mercoledì 27 marzo 2013

Fame di pane, fame di verità. L’avvento di Papa Francesco

Fino a poche settimane fa non sapevo neppure dell’esistenza del Card. Bergoglio, finché me ne parlò un mio amico carissimo, scrittore de La Civiltà Cattolica, come di un cosiddetto “papabile”. Data allora la stima che nutro per questo dotto e valoroso Gesuita, cominciai anch’io ad auspicarne l’elezione. Invece vi confesso che i nomi proposti dai grandi mass-media mi hanno lasciato piuttosto indifferente se non sospettoso, perché, a parte che si sa che - è divenuto anche un proverbio - “chi entra Papa esce cardinale”, non mi pare segno di discrezione e rispetto per la libertà dei Cardinali elettori pubblicizzare con tanta insistenza, sicumera e dispiego di mezzi certi nomi, anche se rispettabili, non si sa in base a quale criterio, quasi a voler fare pressione sul Collegio cardinalizio, come se i Cardinali non sapessero molto meglio dei giornalisti o degli opinionisti che scelta devono fare.
Per questo io trovo in questo comportamento dei mass-media, particolarmente rumoroso nella presente circostanza, una specie di petulanza che sconfina nell’arroganza e che mi fa sospettare che questi nomi, almeno in parte, esprimano le solite forze moderniste spasimanti per il loro beniamino, come se le elezione pontificie potessero essere assimilate in tutto e per tutto alle elezioni alla Casa Bianca o al Quirinale. È giusto pertanto che questi interventi indiscreti non trovino rispondenza tra i Cardinali, la cui saggezza è certamente superiore alle voci di corridoio o alle indiscrezioni raccolte dai giornalisti, benché forse nello stesso Collegio cardinalizio vi possa esser stato qualcuno che ha fatto l’occhiolino al modernisti e la cui vanità abbia favorito il diffondersi delle scommesse come si fa alla corsa dei cavalli.
Ma con l’inattesa elezione del card. Bergoglio, ecco l’esplodere l’irrefrenabile ovazione di un’infinità di persone entusiaste, e la rinnovata speranza in tutti alla percezione dell’evidente messaggio che, nel momento stesso della sua elezione, ci ha lanciato Papa Francesco: tutti i poveri del mondo si sono immediatamente sentiti in sintonia con lui, ossia le masse sterminate che in tutti gli angoli della terra soffrono nei più diversi modi il peso della sventura: la mancanza del pane quotidiano, la vicinanza sfrontata del ricco epulone, l’incertezza angosciosa dei disoccupati, lo smarrimento della solitudine e dell’emarginazione, l’amarezza e l’umiliazione per i torti e lo sfruttamento ricevuti, la tentazione alla disperazione, la sensazione di non poterne più, i bambini traumatizzati da violenze subìte, il tragico avvicinarsi della morte nello spavento di una malattia inguaribile, il baratro della depressione psichica, i mille disagi di un’anzianità priva di sufficienti cure e soprattutto di affetto e molte altre cose simili dove l’immaginazione stenta ad arrivare e dove non vorrebbe mai arrivare.
Come infatti non leggere in quel nome “Francesco” un forte e commovente messaggio profetico di speranza, di conforto, di consolazione? Il nome di quel Santo così giustamente popolare che da otto secoli nei suoi figli e figlie benedetti affascina il cuore dell’uomo assetato di pane, di verità, di Dio, di giustizia, di semplicità, di onestà, di rettitudine, di dignità per sé e per tutti gli uomini? Quell’uomo d’oggi che, illuso, deluso e roso dalla prometeica e falsa grandezza propinata dalla presunzione e dall’empietà - quella che i Greci chiamano hybris -, dall’invidia e dalla superbia, o immerso nell’ingordigia dei vizi carnali, nella sete del denaro o del potere, non sa trovare la vera grandezza, la fraternità, la libertà e la pace nell’umiltà, nell’apertura di cuore, nella pietas, nel senso del sacro, nella mitezza e nella preghiera?
Eppure questo Papa che così si chiama è un Gesuita, uno degli Ordini più intellettuali e raffinati della Chiesa, più ricco di capacità umane e di cultura, prudenza, savoir faire, coraggio, fantasia creatrice, slancio e dinamismo missionario. Papa Francesco ha saputo superare una tradizionale benché troppo facile contrapposizione tra Francescani e Gesuiti a causa delle grandi differenze che li distinguono e quindi costituisce anche in questo campo un grande appello all’unità e alla concordia, oggi che come non mai la Chiesa, tutti i fedeli, tutti gli uomini di buona volontà hanno bisogno sia del pane materiale sia di quel pane spirituale, panis angelicus, che è la verità, quella Parola che “esce dalla bocca di Dio” in aggiunta e complemento supremo del pane materiale: pane materiale che diventa pane eucaristico.
Inoltre, chi non s‘accorge di quanto l’America Latina - certo non solo lei - ci ricorda la grande, immensa, sempre attuale questione della miseria, della povertà, della giustizia sociale, della liberazione degli oppressi? Certo il pensiero va alla cosiddetta “teologia della liberazione”, nella quale indubbiamente sono presenti, insieme ad aspetti positivi, elementi incompatibili con la vera liberazione e la vera giustizia, trascurando la sete più profonda e sublime che l’uomo sente per i valori più alti dello spirito, della religione, della vita morale, della santità, a cominciare dal valore della verità e quindi della purezza dottrinale della fede.
L’operazione disonesta e furbesca, condotta in grande stile, che adesso temo, è quella dei modernisti, i quali andranno subito a rispolverare imprudentemente la teologia della liberazione mostrando una sperticata quanto ipocrita compassione per i poveri, ma con l’atteggiamento di Giuda, narrato dal Vangelo, in occasione dell’omaggio fatto a Cristo dalla peccatrice pentita: non una sincera attenzione ai poveri, ma la dissimulazione della loro avarizia consistente negli sporchi guadagni ottenuti dalla diffusione delle loro eresie con le quali rubano le anime a Dio e le consegnano a Satana.
Ma sono convinto che questo Papa non si lascerà sedurre o imbrogliare da queste manovre ed avrà il dono di conciliare questa fame di pane e fame di verità che purtroppo non sempre sappiamo realizzare e ciò è dannosissimo sia per l’una che per l’altra fame. Quando parliamo di “poveri”, rischiamo infatti di dimenticare quella miseria ben più profonda, tragica e pericolosa, anticamera dell’eterna dannazione e fattore dei più terribili conflitti umani, che è la mancanza o la privazione di verità, innanzitutto nel campo della fede, l’ignoranza, soprattutto quella colpevole, e l’essere vittima dell’inganno e della menzogna circa i valori più fondamentali ed importanti della vita, implicanti l’orientamento della nostra esistenza a Dio e a Cristo.
Ma d’altra parte, una maniera intellettualistica, assolutistica ed astratta di parlare della verità, una superbia ed un’arroganza nel ritenersene gli unici e sommi detentori nel disprezzo verso gli altri o verso lo stesso Magistero della Chiesa o al contrario uno scetticismo irresponsabile, inconcludente e dissolvitore che si maschera con finta bonomia sotto le apparenze della modestia, del dialogo e della tolleranza, chiudendosi soggettivisticamente ed idealisticamente all’oggettività del reale esterno soprattutto se umano e sociale, dove troviamo le miserie fisiche, i bisogni materiali e i drammi economici e politici degli altri, è proprio la maniera per gettare il discredito nei confronti degli interessi della speculazione o della teoresi filosofica e teologica, con l’annesso imprescindibile compito della confutazione degli errori e delle eresie. In queste condizioni anche la religione, la professione di fede o la vita ecclesiale diventano ipocrisia e falsità e vengono comprensibilmente bestemmiate dai poveri beffati e delusi.
Occorre pertanto che siamo più consapevoli delle conseguenze pratiche delle idee che professiamo, sì che il fatto che esse siano giuste o sbagliate - si tratti di argomenti di ragione o di fede - non è cosa per nulla indifferente ai fini di una corretta vita morale e decente convivenza umana. E’ vero che si può conoscere la verità e non praticarla, ma è altrettanto vero e certo che chi professa idee sbagliate in fatto di religione o di morale, nella misura in cui le mette in pratica, non ha alcuna possibilità di camminare sulla via giusta e di salvarsi, se non sul piano dell’apparenza. Può bensì verificarsi il caso di chi si comporta bene pur con idee sbagliate, ma state pur certi che se si comporta bene, ciò non dipenderà dalla messa in pratica di quelle idee, ma dal fatto che nonostante tutto, anche se non se ne rende conto, parte da princìpi giusti.
Il rischio che si può profilare quindi con questo nuovo pontificato, rischio certo non legato alla condotta del Papa in sè stessa, ma dipendente dai nostri soliti pregiudizi e furbizie, è quello che col pretesto dei grandi problemi della povertà, l’attenzione possa in qualche modo esser distolta dai gravissimi problemi dottrinali che ci affliggono - non dimentichiamoci che siamo nell’Anno della Fede - per avviare ad arte un’enfiagione patologica della tematica della povertà, della giustizia e della solidarietà umane in una rinnovata forma retorica e falsa che possa frenare od oscurare l’interesse e lo studio per i temi più profondi e delicati, di carattere intellettuale e spirituale, del pensiero morale e teologico, e quindi per tutto il vasto campo della cultura e della comunicazione umana intra ed extraecclesiale, nel quale persiste l’ignoranza o si diffonde la menzogna e l’impostura.
Non esistono infatti solo le frodi alimentari o la mancanza di cibo. Esistono anche le frodi nel campo dell’intelligenza e della dottrina, nonché la mancanza di verità, beni, questi, sommi, più importanti in se stessi del cibo materiale, così come la morte dell’anima è più grave dell’indigenza fisica e della carenza di beni materiali. Il che naturalmente non toglie che in molti casi sia più urgente l’intervento materiale od umanitario che non quello culturale o evangelizzatore.
Occorre comunque ridare a tanti spiriti la consapevolezza della gravità della mancanza di verità e avviare un nuovo impegno di tutta la Chiesa per sfamare la sete della Parola di Dio e, più a monte o più in radice, delle esigenze stesse della sana ragione - ecco l’evangelizzazione, nonché il vero dialogo interreligioso e tra credenti e non credenti -, senza la quale è impossibile accedere alla vera fede cattolica e si giunge semmai al fideismo o al fondamentalismo.
C’è tuttora troppa leggerezza in molti, teologi e pastori compresi, nella considerazione dei problemi dottrinali, presi come sono da false posizioni, indifferentiste, relativiste, soggettiviste e falsamente ireniste. Ma certo sarebbe una nuova ipocrisia quella di sollevare i problemi dottrinali trascurando di sovvenire ai bisogni della povera gente e i drammatici problemi di un’umanità offesa nella sua più fondamentale dignità.
L’augurio quindi che dobbiamo farci e la preghiera che dobbiamo innalzare a Dio è che tutti, sotto la guida di Papa Francesco e l’intercessione della Madonna, della quale egli è tanto devoto, possiamo raggiungere un sano equilibrio ed una saggia sintesi fra gli interessi del corpo e quelli dello spirito, e sono certo che il nuovo Papa ci aiuterà potentemente nel riacquisto di questa saggezza che è la via del vero umanesimo e della nostra felicità.
 
(Fonte: P. Giovanni Cavalcoli, Riscossa cristiana, 23 marzo 2013)

 

mercoledì 20 marzo 2013

I nemici della Chiesa che mettono Ratzinger "contro" Bergoglio.

Irritazione. La sento montare dentro e penso subito che il diavolo ci mette le zampe e le corna per rovinarmi il momento di assoluta felicità vissuto con tutta la Chiesa. Irritazione perché a soli tre giorni dall’elezione di Francesco è già iniziato il tiro a freccette, il massacro mediatico, la definizione per opposizione, lo scaricamento del precedente per l’esaltazione del successivo.
Il fastidio fisico per l’ipocrisia di certe firme, le capriole dei commentatori e l’enfasi che subiscono i dettagli ha già prodotto un’amarezza pericolosa, la strisciante persuasione che non cambieremo mai, neanche dopo una delle Grazie più belle che potevano capitare. E non parlo solo dei fantasiosi resoconti di ciò che è avvenuto sotto le volte della Sistina, del tentativo di strizzare tutto nell’arido schema delle fazioni, delle altalene di supposizioni e alleanze proposte da cronisti che neanche lo smacco subito dal Paraclito ha fatto desistere, ma della serpeggiante tentazione, che attraversa tutta la chiesa, di guardare al nuovo perdendo la memoria.
Lo avrete capito, non mi va giù che anche in ambito ecclesiale si contrappongano due uomini di fede come Ratzinger e Bergoglio, o peggio ancora che si valuti l’elezione di Francesco come l’esame di riparazione dello Spirito a 8 anni di distanza dal presunto disastro Benedetto. Non ce l’ho con i soliti e prevedibili custodi del riformismo ad oltranza, gli ideologi delle primavere e delle speranze ecclesiali, quelli, da Leonardo Boff ad Hans Kung, passando per “Noi siamo chiesa” e Mancuso, che hanno salutato l’elezione dell’arcivescovo argentino come un cambio epocale della Cristianità quasi paragonabile all’annuncio del Concilio, ma con gli insospettabili. I folgorati da Ratzinger, oggi dimentichi e persino critici del suo pontificato-calvario, della sua scelta dolorosa e necessaria, del bene immenso voluto alla Chiesa, del faticoso lavoro di aratura che solo un “operaio della vigna del Signore” poteva fare. Perché se una cosa è chiarissima, è che non c’è nessuna discontinuità tra i due pontefici, l’emerito e quello in carica, che uno non avrebbe avuto senso senza l’altro, e che lo Spirito Santo con i cardinali non poteva operare selezione migliore. Solo un idiota non si accorge della progressione di santità nei pontificati che dal 900 hanno traghettato la Chiesa nel terzo millennio. Un crescendo soprattutto negli ultimi 35 anni: Wojtyla, Ratzinger, Bergoglio.
Con una sovrapposizione tra gli ultimi due forse provvidenziale per questa Chiesa così fragile nelle sue paure, così ferità nella sua umanità, così sporcata dai peccati di alcuni e dall’indifferenza di molti. Un Pontefice solo certo, ma un altro che ha aspettato a salire al cielo e ha accettato la sosta sul monte per aggiungere intensità umana alla sua preghiera. E’ salito sulla Croce, è stato ammesso. Ma ci rimane inchiodato. E forse meriterebbe più laico rispetto se non amore incondizionato.
Impariamo da Francesco, a tributargli il riconoscimento che merita: il pensiero pronto dalla loggia delle Benedizioni, la telefonata dopo l’elezione, la preghiera incessantemente richiesta, l’affidamento a Maria della sua vita monacale, le citazioni in tutti i discorsi fin qui pronunciati. Non possediamo ancora il distacco per guardare alla Storia. La pancia in subbuglio, il cuore esultante, le emozioni latine e le suggestioni scatenate dal nome inedito possono aver fatto girare la testa, ma non si può dimenticare l’ovvio. E cioè che entrambi i pontefici, l’emerito e non, possiedono la stessa “santa ossessione” per Cristo (gli danno entrambi del “Tu”), usano lo stesso linguaggio, hanno la stessa coriacea fede, lo stesso realismo, la stessa devozione mariana, la stessa matrice popolare. Con stili diversi. Teutonico con sprazzi bavaresi, Ratzinger, piemontese addolcito dalle note latine, Bergoglio. E se uno amava mozzetta e camauro e l’altro predilige il bianco totale, chissenefrega. Persino un “catto-dandy” come Camillo Langone sul Foglio riconosce che è qualcosa a cui si può rinunciare per “salvare Cristo”. Se il numero 265 dei successori di Pietro ha riportato un certo splendore nelle liturgie arruffate di certe parrocchie e il numero 266 sembra invece non voler lasciare la sua benedetta croce di ferro, cosa importa. Credo che la cosa su cui non ci si può ingannare sia l’identica urgenza di annunciare il Vangelo. Ma per sottolineare i tratti di unità ci sarà tempo. Intanto cogliamo il fascino di parole e frasi che ritornano con insistenza senza soluzione di continuità. Come il “non cedere al pessimismo” o “non fare della chiesa una Ong pietosa”, oppure “confessiamo l’unica Gloria: Cristo Crocifisso”. O ancora “camminiamo”. Ma il Papa emerito non si era definito un pellegrino? Il demonio ci prova, sta a noi smontarlo. Un Ps finale. Piccolo regalo di un cardinale elettore prima di raggiungere la sua diocesi: il racconto bellissimo della Messa celebrata alle 7 del mattino da Papa Francesco nella cappella della Domus Sanctae Martae. È l’omelia in cui Papa Bergolio ha parlato del tempo della desolazione e della persecuzione citando il suo Ignatio di Layola per la prima volta, da pontefice, quando nelle regole del discernimento consiglia “nel tempo della desolazione non si facciano mai mutamenti, ma si resti saldi e costanti nei propositi e nelle decisioni che si avevano nel tempo della consolazione”.Altrimenti, ha aggiunto il santo parroco Francesco, se ci si allontana, quando il Signore torna a rendersi visibile, rischia di non trovarci.
 
(Fonte: Cristiana Caricato, ilsussidiario.net, 16 marzo 2013)
 

giovedì 14 marzo 2013

Habemus Papam: Franciscum!

Actum est. Finito. E meno male, perché era diventato deprimente assistere a quel toto-papa che ha saturato i media tv, con quel giochino etnico del geo-papa decisamente un po’ stupido: lo vogliamo americano, no nero, meglio ispanico, no brasiliano, deve essere “mundial”, come se il papa dovesse essere scelto come testimonial di uno spot, con un target su cui puntare.
Sembrava quasi di assistere a certi premi Nobel assegnati non al valore dello scrittore ma per gratificare un'area geografica. I vari gruppi dei cardinali inseguiti come prede, le “primarie” papali, i sarti che preparavano le taglie ad hoc per il futuro papa, certi TG che hanno trattato il Conclave come se fosse un tribunale destinato a decidere sulla pedofilia e le banche cattoliche.
Finalmente tutto è finito.
FRANCESCO è il pastore che lo Spirito Santo ha scelto per la sua Chiesa.
Questo è il punto. Questo è quello che conta.
Evitiamo ora, per favore, di tirarlo da tutte le parti, di attribuirgli fatti, parole, gusti e passioni, che solo l’insanabile ottusità di certi media può inventare.
Risparmiateci ora gli sproloqui dei soliti sapienti tuttologi, che sanno tutto, conoscono tutti, sono amici intimi di tutti! E finiscono per esibirsi in squallide dimostrazioni di assoluta e crassa ignoranza in fatto di fede, di cattolicesimo e di Chiesa.
Preghiamo invece per lui. Preghiamo per il Papa, il Vescovo, il Pastore, il successore di Pietro.
Ce l’ha chiesto lui stesso con grande umiltà e convinzione.
Un lavoro immane lo attende, irto di responsabilità impensabili. Deve praticamente scuotere energicamente la fede della Chiesa, deve ridarle nuovo vigore e nuovo smalto, più obbedienza, più umiltà e fedeltà nel clero e nelle gerarchie, più credibilità e sequela da parte dei fedeli e del mondo. Perché in questi ultimi decenni, purtroppo, profonde ferite sono state inferte alla Chiesa di Cristo: scristianizzazione, pedofilia, malaffare, guerre intestine, personalismi e sovraesposizioni autoreferenziali da parte dei pastori.
Papa Francesco - sulla scia dell’omonimo poverello che ha sfidato il mondo col niente, ma forte di Dio - in comunione di preghiera e di magistero con il grande Benedetto, papa emerito, con la sua preghiera, i suoi insegnamenti, il suo esempio, doni alla Chiesa e a noi tutti suoi figli, pace, serenità, trasparenza, convinzione, coerenza, fedeltà e luminosità nella fede.

 
AUGURI SANTO PADRE!
 

lunedì 11 marzo 2013

La fede e il dubbio. Osservazioni su alcune dichiarazioni del card. Ravasi

Ne L’Osservatore Romano del 9 marzo scorso è apparso un articolo del Card. Ravasi dal titolo “Il dubbio è un buon cane da guardia”, dove l’illustre Articolista intenderebbe spiegare la natura dell’atto di fede e purtroppo bisogna notare quell’impostazione dubitazionista, se così posso esprimermi, che ho già criticato di recente in questo sito a proposito della concezione della fede nel Card. Martini.
In questo suo scritto il Card. Ravasi fa sfoggio, come è il suo solito, di numerose citazioni dai più disparati Autori, cosa che certamente è l’eco di molte letture e mostra una notevole erudizione, ma anche purtroppo una certa carenza di linearità e rigore speculativi, che finiscono più che per far chiarezza, con l’impressionare il lettore sommergendolo sotto un gran cumulo di riferimenti brillanti ma spesso non pertinenti e tali da mandare fuori strada. La prosa non eccelle per vigore argomentativo in una tema così grave, ma abbondano le frasi ad effetto, più da letteratura che da teologia
L’equivoco di fondo che percorre tutto lo scritto di Ravasi è dato dalla confusione che egli fa tra quel dubitare che normalmente precede e segue l’atto di fede, quello che chiamerei “dubbio esterno” e un dubitare che egli pone all’interno stesso dell’atto di fede, presentandolo come pregio dell’atto di fede e come “componente dialettica della fede”.
E’ quello che potremmo chiamare “dubbio interno” o che più comunemente si può dire o vien detto “dubbio di fede”, segno, per la verità, di una fede debole e difettosa, tanto che chi ha pratica di confessionale, sa bene come i penitenti giustamente ogni tanto si accusano di questi “dubbi di fede”. E poveretto quel confessore che invece di confermarli nella fede avesse la disgraziata idea di scagionarli o magari di approvarli! Che dirà il Card. Ravasi ai suoi penitenti? Gli dirà forse: “Bravo, continua così”?
L’Articolista, infatti, citando Louis Evely, afferma che la fede “è un intreccio di luce e di tenebra: possiede abbastanza splendore per ammettere, abbastanza oscurità per rifiutare, abbastanza ragioni per obiettare”. Che la verità di fede presenti ad un tempo luce ed ombra si può anche ammettere, per la sua caratteristica di illuminare la ragione nel mentre che la trascende; e del resto tale osservazione si trova già nel grande teologo domenicano del secolo scorso, il Padre Réginald Garrigou-Lagrange.
Ma Evely, approvato da Ravasi, va più in là sostenendo che la “fede” avrebbe uguali ragioni sia per acconsentire alla Parola di Dio che per respingerla. Certamente all’interno di questa fede entrerebbero omnes oves et boves et pecora omnia. A questo punto anche un ateo può aver fede. Ma io mi domando: a qual prezzo per la verità della stessa fede e per le coscienze? Sarebbe questo il dialogo tra credenti e non-credenti? Dunque allora, mi domando, l’ammettere e il rifiutare stanno alla pari? Si può scegliere ciò che si preferisce, tanto ci salviamo tutti?
La proposizione di fede è una proposizione indecidibile? E’ un’eterna perplessità, che poi assomiglia al doppio gioco? E’ un eterno “forse che sì, forse che no”? È un non impegnarsi mai del tutto, come avviene in quello che Kierkegaard chiama lo “stadio estetico” dell’“ironia” o diciamo meglio del commediante?
È vero che la dottrina di fede ha un aspetto di oscurità, ma oscurità non significa necessariamente falsità. Fu questo lo sbaglio del razionalismo cartesiano, per il quale sono vere solo le idee “chiare e distinte”. Ravasi dimentica che esistono anche delle verità oscure, che non per questo cessano di essere verità. E la verità di fede ha proprio questa caratteristica. Ed è logico che sia così, trattandosi di verità soprannturali e divine che superano la comprensione della nostra limitata ragione, la quale non può non ignorare ciò che va oltre tale sua capacità. Questo, Ravasi lo riconosce, ma poi non è coerente nel sostenerlo, come se mistero di fede volesse dire dubbio o incertezza.
Eppure la ragione, appunto illuminata dalla fede, si fida della Parola di Cristo, sa che è vera anche se non sa come e perché è vera. Non ha l’evidenza, perché non può dimostrare l’assunto di fede; tuttavia non ha dubbi, perché sa che Cristo non l’inganna. E’ questa la vera fede. E, come sappiamo, Cristo giustamente tiene moltissimo per la nostra salvezza a che gli si creda in questo modo, come ce ne dà chiara testimonianza per esempio nell’episodio di Pietro che camminando sulle acque, ad un certo punto affonda e Gesù lo rimprovera: “Uomo di poca fede, perché hai dubitato?”.
E’ certo comunque che il dubbio, un dubitare spontaneo e ragionevole, può e deve benissimo avere a che fare con la fede. Ma allora si tratta di un dubitare estrinseco all’atto di fede, che, se è vera fede, di per sé non dubita, ed anzi è certezza assoluta e invincibile, perché sostenuta dalla forza divina della grazia.
Invece dubbio legittimo può esser quello che precede l’atto di fede e ad esso introduce, o lo prepara, anche se naturalmente la sua soluzione non può propriamente causare lo stesso atto di fede, perché il vero e proprio atto di fede divina e teologale, cioè il credere in Cristo e nella sua dottrina, è dono soprannaturale dello stesso Spirito di Cristo, lo Spirito Santo, e quindi non è effetto della soluzione di un dubbio, che è atto esclusivamente proprio della ragione umana con le sue tipiche debolezze ed incertezze.
Come ci narrano i Vangeli, tutti coloro che hanno incontrato Cristo ed cominciato a frequentarlo o hanno udito parlare di lui per la prima volta, sentendo poi e vedendo quanto faceva, come agiva o quanto insegnava, si sono chiesti: ma chi è mai costui per compiere o dire queste meraviglie? “Che cosa è questa sapienza che gli è stata data?”, “comanda agli spiriti immondi e gli obbediscono!” e così via, in tal modo sono sorti dei dubbi, degli interrogativi, e bene a ragione.
Riflettendo però su questi fatti, gli onesti sono giunti alla conclusione irrefutabile che Gesù non poteva essere semplicemente un uomo come gli altri, ma godeva di una potenza divina e di una specialissima comunione con Dio. A questo punto hanno ricevuto da Dio il dono della fede, fede nelle sua parole, nelle sue promesse, nella sua persona, nelle sue istituzioni, nei suoi comandamenti. Hanno capito e creduto che Gesù è il Figlio di Dio.
Dunque il dubbio di fede non è un “cane da guardia”, ma semmai un cane miope, imbranato, tentennante e sdentato. Il cane da guardia ha la vista buona e sicura, è vigile per poter avvistare i malviventi e aggredirli. Ora la fede è veramente un cane da guardia; ma proprio per questo essa è assoluta certezza e nulla ha a che vedere col dubbio. Essa certo può esser provata dal dubbio, ma grazie alla sua fortezza essa lo scaccia.
Il “cappello” dell’articolo di Ravasi parla di una fede che “si conquista solo attraverso una lotta contro le proprie incertezze”. Questo è vero, ma poi quanto Ravasi scrive nell’articolo non svolge né dimostra questo assunto, ma lo smentisce parlando di una fede che non toglie l’incertezza ma la coltiva o di una certezza forzata priva di validi motivi. Non c’è dubbio che la fede dev’essere provata dal dubbio e dall’incertezza; ma appunto la vittoria si ottiene non crogiolandosi nel dubbio quasi sia un aspetto normale della fede, ma scacciando energicamente e con intelligenza il dubbio che spesso ha le apparenze del vero e prendendo coscienza con chiarezza di tutta la sua irragionevolezza e vanità.
La fede è principio di azione e di lotta contro il male; se essa è dubbiosa e vacillante, non avrà la forza sufficiente per questa lotta, ma scenderà inevitabilmente a compromessi, col rischio di estinguersi del tutto. Se nella fede, come dice Ravasi, “sono in gioco fattori di incertezza”, che ne è del suo motivo formale che è l’autorità di un Dio che non s’inganna e non inganna? Come il fedele, soprattutto se vescovo o cardinale o papa, potrà dar certezza a chi non ce l’ha e ne ha bisogno? A che pro Cristo avrebbe detto a Pietro confirma fratres tuos? Quali azioni coraggiose si costruiscono sull’incertezza? Dove sarebbe l’eroismo dei santi se essi non avessero una fede saldissima e a tutta prova? Ovvero, con quale buon senso i martiri dovrebbero dare la vita per una fede incerta?
Vana è anche la distinzione che Ravasi fa tra “dubbio scettico e dubbio creativo” all’interno dell’atto di fede, come nota dell’atto di fede. La vera fede, come ho detto, non ammette nessun dubbio, scettico o creativo che sia. Non si tratta di creare niente, lasciamo le creazioni ai poeti o agli stilisti di moda, si tratta semplicemente - né più ma neanche di meno - di aderire fedelmente ed assolutamente alla verità già data, che non è frutto di umana creatività, ma della divina sapienza comunicataci da Cristo per il tramite della dogmatica ecclesiale.
Esiste semmai e deve esistere un dubbio conseguente all’atto di fede e alla recezione della verità di fede, motivato dalla stessa fede e fatto certamente per irrobustire la fede ed esplicitare le verità contenute implicitamente nello stesso dato di fede, ciò che i teologi chiamano il “rivelato virtuale”, messo in luce dalla scienza teologica, soprattutto la dogmatica e la sistematica, mentre il dubbio che introduce alla fede è l’oggetto dell’apologetica o teologia fondamentale o iniziazione alla fede, compito soprattutto degli evangelizzatori e dei catechisti.
Questo dubitare, esterno all’atto di fede e conseguente ad esso, sollecitato dalla stessa fede, non tocca la fede come tale, ma una problematica logicamente e naturalmente connessa con le indubitabili ed immutabili verità di fede. Tale dubbio o tale interrogativo sorge proprio sulla base della certezza del dato di fede ed è giustificato da tale dato. Facciamo un esempio.
La stessa domanda che Maria pone all’angelo che le aveva annunciato la prossima maternità divina pur restando vergine. Maria, osserva S. Tommaso, crede fermamente e senza dubitare alle parole dell’angelo. Per questo viene lodata da Elisabetta per la sua fede. Eppure fa una domanda, domanda che non verte assolutamente circa il perché di quanto ha detto l’angelo, ma semplicemente chiede come avverrà questo concepimento e questo parto verginale. E’ questo il terreno nel quale sorgono dubbi legittimi ed è lodevole porsi degli interrogativi, la risposta ai quali potrà fare nuova luce sulla verità di fede, farla meglio comprendere ed esplicitare le sue virtualità nascoste.
Ben diversa è la risposta di Zaccaria all’angelo che gli annuncia la nascita del Battista. Qui Zaccaria dubita e domanda, ma evidentemente non da credente ma da scettico, poiché il dubbio attiene a ciò stesso che l’angelo ha detto. Qui allora evidentemente non siamo a un dubbio che consegue alla fede, come nel caso della Madonna, ma si tratta di un dubbio circa quanto dovrebbe essere oggetto della fede. Ciò sembra bensì equivalere alla fede-dubbio di Martini e Ravasi, ma in realtà, come è attestato dal fatto che Zaccaria è punito, si tratta di una volontaria incredulità. Altro che fede!
Inoltre il Card. Ravasi parla bensì di una “fede robusta, un’ancora solida”, che però comporterebbe il dovere di “interrogarsi e di ricercare”. Ma interrogarsi e ricercare su che cosa? Sull’oggetto della fede? Ma allora siamo daccapo: se siamo incerti o dubitiamo circa questo oggetto, circa ciò che dovremmo credere, come facciamo ad avere una fede “robusta”?
Da dove verrebbe questa saldezza? Non sarebbe forse del tutto immotivata e irrazionale? Come è possibile fissarsi saldamente a qualcosa che tocca il senso della nostra vita, ma di cui siamo incerti se è vero o falso? Possiamo giocarci con così tanta disinvoltura il senso della nostra vita? La nostra vita vale così poco?
Del resto, in simili condizioni psicologiche, come sfuggire al rischio del fanatismo, del fideismo o del fondamentalismo, che pure Ravasi giustamente aborrisce e che tanta cattiva fama hanno procurato e procurano al credo cattolico presso gli ambienti non credenti ma onesti? Come è riprovevole lo scetticismo sistematico e “sarcastico” - e qui Ravasi ha senz’altro ragione -, così è giusto il bisogno di certezza; ma non si deve aver fretta nel trovare la sua soddisfazione.
Qui vale il detto di Cristo: “chi cerca, trova”. Meglio un’incertezza ragionevole che una certezza forzata. Meglio un procedere lento e prudente che una conclusione affrettata e infondata. Ma qui la fede non c’entra. Si tratta solo del cammino verso la fede, che è altra cosa. E’ già con Cristo chi è sulla strada che a Lui conduce.
Se Ravasi però oscilla nel presentare ai non credenti la fede ora come saldezza ora come incertezza, coloro che tra di essi cercano la verità, gli diranno: deciditi, dunque: lo sai o non lo sai che cosa credi? Ne sei convinto o no? Credi veramente a quel Cristo del quale ci parli?
La vera fede non è quella di chi non ha trovato ed è in ricerca. Questo atteggiamento è degno di ogni rispetto, ma non è ancora quello del credente. Il vero credente non ha bisogno di cercare, perché ha già trovato. Chi ha trovato Cristo che cosa ancora deve cercare? Qualcosa di meglio di Cristo? E’ vero che Pascal parla di un “cercare” chi si è già trovato, ma questo cercare allora non si riferisce alla fede, ma alle conseguenze della fede in Colui che già si è trovato.
La fede certo dev’essere robusta, ma non di una robustezza forzata, immotivata. Non bisogna confondere la certezza col dogmatismo. Chi, non avendo ancora la fede, per motivi di coscienza non ha la certezza che Cristo è Dio (tutto il contenuto della fede si riassume in questa convinzione), non solo è dispensato dal credere, ma non deve credere. Si salva lo stesso, sempre per mezzo di Cristo, anche se non lo sa. Questo lo dice S. Tommaso d’Aquino, il quale non si può dire certo che non insista sul dovere e l’importanza di credere in Gesù Cristo.
Ma qui Tommaso si mostra estremamente moderno nell’evidenziare la libertà e la responsabilità della coscienza e come l’ossequio di fede, per dirla con S. Paolo (Rm 12,1), dev’essere libero e ragionevole, ragionato, prudente, sofferto, sincero, ponderato e motivato, anche se in fin dei conti l’atto di fede in se stesso non dipende da una ragionamento – e qui Ravasi senz’altro dice bene – ma dal “dono di Dio”, del quale Cristo parla alla Samaritana.
La ricerca, come il dubbio, certo attiene alla fede, ma non per mettere in dubbio l’oggetto o la verità della stessa fede, bensì per preparare o introdurre alla fede o in quanto l’oggetto della fede, che si riassume nella divinità di Cristo, una volta saldamente posseduto e accettato, stimola a cercare non se Cristo è o non è Dio, perché questo ormai è noto ed assodato (se no dov’è la fede?), ma ad approfondire e chiarire le insondabili, inesauribili e meravigliose ricchezze di Cristo Dio già creduto, nel quale, per dirla con S. Paolo, sono racchiusi tutti i tesori della scienza e della sapienza. E qui abbiamo il progresso continuo del dogma, della teologia e della spiritualità e, di conseguenza, della stessa vita e santità cristiane.
Dobbiamo dire infine che ci pare assai infelice la citazione che Ravasi fa, alla fine del suo articolo, di una famosa dichiarazione di Dostoevskij: “Se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della verità, che veramente la verità non è in Cristo, ebbene , io preferirei lo stesso restare con Cristo piuttosto che con la verità!”.
Questo non è, come dice Ravasi, “un procedere per absurdum” [In buona logica il procedere o il dimostrare per assurdo è una conclusione la cui certezza è data dal fatto che la proposizione contraria è assurda. Ma qui tale procedere non c’entra per nulla e siamo invece davanti a una pura assurdità]: è puramente e semplicemente un assurdo ed anzi una grave irriverenza nei confronti di Cristo. Vorrei domandare pertanto a Dostoevskij: Vorresti stare con Cristo contro la verità? È ammissibile un Cristo contro la verità? Quando è proprio Lui che ha detto “chiunque è dalla verità ascolta la mia parola” e: “Io sono la Verità”, tanto per citare alcune poche sue parole che ci mostrano all’evidenza il nesso inscindibile tra Cristo e la verità. La fede può essere un’adesione a Cristo a prescindere dalla verità? Posso aderire a Cristo infischiandomi della verità? Ricordo che l’opposto del vero è il falso: se si dovesse preferire Cristo al vero, vorrebbe dire che Cristo è nel falso, il che è una vera e propria bestemmia.
Viene oggi da molti presentato ed auspicato il Card. Ravasi come possibile nuovo Pontefice; tuttavia dobbiamo dire con tutta filiale franchezza e pieno rispetto per il noto e dotto Porporato, che con queste sue ultime dichiarazioni egli non si prepara certo il terreno più favorevole per essere assunto ad un ufficio così alto come quello di custode della fede - serva depositum - a nome di Cristo per tutto il Popolo di Dio.
Nel presente Anno della Fede, opportunissimamente indetto dal venerato Papa Benedetto XVI, dobbiamo dire che da un Principe della Chiesa, nel prestigioso quotidiano L’Osservatore Romano, il comune fedele, spesso provato, tentato, sviato, frastornato da incertezze, dubbi, equivoci e falsità nel campo della fede, si attenderebbe non discorsi fumosi e approssimativi che favoriscono pericolosi fraintendimenti e inveterati pregiudizi, bensì parole di chiarimento e conforto, tali da sostenere quella “buona battaglia” per la quale, liberi dalle tenebre dell’errore accediamo alla luce di Cristo.
Infine vogliamo formulare, con rispetto e fiducia nei confronti della Redazione de L’Osservatore Romano, considerando la sua illustre tradizione ed alta responsabilità relativa alla sua vicinanza alla S. Sede, la seguente domanda: mi chiedo cioè se nel venerabile Collegio dei Cardinali che si preparano ad eleggere il nuovo Papa non c’è forse qualcuno che sappia trattare meglio dell’Em.mo Card. Ravasi un tema così fondamentale come quello della fede, circa il quale tutti ci attendiamo una nuova poderosa luce dal futuro Pontefice per il progresso della Chiesa e l’evangelizzazione dei popoli?
 

(Ma.La. da: P. Giovanni Cavalcoli OP, Riscossa cristiana, 10 marzo 2013)

 

giovedì 7 marzo 2013

Un americano verso la cattedra di Pietro?

Una scommessa ritenuta facile facile è che il prossimo papa non sarà italiano. Ma nemmeno europeo, africano, asiatico. Per la prima volta nella bimillenaria storia della Chiesa il successore di Pietro potrebbe venire dalle Americhe. O a voler azzardare una previsione più mirata: dalla Grande Mela.
Timothy Michael Dolan, arcivescovo di New York, 63 anni (foto), è un omone del Midwest dal sorriso radioso e dal vigore straripante, proprio quel "vigore sia del corpo che dell'animo" che Joseph Ratzinger ha riconosciuto di aver perduto e ha definito necessario per il suo successore, al fine di bene "governare la barca di Pietro e annunciare il Vangelo".
Nell'atto di rinuncia di Benedetto XVI c'era già il titolo del programma del futuro papa. E a molti cardinali tornò presto in mente la vivacità visionaria con cui Dolan sviluppò proprio questo tema, col suo italiano "primordiale", parola sua, ma spumeggiante, nel concistoro di un anno fa, quando egli stesso, l'arcivescovo di New York, si apprestava a ricevere la porpora.
Fu un concistoro molto criticato, quello del febbraio 2012. Da settimane, documenti scottanti prendevano il volo dalle stanze vaticane e persino dalla riservatissima scrivania del papa per rovesciare in pubblico avidità, contrasti, malefatte di una curia alla deriva.
Eppure, tra i nuovi cardinali creati da Benedetto XVI, un buon numero erano italiani, erano di curia e, peggio, erano legati a filo doppio al segretario di Stato, Tarcisio Bertone, universalmente ritenuto il principale colpevole del malgoverno.
Papa Joseph Ratzinger aggiustò il tiro qualche tempo dopo, in novembre, con altre sei nomine cardinalizie tutte extraeuropee, compresa quella dell'astro nascente della Chiesa d'Asia, il filippino con madre cinese Luis Antonio Gokim Tagle.
Ma la frattura rimaneva intatta. Da una parte i feudatari di curia, in strenua difesa dei rispettivi centri di potere. Dall'altra l'ecumene di una Chiesa che non tollera più che l'annuncio del Vangelo nel mondo e il luminoso magistero di papa Benedetto siano oscurati dalle tristi narrazioni della Babilonia romana.
È la stessa frattura che caratterizza l'imminente conclave. Dolan è il candidato tipo che rappresenta la svolta purificatrice. Non l'unico ma certamente il più rappresentativo e audace.
Sul fronte avverso, però, i magnati di curia fanno muro e contrattaccano. Non spingono avanti qualcuno di loro, sanno che così la partita sarebbe persa in partenza. Fiutano l'aria che tira nel collegio cardinalizio e puntano anch'essi lontano da Roma, al di là dell'Atlantico, non al nord ma al sud dell'America.
Guardano a San Paolo del Brasile, dove c'è un cardinale nato da emigrati tedeschi, Odilo Pedro Scherer, 64 anni, che in curia conoscono bene, che è stato per anni a Roma a servizio del cardinale Giovanni Battista Re, quando questi era prefetto della congregazione per i vescovi, e che oggi fa parte del consiglio cardinalizio di vigilanza sullo IOR, la "banca" vaticana, riconfermato pochi giorni fa, con Bertone suo presidente.
Scherer è il candidato perfetto di questa manovra tutta romana e curiale. Non importa che in Brasile non sia popolare, nemmeno tra i vescovi, che chiamati ad eleggere il presidente della loro conferenza, due anni fa, lo bocciarono senza appello. Né che non brilli come arcivescovo della grande San Paolo, capitale economica del paese.
L'importante, per i magnati curiali, è che sia docile e grigio. L'aureola progressista che ammanta la sua candidatura è di derivazione puramente geografica, ma giova anch'essa per accendere in qualche ingenuo porporato il vanto di eleggere il "primo papa latinoamericano".
Come nel conclave del 2005 i voti dei curiali e dei sostenitori del cardinale Carlo Maria Martini si riversarono assieme sull'argentino Jorge Bergoglio, nel tentativo fallito di bloccare l'elezione di Ratzinger, anche questa volta potrebbe avvenire un analogo connubio. Curiali e progressisti uniti sul nome di Scherer, con quel pochissimo che resta degli ex martiniani, da Roger Mahony a Godfried Danneels, entrambi oggi sotto tiro per la cedevole loro condotta nello scandalo dei preti pedofili.
Il papa che piace ai curiali e ai progressisti è per definizione debole. Piace ai primi perché li lascia fare. E ai secondi perché dà spazio al loro sogno di una Chiesa "democratica", governata "dal basso".
Non deve stupire che un esponente di grido del cattolicesimo progressista mondiale, lo storico Alberto Melloni, abbia auspicato sul "Corriere della Sera" del 25 febbraio che dal prossimo conclave esca non un "papa sceriffo" ma "un papa pastore", abbia deriso il cardinale Dolan e abbia indicato proprio in quattro magnati di curia i cardinali a suo giudizio più "capaci di comprendere la realtà" e di determinare "l'esito effettivo del conclave": gli italiani Giovanni Battista Re, Giuseppe Bertello, Ferdinando Filoni "e ovviamente Tarcisio Bertone".
Cioè esattamente quelli che stanno orchestrando l'operazione Scherer. Ai quattro andrebbe aggiunto l'argentino di curia Leonardo Sandri, del quale si fa correre voce che sarà il futuro segretario di Stato.
Per una curia siffatta, la sola ipotesi dell'elezione di Dolan è foriera di terrore. Ma Dolan papa imprimerebbe una scossa anche a quella Chiesa fatta di vescovi, di preti, di fedeli che non hanno mai accettato il magistero di Benedetto XVI, il suo ritorno energico agli articoli del "Credo", ai fondamentali della fede cristiana, al senso del mistero nella liturgia.
Dolan è, nella dottrina, un ratzingeriano a tutto tondo, con in più la dote del grande comunicatore. Ma lo è anche nella visione dell'uomo e del mondo. E nel ruolo pubblico che la Chiesa è chiamata a svolgere nella società.
Negli Stati Uniti è alla testa di quella squadra di vescovi "affermativi" che hanno segnato la rinascita della Chiesa cattolica dopo decenni di soggezione alle culture dominanti e di cedimenti al dilagare degli scandali.
In Europa e nel Nordamerica, cioè nelle regioni di più antica ma declinante cristianità, non esiste oggi una Chiesa più vitale e in ripresa di quella degli Stati Uniti. E anche più libera e critica rispetto ai poteri mondani. È svanito il tabù di una Chiesa cattolica americana che si identifica con la prima superpotenza mondiale, e quindi non potrà mai esprimere un papa.
Anzi, ciò che stupisce di questo conclave è che gli Stati Uniti offrono non uno, ma addirittura due "papabili" veri. Perché oltre a Dolan c'è l'arcivescovo di Boston, Sean Patrick O'Malley, 69 anni, con barba e saio da bravo frate cappuccino.
Il suo appartenere all'umile ordine di san Francesco non è d'ostacolo al papato né è senza precedenti illustri, perché anche il grande Giulio II, il papa di Michelangelo e di Raffaello, era francescano.
Ma ciò che più conta è che Dolan e O'Malley non sono due candidati tra loro contrapposti. I voti dell'uno possono convergere sull'altro, se necessario, perché sono entrambi portatori di un unico disegno.
Rispetto a Dolan, O'Malley ha un profilo meno risoluto per quanto riguarda le capacità di governo. E ciò potrebbe renderlo più accettabile ad alcuni cardinali, consentendo a lui di varcare quella soglia decisiva dei due terzi dei voti, 77 su 115, che potrebbe essere invece preclusa al più energico, e quindi molto più temuto, arcivescovo di New York.
Lo stesso ragionamento si potrebbe applicare a un terzo candidato, il cardinale canadese Marc Ouellet, anche lui di salda matrice ratzingeriana e ricco di talenti simili a quelli di Dolan e O'Malley, ma ancor più incerto e timido di quest'ultimo nelle decisioni operative. In un conclave che sul riordino del governo della Chiesa punta molte sue aspettative, la candidatura di Ouellet, pur presa in considerazione dai cardinali elettori, appare la più debole fra le tre nordamericane.
Col suo guardare da Roma al di là dell'Atlantico, l'imminente conclave prende atto della nuova geografia della Chiesa.
Il cardinale Ouellet è stato da giovane missionario in Colombia. Il cardinale O'Malley parla alla perfezione spagnolo e portoghese e ha sempre avuto come sua attività preminente la cura pastorale degli immigrati ispanici. Il cardinale Dolan è il capo dei vescovi di un paese che ha raggiunto le Filippine al terzo posto nel mondo per numero di cattolici, dopo Brasile e Messico. E sono "latinos" un terzo dei fedeli degli Stati Uniti, anzi, già la metà tra quelli sotto i 40 anni.
Non sorprende che i cardinali dell'America latina siano pronti a votare questi loro confratelli del nord. E con loro altri porporati di peso come l'arcivescovo di Parigi André Vingt-Trois, l'australiano George Pell.

Tra gli italiani, i "papabili" che più hanno trovato posto nei pronostici della prima ora sono stati l'arcivescovo di Milano Angelo Scola e il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del pontificio consiglio della cultura.
Entrambi sono però entrati in ombra man mano che il conclave si avvicinava.
La candidatura di Ravasi, in realtà, è stata solo un prodotto mediatico. Tra i cardinali non ha mai preso quota.
Pur apprezzando, infatti, la maestria con cui Ravasi opera nel campo della cultura, in molti cardinali sono ultimamente cresciute le riserve a proposito del modo con cui egli conduce l'iniziativa di dialogo con i non credenti denominata "Cortile dei gentili". A molti è parso che gli incontri si riducessero a una semplice esposizione di visioni culturali diverse, senza uno sforzo evidente di "chiamare in causa Dio" e risvegliare su di Lui una scelta. Molti in proposito hanno letto nel messaggio indirizzato da Benedetto XVI al "Cortile dei gentili" di Lisbona del 13 novembre 2012 la richiesta di una correzione di rotta.
Chiuse le porte del conclave, nel primo scrutinio potrebbero cadere su Dolan già molti voti, forse non i 47 di Ratzinger nella prima votazione del 2005, ma pur sempre parecchi.
Il seguito è ignoto.
 

(Ma.La. da: Sandro Magister, www.chiesa, 7 marzo 2013)

mercoledì 6 marzo 2013

Se un "vescovo vagante" s'infiltra in Vaticano

Ha fatto sensazione - specie sulla stampa straniera - la bizzarra vicenda del «vescovo» Ralph Napierski, un personaggio che si è presentato in Vaticano vestito con paramenti episcopali ed è riuscito a mescolarsi ai cardinali che si avviavano alla prima congregazione generale preparatoria al Conclave, e ha perfino rilasciato qualche dichiarazione ai giornalisti, prima di essere identificato ed espulso. Tutto sommato, la sicurezza vaticana ha reagito abbastanza rapidamente, e non è il caso di allarmarsi. Non varrebbe neanche la pena di occuparsi di Napierski, se non fosse che l'episodio richiama a soffermarsi su chi sono esattamente i «vescovi vaganti», personaggi che spesso si presentano anche nelle diocesi italiane, ingannando sacerdoti e giornalisti e creando un buon numero di problemi, e sul cui conto chi scrive riceve richieste di chiarimenti almeno una volta al mese.
I «vescovi vaganti» come Napierski non sono semplicemente vescovi «falsi», impostori che si vestono da vescovi. A richiesta, esibiscono una serie di documenti che dovrebbero provare che sono vescovi «veri», ancorché non in comunione con la Chiesa Cattolica di Roma. Spesso si dichiarano «ortodossi» o «vetero-cattolici», ma in realtà non sono in comunione né con le Chiese Ortodosse né con la Chiesa Vetero-Cattolica o Vecchio-Cattolica, uno scisma che nasce dal giansenismo e si alimenta poi con chi rifiuta l'infallibilità pontificia proclamata dal Concilio Vaticano I e che in diversi cantoni svizzeri è riconosciuto fra le religioni sostenute dallo Stato.
Chi sono, allora, i «vaganti»? Le loro esperienze non nascono – nella maggior parte dei casi – da un dissenso teologico chiaramente riconoscibile nella sua cornice dottrinale, ma piuttosto dalla ricerca di un episcopato «autonomo» da parte di singoli personaggi che riescono in genere a radunare un numero piuttosto modesto di seguaci, e che del resto vanno a cercare la loro legittimità non solo nel mondo cattolico, ma anche in quello ortodosso ovvero anglicano.
Lo strano fenomeno dei «vaganti» nasce dalla dottrina prevalente nel mondo cattolico secondo cui un vescovo, anche separato dalla comunione con Roma, conserva la potestà di consacrare vescovi e ordinare sacerdoti. Non bisogna infatti confondere validità e liceità. Tali vescovi e sacerdoti saranno consacrati e ordinati illecitamente - chi li consacra farà un peccato mortale, e sarà passibile di scomunica -, ma validamente; e ciascun vescovo consacrato illecitamente potrà a sua volta validamente (e illecitamente) consacrare altri vescovi e ordinare altri sacerdoti.

I «vaganti», come documentato da diversi specialisti, sono nel mondo diverse migliaia. Alcune catene risalgono al secolo scorso, altre sono di origine più recente. È difficile, naturalmente, dire con certezza se un «vagante» odierno, che si situa al termine di una di queste catene, sia stato consacrato validamente: è necessaria, infatti, la validità di ogni singolo passaggio della catena, e nel mondo dei «vaganti» non mancano irregolarità tali da escludere tale validità, come consacrazioni per posta e consacrazioni episcopali di donne (per definizione non solo illecite, ma anche invalide dal punto di vista cattolico).
Quello che è certo è che per i «vaganti» la validità – potenzialmente suscettibile di essere riconosciuta dalla teologia cattolica – della loro consacrazione è un punto d’onore sostenuto con zelo e con calore.
Dal punto di vista sociologico, i «vaganti» sono molto diversi fra loro. Se ne possono distinguere due categorie. La prima comprende semplici avventurieri, pronti a sfruttare la confusione del pubblico - che normalmente non distingue fra un «vagante» e un vescovo cattolico in comunione con Roma - a fini meramente utilitaristici. Molti «vaganti» fanno commercio di ordinazioni sacerdotali, di reliquie «con autentica episcopale», di titoli cavallereschi e di diplomi universitari senza valore legale. Sono tutte attività che sono diventate tipiche di una parte di questo mondo e che in alcuni Paesi sono illegali, così che si legge talora che la polizia ha semplicemente arrestato un «falso vescovo», anche se quando ci si trova di fronte a un «vagante» le cose sono in realtà più complesse.

Nel secondo caso, i «vaganti» sono figure romantiche che sognano di ricreare forme antiche e perdute di cristianesimo, personaggi ingenui, ma non necessariamente truffatori. Ma che talora, una volta ordinati, attaccano la Chiesa su punti di teologia e di morale.
Ralph Napierski - che si muove fra Australia, Inghilterra e Germania - a prima vista può sembrare un «vagante» del secondo tipo. La sua (piccolissima) organizzazione, Corpus Christi, cui è collegata un'Abbazia della Santa Rosa, offre antiche liturgie celtiche e attacca la Chiesa sia sulla sua storia - sostenendo che Dan Brown ha ragione e che Gesù era sposato con Maria Maddalena - sia sulla sua morale.
Napierski si fa spesso fotografare a manifestazioni di omosessuali e lesbiche. Ma in realtà, a più attento esame, il personaggio che si è presentato in Vaticano è un «vagante» del primo tipo, quello commerciale e truffaldino. Si guadagna da vivere vendendo titoli cavallereschi e «lauree» di un'università tutta sua, la Jesus Christ University.
Lo fanno tanti altri «vescovi vaganti» che percorrono le diocesi italiane - spesso accolti da sacerdoti ingenui che magari li scambiano per «ortodossi» e li accolgono in nome dell'ecumenismo -: ma naturalmente i titoli cavallereschi e le lauree sono tutti di pura fantasia.

Napierski, però, non è un semplice truffatore vestito da vescovo. È un tipico «vagante», con una genealogia interessante. Per capirla, occorre fare due premesse. La prima è che il maggior numero di «vaganti» oggi presenti nel mondo nasce dalle consacrazioni episcopali illecite celebrate dall’arcivescovo emerito di Hué, il vietnamita Pierre-Martin Ngô-Dinh Thuc (1897-1984). Thuc era fratello del presidente del Vietnam del Sud Ngô-Dinh Diêm (1901-1963). E proprio perché accusava la Santa Sede di avere abbandonato ai comunisti il Vietnam, oltre che per le sue idee utra-conservatrici, Thuc lasciò la Chiesa Cattolica e si mise a consacrare centinaia di «vescovi vaganti», prima di morire riconciliato con Roma nel 1984.
La seconda premessa è che oltre ai «vescovi vaganti» nel mondo esistono anche una dozzina di personaggi con pretese più elevate, che hanno radunato un po' di «vaganti» e si sono fatti eleggere Papi, o meglio antipapi. L'antipapa di maggiore successo dei tempi moderni è stato uno spagnolo, Clemente Domínguez y Gómez (1946-2005), che si è proclamato Pontefice con il nome di Gregorio XVII ed è riuscito a radunare diverse migliaia di seguaci intorno al suo Vaticano alternativo di Palmar de Troya, presso Siviglia, oggi in crisi dopo la sua morte nel 2005 e le beghe fra i suoi successori.
Gregorio XVII era un Papa finto, ma un vescovo consacrato validamente, ancorché illecitamente. Infatti il solito Thuc lo aveva consacrato vescovo nel 1976. E lo stesso Gregorio XVII, forte della consacrazione di Thuc, si mise a sua volta a consacrare vescovi un buon numero di suoi seguaci. Fra questi, nel 1978, il tedesco Alfred Seiwert-Fleige. Il quale però, come molti vescovi consacrati da Gregorio XVII, finirà per abbandonare la sua «Chiesa Cattolica Palmariana», dedicandosi dal 1980 alla più lucrosa attività di consacrare vescovi dietro corrispettivi in denaro.

Ed è proprio Seiwert-Fleige ad avere consacrato vescovo Napieski. Tra l'altro Seiwert-Fleige nel 2001 era riuscito a infiltrarsi in una Messa concelebrata in Vaticano e a farsi fotografare con il beato Giovanni Paolo II (1920-2005). E, preso da dubbi sulla sua consacrazione «palmariana», lo stesso Seiwert-Fleige si era fatto riconsacrare nel 1995 in Francia da Antoine Roux, a sua volta consacrato vescovo direttamente da Thuc e noto per una bella fotografia dove, a un'udienza di Benedetto XVI, saluta Papa Ratzinger.
Questi dati possono sembrare complicati, ma ci danno una lezione. Non bisogna fidarsi neppure delle foto con i Pontefici, che purtroppo non è così difficile farsi scattare. Quando qualcuno si presenta come «vescovo cattolico» non è detto che lo sia. Se vende lauree, reliquie o titoli cavallereschi probabilmente non lo è. È meglio controllare sempre, come hanno fatto i gendarmi pontifici, più prudenti di qualche cardinale che c'è cascato e si è fatto fotografare con l'allegro Napierski.
 

(Fonte: Massimo Introvigne, Nuova Bussola Quotidiana, 5 marzo 2013)
 

La gente chiede i principi non negoziabili

Mentre negli Stati Uniti si sono scatenate le forze abortiste capitanate dall’amministrazione Obama, anche in Europa poderosi sono stati gli attacchi condotti contro i principi non negoziabili: dopo la Spagna di Zapatero, il Belgio, l’Olanda e l’Inghilterra di Cameron, l’esempio più eclatante è dato dalla Francia, dove a fine marzo si giocherà in Assemblea una grossa partita etica con l’eventuale autorizzazione della ricerca sull’embrione umano da una parte e il riconoscimento delle “nozze gay” e adozioni omosessuali dall’altra.
Fosche nubi si sono addensate contro la vita e contro la famiglia. Eppure le luci non sono mancate. E non possiamo non riconoscerle: non sarebbe giusto. Le manifestazioni di piazza, innanzi tutto.
Ovunque. Da tempo non se ne organizzavano. Ma, stanti le circostanze, la gente, tanta gente – credente e non – è uscita di casa ed è andata nelle strade per far sentire il proprio “sì” alla vita e il proprio “no” all’aborto, il proprio “sì” alla famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna e il proprio “no” alle cosiddette “unioni di fatto” di qualsiasi tipo siano. Organizzate ora dalle Conferenze Episcopali ora da associazioni oppure spontanee, hanno mostrato nel volto degli aderenti – tantissimi giovani, famiglie, gruppi – la forza convinta delle proprie argomentazioni.
Pensiamo alle folle che il 17 e il 18 novembre scorsi, a Parigi, hanno voluto ribadire l’unicità della famiglia tradizionale grazie alle iniziative promosse nel primo caso dai vescovi con oltre 200.000 partecipanti, nel secondo caso da altri 18.000.
E poi ancora il 13 gennaio scorso con una manifestazione, che in meno di due mesi è riuscita a raccogliere un milione e 300.000 cittadini, incuranti del freddo gelido, per dire “no” al “matrimonio” omosessuale, forti anche dell’incoraggiamento giunto dalle prese di posizione, chiare e nette, del cardinale André Vingt-Trois, arcivescovo di Parigi.
Cifre, che hanno spiazzato le più rosee previsioni della stessa Prefettura, trovatasi a gestire una situazione ben più imponente di quanto ci si aspettasse con adesioni anche da molti Paesi di singoli e associazioni di tutte le estrazioni, neppure necessariamente credenti, uniti comunque da un medesimo ideale, da un unico valore, quello della famiglia. Cifre, in grado di ridicolizzare gli sparuti, isolati ed esigui tentativi condotti dai gruppi gay d’inscenare iniziative analoghe, ma di segno opposto, tutte rivelatesi un fallimento.
Non meno significative le 500.000 adesioni all’imponente Marcia per la Vita svoltasi a Washington lo scorso 25 gennaio, definita «un importante punto di riferimento storico per i cattolici» dall’arcivescovo Ignacio Carrasco de Paula, Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, che ha definito questo genere di iniziative «molto importanti per il mondo intero. La Chiesa sostiene le Marce in tutto il mondo, perché coloro che vi partecipano sono parte della stessa Chiesa».
Di tutte queste battaglie per i principi non negoziabili, formidabile riferimento è il Santo Padre, più volte intervenuto nel merito. Citare tutte le sue prese di posizione sarebbe lungo, ma basta richiamare alla memoria il suo Messaggio in occasione della Giornata Mondiale per la Pace, di segno esattamente opposto alle “nozze gay” volute da Hollande.
Oppure il sostegno esplicitamente dato da Papa Benedetto XVI alla Marcia per la Vita di Washington, unitosi ai partecipanti, pregando «affinché i leader politici proteggano i bambini non nati e promuovano una cultura della vita». Ciò che ha spinto anche il card. Sean O’Malley ad affermare a chiare lettere: «Benedetto XVI è con noi».
Da tutto questo si riceve un insegnamento importante. Arrestare la marcia demoniaca del relativismo, l’avanzata feroce della secolarizzazione si può. Si deve. Occorre crederci. Occorre volerlo. Occorre agire. Occorre sentire davvero nostre le parole del Beato Giovanni Paolo II, pronunciate durante l’omelia d’inizio Pontificato, il 22 ottobre del 1978, quando ai fedeli fece una proposta chiara, rivolse un appello forte: «Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo! Oggi spesso l’uomo è invaso dal dubbio, che si tramuta in disperazione. Permettete, quindi – vi prego, vi imploro con umiltà e con fiducia – permettete a Cristo di parlare all’uomo. Solo Lui ha parole di vita, sì!, di vita eterna».
Allora è importante sentire e fare nostre tutto questo, uscire dall’indifferenza, proclamare la Verità che rende liberi contro i volti, che oggi assume la disperazione: la vita innocente uccisa con l’aborto, la santità della famiglia umiliata dal divorzio, il senso più bello, vero e pieno del matrimonio trafitto da simulacri, che, scimmiottandolo, lo sviliscono, lo calpestano, lo snaturano, come nel caso delle “nozze” o delle adozioni gay.
Proclamare la bellezza della vita, la bellezza della famiglia, la bellezza dei principi non negoziabili significa aiutarci e aiutare anche chi oggi non coglie, chi oggi non comprende, chi oggi è disorientato e roso dal dubbio, a riscoprire la gioia e lo splendore di ciò che il diritto naturale riassume e incarna: la gioia e lo splendore dell’essere uomini, figli di Dio, sue creature. Concetto valido per chi crede, ma anche per chi, pur non credendo, coglie anche col solo semplice buon senso come la felicità dell’uomo non possa passare attraverso una stanza per gli aborti o atti contrari alla natura.
L’occasione per render tutto questo concreto c’è, anche in Italia. Ed è data dalla terza Marcia nazionale per la Vita promossa a Roma per il prossimo 12 maggio. Sarà una nuova occasione per non subire passivamente, per tornare a far sentire la propria voce, per affermare con coraggio e senza inutili timori i propri valori, i propri ideali, per non vanificare il segnale forte giunto già lo scorso anno dai 15.000 che aderirono alla seconda edizione.
In una società, che sembra andare allo sfacelo, iniziative come la terza Marcia nazionale per la Vita o quelle di Parigi o di Washington non possono che rappresentare un salvagente, una boa per tanti, per troppi oggi bersagliati dalle suadenti lusinghe dei cattivi maestri, eppure ancora capaci di riconoscere il Bello, il Giusto, il Vero, qualora glielo si proponga e si mostri come, a credervi, a viverlo, siano in tanti.
Allora davvero apriamo, anzi “spalanchiamo le porte a Cristo”! Non è più tempo di attendere, non è più tempo di rimandare.
 

(Fonte: Mauro Faverzani, Radici Cristiane, 4 marzo 2013)