mercoledì 18 gennaio 2023

Omosessualità: basta letture ideologiche della Dottrina


Si è svolta lo scorso 13 gennaio presso sala Voltini del Centro Culturale Cappuccini di Argenta una tavola rotonda sul tema «Dialogo: un ponte che unisce – È possibile un dialogo fra religioni e omosessualità?», patrocinato dal Comune. Tra i relatori, erano presenti il presidente Arcigay di Ferrara, Manuela Macario, il coordinatore del centro culturale islamico, Hassan Samid, e don Alessio Grossi, psicanalista e referente del Consultorio diocesano, parroco della chiesa di San Giacomo apostolo a Ferrara, inviato all’evento dall’arcivescovo, mons. Giancarlo Perego, a nome del quale ha ripetutamente dichiarato di parlare.

Il che complica un po’ le cose, specialmente in alcuni passaggi particolarmente critici dell’intervento di don Grossi. Ad esempio, laddove affronta quella che lui definisce, all’interno della Chiesa, «la posizione forse più conosciuta, quella più conservatrice, tradizionalista», come se, all’interno del Corpo Mistico di Cristo, vi fosse spazio in merito per l’opinione e non vi fosse invece già una dottrina unica ben codificata e consolidata, valida per tutti. Ebbene, il relatore ha specificato come, a suo avviso, tale «posizione» veda «non tanto nell’omosessualità quanto negli atti omosessuali un qualcosa contro natura», ma sbaglia nel bollarla come «ideologico-religiosa», fonte di «discriminazione» e tale da provocare «sofferenza in tante persone, in tante comunità, in tante famiglie». È vero proprio il contrario. Innanzi tutto, come precisa il Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 2357 è una posizione fondata «sulla Sacra Scrittura» e non è il frutto di un’ideologia, di alcun tipo. Inoltre, a differenza di quanto da lui dichiarato, anche le «tendenze omosessuali» vengono definite, in sé considerate, come un’«inclinazione oggettivamente disordinata» (Catechismo, n. 2358), benché certamente più gravi siano «gli atti di omosessualità» in quanto «intrinsecamente disordinati», «contrari alla legge naturale» ed, in quanto tali, certamente non da assecondare, né da “coccolare”. In questo senso, parlare – come fa don Grossi – di «carisma omosessuale» è veramente fuorviante, oggettivamente infondato e tendenzialmente scorretto, dando per scontato che don Grossi il Catechismo lo conosca.

Massimo rispetto e massima comprensione per la persona in quanto tale, come è sempre stato e come la Chiesa ha sempre fatto, persona da accogliersi «con rispetto, compassione, delicatezza», evitando «ogni marchio di ingiusta discriminazione», ma anche indicando con chiarezza la strada da percorrere, perché si possa essere e ci si possa dire davvero cattolici: «Tali persone sono chiamate a realizzare la volontà di Dio nella loro vita e, se sono cristiane, ad unire al sacrificio della Croce del Signore le difficoltà, che possono incontrare in conseguenza della loro condizione».

Già da qui appare allora infondata l’entusiastica uscita ad effetto di don Grossi all’inizio del proprio intervento: «La Chiesa Cattolica presenta posizioni molto diverse, a volte anche contrastanti». Non è vero: in quanto Chiesa, di posizione ce n’è una molto chiara, molto definitoria ed è quella contenuta nei due articoli del Catechismo citati, validi e vincolanti per tutti. Che poi i singoli fedeli possano avere le proprie idee, giuste o sbagliate che siano, è fatto che in sé non tocca la dottrina cattolica, che viceversa è unica.

Don Grossi definisce poi sbrigativamente «follie» le «terapie riparative», ma anche qui è bene capire di che cosa si stia parlando. Il percorso di cambiamento in genere proposto, in realtà, non consiste nell’estirpare, sopprimere o negare l’orientamento sessuale indesiderato, bensì in un processo di maturazione globale della personalità, in una migliore conoscenza ed accettazione dei propri limiti e delle proprie possibilità, in una vita di relazione più piena e non più dominata dalla paura e dalla vergogna. L’approccio clinico, quindi, può aiutare persone con – come si dice – un’«identità di genere» ferita, indipendentemente dal fatto che questo problema si manifesti con un’attrazione omosessuale o con un altro tipo di sintomo, come evidenziano vari tipi di approcci sviluppatisi soprattutto negli ultimi decenni. In ciò non vi è nulla di “folle”, nulla di strano, nulla di scandaloso, anzi rappresenta un valido aiuto proprio per elaborare quella capacità di relazione matura e quel riconoscimento di un’alterità, che lo stesso don Grossi auspica per le persone omosessuali. Una mano tesa, dunque, non un ostacolo. Così, quando il Catechismo spiega come la loro «inclinazione» costituisca «per la maggior parte di loro una prova» (n. 2358) non si tratta di gettare la croce addosso a nessuno, bensì di sollecitare una presa di coscienza ed un’assunzione di responsabilità verso sé stessi e verso gli altri, che fa crescere, che fa maturare, che migliora, non qualcosa di cui la Chiesa debba quindi «chiedere perdono», come don Grossi ha azzardato, specificando di accompagnare «in un cammino di fede anche alcune coppie, sia di uomini che di donne». Ora, se con ciò si riferisce a coppie omosessuali, di fatto don Grossi sta ripensando una morale slegata dalla dottrina. Il che, evidentemente, specie parlando da sacerdote e da inviato del suo Arcivescovo, non va bene. A maggior ragione quando giunga ad affermazioni, che suonano più come uno slogan che come una riflessione oggettiva, quale: «Anche le persone omosessuali sono capaci di generatività». Ecco, qui proprio non ci siamo, qui si va oltre, anzi contro il dato di fatto, il dato esperienziale. Di quale “generatività” si sta parlando? Lo stesso Catechismo chiarisce come le relazioni omosessuali precludano «all’atto sessuale il dono della vita. Non sono il frutto di una vera complementarietà affettiva e sessuale. In nessun caso possono essere approvati» (n. 2357). Ma – osserva don Grossi – «quante coppie anche eterosessuali non hanno figli ma possono vivere una dimensione generativa?». La realtà però è molto diversa. Ogni bambino ha bisogno di due figure sessualmente complementari ossia di un papà e di una mamma o comunque di due persone di riferimento di sesso diverso. A chi sostenga il contrario ha già risposto l’American College of Pediatricians, che, in una lettera inviata alla rivista Pediatrics, ha contestato le affermazioni a favore dell’omogenitorialità: «Troviamo questa posizione insostenibile – ha dichiarato – e, se attuata, gravemente dannosa per i bambini e la famiglia. Siamo contrari a questa posizione a causa dell’assenza di prove scientifiche a suo sostegno e delle potenziali conseguenze negative sui bambini. Concedere lo status di matrimonio legale alle unioni omosessuali sarebbe un tragico errore di calcolo, che porterebbe danni irreparabili alla società, alla famiglia e ai bambini». In realtà, salvo rare eccezioni, la ricerca finora condotta sull’omogenitorialità è di pessima qualità, segnata da un pressapochismo che pare spesso intenzionale e funzionale, nonché viziata da letture ideologiche dagli esiti scontati, preconfezionati e non obiettivi. In merito esiste tutta un’antologia di esempi, che sarebbe interessante citare, ma che rischierebbero di condurre troppo lontano rispetto agli spazi consentiti ad un articolo.

Infine, don Grossi ha fatto riferimento, durante il suo intervento, a due punti di un documento dal titolo Che cosa è l’uomo? Un itinerario di antropologia biblica, elaborato dalla Pontificia Commissione Biblica. Il primo punto si trova al n. 185, laddove si legge: «La Bibbia non parla dell’inclinazione erotica verso una persona dello stesso sesso, ma solo degli atti omosessuali»; ed ancora al n. 188 è scritto: «Non troviamo nelle tradizioni narrative della Bibbia indicazioni concernenti pratiche omosessuali né come comportamenti da biasimare, né come atteggiamenti tollerati o accolti con favore». Ma è proprio così? Vediamo un po’…

Lv 18, 22: «Non giacerai con un maschio come si fa con una donna, è una cosa abominevole».

Rom 1, 26-27: «Dio li ha abbandonati a passioni infami; le loro donne hanno cambiato i rapporti naturali in rapporti contro natura. Egualmente anche gli uomini, lasciando il rapporto naturale con la donna, si sono accesi di passione gli uni per gli altri, commettendo atti ignominiosi uomini con uomini, ricevendo così in sé stessi la punizione, che s’addiceva al loro traviamento».

Cor 6, 9-10: «Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adulteri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il regno di Dio».

L’elenco potrebbe continuare. Si tratta comunque di testi molto chiari e per niente vaghi o “possibilisti”, come parrebbe sostenere il documento della Pontificia Commissione Biblica, piaccia o non piaccia a don Grossi, per il quale la Sacra Scrittura biasimerebbe solo gli atti sessuali «violenti». Si è visto come, in realtà, non sia così, sul banco degli imputati vi sono gli atti omosessuali in quanto tali. Allora, approcciare questioni delicate e complesse come queste non deve compiacere le platee, raccogliere facili consensi, né strappare immediati applausi. Deve, invece, approfondire quelle verità già presenti nel testo sacro e, più in generale, nella dottrina e nella tradizione della Chiesa, aiutando chi si trovi nel bisogno piuttosto che aiutarlo a perdersi. Verità, che non sono dunque da inventare. Verità alle quali il fedele cattolico, più saggiamente, deve piuttosto conformarsi. Ed obbedire.

 


(Fonte: Mauro Faverzani, Corrispondenza Romana, 18 Gennaio 2023) 
https://www.corrispondenzaromana.it/omosessualita-basta-letture-ideologiche-della-dottrina/

 

 

venerdì 13 gennaio 2023

Di fronte alla confusione che regna nella Chiesa


All’indomani delle esequie di Benedetto XVI, l’orizzonte che si profila in Vaticano ha i contorni indefiniti del caos. Il primo elemento di confusione, relativo al nome da attribuire al defunto ex-pontefice, è stato messo in luce proprio dal suo funerale. Quello di Benedetto XVI è evidentemente un nome di cortesia, perché dal 28 febbraio 2013, c’è un solo Papa in Vaticano, ed è Francesco, come lo stesso mons. Gänswein, segretario di Benedetto, ha più volte sottolineato in questi giorni. Più corretto, secondo i canonisti, sarebbe stato chiamarlo cardinale Josef Ratzinger, o forse monsignor Ratzinger, perché solo il titolo di vescovo imprime un carattere indelebile.       

I funerali, certamente, non sono stati quelli di un Pontefice regnante. Lo dimostra non solo l’invito della Santa Sede limitato a due sole delegazioni ufficiali (Italia e Germania), ma anche piccoli dettagli, come la nota verbale diffusa il 31 gennaio agli ambasciatori, in cui si chiedeva loro di intervenire in «tenue de ville couleur sombre» (abito scuro) e non in abito da cerimonia. Questo «omaggio soft» ha spinto la vaticanista Franca Giansoldati a scrivere su Il Messaggero del 6 gennaio: «Il funerale più strambo della storia della Chiesa contemporanea avrebbe dovuto avere un protocollo davvero solenne ed essere accompagnato dal lutto vaticano, ma visto che Ratzinger non era più regnante non c’erano nemmeno le bandiere bianche e gialle a mezz’asta. Così come non c’era il picchetto di Guardie Svizzere accanto alla bara, e i gentiluomini che la portavano in spalla non avevano il frac. Solo il Decano di Sala indossava l’uniforme di gala». 

D’altra parte, a questo funerale ridotto all’essenziale, ha fatto da contrappunto l’omaggio reso all’ex-Pontefice da oltre 200.000 fedeli che hanno voluto rendergli l’ultimo saluto nei tre giorni di esposizione della salma. Una manifestazione di folla che conferma la stima e l’affetto di cui ha sempre goduto Benedetto, ma che ha spinto i mass media a sottolineare l’esistenza di due “partiti” che si fronteggiano in Vaticano: “bergogliani” e “ratzingeriani”. Il funerale, come titola in prima pagina il quotidiano Libero del 5 gennaio, sarebbe stato una Resa dei conti tra Papi. Nico Spuntoni ha scritto da parte sua su Il Giornale dell’8 gennaio: «Come una tempesta perfetta, nei giorni dell’esposizione della salma e delle esequie di Benedetto XVI sono circolate le anticipazioni di un libro (Nient’altro che la verità, edizioni Piemme) e di un’intervista del suo fedele segretario particolare, monsignor Georg Gänswein, nelle quali si esplicitava lo choc per essere stato “dimezzato” tre anni fa nel ruolo di prefetto della Casa Pontificia all’indomani delle  polemiche suscitate dal libro a difesa del celibato sacerdotale del cardinale Robert Sarah e che vedeva Ratzinger come co-autore. Altrettanto rumore ha provocato una risposta di Gänswein, su Traditionis Custodesil documento con cui Francesco ha di fatto abrogato la liberalizzazione concessa nel 2007 alla cosiddetta messa tridentina: “Credo che papa Benedetto abbia letto questo motu proprio con dolore nel cuore”, ha affermato l’arcivescovo tedesco al quotidiano Die Tagespost. Gänswein è stato duramente attaccato da alcuni addetti ai lavori. Le rivelazioni del “prefetto dimezzato” hanno fatto parlare di divisioni nella Chiesa destinate a riacutizzarsi dopo la morte di Benedetto XVI. E in effetti, ormai persino alcuni cardinali e vescovi hanno ammesso l’esistenza di tensioni».

L’8 gennaio un articolo di Massimo Franco sul Corriere della Sera ha come titolo Il fronte dei tradizionalisti per opporsi a Francesco dopo l’addio a Ratzinger. Tra i principali esponenti di questo fronte, Franco cita, oltre a mons Gänswein, il cardinale Gerhard Müller, ex prefetto della Congregazione per la Fede e il nuovo presidente dei vescovi americani Timothy Broglio. Sullo stesso quotidiano, che esprime la voce dell’establishment progressista, Gian Guido Vecchi, scrive che «nel sottobosco dell’opposizione tradizionalista a Francesco monta il tentativo post mortem di usare Benedetto XVI come un vessillo e creare un conflitto tra “i due papi” che nella realtà non c’è stato» (Corriere della Sera, 10 gennaio).

La manovra è evidentemente quella di attribuire ai conservatori la responsabilità di uno scontro, che oggi ha in realtà i suoi principali artefici nei vescovi tedeschi, impegnati nel loro “Cammino sinodale”. Nessuna responsabilità viene addossata a papa Francesco, il quale, malgrado la grave malattia che ne mina le forze, continua a usare il pugno di ferro, come ha fatto il giorno dell’Epifania azzerando il potere del Vicariato di Roma, con la costituzione apostolica In ecclesiarum communione. Il contenuto dell’incontro che il 9 gennaio il Papa ha avuto con mons. Gänswein è ignoto, ma certamente aumenta l’incertezza. Inoltre, la morte inaspettata del cardinale George Pell, il 10 gennaio, creerà nuovi problemi al fronte conservatore. Il cardinale australiano, uscito prosciolto da ogni accusa giudiziaria, aveva una forte personalità e per le sue capacità organizzative avrebbe potuto svolgere un ruolo importante nel pre-conclave che molti vedono ormai vicino, nel caso di morte o di rinuncia di papa Francesco.  D’altra parte, tra i “papabili”, ricorda mons, Gänswein«anche molti di quelli che vengono considerati esponenti più “liberali”, per utilizzare un termine di comprensione comune, furono promossi a ruoli importanti proprio durante il suo (di Benedetto XVI ndr) pontificato» (Nient’altro che la verità, pp. 124-125). Tra i nomi indicati dal Prefetto della Casa Pontificia ci sono i principali cardinali del fronte progressista, quali Jean Claude Hollerich (arcivescovo di Lussemburgo, 2011), Luis Antonio Tagle (arcivescovo di Manila, 2011) e Matteo Maria Zuppi (vescovo ausiliare di Roma, 2012). Lo spartiacque tra “ratzingeriani” e “bergogliani” non è dunque così chiaro. Come negare l’esistenza di una crescente confusione? E cos’altro fare, in questa situazione, se non limitarsi a vivere e a operare giorno per giorno, in spirito di piena fedeltà alla Chiesa e di totale abbandono alla Divina Provvidenza?

(Fonte: Roberto de Mattei, Corrispondenza romana, 11 gennaio 2023) 
https://www.corrispondenzaromana.it/di-fronte-alla-confusione-che-regna-nella-chiesa/

  

«Papato disastroso» e «Sinodo tossico»: il lascito-denuncia di Pell


Nel suo ultimo articolo per The Spectator, il cardinale Pell definiva senza mezzi termini il documento del Sinodo «incubo tossico», «uno dei documenti più incoerenti emessi da Roma» che non pone posizioni definitive su «aborto, contraccezione, ordinazione delle donne al sacerdozio, atti omosessuali». Anche il suo giudizio sul papato, definito «una catastrofe», è drastico, come emerge dopo la rivelazione che dietro il memorandum fatto avere ai cardinali sotto lo pseudonimo di Demos si celava proprio il porporato 81enne morto a Roma mercoledì. 

La morte di papa Benedetto XVI è stata un detonatore. Mons. Georg Gänswein è stato il primo a non poter più trattenere nel segreto la grande sofferenza e la contrarietà dell’allora Papa emerito di fronte alla scelta del suo successore di interrompere bruscamente quella “riforma della riforma” da lui fortemente voluta e che ha trovato nel Motu Proprio Summorum Pontificum la sua pietra miliare (vedi qui). Un atto, quello del 2007, che Benedetto XVI aveva fortemente voluto e messo in campo con la cognizione di causa di chi aveva ben presente quali fossero le linee di riforma tratteggiate dalla Costituzione liturgica Sacrosanctum Concilium, le grandi sofferenze che accompagnarono le scomuniche del 1988 e la lunga, difficile, paziente opera di cucitura avviata da allora.

Poi è stato il turno del Cardinale Robert Sarah, che seppur con toni più pacati, ha rivelato al mondo il dolore di papa Benedetto di fronte ai tentativi di voler “allentare” la legge del celibato sacerdotale nella Chiesa latina. «Abbiamo collaborato da vicino per la pubblicazione della nostra riflessione sul celibato sacerdotale. Custodirò nel segreto del mio cuore questi giorni indimenticabili. Manterrò nella profondità della mia memoria la sua profonda sofferenza e le sue lacrime, ma anche la sua volontà tenace e integra di non cedere alla menzogna», ha confessato il cardinale nel suo omaggio a Benedetto XVI.

E’ stato poi il turno, l’ultimo per ora, del Cardinale George Pell, con un articolo scritto per il settimanale inglese The Spectator, poco prima della sua improvvisa morte, avvenuta il 10 gennaio scorso. Una bordata sul Documento di lavoro per la Tappa Continentale del Sinodo (ne avevamo parlato qui), che Pell definiva senza mezzi termini «incubo tossico», «uno dei documenti più incoerenti emessi da Roma», «potpourri, effusione di una benevolenza stile New Age». L’indirizzo del Sinodo sulla Sinodalità è un irenismo insipido, un dialogo a tutti i costi, «dove la distinzione tra credenti e non credenti viene respinta», dove si ritiene che «non si debbano stabilire o proporre posizioni definitive» su tutti i temi che potrebbero incontrare posizioni differenti: «aborto, contraccezione, ordinazione delle donne al sacerdozio, atti omosessuali», perfino «poligamia, divorzio e nuovo matrimonio».

Pell ha denunciato coraggiosamente l’ostilità del documento alla tradizione apostolica, il suo rifiuto di riconoscere il Nuovo Testamento come Parola di Dio, «normativa per ogni insegnamento della fede e nella morale». Anche l’Antico Testamento viene ignorato, «inclusi i dieci Comandamenti». E poi il totale misconoscimento dell’esercizio dell’autorità nella Chiesa, con i vescovi sostanzialmente esautorati e ridotti ad impiegati di posta: «I vescovi non stanno lì semplicemente per validare una corretta procedura e dare un “nihil obstat” a quanto hanno constatato». L’unica autorità riconosciuta nel documento è quella «dell’amore e del servizio», mentre si ritiene che «il modello piramidale dell’autorità debba essere distrutto». Il Sinodo è divenuto un affare da sbrigare tra la commissione organizzatrice ed il Papa, tra i testi prodotti dalla prima e l’approvazione del secondo, tagliando fuori la responsabilità dei vescovi e abusando così dell’autentica sinodalità.

Pell riportava anche le sensazioni suscitate dal documento tra gli ex-anglicani, i quali vi riconoscono, con immediatezza di giudizio, «la crescente confusione, l’attacco ai valori morali tradizionali e l’inserimento nel dialogo del lessico neo-marxista»: la presenza reiterata di termini come «esclusione, alienazione, identità, marginalizzazione, senza voce, LGBTQ» tradiscono la contaminazione marxista del testo, mentre sparisce dall’orizzonte il linguaggio proprio della fede. Un disastro, dunque, su tutta la linea, che spingeva il Cardinale australiano ad un accorato appello: «Questo documento di lavoro ha bisogno di cambiamenti radicali. I vescovi devono rendersi conto che c’è del lavoro da fare, nel nome di Dio, il prima possibile».

Damian Thompson, editore associato del settimanale inglese che ha pubblicato l’articolo di Pell, riconosce il grande atto di coraggio del Cardinale: «Non sapeva che sarebbe morto, mentre scriveva questo pezzo; era pronto ad affrontare l’ira di papa Francesco e degli organizzatori». Coraggio e lucidità di analisi. Che emergono anche da un altro documento, un memorandum che dall’inizio della Quaresima dello scorso anno girava tra le mani dei cardinali sotto lo pseudonimo “Demos” e del quale l’11 gennaio Sandro Magister ha rivelato la paternità del cardinale Pell.

Un testo preciso e durissimo, che considera l’attuale pontificato nientemeno che un «disastro» e una «catastrofe»; un pontificato che ha trasformato Roma in un centro propulsore di confusione anziché di verità. Nella Chiesa sta succedendo di tutto, dal Sinodo tedesco alle esternazioni eretiche del cardinale Hollerich: «E il papato tace», commentava “Demos”, dando voce a quello che tanti cristiani constatano con grande sofferenza. Un pontificato che ha rimosso «la centralità di Cristo», fino a risultare confuso persino «sull’importanza di un rigoroso monoteismo, alludendo a un certo concetto più ampio di divinità», del quale il famoso episodio della Pachamama, chiaramente idolatrica, è forse l’emblema.

E poi «il mancato rispetto della legge in Vaticano», con Francesco che si è servito del suo potere di «capo dello Stato vaticano e fonte di ogni autorità di legge […] per interferire nei procedimenti giudiziari», fino a cambiare «la legge quattro volte durante il processo per aiutare l’accusa». Ingiustizie, intercettazioni telefoniche, un clima di asfissiante controllo, la catastrofe economica, e la mutevolezza del Papa nei confronti delle riforme finanziarie. «Inizialmente il Santo Padre ha sostenuto con forza le riforme. Poi ha impedito la centralizzazione degli investimenti, si è opposto alle riforme e alla maggior parte dei tentativi di smascherare la corruzione e ha sostenuto (allora) l’arcivescovo Becciu, al centro dell’establishment finanziario vaticano. Poi, nel 2020, il papa si è rivoltato contro Becciu e alla fine dieci persone sono state messe a processo e accusate».

Ancora il crollo dell’influenza politica del vaticano durante questi dieci anni, l’abbandono dei fedeli in Cina perseguitati, la persecuzione diretta dei tradizionalisti e dei monasteri contemplativi, e l’inarrestabile disaffezione dei fedeli nei confronti del Papa, testimoniato dal «forte calo del numero di pellegrini presenti alle udienze papali e alle messe», per un po’ coperto dalla crisi sanitaria, ma ora impietosamente evidente.

Per il prossimo conclave, Pell raccomandava la priorità del «ripristino della normalità, il ripristino della chiarezza dottrinale nella fede e nella morale, il ripristino del giusto rispetto del diritto e la garanzia che il primo criterio per la nomina dei vescovi sia l’accettazione della tradizione apostolica». E metteva in guardia dalla proliferazione dei sinodi, che drenano denaro che dovrebbe invece essere destinato all’evangelizzazione, oltre a mettere in pericolo l’unità della Chiesa. E poi la probabilità di uno scisma che arrivi «da destra» a causa delle continue «tensioni liturgiche». Una profezia?

 

(Fonte: Luisella Scrosati, LNBQ, 13 gennaio 2023)  
https://lanuovabq.it/it/papato-disastroso-e-sinodo-tossico-il-lascito-denuncia-di-pell

 

 

martedì 3 gennaio 2023

LA MORTE DI BENEDETTO XVI - Non rinuncia, ma vocazione: quel passo indietro fu un passo in avanti




Si è scritto molto sul passo indietro di Benedetto XVI. Ma alla luce di questi 10 anni è stato, agli occhi di Dio, un passo in avanti. In avanti verso la verità, spesso nascosta; in avanti verso la dottrina; in avanti verso una visione trascendente dell’esistenza. È qui che s’annida il mistero Benedetto XVI. Forse non è stata rinuncia la sua, ma accettazione di una vocazione che trova il suo centro di gravità in Dio, di un sacrificio che rivela il suo senso solo se siamo capaci di guardare il mondo dal Cielo. 

Il primo Papa emerito della storia è morto l’ultimo giorno dell’anno. Se Dio semina tracce di eternità nel tempo – il nostro tempo così finito – questa dualità non può non avere un suo significato trascendente, mutando così da coincidenza a dio-incidenza. Quasi che Benedetto XVI ci abbia traghettati da un periodo ad un altro, ci abbia accompagnato fino al limitare di un anno nuovo, in cui le novità chissà se avranno i colori della speranza o della preoccupazione, che sa tanto di nuova era; quasi che davvero, in questo arco temporale di poco meno di 10 anni, abbia assolto ad un ministero che trova una sua doverosa assonanza con la parola mistero.

Perché la sensazione che hanno molti, al di là dei necessari approfondimenti di carattere ecclesiale, canonico e teologico, è che Benedetto XVI si sia spogliato della bianca mantellina per rivestirsi di un abito inedito – intessuto con il filo dell’umiltà, la stoffa dei veri regnanti –  per ricoprire uno straordinario ruolo nella Chiesa necessario per tempi straordinari come questi. Fu spesso – è proprio il caso di dire – contraltare all’altare ufficiale. Un contrappeso discreto e orante alle parole senza peso di molte eminenze grigie in talare, un argine alle mareggiate del nulla che scuotevano le mura leonine, una fiammella che ardeva limpida e ben visibile proprio a motivo dell’oscurità fitta che ci avvolge, una voce gentile ma ferma che ha acceso la speranza di molti, perché una sola sua sillaba aveva un peso specifico eccezionale in questo clima di fede leggero come l’elio. Questo è stato e continuerà ad essere Benedetto XVI per i cuori e le intelligenze di molti.

Torniamo ad oggi, dove la sua vita ultraterrena si apre e dove un anno terreno si chiude, e  a quella strana sensazione che, in modo analogo, un’epoca si chiude e un’altra si apre. Come questo suo decennio, non a latere della Chiesa ma nel suo cuore, è trascorso in un’aura di mistero – l’atmosfera propria delle cose di Dio e di chi vive nel suo seno – così gli anni a venire dovranno essere da noi interpretati e letti tramite le lenti della fede, quella virtù che trova il soprannaturale nel naturale, che scopre il mistero nel quotidiano. Il magistero di Benedetto XVI, la rinuncia, l’elezione e il pontificato di Papa Francesco, gli anni nel Monastero Mater Ecclesiae in Vaticano e infine la sua morte proprio quando anche l’anno viene a spirare, possono allora offrire una chiave di lettura per i giorni che verranno, una chiave di lettura che ci dovrà ricordare, con conforto, che nulla, ma proprio nulla, sfugge al piano provvidenziale di Dio. E Benedetto XVI, in questo senso, è stato sicuramente uomo della Provvidenza.

 

(Fonte: Tommaso Scandroglio, LNBQ, 3 gennaio 2023) 
https://lanuovabq.it/it/non-rinuncia-ma-vocazione-quel-passo-indietro-fu-un-passo-in-avanti

 

  

domenica 1 gennaio 2023

LA MORTE DI BENEDETTO XVI - Messori su Ratzinger: «Non ho mai conosciuto un uomo più buono»

In una intervista alla Nuova Bussola Quotidiana il celebre scrittore Vittorio Messori ripercorre la sua stretta amicizia con Joseph Ratzinger/Benedetto XVI, nata con il libro intervista "Rapporto sulla Fede" che nel 1985 provocò un terremoto nella Chiesa. «Era il contrario dell'uomo chiuso e censore che hanno voluto dipingere, mai conosciuto persona più umile». «Sono certissimo che è andato in Paradiso, non pregherò per lui, ma pregherò lui per me». «E quell'incontro a tu per tu dopo la sua rinuncia...»

«Non ho mai conosciuto una persona così buona e umile». Vittorio Messori ricorda così Joseph Ratzinger, il papa emerito Benedetto XVI, a poche ore dalla morte. Al telefono dalla sua casa di Desenzano sul Garda, ormai diventata un eremo dopo la morte lo scorso 16 aprile della moglie Rosanna, Messori ripercorre sinteticamente le tappe della sua amicizia con Ratzinger, iniziata nel 1984 quando insistette per fargli una intervista che sarebbe poi diventata "Rapporto sulla Fede", un libro che «mise a rumore il mondo».

La prima edizione – curata dalle Paoline – uscì nel 1985 e fu una vera bomba: era la prima volta in assoluto che un Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede parlava con un giornalista e quello era anche l’anno del Sinodo dei vescovi, chiamati a riflettere sul Concilio Vaticano II a venti anni dalla sua chiusura. Ratzinger espresse giudizi molto chiari su tutte le tematiche più calde del post-Concilio, dalla concezione di Chiesa alla liturgia, dal dramma della morale alla crisi del sacerdozio, fino alla Teologia della liberazione e all’ecumenismo. Le reazioni, come si può immaginare, furono violente da parte dell’ala progressista e dei teologi alla moda che già digerivano male il pontificato di Giovanni Paolo II, iniziato nel 1978. Proprio Wojtyla aveva voluto accanto a sé un riluttante Ratzinger nel 1981, in un rapporto che è sempre rimasto molto stretto, e quel libro può essere anche considerato un manifesto di quel pontificato.

 «Mi prendevano in giro – racconta Messori - quando dicevo che avrei fatto un’intervista al cardinale Ratzinger, alla Congregazione per la Dottrina della Fede dicevano che non sarebbe mai avvenuto, che lui non era mai uscito dalla Congregazione. Peraltro aveva anche la fama di essere molto chiuso e poco incline a parlare. Invece io ho insistito e alla fine ci siamo ritirati in montagna per tre giorni insieme a due suore tedesche che ci preparavano da mangiare».

Avvenne a Bressanone, ospiti del locale seminario, nell’agosto 1984. E lì è nato il libro che avrebbe segnato un evento di grande importanza per la Chiesa.

Probabilmente nella fiducia accordatagli dal cardinale Ratzinger sta l’importanza di “Ipotesi su Gesù”, scritto da Messori nel 1976, che ebbe un successo planetario e tuttora è molto letto. Fatto sta che Ratzinger in “Rapporto sulla Fede” si apre completamente: «Ho avuto la certezza di un uomo che tutto cercava tranne il nascondersi, o di essere reticente – racconta ancora Messori -. Quello che mi stupiva era che gli facevo le domande più imbarazzanti, pensando che avrebbe evitato di rispondere. E invece no, rispondeva».

«Da lì è nata un’amicizia vera, ogni volta che andavo a Roma ci vedevamo e andavamo a pranzo al ristorante. E ho avuto conferma di questo: non ho mai conosciuto un uomo così buono, così disponibile, così umile. Mi diceva la sua sofferenza di essere stato chiamato a Roma a capo della Congregazione per la Dottrina della Fede: “La cosa che più mi amareggia – mi diceva - è dover controllare il lavoro dei miei colleghi, che si occupano di teologia. A me piaceva fare il professore, stare con gli studenti. Quando sono stato chiamato a Roma per fare questo lavoro l’ho accettato per obbedienza, ma per me è stata una sofferenza”».

In realtà aveva già sofferto per la sua nomina decisa da Paolo VI nel 1977 ad Arcivescovo di Monaco e Frisinga, «una delle realtà più difficili per i cattolici». «Lui rimase molto sorpreso per questa nomina – ricorda Messori, citando le confidenze di Ratzinger -. Fu la prima sofferenza, la prima obbedienza. Dopodiché lui pensava di poter lasciare questo compito e tornare all’Università, e invece è arrivato Giovanni Paolo II che l’ha portato a Roma, per fare una cosa ancora più pesante. Ma ha obbedito fino in fondo, è stato un uomo sempre attento a obbedire a quello che gli veniva chiesto». Un’obbedienza certamente sofferta: «Lui per ben tre volte ha chiesto a Giovanni Paolo II di permettergli di dimettersi. E invece lui gli ha detto di no. Ratzinger voleva tornare ai suoi libri, all’università, agli studenti». E invece, addirittura, è stato chiamato al papato nell’aprile 2005.

E l’immagine di uomo rigido, censore e controllore implacabile di ogni pensiero libero nella Chiesa? «Lui sorrideva quando lo accusavano di essere uno che controllava tutto. In realtà non è mai intervenuto duramente su nessuno», replica Vittorio Messori, che aggiunge: «Avendolo conosciuto, sono così convinto che è andato direttamente in Paradiso che non prego per lui, ma prego lui per me. Sono certissimo che è andato in Paradiso, pregare per lui non lo farò, ma da oggi lo aggiungo come un santo da pregare perché aiuti me. Io non ho bisogno di aiutare lui».

Dopo la rinuncia del febbraio 2013 è cambiato qualcosa? «C’è un episodio, per cui gli ho voluto ancora più bene», risponde Messori accennando una semplice risata sul filo dei ricordi: «Quando si è ritirato io non ho voluto più disturbarlo. Ma un bel giorno, dopo circa un anno e mezzo, mi ha telefonato il suo segretario dicendo che Sua Santità mi avrebbe rivisto volentieri. Naturalmente il giorno dopo sono partito per Roma, e sono stato subito accolto da lui e ha fatto una cosa per lui rara: mi ha dato un bacetto quando mi ha abbracciato, non credo lo abbia fatto molte volte. Poi mi fa accomodare e mi dice: “Guardi, avevo voglia di vederla, chiacchierare un po’ con lei, però lei per favore si dimentichi di essere un giornalista”. E in effetti io non gli ho fatto domande, lui invece mi ha fatto molte domande: su quanto stava accadendo nella Chiesa, le mie impressioni sul nuovo Papa, eccetera. È stato ad ascoltare con attenzione. Lui alla fine non mi ha detto nulla se non un semplice “io continuerò a pregare”».

Il primato della preghiera è certamente l’eredità più importante che ci lascia ma c’è anche un’enormità di scritti e discorsi che andrebbero ripresi ad uno ad uno per quanto sono attuali. A partire proprio da quel Rapporto sulla Fede, l’intervista rilasciata a Vittorio Messori che, infatti, dice: «È sorprendente rileggere oggi quelle risposte date quasi 40 anni fa, restano ancora drammaticamente attuali».

 

(Fonte: Riccardo Cascioli, LNBQ, 31 dic. 2022) 
https://lanuovabq.it/it/messori-su-ratzinger-non-ho-mai-conosciuto-un-uomo-piu-buono


 

LA MORTE DEL PAPA EMERITO: La salita al cielo di Benedetto XVI lascia la terra più al buio


La salita al cielo di Joseph Ratzinger/Benedetto XVI lascia la terra più al buio. La fede è anche luce e conoscenza che, nel suo matrimonio con la ragione, diffonde chiarezza, dissolve le tenebre, supera i dubbi angosciosi, dà gioia all’intelligenza, sottrae dalla dittatura del tempo e conferisce una libertà riempita di verità. Giovanni Paolo II aveva detto che la frase del Vangelo che egli più amava era: “La verità vi farà liberi”. Non so se Benedetto XVI abbia mai risposto ad una domanda su questo punto, ma penso che condividesse. La verità, che vive assieme alla carità (Veritas in caritate e Caritas in veritate) può essere vista come il centro della sua vita, della sua ricerca teologica, della guida della Chiesa universale prima alla Dottrina della Fede e poi al Pontificato. Un “magistero luminoso” lo aveva giustamente definito il cardinale Sodano. 

La luce della fede, sposata con la ragione, brillava e brilla nei suoi scritti teologici, nella chiarezza degli interventi magisteriali, nei discorsi, alcuni dei quali entrati ormai nella storia … ma anche nella pacatezza dei gesti, nel delicato rispetto delle persone, nella gentilezza degli atteggiamenti, nella sua sobria e intima compostezza, così rassicurante nell’esprimere fermezza e fiducia in Cristo. Nessuna sbavatura, nessuna alimentazione del dubbio che corrode e disanima, nessuna ambiguità, il come del discorso sempre perfettamente commisurato al cosa.

Accostandosi a lui si era sicuri di non venire confusi, ma confermati nelle verità di fede e di ragione. A lui ci si accostava sempre con fiducia di figli, sapendo che un padre non avrebbe mai dato una serpe da mangiare. Benedetto difendeva la “sana dottrina” dai venti sempre nuovi delle opinioni teologiche, conservava e riproponeva l’esigenza del sacro pur in un mondo secolarizzato, non pensava che al “nuovo” bisognasse passivamente “aggiornarsi”, ma semmai affrontarlo con una immersione profetica nella tradizione, non disprezzava il dialogo, anche con gli atei, ma non rinunciava alla pretesa della fede di emancipare nella verità anche la ragione. Quando discuteva con Habermas o Odifreddi non usava la sola ragione, ma la “ragione nella fede”, come San Tommaso, lui che si era formato su San Bonaventura e Agostino.

Non cessò di difendere il ruolo della metafisica nella teologia e aiutò Giovanni Paolo II a scrivere la Fides et ratio, che ormai la Chiesa sembra non ricordare più, era dell’idea che “il ricevere precede il fare” e che i diritti e le libertà fossero legittimati nella loro verità da qualcosa che li precede e che si chiama ordine naturale sul piano della ragione e deposito rivelato su quello della fede, ribadì con finezza intellettuale e teologica la necessità di intendere Dio come fine ultimo e, quindi, l’ insufficienza dell’ordine secolare riguardo ai suoi stessi fini e il suo bisogno di una salvezza che non può derivare dalla superbia mondana, nella relazione tra Città dell’Uomo e Città di Dio non invertiva mai valore e priorità delle due realtà, non fece concessioni al naturalismo e pensava che la fede rivelata liberasse la ragione naturale dalla gnosi.

Nel magistero di Benedetto tutte le verità si davano appuntamento e trovavano il loro posto conveniente. L’errore non veniva inteso come spinta dialettica verso una superiore sintesi. Non solo l’intellettuale ma anche il semplice fedele godeva nel trovarsi in un universo di senso coerente e dotato di stabilità, con cui affrontare le contraddizioni e le negazioni dell’esistenza, continuando a considerarle contraddizioni e negazioni e non nuove norme o nuove leggi. Con Benedetto si sapeva che le circostanze non sono eccezioni.

Per lui non era il tempo a fare da punto di partenza per interpretare la fede apostolica, certamente nella Palestina di Gesù i registratori non esistevano, ma la trasmissione della fede apostolica è avvenuta nella assoluta certezza garantita dallo Spirito, il metodo storico-critico non va rigettato ma su di esso prevale la fede della tradizione e la teologia della liberazione sbaglia a pensare che il Vangelo si legga a partire dalla situazione, mentre è la situazione che si legge alle luce della fede apostolica. Le teologie contemporanee hanno indicato il “luogo teologico” in molte situazioni esistenziali e storiche, ma per Benedetto l’unico luogo teologico era la fede apostolica. Con lui ogni fedele cattolico si sentiva garantito di essere guidato dalla Chiesa ad aderire alle stesse verità di fede degli Apostoli.

Benedetto aveva chiarito alla Chiesa dove la verità fosse stata originariamente negata nella forma radicale della modernità. Questo era successo nell’Occidente della grande abiura e dell’ateismo scelto come nuova religione. Pensava quindi che in Occidente e non altrove ci dovesse essere la resistenza e la ripresa. Qui, dove la fiammella rischiava di spegnersi per mancanza di alimento, ci doveva essere la riproposizione della verità tutta intera. Qui, dove nuove ideologie del nulla permeavano di sé ormai ogni istituzione, politica o educativa che fosse, e dove la ragione si avvitava su se stessa annullandosi e alimentando totalitarismi “consensuali” ma non per questo meno distruttivi di quelli già vissuti, la Chiesa non avrebbe dovuto “adeguarsi”, ma rimanere se stessa fino in fondo.
Benedetto XVI non rappresenta il passato ma il futuro.

 

(Fonte: Stefano Fontana, LNBQ, 31 dic. 2022) 
https://lanuovabq.it/it/la-salita-al-cielo-di-benedetto-xvi-lascia-la-terra-piu-al-buio


LA MORTE DEL PAPA EMERITO: Benedetto ha ricondotto uomini e Chiesa alla centralità di Dio

 

È stato un pontificato essenziale che ha mirato dritto al cuore della malattia mortale del nostro tempo, un mondo che ha cancellato Dio. E anche la Chiesa si è fatta affascinare dai valori condivisi, e per questo Benedetto è stato tanto combattuto. Ma lui ha indicato l’unica soluzione per la felicità dell’uomo: Dio al centro della liturgia, la liturgia al centro della Chiesa, la Chiesa al centro del mondo.

Forse, per la prima volta nella storia della Chiesa, un intero pontificato è stato interamente dedicato a ricondurre gli uomini, e la Chiesa stessa, alla centralità di Dio. Quello di Benedetto XVI è stato un pontificato essenziale, un pontificato che ha mirato dritto al cuore della malattia mortale del nostro tempo, senza perdersi in analisi sociologiche, politiche, o economiche. Non che le abbia mai disprezzate, ma ha dato loro il posto che meritano, giudicandole alla luce della loro capacità di rispondere al mistero dell’uomo, che è quello di essere adoratore di Dio.

«Se si trasferisce il centro di gravità della vita non nella vita, ma nell’aldilà − nel nulla − si è tolto il centro di gravità alla vita in generale». Il lungo travaglio della modernità ha partorito un mondo il cui centro di gravità è nel mondo stesso, come auspicato da Friedrich Nietzsche nell’Anticristo. Ma, a differenza di quanto preconizzato dal vate della morte di Dio, l’aver tolto il centro di gravità dall’«aldilà», che non è il nulla, ma la pienezza di Dio, ha fatto implodere l’umanità. Ovunque si moltiplicano i segnali di questa implosione: paura, disperazione, miseria, violenza, reificazione dell’uomo, delirio.

Papa Benedetto ha voluto mettersi a fianco di questa umanità smarrita e morente, per ri-orientarla nuovamente verso il suo centro di gravità. Eppure, proprio per questo, il suo pontificato è stato tra i più combattuti e incompresi, anche dentro la Chiesa. Il mondo cattolico si è inebriato del vino dell’anticristo, dal sapore di un cristianesimo “dei valori”, del quale nostro Signore Gesù Cristo non è nulla di più che un testimonial e nel quale Dio è Colui col quale o senza il quale, la fede rimane tale e quale. Benedetto XVI lo ha capito come pochi altri e ha compiuto il gesto estremo di tornare nuovamente a porre Dio al centro.

Al centro del centro prima di tutto. Il cuore della vita della Chiesa è la liturgia. Ma la liturgia ha smarrito il suo centro, finendo poi per ripiegarsi su se stessa e danzare attorno al vitello d’oro, come aveva memorabilmente spiegato Ratzinger. La Chiesa si è così ritrovata tragicamente disorientata, perché il senso della sua esistenza terrena ed eterna, ossia l’adorazione di Dio, è venuto meno proprio nella liturgia. «La Chiesa esiste per il culto», aveva detto il cardinale Robert Sarah, in chiusura dell’ultima Giornata della Bussola; tutto quello che la Chiesa compie è finalizzato alla lode, al ringraziamento, all’adorazione della Trinità Santissima, nell’oggi temporale e nell’oggi eterno. Benedetto XVI aveva lucidamente presente che la Chiesa si stava disperdendo nelle molte cose da fare, aveva cioè perso la sua finalità latreutica, perché non aveva più una liturgia orientata ad Deum: «Sono convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte dal crollo della liturgia», aveva spiegato nello scritto autobiografico La mia vita.

Le prime vittime di questa perdita del centro del centro sono stati i sacerdoti e i consacrati. Ai primi, egli ricordava, con la parola e con l’esempio, l’essenza della loro vita: astare coram te et tibi ministrare. Da questo stare davanti a Dio e servirlo il sacerdote diviene «uno che vigila. Deve stare in guardia di fronte alle potenze incalzanti del male. Deve tener sveglio il mondo per Dio. Deve essere uno che sta in piedi: dritto di fronte alle correnti del tempo. Dritto nella verità. Dritto nell’impegno per il bene» (Omelia, S. Messa crismale, 20 marzo ). Diritto davanti a Dio, per non essere prono davanti al mondo.

Ai monaci e ai consacrati richiamava la vita angelica, che altro non è se non «vita adorazione. Questo dovrebbe valere anche per i monaci. Essi pregano innanzitutto non per questa o quell’altra cosa, ma semplicemente perché Dio merita di essere adorato. […] Una tale preghiera senza scopo specifico, che vuol essere puro servizio divino viene perciò chiamata con ragione “officium”. È il “servizio” per eccellenza, il “servizio sacro” dei monaci. Esso è offerto al Dio trinitario che, al di sopra di tutto, è degno “di ricevere la gloria, l’onore e la potenza” (Ap 4,11), perché ha creato il mondo in modo meraviglioso e in modo ancora più meraviglioso l’ha rinnovato» (Discorso all’Abbazia di Heiligenkreuz, 9 settembre 2007).

Smarrito Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo dal centro e dal centro del centro, sono quindi la famiglia e l’uomo a perdere la consapevolezza della propria identità. Nell’Angelus del 27 dicembre 2009, il Papa coglieva il cuore della realtà della famiglia: «Dio ha voluto rivelarsi nascendo in una famiglia umana, e perciò la famiglia umana è diventata icona di Dio! Dio è Trinità, è comunione d’amore, e la famiglia ne è, in tutta la differenza esistente tra il Mistero di Dio e la sua creatura umana, un’espressione che riflette il Mistero insondabile del Dio amore. L’uomo e la donna, creati ad immagine di Dio, diventano nel matrimonio “un’unica carne” (Gen 2,24), cioè una comunione di amore che genera nuova vita. La famiglia umana, in un certo senso, è icona della Trinità per l’amore interpersonale e per la fecondità dell’amore».

Senza questo orizzonte, la morale familiare diventa un meschino gioco a mortificare ora l’amore interpersonale, ora la fecondità. A sua volta, l’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio, se smarrisce il senso di Dio, se viene separato da lui, viene «ridotto a una sola dimensione, quella orizzontale, e proprio questo riduzionismo è una delle cause fondamentali dei totalitarismi che hanno avuto conseguenze tragiche nel secolo scorso, come pure della crisi di valori che vediamo nella realtà attuale. [...] Se Dio perde la centralità, l’uomo perde il suo posto giusto, non trova più la sua collocazione nel creato, nelle relazioni con gli altri» (Udienza Generale, 14 novembre 2012) e cade nel delirio di ritenersi egli stesso dio, padrone della vita e della morte, della verità e del bene.

La Chiesa è a sua volta il centro del mondo, il monte del tempio del Signore, «eretto sulla cima dei monti» e «più alto dei colli», verso il quale affluiscono tutte le genti, per poter conoscere le vie del Signore e «camminare per i suoi sentieri» (Is, 2, 2-3). Ma un centro “scentrato” ha privato il mondo del suo centro di gravità, checché ne pensi Nietzsche; ha fatto piombare il mondo intero nel disorientamento e nella disgregazione. Nei suoi recenti Appunti, il Papa emerito lanciava nuovamente un lamento e un avvertimento: «Una società nella quale Dio è assente - una società che non lo conosce più e lo tratta come se non esistesse - è una società che perde il suo criterio. Nel nostro tempo è stato coniato il motto della “morte di Dio”.

Quando in una società Dio muore, essa diviene libera, ci è stato assicurato. In verità, la morte di Dio in una società significa anche la fine della sua libertà, perché muore il senso che offre orientamento. E perché viene meno il criterio che ci indica la direzione insegnandoci a distinguere il bene dal male. La società occidentale è una società nella quale Dio nella sfera pubblica è assente e per la quale non ha più nulla da dire. E per questo è una società nella quale si perde sempre più il criterio e la misura dell’umano».

Papa Benedetto ci ha presi per mano, additandoci l’unica soluzione per la felicità dell’uomo e la nuova fioritura della Chiesa: Dio al centro della liturgia, la liturgia al centro della Chiesa, la Chiesa al centro del mondo. Il suo pontificato è stato uno sprazzo di luce che il Cielo ha concesso al nostro mondo di tenebra, e le tenebre non lo hanno accolto. Ma esso rimane l’insegnamento essenziale per l’uomo essenziale; per questo, non passerà mai.

 

(Fonte: Luisella Scrosati, LNBQ, 1° gennaio 2023) 
https://lanuovabq.it/it/benedetto-ha-ricondotto-uomini-e-chiesa-alla-centralita-di-dio