico nella difesa della Chiesa, della tradizione, della dottrina e della morale, in una parola di quello che un tempo si definiva «depositum fidei».
Gnocchi, 54 anni, bergamasco di Villa d'Adda, sposato, tre figli, è giornalista professionista dal 1992. All'anulare sinistro porta, unito alla fede nuziale, un rosario d'oro di forma circolare; un altro rosario da frate trappista, con i grani di legno che sembrano chicchi di caffè, il teschio ai piedi della croce e otto medagliette sacre ciondolanti, lo tiene nella tasca dei pantaloni. Laureato in filosofia alla Cattolica, ha scritto come free-lance per Gente e Oggi prima d'essere assunto a Historia e poi a Tv Sorrisi e Canzoni. Oggi lavora per i periodici Mondadori. È considerato il maggior studioso di Giovannino Guareschi, al quale ha dedicato cinque saggi, oltre a due antologie scritte in collaborazione con Palmaro. «L'amicizia con Mario nacque proprio da una recensione che dedicò nel 1995, sul Cittadino di Monza, al mio primo saggio sull'inventore di don Camillo e Peppone».
D. Perché è innamorato di Guareschi?
R. «Don Camillo fu l'unico libro che mio padre, un operaio, mi regalò. Avevo 14 anni. Non ho più smesso di leggerlo».
D. Com'è approdato al giornalismo?
R. «Avrei voluto fare il ricercatore, ma l'università non garantiva il pane. Cominciai a collaborare al Candido, il settimanale fondato da Guareschi. Due colleghi, Maurizio Cabona e Alberto Pasolini Zanelli, mi trovarono un posto nella segreteria di redazione del Giornale diretto da Indro Montanelli. Era il 1987».
D. In che modo si definirebbe?
R. «Cattolico tradizionalista. Partecipo alla messa tridentina che si celebra la domenica alle 9 nella chiesa di Santa Maria della Neve a Bergamo. Non provengo da una famiglia bigotta. A 8 anni feci le prove per diventare chierichetto, ma resistetti solo due settimane».
D. Che cosa non la convince di Papa Francesco?
R. «Il consenso generale di cui gode. Il Vangelo insegna: “Guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi”. Luca 6, 26. Mi allarma l'assoluta omogeneità con i mass media, ai quali è sensibilissimo. Crede di servirsene, invece lo usano in chiave mondana. Ormai è costretto a dire solo ciò che s'aspettano da lui».
D. Che altro?
R. «Ha demolito lo spirito della liturgia. Porta una croce pettorale che “deve” sembrare povera. In realtà è d'argento, non di ferro. Ma pare fatta apposta per attirare l'attenzione sulla persona che la indossa, più che su Colui che vi è appeso. Anche quell'incomprensibile decisione di abitare nella Casa Santa Marta, anziché nel Palazzo apostolico... È come se rimproverasse ai predecessori d'essere stati fuori posto».
D. Dice che là si sarebbe sentito solo.
«Ma il Papa è solo! L'uomo più solo che esista al mondo. Dei precedenti pontefici percepivo che erano diversi da me. In Francesco non colgo il senso del sacro».
D. «La Chiesa è un ospedale da campo dopo una battaglia», ha spiegato, non una fortezza. R. R. «È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti».
R. «Come dire che al malato non va imposta nessuna terapia. Invece io penso che la medicina per chi è lontano da Cristo sia molto amara. È l'aspetto forse più inquietante del suo magistero: far credere che vi sia un'alternativa insanabile fra rigore dottrinale e misericordia. Ma il Padreterno è prima di tutto giusto nel distribuire premio e castigo. Se fosse solo buono, non avremmo motivo di migliorarci. Quando poi il Papa in un'intervista a Eugenio Scalfari arriva a dire “io credo in Dio, non in un Dio cattolico, non esiste un Dio cattolico”, è arduo per L'Osservatore Romano o Avvenire dare la colpa a una frase estrapolata dal contesto».
D. Perché avrà invitato a pranzo proprio Scalfari?
R. «Qualche consigliere gli avrà fatto credere che La Repubblica era il pulpito perfetto per farsi ascoltare dai non credenti. Ma quella su Dio che non sarebbe cattolico è un'affermazione che acquista valore dottrinale anche se raccolta da un giornalista, perché nel mondo secolarizzato di oggi un'intervista conta assai più di un'enciclica, forma le coscienze. Il cattolico medio è ignorante, pensa che il Papa sia infallibile sempre, anche quando non parla ex cathedra. Ecco, Francesco ha trasformato un quotidiano laicista in cattedra, dando ragione a Marshall McLuhan, secondo il quale il mezzo è il messaggio. La stampa s'è erta a cathedra e veicola il verbo pontificio che più le fa comodo».
D. In meno di sei mesi Francesco ha dato interviste anche alla Civiltà cattolica, alla Stampa, al Corriere della Sera, alla radio argentina Bajo Flores.
R. «Dovrebbe parlare meno. Il silenzio è eloquente. Giovanni Paolo II evangelizzò di più con la sua muta agonia che non con tutti i viaggi apostolici. So di molti atei che si sono convertiti nel vederlo inchiodato alla croce della sofferenza».
D. Dall'intervista che Leone XIII concesse nel 1892 a Caroline Rémy del Figaro a quella che Paolo VI rilasciò nel 1965 ad Alberto Cavallari del Corriere, trascorsero 73 anni. Ora non passa mese senza un'uscita pubblica.
R. «Quando lavoravo a Historia, un collega propose: “Dovremmo intervistare il Papa”. Il caporedattore Gian Piero Piazza, un non credente, lo zittì: “Il Papa non concede interviste perché è un re”. Aveva colto in pieno la maestà del ruolo».
D. Ma a un cattolico è consentito criticare il Sommo Pontefice?
R. «È addirittura un obbligo sancito per i laici dal canone 212, paragrafo 3, del codice di diritto canonico: “In modo proporzionato alla scienza, alla competenza e al prestigio di cui godono, essi hanno il diritto, e anzi talvolta anche il dovere, di manifestare ai sacri Pastori il loro pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa; e di renderlo noto agli altri fedeli”. Non creda che sia stato facile, per Palmaro e per me, dire a nostro padre che cosa pensassimo di lui».
D. E nemmeno conveniente.
R. «Mi ha turbato il modo in cui padre Livio Fanzaga, direttore di Radio Maria, ci ha cacciati dopo 10 anni di interventi trasmessi gratis et amore Dei. Non erano neppure passate 24 ore dalla sepoltura di Mario quando l'ho sentito infierire via etere, vantandosi del “bel repulisti” compiuto fra i conduttori: “Qualcuno ho dovuto farlo scendere dalla cattedra e metterlo su un semplice seggiolino”. Fra tanti denigratori, nessuno, neppure un prete, ha presupposto la nostra buona fede. Siamo stati inondati di mail e telefonate d'insulti, ci hanno cancellato le conferenze già fissate in giro per l'Italia. Non potendo demolire gli argomenti, sono state demolite le persone».
D. Sa che cosa diceva Nello Vian, amico di Paolo VI e padre di Giovanni Maria Vian, quando il futuro direttore dell'Osservatore Romano da giovane osava avanzare qualche timida critica a un pontefice in carica? «Il Papa è il Papa e tu sei un furfante!».
R. «Si vede che conosceva bene suo figlio. Battuta a parte, capisco l'argomento: il Papa ha sempre ragione. Vorrei tanto che fosse così. Ma bisognerebbe andare a rileggersi la profezia, tanto cara a padre Fanzaga, che la Madonna fece nel 1846 ai ragazzi francesi di La Salette, là dove dice che “Roma perderà la fede”».
D. Come mai le gerarchie sono sempre pronte a bastonare i difensori della tradizione e a rincorrere gli atei?
R. «Me lo chiedo anch'io. Ho visto Giovanni Zenone, editore di molti dei libri che ho scritto con Palmaro, relegato al ruolo di bidello e poi estromesso dall'insegnamento della religione cattolica nelle scuole. Il vescovo di Verona, Giuseppe Zenti, che dialogava in pubblico con Margherita Hack, ha giustificato la rimozione con presunte “carenze pedagogiche e didattiche”. Eppure Zenone, sposato, 6 figli, laureato, ha più titoli di tutti i suoi colleghi, è assiduo ai sacramenti, e tre mesi dopo il provvedimento ha ricevuto in Vaticano il premio Giuseppe Sciacca dalle mani del cardinale Darío Castrillón Hoyos con questa motivazione: “Docente di straordinaria perizia e qualità pedagogiche, ha dato impulso alla diffusione di una sana cultura teologica e storica, scevra da compromessi ideologici e unicamente orientata a superiori finalità spirituali nel rispetto della verità oggettiva, secondo il perenne insegnamento del magistero della Chiesa”».
D. Ma lei che cosa si aspettava da un pontefice nato e vissuto in un Paese dove il 70% dei minori vive nell'indigenza e ogni 5 minuti una ragazza madre fra i 13 e i 17 anni partorisce un bimbo concepito per caso?
R. «Chi diventa Papa, non è più lui: è il vicario di Cristo sulla terra, non l'arcivescovo di Buenos Aires. Anche se si chiama Francesco, dovrebbe tenere ben presente che i diseredati non sono più buoni per il solo fatto d'aver fame. La miseria non rende migliori. È il primo insegnamento che don Camillo impartisce a don Chichì, curato progressista: “La povertà è una disgrazia, non un merito”».

(Fonte: Stefano Lorenzetto, Il Giornale, 23 marzo 2014)

venerdì 21 marzo 2014

Questo Papa piace troppo: l’ultima appassionata opera di Mario Palmaro

Mario Palmaro (Cesano Maderno, 5 giugno 1968 – Monza, 9 marzo 2014), prima di lasciare il mondo all’età di 46 anni non ancora compiuti, ha voluto dare un segno profondo della sua perseverante Fede: il funerale. Mercoledì 12 marzo, nel magnifico Duomo di Monza, si è celebrata una sublime Santa Messa solenne da Requiem, alla quale hanno partecipato circa 1500 persone: un atto sacro e pubblico di grande significato e di immenso valore spirituale.
Il rito latino, interamente cantato in gregoriano da un eccellente coro, è stato di una bellezza straordinaria, che tutti i presenti hanno apprezzato e compreso, benché molti abbiano assistito, per la prima volta nella loro vita, a questa forma di esequie. Il silenzio è stato assoluto, rispettato anche dalle decine e decine di bambini, che hanno respirato, in maniera edificante, tutta l’intensità religiosa e cattolica del rito di San Pio V e che Palmaro ha chiesto ed ottenuto non senza difficoltà.
Al rito liturgico erano presenti molti sacerdoti e molti rappresentanti della cultura e del giornalismo italiano, fra cui Giuliano Ferrara, positivamente impressionato dalla funzione. Proprio Ferrara insieme ad Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro ha scritto un libro uscito in questi giorni, dal titolo Questo Papa piace troppo. Un’appassionata lettura critica (Piemme, pp. 220, € 15,90).
Ferrara, uomo che ha attraversato diverse fasi del pensiero politico e filosofico, si dichiara fuori dalla Chiesa, tuttavia come egli afferma è battezzato ed è romano, inoltre non «ho fede, ma considero perduta un’umanità senza fede, fanatizzata e uniformata dall’incredulità come religione dei Lumi e del politicamente corretto» (p. 7). Guarda alla trasformazione della Chiesa e all’istituto del Papato con disincanto, con acume e con lucida preoccupazione. «Penso Francesco come un gesuita del Cinquecento e mi aspetto che illuda il mondo e deluda il demi-monde che lo applaude, corteggia, blandisce in ogni modo», a lui, laico non cattolico, ma interessato al cattolicesimo, in un certo senso piace il gesuita Francesco, lo incuriosisce e lo ritiene un rivoluzionario, e crede che sia intenzione del Pontefice perseguire il combattimento segreto e mimetico con il mondo, seguendo la spiritualità di san Pietro Favre, confratello di sant’Ignazio di Loyola. «Penso e spero che non sia un banale progressista, uno che voglia confondersi con il pensiero dominante per amore di una Chiesa garantita da pacificazione politica, accettazione storica, rassegnazione etica, anonimato culturale» (p. 8).
Riflette Ferrara sul modo bergogliano di governare la Chiesa in maniera autoritaria, brusca e sbrigativa, spogliando il potere pontificio dei segni e degli atteggiamenti sacrali, apparendo come una persona qualunque, demitizzando, così, Chiesa e Papato.
«Questo Papa piace troppo» è un pamphlet, dove troviamo un esame complessivo e sintetico dell’operato, fino ad oggi, di Papa Francesco, amato e idolatrato soprattutto dai malati dell’“ospedale da campo”, i quali vedono in lui il loro tenero e misericordioso difensore, «il beatissimo cocco di quel mondo che si vuole assolto nei peccati e nei vizietti mondani» (pp. 8-9).
Ferrara mette in luce il magistero di un Papa che parla ai figli postmoderni di Diderot e D’Alembert, che si definisce più Vescovo che Papa, che divide le mani giunte di un chierichetto, che utilizza i media a suo piacimento, che incita a prendere l’odore delle pecore, che viaggia con una borsa da lavoro, che telefona ai cittadini, che tratta il gregge riunito in folla con la tecnica sociologica e politica populista, che utilizza i mezzi dei polls per tastare il consenso della base, che ogni mattina fa un discorso «biblico-politico nella modesta cappella della sua precaria residenza» (p. 15), che offusca la persona papae nella sua astrazione e dà energia, individualità e attivismo alla personalità di chi la riveste pro tempore, tanto da dar vita al mito Bergoglio, che la maggioranza esalta e utilizza per i suoi piccoli o grandi interessi: dalla divorziata che convive alle lobby omosessuali. Per il giornalista James Carroll del “New Yorker” Papa Francesco «non è un liberal, ma se darà luogo a una svolta vera nel modo in cui il potere è esercitato nella Chiesa può rivelarsi un radical» (p. 16).
Attraverso una carrellata di gesuiti, teologi e filosofi, Ferrara offre la sua interpretazione su Papa Bergoglio e ragiona ad alta voce per giungere poi ad una decodificazione che, a conti fatti, gli sfugge di mano a causa degli ambigui e pericolosi ammiccamenti del Pontefice all’abissale ignoranza dei nostri tempi. Ignoranza della ragione, della religione, del diritto naturale, del mistero e del senso reale dell’esistenza.
Ferrara si compiace delle critiche vivaci e rispettose, illuminate da reverente devozione, dei cattolici Gnocchi e Palmaro, dei quali nel libro sono riprodotti tutti i profondi, meditati, ironici e sofferti articoli, comparsi su “il Foglio” a riguardo del Papa regnante. La coppia Gnocchi e Palmaro ha posto Francesco non sotto l’obiettivo caduco e fallace delle telecamere o di twitter o di facebook; bensì sotto quello perenne della Tradizione della Chiesa, dalla quale Jorge Mario Bergoglio esce in maniera davvero poco consolante per quei cattolici che vogliono continuare a vivere da cattolici. Leggendo i loro contributi sorge una domanda: la Chiesa è ancora protesa nell’edificazione della Città di Dio (il Dio cattolico e non ecumenico) oppure è prona alle confuse regole di una confusissima città dell’uomo?
Il libro si conclude con un’appendice del Direttore de “il Foglio”, dove in qualche modo si vede la sua simpatia per un Papa scabroso, che definisce cinquecentesco, che utilizza tutti i metodi moderni della propaganda per conquistare, con la parola e il gesto, una civiltà totalmente secolarizzata. Eppure questa sua simpatia non elide la constatazione dei fatti: «Ora la Chiesa si fa figlia del mondo, e il suo adulterio sentimentale è sotto gli occhi di tutti. Gesù è un avvocato delle nostre debolezze, come ha detto Francesco in un Angelus, e il peccato esiste solo per essere cancellato da una penitenza che, non sia mai, per la carità, deve esprimersi in una confessione benigna» (p. 201), dove il giudizio divino non è rigoroso come si è sempre detto, ma viene sostituito da una misericordia dal sapore tutto psicanalitico.

(Fonte: Cristina Siccardi, Corrispondenza Romana, 19 marzo 2014)

lunedì 17 marzo 2014

Il papa emerito prega, ma anche consiglia. Ecco come

Nella sua ultima intervista, quella data al "Corriere della Sera", papa Francesco ha rivelato di aver concordato assieme a Joseph Ratzinger un ruolo attivo per il "papa emerito", senza precedenti nella storia della Chiesa: «Il papa emerito non è una statua in un museo. È una istituzione. Non eravamo abituati. Sessanta o settant’anni fa, il vescovo emerito non esisteva. Venne dopo il Concilio. Oggi è un’istituzione. La stessa cosa deve accadere per il papa emerito. Benedetto è il primo e forse ce ne saranno altri. Non lo sappiamo. Lui è discreto, umile, non vuole disturbare. Ne abbiamo parlato e abbiamo deciso insieme che sarebbe stato meglio che vedesse gente, uscisse e partecipasse alla vita della Chiesa. […] Qualcuno avrebbe voluto che si ritirasse in una abbazia benedettina lontano dal Vaticano. Io ho pensato ai nonni che con la loro sapienza, i loro consigli danno forza alla famiglia e non meritano di finire in una casa di riposo».
Detto e fatto. Pochi giorni dopo è uscito un libro con uno scritto inedito di Benedetto XVI. E non si tratta di un testo qualsiasi. Ma di un giudizio che il penultimo dei papi – regnante il suo successore – pronuncia sul suo predecessore Giovanni Paolo II. Un vero e proprio giudizio pubblico non solo sulla persona, ma sulle linee portanti di quel memorabile pontificato.
Con sottolineature che non possono non essere messe a confronto con la situazione attuale della Chiesa.
Alcuni media, nel dar notizia di questo scritto del "papa emerito", hanno messo in evidenza il passaggio nel quale egli racconta come nella prima fase del pontificato di Karol Wojtyla si affrontò la questione della teologia della liberazione.
Ma di passaggi significativi ve ne sono anche altri. In particolare due.
Il primo è là dove Benedetto XVI dice quali sono state a suo giudizio le encicliche più importanti di Giovanni Paolo II.
Su quattordici encicliche, egli indica le seguenti:
- la "Redemptor hominis" del 1979, in cui papa Wojtyla "offre la sua personale sintesi della fede cristiana", che oggi "può essere di grande aiuto a tutti quelli che sono in ricerca";
- la "Redemptoris missio" del 1987, che "mette in risalto l'importanza permanente del compito missionario della Chiesa";
- la "Evangelium vitae" del 1995, che "sviluppa uno dei temi fondamentali dell'intero pontificato di Giovanni Paolo II: la dignità intangibile della vita umana, sia dal primo istante del concepimento";
- la "Fides et ratio" del 1998, che "offre una nuova visione del rapporto tra fede cristiana e ragione filosofica".
Ma a queste quattro encicliche, richiamate in poche righe ciascuna, Benedetto XVI ne aggiunge a sorpresa un'altra, alla quale dedica una pagina intera, riprodotta più sotto.
È la "Veritatis splendor" del 1993, sui fondamenti della morale. L'enciclica forse più trascurata e inapplicata tra tutte quelle di Giovanni Paolo II, ma che Ratzinger dice doveroso studiare e assimilare oggi.
Un secondo passaggio significativo è quello in cui Benedetto XVI parla della dichiarazione "Dominus Iesus" del 2000.
La "Dominus Iesus" – scrive Ratzinger – "riassume gli elementi irrinunciabili della fede cattolica". Eppure è stato il documento più contestato di quel pontificato, dentro e fuori la Chiesa cattolica.
Per diminuirne l'autorità, gli oppositori usavano attribuire la paternità della "Dominus Jesus" al solo prefetto della congregazione per la dottrina della fede, senza una reale approvazione da parte del papa.
Ebbene, è proprio la piena concordia tra lui e Giovanni Paolo II nel pubblicare la "Dominus Iesus" che il "papa emerito" oggi rivendica. Rivelando l'inedito retroscena che si può leggere più sotto.
Di papa Wojtyla, Benedetto XVI ammira "il coraggio con il quale assolse il suo compito in un tempo veramente difficile".
E aggiunge: «Giovanni Paolo II non chiedeva applausi, né si è mai guardato intorno preoccupato di come le sue decisioni sarebbero state accolte. Egli ha agito a partire dalla sua fede e dalle sue convinzioni ed era pronto anche a subire dei colpi. Il coraggio della verità è ai miei occhi un criterio di prim'ordine della santità».
Un giudizio, questo, molto simile a quello espresso già su Paolo VI dallo stesso Ratzinger, nell'omelia funebre da lui pronunciata il 10 agosto 1978 come arcivescovo di Monaco: «Un papa che oggi non subisse critiche fallirebbe il suo compito dinanzi a questo tempo. Paolo VI ha resistito alla telecrazia e alla demoscopia, le due potenze dittatoriali del presente. Ha potuto farlo perché non prendeva come parametro il successo e l’approvazione, bensì la coscienza, che si misura sulla verità, sulla fede. È per questo che in molte occasioni ha cercato il compromesso: la fede lascia molto di aperto, offre un ampio spettro di decisioni, impone come parametro l’amore, che si sente in obbligo verso il tutto e quindi impone molto rispetto. È per questo che ha potuto essere inflessibile e deciso quando la posta in gioco era la tradizione essenziale della Chiesa. In lui questa durezza non derivava dall’insensibilità di colui il cui cammino viene dettato dal piacere del potere e dal disprezzo delle persone, ma dalla profondità della fede, che lo ha reso capace di sopportare le opposizioni».
Ecco dunque qui di seguito i due passaggi del testo di Benedetto XVI sopra menzionati:
SULLA "VERITATIS SPLENDOR":
L'enciclica sui problemi morali "Veritatis splendor" ha avuto bisogno di lunghi anni di maturazione e rimane di immutata attualità.
La costituzione del Vaticano II sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, di contro all'orientamento all'epoca prevalentemente giusnaturalistico della teologia morale, voleva che la dottrina morale cattolica sulla figura di Gesù e il suo messaggio avesse un fondamento biblico.
Questo fu tentato attraverso degli accenni solo per un breve periodo. Poi andò affermandosi l'opinione che la Bibbia non avesse alcuna morale propria da annunciare, ma che rimandasse ai modelli morali di volta in volta validi. La morale è questione di ragione, si diceva, non di fede.
Scomparve così, da una parte, la morale intesa in senso giusnaturalistico, ma al suo posto non venne affermata alcuna concezione cristiana. E siccome non si poteva riconoscere né un fondamento metafisico né uno cristologico della morale, si ricorse a soluzioni pragmatiche: a una morale fondata sul principio del bilanciamento di beni, nella quale non esiste più quel che è veramente male e quel che è veramente bene, ma solo quello che, dal punto di vista dell'efficacia, è meglio o peggio.
Il grande compito che Giovanni Paolo II si diede in quell'enciclica fu di rintracciare nuovamente un fondamento metafisico nell'antropologia, come anche una concretizzazione cristiana nella nuova immagine di uomo della Sacra Scrittura.
Studiare e assimilare questa enciclica rimane un grande e importante dovere.
SULLA "DOMINUS JESUS:
Tra i documenti su vari aspetti dell'ecumenismo, quello che suscitò le maggiori reazioni fu la dichiarazione "Dominus Iesus" del 2000, che riassume gli elementi irrinunciabili della fede cattolica. […]
A fronte del turbine che si era sviluppato intorno alla "Dominus Iesus", Giovanni Paolo II mi disse che all'Angelus intendeva difendere inequivocabilmente il documento.
Mi invitò a scrivere un testo per l'Angelus che fosse, per così dire, a tenuta stagna e non consentisse alcuna interpretazione diversa. Doveva emergere in modo del tutto inequivocabile che egli approvava il documento incondizionatamente.
Preparai dunque un breve discorso; non intendevo, però, essere troppo brusco e così cercai di esprimermi con chiarezza ma senza durezza. Dopo averlo letto, il papa mi chiese ancora una volta: "È veramente chiaro a sufficienza?". Io risposi di sì.
Chi conosce i teologi non si stupirà del fatto che, ciononostante, in seguito ci fu chi sostenne che il papa aveva prudentemente preso le distanze da quel testo.

(Fonte: Sandro Magister, www.chiesa, 17 marzo 2014)

Card. Caffarra: «L’indissolubilità del matrimonio è un dono non una norma»

Due settimane dopo il concistoro sulla famiglia, il cardinale arcivescovo di Bologna, Carlo Caffarra, affronta in una intervista con il Foglio i temi all’ordine del giorno del Sinodo straordinario del prossimo ottobre e di quello ordinario del 2015: matrimonio, famiglia, dottrina dell’Humanae Vitae, penitenza:
D. La “Familiaris Consortio” di Giovanni Paolo II è al centro di un fuoco incrociato. Da una parte si dice che è il fondamento del Vangelo della famiglia, dall’altra che è un testo superato. È pensabile un suo aggiornamento?
Se si parla del gender e del cosiddetto matrimonio omosessuale, è vero che al tempo della Familiaris Consortio non se ne parlava. Ma di tutti gli altri problemi, soprattutto dei divorziati-risposati, se ne è parlato lungamente. Di questo sono un testimone diretto, perché ero uno dei consultori del Sinodo del 1980.
Dire che la Familiaris Consortio è nata in un contesto storico completamente diverso da quello di oggi, non è vero. Fatta questa precisazione, dico che prima di tutto la Familiaris Consortio ci ha insegnato un metodo con cui si deve affrontare le questioni del matrimonio e della famiglia. Usando questo metodo è giunta a una dottrina che resta un punto di riferimento ineliminabile. Quale metodo? Quando a Gesù fu chiesto a quali condizioni era lecito il divorzio della liceità come tale non si discuteva a quel tempo, Gesù non entra nella problematica casuistica da cui nasceva la domanda, ma indica in quale direzione si doveva guardare per capire che cosa è il matrimonio e di conseguenza quale è la verità dell’indissolubilità matrimoniale. Era come se Gesù dicesse: “Guardate che voi dovete uscire da questa logica casuistica e guardare in un’altra direzione, quella del Principio”. Cioè: dovete guardare là dove l’uomo e la donna vengono all’esistenza nella verità piena del loro essere uomo e donna chiamati a diventare una sola carne. In una catechesi, Giovanni Paolo II dice: “Sorge allora cioè quando l’uomo è posto per la prima volta di fronte alla donna la persona umana nella dimensione del dono reciproco la cui espressione (che è l’espressione anche della sua esistenza come persona) è il corpo umano in tutta la verità originaria della sua mascolinità e femminilità”. Questo è il metodo della Familiaris Consortio.
D. Qual è il significato più profondo e attuale della “Familiaris Consortio”?
“Per avere occhi capaci di guardare dentro la luce del Principio”, la Familiaris Consortio afferma che la Chiesa ha un soprannaturale senso della fede, il quale non consiste solamente o necessariamente nel consenso dei fedeli. La Chiesa, seguendo Cristo, cerca la verità, che non sempre coincide con l’opinione della maggioranza. Ascolta la coscienza e non il potere. E in questo difende i poveri e i disprezzati. La Chiesa può apprezzare anche la ricerca sociologica e statistica, quando si rivela utile per cogliere il contesto storico. Tale ricerca per sé sola, però, non è da ritenersi espressione del senso della fede (FC 5). Ho parlato di verità del matrimonio. Vorrei precisare che questa espressione non denota una norma ideale del matrimonio. Denota ciò che Dio con il suo atto creativo ha inscritto nella persona dell’uomo e della donna. Cristo dice che prima di considerare i casi, bisogna sapere di che cosa stiamo parlando. Non stiamo parlando di una norma che ammette o non eccezioni, di un ideale a cui tendere. Stiamo parlando di ciò che sono il matrimonio e la famiglia. Attraverso questo metodo la Familiaris Consortio, individua che cosa è il matrimonio e la famiglia e quale è il suo genoma: uso l’espressione del sociologo Donati, che non è un genoma naturale, ma sociale e comunionale. È dentro questa prospettiva che l’Esortazione individua il senso più profondo della indissolubilità matrimoniale (cfr. FC 20). La Familiaris Consortio quindi ha rappresentato uno sviluppo dottrinale grandioso, reso possibile anche dal ciclo di catechesi di Giovanni Paolo II sull’amore umano. Nella prima di queste catechesi, il 3 settembre 1979, Giovanni Paolo II dice che intende accompagnare come da lontano i lavori preparatori del Sinodo che si sarebbe tenuto l’anno successivo. Non l’ha fatto affrontando direttamente temi dell’assise sinodale, ma dirigendo l’attenzione alle radici profonde. È come se avesse detto, Io Giovanni Paolo II voglio aiutare i padri sinodali. Come li aiuto? Portandoli alla radice delle questioni. È da questo ritorno alle radici che nasce la grande dottrina sul matrimonio e la famiglia data alla Chiesa dalla Familiaris Consortio. E non ha ignorato i problemi concreti. Ha parlato anche del divorzio, delle libere convivenze, del problema dell’ammissione dei divorziati-risposati all’Eucaristia. L’immagine quindi di una Familiaris Consortio che appartiene al passato; che non ha più nulla da dire al presente, è caricaturale. Oppure è una considerazione fatta da persone che non l’hanno letta.

D. Molte conferenze episcopali hanno sottolineato che dalle risposte ai questionari in preparazione dei prossimi due Sinodi, emerge che la dottrina della “Humanae Vitae” crea ormai solo confusione. È così, o è stato un testo profetico?
Il 28 giugno 1978, poco più di un mese prima di morire, Paolo VI diceva: «Della Humanae Vitae, ringrazierete Dio e me». Dopo ormai quarantasei anni, vediamo sinteticamente cosa è accaduto all’istituto matrimoniale e ci renderemo conto di come è stato profetico quel documento. Negando la connessione inscindibile tra la sessualità coniugale e la procreazione, cioè negando l’insegnamento della Humanae Vitae, si è aperta la strada alla reciproca sconnessione fra la procreazione e la sessualità coniugale: from sex without babies to babies without sex. Si è andata oscurandosi progressivamente la fondazione della procreazione umana sul terreno dell’amore coniugale, e si è gradualmente costruita l’ideologia che chiunque può avere un figlio. Il single uomo o donna, l’omosessuale, magari surrogando la maternità. Quindi coerentemente si è passati dall’idea del figlio atteso come un dono al figlio programmato come un diritto: si dice che esiste il diritto ad avere un figlio. Si pensi alla recente sentenza del tribunale di Milano che ha affermato il diritto alla genitorialità, come dire il diritto ad avere una persona. Questo è incredibile. Io ho il diritto ad avere delle cose, non le persone. Si è andati progressivamente costruendo un codice simbolico, sia etico sia giuridico, che relega ormai la famiglia e il matrimonio nella pura affettività privata, indifferente agli effetti sulla vita sociale. Non c’è dubbio che quando l’Humanae Vitae è stata pubblicata, l’antropologia che la sosteneva era molto fragile e non era assente un certo biologismo nell’argomentazione. Il magistero di Giovanni Paolo II ha avuto il grande merito di costruire un’antropologia adeguata a base dell’Humanae Vitae. La domanda che bisogna porsi non è se l’Humanae Vitae sia applicabile oggi e in che misura, o se invece è fonte di confusione. A mio giudizio, la vera domanda da fare è un’altra.
D. Quale? L’Humanae Vitae dice la verità circa il bene insito nella relazione coniugale? Dice la verità circa il bene che è presente nell’unione delle persone dei due coniugi nell’atto sessuale?
Infatti, l’essenza delle proposizioni normative della morale e del diritto si trova nella verità del bene che in esse è oggettivata. Se non ci si mette in questa prospettiva, si cade nella casuistica dei farisei. E non se ne esce più, perché ci si infila in un vicolo alla fine del quale si è costretti a scegliere tra la norma morale e la persona. Se si salva l’una, non si salva l’altra. La domanda del pastore è dunque la seguente: come posso guidare i coniugi a vivere il loro amore coniugale nella verità? Il problema non è di verificare se i coniugi si trovano in una situazione che li esime da una norma, ma, qual è il bene del rapporto coniugale. Qual è la sua verità intima. Mi stupisce che qualcuno dica che l’Humanae Vitae crea confusione. Che vuol dire? Ma conoscono la fondazione che dell’Humanae Vitae ha fatto Giovanni Paolo II? Aggiungo una considerazione. Mi meraviglia profondamente il fatto che, in questo dibattito, anche eminentissimi cardinali non tengano in conto le centotrentaquattro catechesi sull’amore umano. Mai nessun Papa aveva parlato tanto di questo. Quel Magistero è disatteso, come se non esistesse. Crea confusione? Ma chi afferma questo è al corrente di quanto si è fatto sul piano scientifico a base di una naturale regolazione dei concepimenti? È al corrente di innumerevoli coppie che nel mondo vivono con gioia la verità di Humanae Vitae? Anche il cardinale Kasper sottolinea che ci sono grandi aspettative nella Chiesa in vista del Sinodo e che si corre il rischio di una pessima delusione se queste fossero disattese. Un rischio concreto, a suo giudizio? Non sono un profeta né sono figlio di profeti. Accade un evento mirabile.
Quando il pastore non predica opinioni sue o del mondo, ma il Vangelo del matrimonio, le sue parole colpiscono le orecchie degli uditori, ma nel loro cuore entra in azione lo Spirito Santo che lo apre alle parole del pastore. Mi domando poi delle attese di chi stiamo parlando. Una grande rete televisiva statunitense ha compiuto un’inchiesta su comunità cattoliche sparse in tutto il mondo. Essa fotografa una realtà molto diversa dalle risposte al questionario registrate in Germania, Svizzera e Austria. Un solo esempio. Il 75 per cento della maggior parte dei paesi africani è contrario all’ammissione dei divorziati risposati all’Eucaristia. Ripeto ancora: di quali attese stiamo parlando? Di quelle dell’Occidente? È dunque l’Occidente il paradigma fondamentale in base al quale la Chiesa deve annunciare? Siamo ancora a questo punto? Andiamo ad ascoltare un po’ anche i poveri. Sono molto perplesso e pensoso quando si dice che o si va in una certa direzione altrimenti sarebbe stato meglio non fare il Sinodo. Quale direzione? La direzione che, si dice, hanno indicato le comunità mitteleuropee? E perché non la direzione indicata dalle comunità africane?
D. Il cardinale Müller ha detto che è deprecabile che i cattolici non conoscano la dottrina della Chiesa e che questa mancanza non può giustificare l’esigenza di adeguare l’insegnamento cattolico allo spirito del tempo. Manca una pastorale familiare?
È mancata. È una gravissima responsabilità di noi pastori ridurre tutto ai corsi prematrimoniali. E l’educazione all’affettività degli adolescenti, dei giovani? Quale pastore d’anime parla ancora di castità? Un silenzio pressoché totale, da anni, per quanto mi risulta. Guardiamo all’accompagnamento delle giovani coppie: chiediamoci se abbiamo annunciato veramente il Vangelo del matrimonio, se l’abbiamo annunciato come ha chiesto Gesù. E poi, perché non ci domandiamo perché i giovani non si sposano più? Non è sempre per ragioni economiche, come solitamente si dice. Parlo della situazione dell’Occidente. Se si fa un confronto tra i giovani che si sposavano fino a trent’anni fa e oggi, le difficoltà che avevano trenta o quarant’anni fa non erano minori rispetto a oggi. Ma quelli costruivano un progetto, avevano una speranza. Oggi hanno paura e il futuro fa paura; ma se c’è una scelta che esige speranza nel futuro, è la scelta di sposarsi. Sono questi gli interrogativi fondamentali, oggi. Ho l’impressione che se Gesù si presentasse all’improvviso a un convegno di preti, vescovi e cardinali che stanno discutendo di tutti i gravi problemi del matrimonio e della famiglia, e gli chiedessero come fecero i farisei: “Maestro, ma il matrimonio è dissolubile o indissolubile? O ci sono dei casi, dopo una debita penitenza…?”.Gesù cosa risponderebbe? Penso la stessa risposta data ai farisei: “Guardate al Principio”. Il fatto è che ora si vogliono guarire dei sintomi senza affrontare seriamente la malattia. Il Sinodo quindi non potrà evitare di prendere posizione di fronte a questo dilemma: il modo in cui s’è andata evolvendo la morfogenesi del matrimonio e della famiglia è positivo per le persone, per le loro relazioni e per la società, o invece costituisce un decadimento delle persone, delle loro relazioni, che può avere effetti devastanti sull’intera civiltà? Questa domanda il Sinodo non la può evitare. La Chiesa non può considerare che questi fatti (giovani che non si sposano, libere convivenze in aumento esponenziale, introduzione del c.d. matrimonio omosessuale negli ordinamenti giuridici, e altro ancora) siano derive storiche, processi storici di cui essa deve prendere atto e dunque sostanzialmente adeguarsi. No. Giovanni Paolo II scriveva nella Bottega dell’Orefice che “creare qualcosa che rispecchi l’essere e l’amore assoluto è forse la cosa più straordinaria che esista. Ma si campa senza rendersene conto”. Anche la Chiesa, dunque, deve smettere di farci sentire il respiro dell’eternità dentro all’amore umano? Deus avertat!
D. Si parla della possibilità di riammettere all’Eucaristia i divorziati risposati. Una delle soluzioni proposte dal cardinale Kasper ha a che fare con un periodo di penitenza che porti al pieno riaccostamento. È una necessità ormai ineludibile o è un adeguamento dell’insegnamento cristiano a seconda delle circostanze?
Chi fa questa ipotesi, almeno finora non ha risposto a una domanda molto semplice: che ne è del primo matrimonio rato e consumato? Se la Chiesa ammette all’Eucarestia, deve dare comunque un giudizio di legittimità alla seconda unione. È logico. Ma allora – come chiedevo – che ne è del primo matrimonio? Il secondo, si dice, non può essere un vero secondo matrimonio, visto che la bigamia è contro la parola del Signore. E il primo? È sciolto? Ma i papi hanno sempre insegnato che la potestà del Papa non arriva a questo: sul matrimonio rato e consumato il Papa non ha nessun potere. La soluzione prospettata porta a pensare che resta il primo matrimonio, ma c’è anche una seconda forma di convivenza che la Chiesa legittima. Quindi, c’è un esercizio della sessualità umana extraconiugale che la Chiesa considera legittima. Ma con questo si nega la colonna portante della dottrina della Chiesa sulla sessualità. A questo punto uno potrebbe domandarsi: e perché non si approvano le libere convivenze? E perché non i rapporti tra gli omosessuali? La domanda di fondo è dunque semplice: che ne è del primo matrimonio? Ma nessuno risponde. Giovanni Paolo II diceva nel 2000 in un’allocuzione alla Rota che “emerge con chiarezza che la non estensione della potestà del Romano Pontefice ai matrimoni rati e consumati, è insegnata dal Magistero della Chiesa come dottrina da tenersi definitivamente anche se essa non è stata dichiarata in forma solenne mediante atto definitorio”. La formula è tecnica, “dottrina da tenersi definitivamente” vuol dire che su questo non è più ammessa la discussione fra i teologi e il dubbio tra i fedeli.
D. Quindi non è questione solo di prassi, ma anche di dottrina?
Sì, qui si tocca la dottrina. Inevitabilmente. Si può anche dire che non lo si fa, ma lo si fa. Non solo. Si introduce una consuetudine che a lungo andare determina questa idea nel popolo non solo cristiano: non esiste nessun matrimonio assolutamente indissolubile. E questo è certamente contro la volontà del Signore. Non c’è dubbio alcuno su questo.
D. Non c’è però il rischio di guardare al sacramento solo come una sorta di barriera disciplinare e non come un mezzo di guarigione?
È vero che la grazia del sacramento è anche sanante, ma bisogna vedere in che senso. La grazia del matrimonio sana perché libera l’uomo e la donna dalla loro incapacità di amarsi per sempre con tutta la pienezza del loro essere. Questa è la medicina del matrimonio: la capacità di amarsi per sempre. Sanare significa questo, non che si fa stare un po’ meglio la persona che in realtà rimane ammalata, cioè costitutivamente ancora incapace di definitività. L’indissolubilità matrimoniale è un dono che viene fatto da Cristo all’uomo e alla donna che si sposano in lui. È un dono, non è prima di tutto una norma che viene imposta. Non è un ideale cui devono tendere. È un dono e Dio non si pente mai dei suoi doni. Non a caso Gesù, rispondendo ai farisei, fonda la sua risposta rivoluzionaria su un atto divino. ‘Ciò che Dio ha unito’, dice Gesù. E’ Dio che unisce, altrimenti la definitività resterebbe un desiderio che è sì naturale, ma impossibile a realizzarsi. Dio stesso dona compimento. L’ uomo può anche decidere di non usare di questa capacità di amare definitivamente e totalmente. La teologia cattolica ha poi concettualizzato questa visione di fede attraverso il concetto di vincolo coniugale. Il matrimonio, il segno sacramentale del matrimonio produce immediatamente tra i coniugi un vincolo che non dipende più dalla loro volontà, perché è un dono che Dio ha fatto loro. Queste cose ai giovani che oggi si sposano non vengono dette. E poi ci meravigliamo se succedono certe cose”.
D. Un dibattito molto appassionato si è articolato attorno al senso della misericordia. Che valore ha questa parola?
Prendiamo la pagina di Gesù e dell’adultera. Per la donna trovata in flagrante adulterio, la legge mosaica era chiara: doveva essere lapidata. I farisei infatti chiedono a Gesù cosa ne pensasse, con l’obiettivo di attirarlo dentro la loro prospettiva. Se avesse detto “lapidatela”, subito avrebbero detto “Ecco, lui che predica misericordia, che va a mangiare con i peccatori, quando è il momento dice anche lui di lapidarla”. Se avesse detto “non dovete lapidarla”, avrebbero detto “ecco a cosa porta la misericordia, a distruggere la legge e ogni vincolo giuridico e morale”. Questa è la tipica prospettiva della morale casuistica, che ti porta inevitabilmente in un vicolo alla fine del quale c’è il dilemma tra la persona e la legge. I farisei tentavano di portare in questo vicolo Gesù. Ma lui esce totalmente da questa prospettiva, e dice che l’adulterio è un grande male che distrugge la verità della persona umana che tradisce. E proprio perché è un grande male, Gesù, per toglierlo, non distrugge la persona che lo ha commesso, ma la guarisce da questo male e raccomanda di non incorrere in questo grande male che è l’adulterio. «Neanche io ti condanno, va e non peccare più». Questa è la misericordia di cui solo il Signore è capace. Questa è la misericordia che la Chiesa, di generazione in generazione, annuncia. La Chiesa deve dire che cosa è male. Ha ricevuto da Gesù il potere di guarire, ma alla stessa condizione. È verissimo che il perdono è sempre possibile: lo è per l’assassino, lo è anche per l’adultero. Era già una difficoltà che facevano i fedeli ad Agostino: si perdona l’omicidio, ma nonostante ciò la vittima non risorge. Perché non perdonare il divorzio, questo stato di vita, il nuovo matrimonio, anche se una “reviviscenza” del primo non è più possibile? La cosa è completamente diversa. Nell’omicidio si perdona una persona che ha odiato un’altra persona, e si chiede il pentimento su questo. La Chiesa in fondo si addolora non perché una vita fisica è terminata, bensì perché nel cuore dell’uomo c’è stato un tale odio da indurre perfino a sopprimere la vita fisica di una persona. Questo è il male, dice la Chiesa. Ti devi pentire di questo e ti perdonerò. Nel caso del divorziato risposato, la Chiesa dice: “Questo è il male: il rifiuto del dono di Dio, la volontà di spezzare il vincolo messo in atto dal Signore stesso”. La Chiesa perdona, ma a condizione che ci sia il pentimento. Ma il pentimento in questo caso significa tornare al primo matrimonio. Non è serio dire: sono pentito ma resto nello stesso stato che costituisce la rottura del vincolo, della quale mi pento. Spesso – si dice – non è possibile. Ci sono tante circostanze, certo, ma allora in queste condizioni quella persona è in uno stato di vita oggettivamente contrario al dono di Dio. La Familiaris Consortio lo dice esplicitamente. La ragione per cui la Chiesa non ammette i divorziati-risposati all’Eucaristia non è perché la Chiesa presuma che tutti coloro che vivono in queste condizioni siano in peccato mortale. La condizione soggettiva di queste persone la conosce il Signore, che guarda nella profondità del cuore. Lo dice anche San Paolo: “Non vogliate giudicare prima del tempo”. Ma perché – ed è scritto sempre nella Familiaris Consortio – “il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quella unione di amore fra Cristo e la Chiesa significata e attuata dall’Eucaristia” (FC 84). La misericordia della Chiesa è quella di Gesù, quella che dice che è stata deturpata la dignità di sposo, il rifiuto del dono di Dio. La misericordia non dice: “Pazienza, vediamo di rimediare come possiamo”. Questa è la tolleranza essenzialmente diversa dalla misericordia. La tolleranza lascia le cose come sono per ragioni superiori. La misericordia è la potenza di Dio che toglie dallo stato di ingiustizia.
D. Non si tratta di accomodamento, dunque.
Non è un accomodamento, sarebbe indegno del Signore una cosa del genere. Per fare gli accomodamenti bastano gli uomini. Qui si tratta di rigenerare una persona umana, e di questo è capace solo Dio e in suo nome la Chiesa. San Tommaso dice che la giustificazione di un peccatore è un’opera più grande che la creazione dell’universo. Quando viene giustificato un peccatore, accade qualcosa che è più grande di tutto l’universo. Un atto che magari avviene in un confessionale, attraverso un sacerdote umile, povero. Ma lì si compie un atto più grande della creazione del mondo. Non dobbiamo ridurre la misericordia ad accomodamenti, o confonderla con la tolleranza. Questo è ingiusto verso l’opera del Signore.
D. Uno degli assunti più citati da chi auspica un’apertura della Chiesa alle persone che vivono in situazioni considerate irregolari è che la fede è una ma i modi per applicarla alle circostanze particolari devono essere adeguati ai tempi, come la Chiesa ha sempre fatto. Lei che ne pensa?
La Chiesa può limitarsi ad andare là dove la portano i processi storici come fossero derive naturali? Consiste in questo annunciare il Vangelo? Io non lo credo, perché altrimenti mi chiedo come si faccia a salvare l’uomo. Le racconto un episodio. Una sposa ancora giovane, abbandonata dal marito, mi ha detto che vive nella castità ma fa una fatica terribile. Perché, dice, “non sono una suora, ma una donna normale”. Ma mi ha detto che non potrebbe vivere senza Eucaristia. E quindi anche il peso della castità diventa leggero, perché pensa all’Eucaristia. Un altro caso. Una signora con quattro figli è stata abbandonata dal marito dopo più di vent’anni di matrimonio. La signora mi dice che in quel momento ha capito che doveva amare il marito nella croce, “come Gesù ha fatto con me”. Perché non si parla di queste meraviglie della grazia di Dio? Queste due donne non si sono adeguate ai tempi? Certo che non si sono adeguate ai tempi. Resto, le assicuro, molto male nel prendere atto del silenzio, in queste settimane di discussione, sulla grandezza di spose e sposi che, abbandonati, restano fedeli. Ha ragione il professor Grygiel quando scrive che a Gesù non interessa molto cosa pensa la gente di lui. Interessa cosa pensano i suoi apostoli. Quanti parroci e vescovi potrebbero testimoniare episodi di fedeltà eroica. Dopo un paio d’anni che ero qui a Bologna, ho voluto incontrare i divorziati-risposati. Erano più di trecento coppie. Siamo stati assieme un’intera domenica pomeriggio. Alla fine, più d’uno m’ha detto di aver capito che la Chiesa è veramente madre quando impedisce di ricevere l’Eucaristia. Non potendo ricevere l’Eucaristia, comprendono quanto sia grande il matrimonio cristiano, e bello il Vangelo del matrimonio.
D. Sempre più spesso viene sollevato il tema del rapporto tra il confessore e il penitente, anche come possibile soluzione per venire incontro alla sofferenza di chi ha visto fallire il proprio progetto di vita. Qual è il suo pensiero?
La tradizione della Chiesa ha sempre distinto – distinto, non separato – il suo compito magisteriale dal ministero del confessore. Usando un’immagine, potremmo dire che ha sempre distinto il pulpito dal confessionale. Una distinzione che non vuol significare una doppiezza, bensì che la Chiesa dal pulpito, quando parla del matrimonio, testimonia una verità che non è prima di tutto una norma, un ideale verso cui tendere. A questo momento entra con amorevolezza il confessore, che dice al penitente: “Quanto hai sentito dal pulpito, è la tua verità, la quale ha a che fare con la tua libertà, ferita e fragile”. Il confessore conduce il penitente in cammino verso la pienezza del suo bene. Non è che il rapporto tra il pulpito e il confessionale sia il rapporto tra l’universale e il particolare. Questo lo pensano i casuisti, soprattutto nel Seicento. Davanti al dramma dell’uomo, il compito del confessore non è di far ricorso alla logica che sa passare dall’universale al singolare. Il dramma dell’ uomo non dimora nel passaggio dall’universale al singolare. Dimora nel rapporto tra la verità della sua persona e la sua libertà. Questo è il cuore del dramma umano, perché io con la mia libertà posso negare ciò che ho appena affermato con la mia ragione. Vedo il bene e lo approvo, e poi faccio il male. Il dramma è questo. Il confessore si pone dentro questo dramma, non al meccanismo universale-particolare. Se lo facesse inevitabilmente cadrebbe nell’ipocrisia e sarebbe portato a dire “va bene, questa è la legge universale, però siccome tu ti trovi in queste circostanze, non sei obbligato”. Inevitabilmente, si elaborerebbe una fattispecie ricorrendo la quale, la legge diventa eccepibile. Ipocritamente, dunque, il confessore avrebbe già promulgato un’altra legge accanto a quella predicata dal pulpito. Questa è ipocrisia! Guai se il confessore non ricordasse mai alla persona che si trova davanti che siamo in cammino. Si rischierebbe, in nome del Vangelo della misericordia, di vanificare il Vangelo dalla misericordia. Su questo punto Pascal ha visto giusto nelle sue Provinciali, per altri versi profondamente ingiuste. Alla fine l’uomo potrebbe convincersi che non è ammalato, e quindi non è bisognoso di Gesù Cristo. Uno dei miei maestri, il servo di Dio padre Cappello, grande professore di diritto canonico, diceva che quando si entra in confessionale non bisogna seguire la dottrina dei teologi, ma l’esempio dei santi.

(Fonte: Matteo Matzuzzi,Il Foglio, 16 marzo 2014)