venerdì 16 maggio 2025

Contro il culto dell’immagine: il gesto silenzioso e gentile di Leone XIV


In questi primi, intensi giorni del pontificato di Leone XIV, un gesto tanto semplice quanto eloquente ha destato attenzione tra il clero e i fedeli: il nuovo Papa ha declinato, con il garbo e la delicatezza che lo contraddistinguono, la richiesta di scattare selfie. È accaduto con i giornalisti ed anche con i rappresentanti delle Chiese Orientali e in un’epoca in cui tutto sembra ridursi a immagine, immediatezza e visibilità, questo rifiuto suona come un invito potente alla riflessione. In alcune occasioni, il Pontefice ha fatto notare con semplicità che le telecamere già presenti sono più che sufficienti; in altre, ha preferito che fosse una terza persona a scattare la foto, evitando così la dinamica autoreferenziale del selfie.

Non si tratta del selfie in sé, ma di un invito alla riaffermazione del senso del sacro. Il Papa, nella tradizione cattolica, non è un personaggio pubblico come gli altri. È il Vicario di Cristo in terra, come insegna il Concilio Vaticano I (1870), che nella Pastor Aeternus afferma l’autorità spirituale unica del Papa quale successore di San Pietro. Egli non rappresenta sé stesso, ma una realtà trascendente, divina. Negli ultimi decenni si è spesso denunciata una progressiva desacralizzazione del Papato. Il gesto, in sé straordinario, della rinuncia di Benedetto XVI aveva già segnato un cambio di paradigma, aprendo la strada a una visione più funzionale e meno sacrale del ministero petrino. Ma è stato soprattutto il pontificato di Francesco a imprimere una svolta radicale: il Papato si è trasformato in una sorta di bene da esportazione, anche dal punto di vista dell’immagine pubblica. Si pensi, ad esempio, ai profitti generati dal Dicastero per la Comunicazione o al proliferare di figure ambigue — veri e propri mestieranti della fede — che si aggiravano attorno a Casa Santa Marta promettendo apparizioni papali, video, messaggi “da condividere”, fino a raggiungere persino il palco di Sanremo. L’immagine del Pontefice, negli ultimi anni, è stata progressivamente assimilata a quella di una figura mediatica: sorridente nei talk-show, disponibile a ogni fotografia, protagonista involontario di meme e contenuti virali. Non sono mancate situazioni imbarazzanti, in cui il Papa veniva ripreso con la talare macchiata, i capelli disordinati o in pose di evidente sofferenza, spesso del tutto inappropriate. Non stupisce che perfino Vatican News abbia continuato a pubblicare, senza alcun pudore, video in cui il Papa appariva visibilmente affaticato, persino dopo la sua morte.

Un’altra pratica che il Papa non apprezza è quella che era stata inaugurata da Stanisław Jan Dziwisz, ovvero quella dello "scambio dello zucchetto". In più di una occasione ha già spiegato che preferisce non farlo, al massimo benedice quelli che gli vengono presentati. Anche dietro a questo gesto c'è un concetto che effettivamente è preoccupante, senza dimenticare che questi pezzi di stoffa diventano poi i "cimeli" da esibire nelle case dei vari "ragazzetti" che millantano credito e abbindolano presbiteri.

Il rischio di questa deriva? È quello di diluire l’autorità spirituale in una sorta di esposizione permanente, dove la familiarità si confonde con la banalizzazione e il carisma si appiattisce nella logica dello spettacolo. Lo stesso Joseph Ratzinger, poi Benedetto XVI, nell’Introduzione al Cristianesimo, metteva in guardia contro la tentazione di ridurre il sacro alla portata del profano. «Dove Dio diventa troppo accessibile, egli cessa di essere Dio», scriveva con la sua consueta profondità. In questa luce si comprende il significato della scelta, tanto semplice quanto eloquente, compiuta da Papa Leone XIV di non concedersi ai selfie: un gesto profetico, che si colloca in continuità con quelle parole e quei segni che, già in questi primi giorni di pontificato, ci stanno facendo respirare un’aria nuova. È un invito a riscoprire il mistero, il silenzio, la venerazione — dimensioni che custodiscono la sacralità e proteggono l’incontro con Dio dal rischio della banalizzazione. 
Un gesto emblematico di rispetto verso la missione del Pontefice è il bacio dell’anello del Pescatore, segno antico di obbedienza e devozione verso colui che guida la Chiesa universale. Questa pratica, oggi quasi scomparsa, è stata apertamente scoraggiata durante il pontificato di Francesco, dimenticando che quel gesto non era rivolto alla persona di Jorge Mario Bergoglio, ma al Successore di Pietro e all’ufficio che egli incarnava. Non si tratta di idolatria né di cieca sottomissione, ma di un segno sacramentale, attraverso il quale si rende onore al ministero spirituale e non alla persona che lo esercita. Il significato profondo di questo gesto affonda le sue radici nella Scrittura — dove l’anello è simbolo di autorità e missione (cfr. Gn 41,42; Est 8,2) — e nella tradizione della Chiesa medievale, quando l’anello del Papa serviva anche a sigillare i documenti ufficiali. È un segno visibile di una realtà invisibile: l’unione e la fedeltà alla Chiesa attraverso il suo Pastore universale.

San Giovanni Paolo II ricordava che “l’onore reso al Papa non è mai diretto all’uomo, ma a Cristo stesso che lo ha chiamato a essere suo rappresentante”. Il venir meno di questi segni esteriori – il bacio dell’anello, il chinarsi per la benedizione, il tono solenne – corrisponde spesso a un indebolimento della consapevolezza del divino nel quotidiano. È dunque il momento di chiederci: abbiamo dimenticato il sacro? In tal caso, come possiamo ritrovarlo?

Il pontificato di Leone XIV sembra voler iniziare proprio da qui: dal ripristinare il senso del limite tra ciò che è umano e ciò che è divino, tra ciò che è visibile e ciò che deve restare mistero. «Sparire perché rimanga Cristo, farsi piccolo perché Lui sia conosciuto e glorificato, spendersi fino in fondo perché a nessuno manchi l’opportunità di conoscerlo e amarlo» ha detto Leone XIV nella Santa Messa con i cardinali. 
Si tratta di una testimonianza controcorrente, di cui avevamo tanto bisogno, in favore di un mondo che ha sete di spiritualità autentica. Nel suo gesto silenzioso e gentile, Leone XIV ci richiama a puntare lo sguardo su Dio, il quale spesso è dimenticato in un mondo fatto di flash e frastuono.


(Silere non possum, 14 maggio 2025)

 

venerdì 9 maggio 2025

Papa Leone XIV: Pietro, il ministero che eccede la persona


In queste ore in cui la Chiesa ha ricevuto un nuovo Pontefice, Leone XIV, mi ha colpito ascoltare alcune reazioni che, seppur comprensibili, tradiscono una certa incomprensione della natura del papato: “Io ci vado cauto, prima vediamo com’è, poi giudichiamo”. Quasi che si trattasse dell’elezione di un amministratore delegato o di un rappresentante politico da vagliare, approvare, mettere alla prova. Ma non è così. Il Papa non si valuta, non si misura. Il Papa si accoglie, perché è il Successore di Pietro, e Pietro è scelto da Dio per guidare la Sua Chiesa. Certo, le decisioni che prende un Pontefice possono essere discusse, criticate o apprezzate, ma la sua persona, il suo ministero, non sono e non possono essere oggetto di giudizio.

Qualunque sia il suo nome, la sua provenienza, il suo temperamento o le sue idee, il Successore di Pietro è una scelta che il Signore fa per il suo popolo. Non siamo noi a doverlo studiare, incasellare, approvare. È un ministero che eccede la persona. E questa verità semplice, forse, l’abbiamo un po’ dimenticata, dopo dodici anni in cui il papato è stato spesso vissuto e percepito in chiave personalistica. Dodici anni in cui si è parlato molto del Papa, e troppo poco del Signore Gesù. Leone XIV, nella sua prima omelia davanti al Collegio cardinalizio, ha saputo restituire questa verità con parole luminose: “Il nostro compito è sparire perché rimanga Cristo, farci piccoli perché Lui sia conosciuto e glorificato, spenderci fino in fondo perché a nessuno manchi l’opportunità di conoscerlo e amarlo.” Questo è il Papa: colui che, svuotandosi, lascia spazio a Cristo.

Per questo la Chiesa non teme la tempesta. La barca, anche quando è scossa dal vento, anche quando il Signore sembra dormire, resta salda. Come disse Benedetto XVI nel suo commiato: “La barca della Chiesa non è mia, non è nostra, ma è sua. E il Signore non la lascia affondare.” È questa certezza che ci permette di vivere ogni pontificato con fede e fiducia, senza sbattere la porta. È questa certezza che ci ha guidato in questi dodici anni nei quali, seppur criticando legittimamente alcune scelte vissute in modo personalistico, abbiamo sempre guardato al Successore di Pietro per ciò che è, con filiale affetto. Il Signore ci ama, non ci abbandona. Ne abbiamo avuto una testimonianza vivente ieri, in Piazza San Pietro: quei giovani americani accanto a noi che, al vedere il fumo bianco, hanno iniziato a esultare senza sapere chi fosse l’eletto. Perché per loro – e per noi – non conta il nome, ma il fatto che c’è un nuovo Pietro. Ed è sufficiente.

Leone XIV non è un buon Papa perché ha indossato la mozzetta rossa o la stola pontificale, né sarebbe stato un cattivo Papa se non l’avesse fatto. La differenza vera rispetto al passato è che certe scelte sembrano non essere segnali ideologici, ma semplici gesti di un uomo mite, visibilmente emozionato, forse persino spaventato, ma docile allo Spirito. Un uomo che ama la vita consacrata, che ha servito con discrezione, che ha portato frutti, e che ora si trova a dover dire “sì” a una chiamata immensa. Un uomo che è la carezza di Dio alla sua Chiesa. Non riduciamo la fede a una mozzetta, a una mitria, a un’omelia in latino. Non commettiamo l’errore – fatto da progressisti e tradizionalisti allo stesso modo – di valutare tutto secondo le apparenze. Non è la forma in sé a essere irrilevante, perché spesso la forma è sostanza, ma è l’intenzione del cuore, la trasparenza della fede, a dire se quella forma è abitata da Cristo.

Nel 2013, l’omelia del Pontefice eletto (Bergoglio) si soffermava sulle mancanze della Chiesa, con accenti duri e autoreferenziali: “Siamo mondani, siamo Vescovi, Preti, Cardinali, Papi, ma non discepoli del Signore.” L’accento era sull’uomo, sui suoi limiti, sulle sue colpe. Oggi, nella Cappella Sistina, abbiamo ascoltato parole diverse: parole che hanno rimesso al centro Gesù Cristo, con un invito chiaro e semplice, che dice tutto del compito di un Papa: sparire.

Siamo davanti a un uomo che, con voce tremante ma cuore saldo, sembra sapere che il suo ruolo non è quello di mettersi in mostra, ma di farsi trasparente. E allora sì, possiamo guardare avanti con fiducia e pace. Perché Pietro è Pietro. E la barca è, sempre e comunque, nelle mani del Signore — anche se, forse, ce ne eravamo dimenticati. 


(Fonte: Silere non possum, 9 maggio 2025) 
https://silerenonpossum.com/it/editoria-pietroilministeroeccedelapersona/

 


giovedì 1 maggio 2025

IL CONCLAVE PER IL NUOVO PAPA: “PER L'ONORE DELLA CHIESA”


Il funerale di papa Francesco sul sagrato di San Pietro e la traslazione del feretro a Santa Maria Maggiore, nel grandioso scenario della Roma antica, barocca e ottocentesca, hanno rappresentato un momento storico carico di simbolismo. Sovrani, Capi di Stato e di governo, uomini pubblici di ogni rango, convenuti da ogni parte a Roma, non hanno reso omaggio a Jorge Mario Bergoglio, ma all’istituzione da lui rappresentata, come era accaduto l’8 aprile 2005 per le esequie di Giovanni Paolo II.  Anche se molte di queste personalità appartengono ad altre religioni o professano l’ateismo, tutte erano consapevoli di ciò che ancora significa la Chiesa romana, caput mundi, centro del Cristianesimo universale. L’immagine di Donald Trump e Vladimir Zelensky faccia a faccia su due semplici sedie, tra le navate della Basilica di San Pietro, sembrava esprimere la loro piccolezza, sotto la volta di una basilica che racchiude i destini del mondo. E i 170 leader convenuti nella Città eterna, con la loro presenza sembravano anche interrogarsi sul futuro del mondo, alla vigilia del conclave che si aprirà il 7 maggio. 

Il conclave che eleggerà il successore di Francesco è, come tutti conclavi, un momento straordinario nella vita nella Chiesa. Mai come nel conclave, infatti, il Cielo e la terra sembrano incontrarsi per l’elezione del Vicario di Cristo. I cardinali, che costituiscono il Senato della Chiesa, devono scegliere colui che è destinato a guidarla e a governarla. Il momento è così importante che Cristo stesso ha promesso alla Chiesa di assisterla nella scelta, attraverso l’influsso dello Spirito Santo. Come ogni grazia, quella dovuta allo speciale intervento dello Spirito Santo presuppone però la corrispondenza degli uomini che, in questo caso, sono i cardinali riuniti nella Cappella Sistina. Ad essi, infatti, l’assistenza divina non toglie la libertà umana. Lo Spirito Santo li assiste, ma non determina la loro scelta. L’assistenza dello Spirito Santo non significa che nel conclave venga necessariamente scelto il candidato migliore. La Divina Provvidenza però, dal peggior male, quale può essere l’elezione di un cattivo Papa, trae sempre il maggior bene possibile, perché è Dio e non il demonio, che sempre trionfa nella storia. Per questo nel corso della storia furono eletti papa santi, ma anche papi deboli, indegni, inadeguati alla loro alta missione, senza che ciò pregiudichi in alcun modo la grandezza del Papato.

Come ogni conclave della storia, anche il prossimo conclave subirà tentativi di interferenze. Nel conclave del 1769, Clemente XIV fu eletto dopo 185 scrutini e oltre tre mesi di trattative, dopo essersi impegnato con le corti borboniche a sopprimere la Compagnia di Gesù. L’Imperatore d’Austria Francesco Giuseppe, nel conclave del 1903, che elesse san Pio X, pose il veto per l’elezione del cardinale Rampolla del Tindaro. Ma anche il conclave che elesse Pio XII, e soprattutto quello che seguì alla sua morte, subirono pressioni politiche. Nel 1958, l’azione diplomatica più invadente fu condotta dalla Francia del generale De Gaulle, il quale prescrisse al suo ambasciatore presso la Santa Sede, Roland de Margerie, di fare di tutto per impedire che potessero essere eletti i cardinali Ottaviani e Ruffini, considerati “reazionari”. Il “partito francese”, che faceva capo al cardinale decano Eugenio Tisserant, appoggiò invece il patriarca di Venezia Giuseppe Roncalli, che fu eletto con il nome di Giovanni XXIII. In tempi più recenti, sono note le manovre della cosiddetta “Mafia di San Gallo” nei conclavi del 2005 e del 2013, per evitare l’elezione di Benedetto XVI e poi per assicurare quella di Papa Francesco. La prima manovra fallì, la seconda riuscì

Queste pressioni non determinano però l’invalidità di un’elezione. Giovanni Paolo II, nella costituzione Universi Dominici gregis del 22 febbraio 1996, pur senza proibire che durante la Sede Vacante ci possano essere scambi di idee circa l’elezione, stabilisce che i cardinali elettori devono astenersi «da ogni forma di patteggiamenti, accordi, promesse od altri impegni di qualsiasi genere, che li possano costringere a dare o a negare il voto ad uno o ad alcuni. Se ciò in realtà fosse fatto, sia pure sotto giuramento», decreta «che tale impegno sia nullo e invalido e che nessuno sia tenuto ad osservarlo» e commina «la scomunica latae sententiae ai trasgressori di tale divieto» (nn. 81-82). La costituzione definisce invalidi gli accordi, ma non l’elezione che ad essi seguisse. L’elezione rimane valida anche se sono stati compiuti patti illeciti, salvo che emerga un vizio sostanziale gravissimo che comprometta la libertà del conclave. 

La Universi Dominici Gregis aveva stabilito l’elezione del Pontefice con una maggioranza qualificata di due terzi, ma nel caso che il conclave si fosse protratto oltre 30 scrutini in 10 giorni, prevedeva che i cardinali avrebbero potuto eleggere il nuovo Papa con la semplice maggioranza assoluta dei suffragi (nn. 74-75). Non era un cambiamento irrilevante, perché la maggioranza assoluta rende più verosimile l’ipotesi di un Papa contestato, bastando l’invalidità di una scheda per rendere nulla l’elezione di un Papa eletto con un voto di maggioranza. Forse per questo, con la Lettera Apostolica dell’11 giugno 2007, De aliquibus mutationibus in normis de electione Romani Ponteficis, Benedetto XVI ha ripristinato la norma tradizionale secondo cui per l’elezione a Sommo Pontefice è sempre richiesta la maggioranza dei due terzi di voti dei cardinali elettori presenti.  La necessità dei due terzi rende più forte la posizione di una minoranza di blocco e fa sì che il conclave possa anche prolungarsi nel tempo. Ciò è accaduto molte volte nell’età moderna. Basti ricordare che il conclave che elesse Barnaba Chiaramonti, con il nome di Pio VII (1800-1823), durò oltre tre mesi, dal 30 novembre 1799 al 14 marzo 1800, mentre il conclave che elesse Gregorio XVI (1831-1846) durò circa 50 giorni, dal 14 dicembre 1830 al 2 febbraio 1831. Il Papa eletto fu Bartolomeo Alberto Cappellari, un monaco camaldolese, prefetto della congregazione di Propaganda Fide, che non era neanche vescovo al momento dell’elezione. Dopo essere stato eletto Papa, fu prima ordinato vescovo e poi incoronato.

Le esequie di papa Francesco sono state un momento di apparente unità. Il prossimo conclave, riflettendo la vera situazione della Chiesa, sarà invece il luogo di divisione, che imporrà ai cardinali di assumersi la loro responsabilità per il bene della Chiesa? La porpora, che simboleggia il sangue dei martiri, ricorda ai cardinali che devono essere pronti a combattere e a versare il loro sangue in difesa della fede e il conclave è sempre un teatro di lotta che vede impegnata la porzione più nobile del Corpo Mistico di Cristo. In piazza San Pietro, il 26 aprile, la Chiesa ha ricevuto gli onori inconsapevoli di un mondo che la combatte. Nella Cappella Sistina i cardinali, o almeno una minoranza di essi, dovranno combattere per l’onore della Chiesa, oggi umiliata dai suoi avversari, soprattutto interni. Un conclave lungo e contrastato apre per questa ragione, orizzonti di speranza maggiori di quanti non ne potrebbe riservare un conclave breve, in cui, fino dall’inizio fosse scelto un candidato di compromesso. 

Il Papa migliore non sarà il Papa “politicamente corretto” suggerito dai mass media, né il Papa politico che, presentandosi come “pacificatore”, otterrà il pontificato attraverso garanzie e promesse che non manterrà.

La Chiesa e il popolo fedele hanno bisogno di un Papa integro nella dottrina e nei costumi che non presenti come concessioni ciò che nella fede, nella morale, nella liturgia e nella vita spirituale è un diritto non revocabile; hanno bisogno di un autentico Vicario di Cristo, che renda alla Cattedra di Pietro il suo ruolo di luce della verità e della giustizia. Altrimenti, se questa luce mancherà al mondo, alla Chiesa non resteranno più che i meriti della sofferenza e le risorse della preghiera. 

(Roberto de Mattei - 30 Aprile 2025)

  

martedì 22 aprile 2025

PAPA FRANCESCO E' MORTO!


Domenica era sembrata una giornata come le altre. Vedere il Papa uscire, andare in giro e salire addirittura sulla papamobile, aveva rasserenato molti. Papa Francesco aveva attraversato piazza San Pietro sulla jeep e aveva impartito la benedizione Urbi et Orbi dalla loggia centrale senza indossare il cappotto bianco. 
Nel pomeriggio, il Pontefice aveva riposato e poi cenato in tranquillità. Nessun allarme, nessuna preoccupazione apparente tra chi gli era vicino. Ma alle prime luci dell’alba di lunedì, qualcosa è cambiato. Erano da poco passate le sei del mattino quando le prime avvisaglie del malore hanno scosso la quiete di Casa Santa Marta. Più di un’ora dopo, disteso sul letto del suo appartamento al secondo piano, Papa Francesco ha alzato una mano in segno di saluto verso Massimiliano Strappetti, il suo assistente sanitario personale. Poi, il silenzio. Il Pontefice è entrato in coma. Il Policlinico Gemelli è stato allertato ma ormai era troppo tardi. Non c’era più nulla da fare.
È questo il racconto, scarno ma intenso, che fanno alcuni dei più stretti collaboratori del Santo Padre. Coloro che, da quando era tornato dal Gemelli, non lo avevano mai lasciato solo. Un epilogo semplice, quasi disadorno.

Dopo l’annuncio, è scattata sui media la corsa degli “elogi sperticati”, “a tutto campo”, del “santo immediatamente”. 
Questa mattina, un cardinale ha parlato della morte di Francesco. Le sue parole sono state nette: «Vorrei sottolineare una cosa. Il 99% di quanti oggi tessono l’elogio di questo pontificato, scrivendo post celebrativi, messaggi, ecc., inizia con: “da ateo, dico che…”, “da non credente, dico che…”, “da non cattolico, dico che…”, “non credo nella Chiesa ma...”. È strano che chi ha conosciuto bene Francesco oggi stia in silenzio o ne parli con prudenza. È strano che venga elogiato da chi ha sempre odiato la Chiesa”». Parole dure; e prosegue: «Non è accaduto che queste persone ora odino meno la Chiesa, grazie al Papa. Questo, in parte, era avvenuto con Giovanni Paolo II. Oggi no. Oggi abbiamo chi odia il Papa come istituzione, ma elogia Jorge Mario Bergoglio come persona, continuando a odiare la Chiesa».

Il tono è amaro, ma non rassegnato. Lo stesso presule ha concluso con uno sguardo rivolto al futuro: «Abbiamo bisogno di un Papa che riporti al centro della Chiesa Gesù Cristo, che dia fastidio a chi porta avanti i propri interessi di potere e difenda la Chiesa di Gesù Cristo. Abbiamo bisogno di un Papa che porti unità, dove tutti si possano sentire accolti e non membri di fazioni. Oggi questo è evidente: ci sono delle schiere, già pronte a combattere. E ogni schiera ha il suo promoter”».
Nel giorno in cui la Chiesa si prepara a celebrare le esequie del Pontefice defunto, tra i collaboratori serpeggia l’ansia per ciò che saranno questi giorni di “venerazione della salma”.

Il ricordo di Francesco si intreccia già con il dibattito sul futuro. C’è chi cercherà di raccontare la sua “solitudine” come conseguenza delle sue riforme “scomode”, del suo desiderio di una Chiesa povera, delle solite accuse di corruzione in Curia. Retoriche logore, che da anni circolano e che oggi, chi ha cercato di sfruttarle, si ritrova con frutti sterili e con una certa amarezza. La verità è un’altra: Francesco, con le sue “aperture”, si è circondato di persone che lo hanno sfruttato. Giornalisti in cerca di interviste esclusive; analfabeti pronti a pubblicare libri, apparire in televisione e guadagnare potere in Curia; e i potenti del mondo, che hanno strumentalizzato il suo magistero per legittimare le proprie agende, nel nome del “green” e dell’ecologia. Quando invece affermava, senza sé e senza ma, le verità di fede e la sacralità della vita veniva tacciato, censurato, ignorato. 
Sulla stampa e in Tv, in queste ore, iniziano a volteggiare gli avvoltoi. C'è chi corre a farsi ospitare nei salotti dove vengono dette un sacco di idiozie, c'è chi tenta di dare letture falsate di un pontificato come quello appena terminato, e c'è chi inizia a fare i nomi più assurdi per la successione. 
Il mio consiglio, come sempre, è quello di chiudere la televisione che è un veleno e di non leggere "i retroscena" (peraltro, falsi e frutto della fantasia delle megere di borgo) che vengono spammati su giornali e social. La Chiesa al momento ha due priorità: pregare per il Papa defunto e rimettere insieme i propri cocci e riflettere (seriamente!) sul successore.

Oggi la Chiesa non è soltanto orfana del suo Pastore Supremo, ma anche smarrita. Questi dodici anni sembrano il passaggio di un uomo giunto davvero “dalla fine del mondo”, che è entrato nella stanza del governo ecclesiale, ha sparso i fogli, svuotato i cassetti… e poi se n’è andato, lasciando dietro di sé il caos e un senso profondo di vuoto.

(Silere non possum!)

  

giovedì 6 giugno 2024

GENERE vs SESSO: UNA FALSA ANTROPOLOGIA


Una chiara e dotta esposizione che dimostra l’inattendibilità scientifica e antropologica delle moderne teorie, decisamente false e allucinanti.
 

La negazione della persona sessuata, rompendo l’unità bio-psichica-spirituale, è alla base della nuova visione “fluida”: una ribellione alla realtà che finisce per aumentare la sofferenza.
C’è «un grande nemico del matrimonio, oggi: la teoria del gender. Oggi c'è una guerra mondiale per distruggere il matrimonio. Oggi ci sono colonizzazioni ideologiche che distruggono, ma non si distrugge con le armi, si distrugge con le idee. Pertanto, bisogna difendersi dalle colonizzazioni ideologiche», così ha detto papa Francesco a Tblisi, in Georgia, il 1° ottobre 2016.
Andiamo alle fonti della cosiddetta teoria del gender/genere. In senso molto ampio è un insieme di realtà che condividono caratteristiche essenziali e che differiscono per caratteristiche specifiche: il genere si divide in diverse specie.
In senso più stretto, nella classificazione dei viventi, il genere è un gruppo sistematico di viventi comprendente specie affini. E se parliamo del vivente uomo, questo appartiene all'ordine dei Primati, alla famiglia degli Ominidi, al genere Homo e alla specie Homo sapiens, alla sottospecie Homo sapiens sapiens, e ogni individuo umano è di sesso femminile o maschile. In grammatica il genere è un elemento distintivo di nomi, pronomi e aggettivi. In italiano i generi grammaticali sono due, maschile e femminile. In latino sono tre, si aggiunge il neutro. Sia in latino che in italiano gli esseri animati (persone e animali) hanno il genere che spetta al loro sesso (pater=padre m.; mater=madre f.).
Da questo uso grammaticale è invalsa l'abitudine di considerare il genere sinonimo di sesso. In inglese è stata fatta questa distinzione: la parola sex/sesso ha iniziato a significare categorie biologiche, e la parola gender/genere, categorie sociali e culturali. Es. "l'efficacia del farmaco sembra dipendere dal sesso del paziente" "nelle società contadine il ruolo di genere è definito chiaramente". Fin qui bene, sono distinzioni di una certa utilità.
Ma poi si è passati a questa successiva distinzione: sesso «si riferisce alle caratteristiche biologiche e fisiologiche che definiscono gli uomini e le donne», genere «si riferisce ai ruoli, i comportamenti, le attività e gli attributi costruiti socialmente» (WHO, Gender, women and health, www. who.int/gender/whatisgender/en). Nota un'assenza: la parola genere perde il suo nativo riferimento al sesso, al dato sessuale-biologico. Che il riferimento al sesso sia stato perso è il risultato di un'operazione voluta e ideata da John Money.

Alle origini della teoria 
John W. Money (1921-2006) dottore in psicologia, attivo per molti anni a Baltimora USA, insieme agli psichiatri Joan e John studia gli stati intersessuali, cioè quelle condizioni nelle quali esiste un conflitto tra uno dei diversi fattori che determinano la differenziazione sessuale, sesso cromosomico, sesso gonadico, sesso genitale o fenotipico, e lo sviluppo sessuale successivo. E proprio in relazione agli stati intersessuali nel 1955 inizia a usare il termine gender/genere come distinto dal termine sex/sesso. Money definisce il genere così: 

«Stato personale, sociale e legale di maschio, femmina o misto definito in base a criteri somatici e comportamentali più generali del semplice criterio genitale. [...] L'identità di genere è il vissuto privato del ruolo di genere, il ruolo di genere è la manifestazione pubblica dell'identità di genere di maschio, femmina o di individuo ambivalente (in misura maggiore o minore), quale viene vissuta in particolare nell'immagine di sé e nel comportamento. Il ruolo di genere è tutto ciò che una persona fa e dice per indicare ad altri o a sé stessa il grado in cui è maschio, femmina o ambivalente: comprende l'eccitamento e la risposta sessuale, ma non è limitato ad essi» (Amore e mal d'amore [Love and Love Sickness, Baltimore 1980], Feltrinelli, Milano 1983, 298-299). 
«Il termine sesso deve essere riservato a indicare ciò che attiene agli organi genitali e alle loro funzioni, [...] l'identità/ruolo di genere comprende tutto ciò che ha a che fare con le differenze comportamentali e psicologiche tra i sessi, indipendentemente dal fatto che siano intrinsecamente o estrinsecamente legate ai genitali» (ibid., pp. 32-33).

Quindi, il genere non è una conseguenza derivante dall'insieme dei caratteri genetici, fisici, funzionali e fisiologici, ma può discostarsi dall'identità genetica e fisiologica. 
Money sostiene che, come il sesso psicologico e i ruoli sessuali sono determinati dall'ambiente e dalla cultura, così anche il genere, il ruolo di genere e l'orientamento di genere sono determinati dall'ambiente e dalla cultura. In altri termini, i bambini, come imparano una lingua nella prima infanzia in ragione dell'ambiente e della lingua che ascoltano, così nella prima infanzia apprendono il genere al quale appartengono (ibid., p. 30). 
Nonostante il fallimento dell’esperimento Bruce-Brenda-David Reimer" - che non possiamo riferire per limiti di spazio - e del falso scientifico relativo a questo caso, Money divenne molto famoso come sessuologo e ha divulgato soprattutto mediante TV la sua teoria interazionista secondo la quale l'identità di genere è fluida e soggetta a continui aggiustamenti.

La nuova accezione di gender/genere 
La nuova accezione di gender/genere in breve tempo ha fatto il giro del mondo ed è entrata in numerosi documenti, soprattutto politici e giuridici. Data la brevità dello spazio e anche l'autorevolezza dell'autore - si tratta dell'ONU - ne basterà uno:

«Adottare una prospettiva di genere significa [...] distinguere tra ciò che è naturale e biologico da ciò che è costruito socialmente e culturalmente, e nel processo rinegoziare i confini tra naturale - e la sua relativa inflessibilità - e il sociale - e la sua relativa modificabilità» (United Nations, Gender Concepts in Developmentol Planning, New York 1996, p. 11)

Mentre la parola gender/genere sta sempre più prendendo spazio, lentamente la parola sesso sta quasi scomparendo, evidentemente sostituita dalla parola genere. 
La Costituzione della Repubblica parla di sesso: «Tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso...» art. 3,1. Oggi, invece, molti preferiscono parlare di distinzione di genere, di discriminazione di genere, di violenza di genere. Una volta i questionari chiedevano il sesso di appartenenza. Oggi chiedono di specificare il genere. Dato il dilagare della volgarità e della pornografia, possiamo escludere che sostituire sesso con genere sia una nuova forma di pudore, che sia nuovamente di moda la mentalità vittoriana. Ma non è neanche un discorso innocuo.

Il successo e gli sviluppi della nuova accezione 
La tesi formulata da Money, pur essendo una mera asserzione priva di evidenza scientifica, è stata assunta come il fondamento medico-scientifico di alcune correnti culturali molto attive alla fine degli anni '60 del secolo scorso negli Stati Uniti, penso al femminismo radicale di Shulamith Firestone e al movimento di liberazione omosessuale. 
Questi movimenti di opinione miravano ad abbattere i ruoli e cancellare la distinzione tra i sessi al fine di «livellare tutto in parità», come si esprime la Firestone in “La dialettica dei sessi” (Guaraldi, Firenze 1974, p. 59). Dietro la diffusione della teoria del gender c'è la volontà di pochi di proporre una nuova visione di uomo ben illustrata da Kate Bornstein, l'ideatore/trice della fluidità di genere:

«La fluidità di genere è la capacità di diventare in modo cosciente e libero uno degli infiniti numeri di genere, per il tempo che vogliamo a ogni ritmo di cambiamento. La fluidità di genere non conosce limiti o regole di genere» (Gender Outlaw: on Men, Women and the Rest of Us, Rutledge, New York 1994, p. 115).

In questa prospettiva il dato corporeo, genetico, anatomico, fisiologico della persona non conta, ciò che è determinante è la sua scelta assoluta, cioè completamente svincolata dalla propria corporeità. Questa visione può essere tanto facilmente enunciata, quanto difficilmente vissuta fino alla fine perché è semplicemente utopica. 
Nessuno di noi può prescindere dal proprio corpo e da ciò di cui il corpo è portatore: ognuno di noi è un individuo che è insieme corpo e intelligenza. In ragione del corpo sono determinato, finito, vivo nella storia e simultaneamente in ragione della dimensione spirituale, cioè delle facoltà immateriali dell'intelligenza e della volontà, sono aperto all'infinito, posso superare i limiti della finitezza storica, posso progettare il mio futuro. La bellezza e la dignità della persona umana stanno proprio in questa unità tra soma e psiche, tra corpo e anima, come insegnano i grandi filosofi classici.

Gender e nuova antropologia 
Tiriamo le conclusioni: accettare l'opposizione gender-sesso biologico, quale visione della persona umana implica?

1) Il sesso genetico e l'identità sessuale, cioè l'essere maschio e l'essere femmina, diventano aspetti da superare con la libera scelta del ruolo e dell'identità di genere. Non sono rilevanti l'alterità e la complementarietà tra maschio e femmina. Ciò che conta è la scelta del genere e del ruolo di genere. Perciò è frantumata l'unità bio-psichica-spirituale della persona umana.

2) Significa negare la persona sessuata: l'essere umano è sradicato dalla sua dimensione corporea, sessualmente definita. L'opposizione gender-sesso biologico implica un individuo umano indistinto o neutro che in qualsiasi momento può scegliere in quale genere collocarsi, senza alcun condizionamento. Il dato corporeo umano non sarebbe portatore di alcun significato, per cui potrebbe essere modificato a piacere e vissuto in qualsiasi modo. Perciò, non mi sarà possibile definire la sessualità in termini oggettivi, non potrò più fare riferimento al sesso, inteso come l'insieme dei caratteri genetici, fisici, funzionali, fisiologici, psicologici e culturali che in individui della stessa specie contraddistinguono soggetti diversamente predisposti alla funzione riproduttiva.

3) L'uomo è identificato non tanto come persona, ma per il suo orientamento, le sue preferenze e le sue pulsioni, sessuali o non sessuali. L'orientamento, qualunque esso sia, è talmente enfatizzato e glorificato come fonte di felicità che va vissuto così come si presenta. Perciò non importa il termine dell'orientamento e l'oggetto della pulsione, l'importante è manifestare l'orientamento e esprimere liberamente le pulsioni. E non essendoci riferimenti oggettivi, qualsiasi orientamento è equipollente agli altri. E allo Stato è chiesto di tutelare qualsiasi orientamento e stile di vita.

4) Negato il significato all'identità corporea e sessuale, e posto che posso scegliere in modo assoluto il mio genere di appartenenza, si ridurranno le relazioni umane significative e strutturanti la mia personalità. Il gender muta radicalmente i legami relazionali: come nascono e cosa sono. Questi sono fondamentali nel processo di formazione dell'identità. La relazione, anche sessuale, diventa una questione di scelta, rivedibile continuamente ed emancipata da qualsiasi altro aspetto che non sia la stessa capacità di scegliere, e quindi non sarà più il compimento di un progetto corrispondente alla nostra natura corporea sessuata e razionale.

5) È un atteggiamento di ribellione nei confronti della realtà, il che non può che aumentare la sofferenza e l'angoscia nell'uomo.

6) La visione antropologica sottostante il gender è: 
riduttiva perché l'uomo è ridotto al suo orientamento;
dannosa perché giustifica qualsiasi condotta-compulsiva, e rischia di produrre personalità psicologiche confuse, indeterminate e insicure, che si fermano ai propri orientamenti pulsionali senza armonizzarli nell'identità sessuale e nella ragione; 
utopica perché l'uomo è identificato con la sua scelta, e su tale scelta la libertà umana è assolutamente sovrana, essendo emancipata dal dato fisico-corporeo e quindi anche dal dato del contesto storico-esistenziale. Ma questa libertà non esiste in rerum natura; produce effetti caotici proprio nell'identità umana.


FONTE: Giorgio Maria Carbone, Professore ordinario di Teologia morale e Bioetica - Facoltà di Teologia, Bologna in La Bussola mensile, 6/2024, pag. 17

mercoledì 5 giugno 2024

PROFESSIONE CELEBRANTE, ARRIVA IL SURROGATO LAICO DEL PRETE


Archiviata la religione, resta la voglia di cerimonie sostitutive officiate da professionisti, che però ricalcano i riti cristiani facendo sentire ancor di più il grande assente: Dio.

54%. È la percentuale di matrimoni civili registrata nel 2021 in Italia. Da anni gli italiani preferiscono il sindaco al sacerdote per sposarsi. Però il rito è “tristo” in comune e così sempre più spesso ci si dà all’ibridazione: un primo “sì” al municipio e poi su un bel prato un secondo “sì” con tanto di fiori, musiche, testimonianze e un celebrante senza fascia tricolore.
Parliamo di quest’ultimo. Pare che il celebrante sia diventato una vera e propria professione a tutti gli effetti dato che esiste anche una federazione ad hoc che si chiama Federcelebranti. Una figura, quella del celebrante, sempre più richiesta non solo per le nozze, ma anche per le unioni civili – che segnano un +32% nei primi mesi del 2022 – i funerali, le nascite, le convivenze (si vuole così sugellare la convivenza senza volersi però sposare), le lauree, i fidanzamenti ed addirittura i “cambi” di sesso, le guarigioni e i divorzi. Insomma ogni occasione è buona per chiamare in causa un celebrante con le sue relative competenze. Costui è sostanzialmente un planner che organizza tutto nel dettaglio: canti, musiche, letture di poesie, testimonianze, foto, addobbi, arredi, redazione del finto consenso matrimoniale e molto altro ancora. Naturalmente il suo ruolo principale è quello di raccogliere le promesse dei due piccioncini.
In merito ai matrimoni, il celebrante può fungere da delegato del sindaco oppure no. In quest’ultimo caso si chiede al celebrante solo di ripetere il momento del consenso già avvenuto in comune, abbellendolo, impreziosendolo appunto con canti, fiori ed addobbi. C’è pure la firma sul certificato di matrimonio, ovviamente simbolico. Si possono anche scegliere diversi riti: il rito delle sabbie, il rito celtico dell'handfasting con i nastri, il rito della luce, quello dell’albero, quello della scatola del tempo. Significativo poi il Naming, ossia la Cerimonia del nome o Cerimonia di benvenuto. Avviene dopo il battesimo o anche al posto del battesimo.
Il fenomeno qui descritto nasce semplicemente dal fatto che le persone hanno abbandonato in discarica la fede. Niente più matrimoni, né funerali in Chiesa e sempre meno battesimi. Però rimane la voglia di stare insieme (magari non per sempre, ma per il tempo necessario) e rimane il fatto che si nasce e si muore. Come allora celebrare queste vicende umanissime che interessano tutti? Ecco inventarsi riti laici, pagani, new age e post age che scimmiottano i riti sacri. Si tratta in definitiva di mimesi. Tali riti sono quindi una copia patetica degli autentici riti cristiani. Cestinati gli originali si ricorre ai surrogati. In tal modo abbiamo il rito dell’amore che è il matrimonio, il rito di benvenuto che è il battesimo, il rito del commiato che è il funerale. Una traduzione laica e laicista dei sacramenti e sacramentali cristiani. Questo è tanto vero che il celebrante appare a tutti essere una copia del sacerdote. Naturalmente la cultura secolare ha prodotto nel tempo anche i suoi nuovi sacramenti e dunque perché non celebrare anche divorzi ed unioni civili?
Il fenomeno sociale qui descritto mette comunque in luce un aspetto di carattere antropologico di segno positivo. L’uomo è portato per natura a comunicare l’importanza di ciò che fa con segni adeguati. Ecco il ricorso insopprimibile ai simboli ed ecco  il ricorso ai riti, che sono simboli in successione e connessione. La forma è necessaria per comunicare un certo contenuto e più il contenuto è rilevante più la forma deve esserlo anche lei. Simboli e riti quindi accompagnano l’uomo nella storia in modo ineludibile.
Per paradosso poi accade che quello che hai buttato dalla porta rientri dalla finestra. Ciò a voler dire che questi riti volutamente acattolici, tendono involontariamente al sacro proprio perché il trascendente è il grande assente, la cui assenza si nota eccome. Questa sorta di liturgie – storture delle vere liturgie – crea come dei buchi al loro interno. Abbiamo i canti, le invocazioni che sono simil-preghiere, i ringraziamenti, lo scambio delle promesse, tutto concorre a far percepire l’assenza di Dio che dovrebbe accogliere le invocazioni e i ringraziamenti, che dovrebbe benedire le promesse. Tutto allora reclama un piano più elevato, più sublime. Tutto prova che questa realtà terrena trova il suo ultimo e definitivo compimento nel Cielo.    

 

(Fonte: Tommaso Scandroglio, LNBQ, 25 maggio 2024) 
https://lanuovabq.it/it/professione-celebrante-arriva-il-surrogato-laico-del-prete

 

GAY IN SEMINARIO, SE IL PAPA SI RIMANGIA TUTTO


Dopo l'uscita sulla "frociaggine" dei preti, clamorosa giravolta di papa Francesco: incoraggia un aspirante seminarista gay a proseguire. Una contraddizione inconcepibile, che si tramuta in una vittoria per la lobby Lgbt. 
 

Ormai non si può più neanche dire che sia una sorpresa. Dopo il clamore suscitato dall’uscita sull’«aria di frociaggine» in seminario e tra i sacerdoti, la lobby gay non poteva stare con le mani in mano. Ed ecco allora prima un servizio della BBC su un giovane siciliano gay che afferma di essere stato sottoposto a terapie riparative che somigliano a torture mentre era in seminario.
E poi, soprattutto, la lettera a papa Francesco dell’«aspirante seminarista gay» che lamenta di essere stato rifiutato per la sua omosessualità malgrado sentisse una forte vocazione. Una mail scritta il 28 maggio dal 22enne Lorenzo Michele Noè Caruso, questo il nome del ragazzo, «tre pagine in cui ha aperto il suo cuore al santo Padre», spiega il Messaggero che ha raccontato per primo la storia. E con una tempestività sorprendente, Lorenzo ha ricevuto una risposta già il 1° giugno: «Un cartoncino scritto a mano, scannerizzato e allegato alla mail». Il contenuto della risposta è anzitutto la denuncia del clericalismo, evocato nella lettera del ragazzo, per poi andare al sodo: «Gesù chiama tutti, tutti. Alcuni pensano alla Chiesa come una dogana, e questo è brutto. La Chiesa deve essere aperta a tutti. Fratello, vai avanti con la tua vocazione».
Ovviamente la lettera è stata subito pubblicata per far capire «chi è il Papa vero, non è quello che hanno fatto credere».
E già, la domanda sorge spontanea: chi è il Papa vero? Perché è evidente che non c’è modo di conciliare l’uscita sulla “frociaggine” con questa lettera. È vero che «vai avanti con la tua vocazione» potrebbe significare qualsiasi cosa, ma in questo contesto non poteva che essere letta come un via libera all’ingresso in seminario (a meno che non intervenga di nuovo la Sala Stampa vaticana per rettificare).
Ma il punto è che anche il discorso del 20 maggio ai vescovi italiani era chiarissimo: al di là della terminologia usata, l’invito del Papa a impedire l’accesso al seminario a candidati con tendenze omosessuali non era equivocabile, anche se qualcuno ci ha provato. Abbiamo già fatto notare che il discorso ai vescovi italiani sembrava in palese contraddizione con quanto fatto in questi anni per promuovere l’agenda Lgbt nella Chiesa. E certamente la confusione, l’ambiguità, la doppiezza sono una caratteristica di questo pontificato.
Ma qui siamo evidentemente oltre: uno stesso caso che riceve due risposte diametralmente opposte è inconcepibile. E sorvoliamo anche sulla gravità di smentire per sentito dire il giudizio di un rettore di seminario che avrà pur valutato i requisiti del candidato considerandolo non idoneo, non necessariamente solo per l’omosessualità.
Tornando alla questione principale però, non si può eludere la domanda: come è possibile affermare una cosa e anche il suo contrario nel giro di una settimana, e su un tema così delicato?
Forse qualcuno fantasticherà sull’esistenza di due Papi o sulla falsificazione della lettera all’aspirante seminarista, o ancora sull’interpretazione del discorso ai vescovi italiani. Ma restando con i piedi per terra, possiamo pensare soltanto a due possibilità.
La prima è che bisognerebbe cominciare, con tutto il rispetto possibile, a farsi qualche domanda sulla stabilità psichica del Pontefice. Non è certo la prima volta che suoi atteggiamenti e discorsi fanno sorgere dei dubbi, ma finora papa Francesco ha potuto godere del favore della stampa progressista, che ha sempre evitato di far emergere le contraddizioni o di calcare troppo sugli scivoloni. Nulla doveva intaccare l’immagine di un Papa “rivoluzionario” che rivolta la Chiesa, la narrazione di un Papa (buono) che lotta contro i cattivi (tutta la Chiesa). Ma con l’avanzare dell’età è normale che certe fragilità si accentuino e diventi più difficile nasconderle. Il problema in questo caso sarebbe soprattutto chi gli sta intorno, che copre una situazione che andrebbe affrontata in altro modo, magari per approfittarne.
La seconda ipotesi è che, al di là di quello che pensa veramente sulle singole questioni, debba “obbedire” a un mandato ricevuto. Non possiamo fare illazioni su chi e perché, ma che ci siano forti pressioni da parte di alcune lobby o cordate appare piuttosto evidente. La sistematica promozione di associazioni o prelati palesemente pro-gay, tanto per restare in tema, è un fatto sotto gli occhi di tutti.
Solo per fare l’ultimo esempio: proprio la settimana scorsa papa Francesco ha nominato come membri del Dicastero per la Dottrina della Fede – che su questi temi ha giurisdizione - due cardinali (José Tolentino de Mendonça e Marcello Semeraro) e l’arcivescovo Bruno Forte, notoriamente vicini ai gruppi Lgbt. Tolentino de Mendonça, tra le altre cose, è uno strenuo sostenitore dell’ex religiosa Maria Teresa Forcades i Vila, famosa per la sua “teologia queer”; Semeraro, attualmente prefetto del Dicastero per le Cause dei Santi, da vescovo di Albano aveva fatto della sua diocesi il punto di riferimento dei gruppi Lgbt “cattolici”; e Forte, già ai tempi del primo Sinodo sulla Famiglia (2014) aveva spinto per il riconoscimento delle unioni omosessuali.
Così, anche l’uscita maldestra sulla “frociaggine” che sembrava volesse porre un limite a certe tendenze nel clero, si sta trasformando nel suo contrario, ovvero il rafforzamento della presenza pro-gay al vertice della Chiesa e ora anche nei seminari.
Ad ogni modo, quale che sia il problema – e non escludiamo apriori altre ipotesi su questo “Francesco contro Francesco” - la faccenda è molto seria.


(Fonte: Riccardo Cascioli, LNBQ, 4 giugno 2024) 
https://lanuovabq.it/it/gay-in-seminario-se-il-papa-si-rimangia-tutto

  

giovedì 30 maggio 2024

PER IL PAPA LA SODOMIA NON È UN PROBLEMA MORALE, MA DI IMMAGINE


Le "frociaggini" di Francesco vanno inquadrate nel discorso ai vescovi, non come una lotta alla lobby gay vaticana: ad interessargli non è il comportamento morale dei sacerdoti, ma il chiacchiericcio che questo potrebbe sollevare. Infatti dall'inizio del suo pontificato non ha fatto altro che proteggere prelati omosessuali attivi
 

Ormai non si parla d'altro che delle “frociaggini” del Papa. In occasione della 79ma Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana, tenuta lo scorso 20 maggio, papa Francesco ha avuto da ridire sul fatto che ormai, tra i preti, c'è troppa «aria di frociaggine», appunto. 
Solo due giorni fa la stampa iniziava a lanciare la notizia del papa omofobo e ieri su La Stampa l'immancabile Vito Mancuso protestava le scuse del papa, farneticando circa un onirico parallelo tra Francesco e Pio IX, entrambi partiti con un pontificato riformatore per finire con scelte intransigenti! 
E così, nel pomeriggio il direttore della Sala Stampa vaticana, Matteo Bruni, ha subito presentato le scuse del Pontefice: «Il Papa non ha mai inteso offendere o esprimersi in termini omofobi, e rivolge le sue scuse a coloro che si sono sentiti offesi per l’uso di un termine, riferito da altri». Seguirà un programma già visto, con il Papa che si sentirà ora in dovere di dimostrare fattivamente al mondo quanto egli sia aperto all'omosessualità. Aspettiamoci di tutto. 
Va da sé che il Papa si sia espresso con linguaggio tanto forbito e pertinente per il fatto che, ormai come di consueto, non prova nemmeno a leggere una riga dei discorsi che gli vengono preparati, ma preferisce parlare a braccio, per dare ampio spazio alle sollecitudini dello “spirito”. E siccome la parola di Dio non è incatenata (cf. 2Tm 2, 9), quella del papa, che, da un po' di tempo a questa parte, soffre di incontinenza verbale, è decisamente scatenata. Che al Papa sia scappata una parola di troppo? Che l'abbia pronunciata volutamente? Non è dato saperlo.
Ma al di là dell'espressione decisamente al di fuori delle righe e le congetture varie, bisogna cercare di capire quale sia stata la reale preoccupazione di Francesco. A spiegare il senso dell'improvvida esternazione, è l'aneddoto che il Papa ha raccontato; aneddoto che egli ha tenuto a precisare più e più volte essere assolutamente vero. Francesco ha raccontato di due preti conviventi, chiacchierati a tal punto che, in occasione del decesso della madre di uno dei due, le condoglianze sono state porte all'altro per la scomparsa della “suocera”.
La storiella indica non solo quanto Bergoglio sia egli stesso avvezzo a quei pettegolezzi che tanto stigmatizza negli altri, ma mostra con grande chiarezza la sua reale preoccupazione sul fenomeno gay: evitare di offrire il fianco alle critiche da parte della «cultura odierna dell'omosessualità», secondo la sua espressione, con la quale non ha nessuna intenzione di entrare in conflitto. Anzi. Ad interessargli veramente non è quindi il comportamento morale dei sacerdoti e la ricaduta di tale comportamento sulla vita di grazia e la loro missione nella Chiesa, ma il chiacchiericcio che un tale comportamento, se non adeguatamente occultato, potrebbe sollevare, e i guai che ne potrebbero derivare.
Interpretare l'esternazione del Papa come se esprimesse, un po' fuori dai toni, la sua volontà di opporsi all'infiltrazione della lobby gay tra il clero è irrealistico. Se non altro perché è dall'inizio del suo pontificato che il Papa non sta facendo altro che nominare e proteggere prelati omosessualmente attivi, inclusi quelli efebofili. Da Mons. Battista Ricca al cardinale Mc Carrick, passando per Mons. Gustavo Zanchetta, da P. James Martin a Suor Jeannine Gramick e il “suo” New Way Ministry, fino alle benedizioni delle coppie gay con “Fiducia supplicans”, il pontificato presente ha avuto come suo punto fermo proprio la promozione di persone dal comportamento sessuale altamente problematico, nonché la riduzione della sodomia ad una questione di orientamento personale, senza più alcuna valenza morale. Questi preti che prima egli nomina in posti prestigiosi e poi sono così sciocchi da farsi beccare in flagrante non sono un problema perché mettono in pericolo la propria salvezza eterna e quella altrui, e nemmeno perché macchiano l'immagine della Sposa di Cristo, la Chiesa, ma perché hanno inferto un'insanabile ferita all'immagine di papa Francesco.
Il papa dunque non è preoccupato che certi problemi morali esistano tra il clero, ma che vengano allo scoperto. Così come si è infastidito non tanto per le proprie parole offensive e fuori luogo, ma che alcuni vescovi abbiano spifferato all'esterno le sue parole “confidenziali”. Le dichiarazioni di Matteo Bruni sono piuttosto eloquenti; non solo la sottolineatura, come riportato sopra, che il termine in questione sia stato «riferito da altri», ma anche l'accentuazione che quella conversazione era stata tenuta «a porte chiuse, con i vescovi della CEI». Da aspettarsi nelle prossime settimane la caccia all'uomo, con relativo repulisti da parte del Papa della misericordia.
Con buona pace di tutti, rimane purtroppo intatto quel «chi sono io per giudicare?», dell'ormai lontano 2013, che esprime l'indifferenza del papa di fronte al problema morale della sodomia; dimensione che, nella conversazione con i vescovi italiani, non è stata neppure sfiorata. Che un prete possa radicarsi in un comportamento gravemente peccaminoso, e poi anche celebrare la Messa, aggiungendo così anche il sacrilegio, non sembra essere una priorità pastorale di questo pontificato, a patto che faccia le cose per bene e non si faccia scoprire.
A proposito di excusatio, proprio all'interno del programma per la Giornata mondiale dei Bambini voluta dal Papa, c'è stata l'esibizione del trasformista Carmine De Rosa, con travestimenti a dir poco equivoci. Chissà se Matteo Bruni comunicherà delle scuse anche per questo.

(Fonte: Luisella Scrosati, LNBQ, 29 maggio 2024) 
https://lanuovabq.it/it/per-il-papa-la-sodomia-non-e-un-problema-morale-ma-di-immagine

LE NUOVE NORME SULLE APPARIZIONI FANNO A PEZZI L'APOLOGETICA


Il documento del card. Víctor Manuel Fernández, detto Tucho presentato il 17 maggio è in chiara discontinuità con l'atteggiamento che la Chiesa ha sempre avuto nei confronti dei fenomeni soprannaturali. Le nuove norme negano la possibilità di riconoscere le tracce dell'intervento di Dio nella storia degli uomini.
 

Le nuove norme sulle apparizioni mariane presentate lo scorso 17 maggio, costringono a riprendere in mano l'atteggiamento tradizionale della Chiesa davanti a fenomeni soprannaturali per comprendere se tali norme siano o meno in continuità. Da sempre, si sa che in questo campo l'atteggiamento della Chiesa è all'insegna della prudenza. D'altra parte, abbiamo gli imperativi dell'apostolo Paolo: «Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie; esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono» (1Ts 5, 19-21). Si tratta di due aspetti complementari: la prudenza è precisamente a servizio dell'esortazione paolina, vale a dire che la Chiesa è chiamata ad esaminare ogni cosa, per arrivare quanto più possibile alla certezza morale se un certo evento sia effettivamente manifestazione dello Spirito.
Da sempre l'atteggiamento della Chiesa è stato appunto quello di osservare, esaminare, vagliare, per giungere ad un giudizio positivo o negativo circa la possibile origine soprannaturale di determinati fenomeni. Una certa sistematizzazione di questi criteri fu opera di importanti teologi del XV secolo, come il domenicano cardinale Juan de Torquemada, e del Doctor Christianissimus, Jean de Gerson. Sembra che ad aver acceso l'interesse teologico per l'argomento dei fenomeni soprannaturali sia stata la decisione del (discusso) Concilio di Basilea di porre sotto esame le famose Rivelazioni celesti di Santa Brigida di Svezia.
Due concili ecumenici successivi, il Lateranense V (1512-1517) e il Tridentino (1545-1563) esprimeranno che spetta al Vescovo competente agire e pronunciarsi in modo definitivo su eventuali fenomeni soprannaturali, servendosi dell'aiuto di alcuni uomini «docti et gravi» (Lateranense) e «theologi et pii» (Tridentino). Si tratta di un duplice principio – competenza del vescovo e ricorso ad esperti – che garantisce da un lato la dimensione della comunione gerarchica, dall'altra la necessaria scienza e competenza per giungere ad un giudizio che si avvicini quanto più possibile alla certezza morale. Rimane la cosiddetta “riserva apostolica”, ossia la possibilità di intervento della Sede Apostolica, anche senza il consenso del Vescovo.
Il XVI secolo ha poi conosciuto lo straordinario apporto di mistici come santa Teresa d'Avila, san Giovanni della Croce, sant'Ignazio di Loyola, che hanno arricchito di criteri più fini il discernimento relativo a presunti fenomeni soprannaturali. I secoli successivi hanno visto sorgere importanti trattati teologici, tra i quali spicca il De discretione spirituum del cardinale Giovanni Bona, e soprattutto l'opera del cardinale Prospero Lambertini, futuro Benedetto XIV, sia la monumentale De servorum Dei beatificatione, che l'opera, ormai dalla critica a lui attribuita e da qualche giorno finalmente disponibile in edizione critica, Notæ de miraculis.
Si giunge quindi alle Normæ del 1978, le quali compendiano il lungo sviluppo storico tracciato, enumerando alcuni criteri positivi e negativi avvalendosi dei quali l'Ordinario possa giudicare del fatto attenzionato, le relazioni con la Conferenza episcopale di riferimento e con la Congregazione per la Dottrina della Fede. Le Normæ succitate servivano per «giudicare, almeno con una certa probabilità» circa la possibile origine soprannaturale del fenomeno interessato.
Il documento del 1978 già aveva ben presenti l'odierna rapidità di diffusione di notizie relative ai presunti fenomeni, così come «la mentalità odierna e le esigenze scientifiche e quelle proprie dell'indagine critica» che «rendono più difficile, se non quasi impossibile, emettere con la debita celerità i giudizi che concludevano in passato le inchieste in materia». Ma è proprio per queste sopraggiunte difficoltà che erano state emanate le Normæ, per giungere «alla luce del tempo trascorso e dell'esperienza, con speciale riguardo alla fecondità dei frutti spirituali» ad, «esprimere un giudizio de veritate et supernaturalitate, se il caso lo richiede».
Il lettore perdoni il lungo excursus, necessario però per comprendere la direzione della Chiesa in questa materia: massima prudenza, senza aver fretta di pronunciarsi in un modo o nell'altro, ma anche apertura a riconoscere la presenza dello Spirito, mediante l'attestazione di elementi che fanno appello alla ragionevolezza dell'uomo, capace di giungere ad un giudizio altamente probabile e ad una certezza morale.
Sullo sfondo di tutto questo sviluppo storico si può identificare proprio questo punto fermo: la Chiesa ha la consapevolezza della capacità della ragione umana di cogliere i segni del soprannaturale. Questo principio è alla base della credibilità della Persona stessa di Gesù Cristo, del Vangelo e dell'evangelizzazione. L'apostolo Pietro, il giorno di Pentecoste, rivolgendosi ai Giudei, qualificò il Signore Gesù come l'«uomo accreditato da Dio presso di voi per mezzo di miracoli, prodigi e segni» (At 2, 22); Dio accreditava anche l'operato degli stessi Apostoli per mezzo di «molti segni e prodigi» (At 5, 12). Il miracolo, l'evento soprannaturale è una specie di “firma di Dio”, che l'uomo è in grado di saper decodificare, indizio che Dio offre precisamente alla ragione dell'uomo, perché ne possa riconoscere l'origine. Tutta l'azione profetica, di Cristo stesso e degli Apostoli è basata precisamente su questo principio: l'uomo è in grado non di conoscere direttamente il soprannaturale, ma di identificarne i segni, le tracce, così da riconoscere l'impronta di Dio e aprirsi ad accoglierne l'azione e il messaggio.
Ora, che cosa troviamo nelle Nuove Norme? Il cardinale Fernández ha provato a giustificare il nuovo documento con la necessità di una maggiore prudenza da parte della Chiesa, in ragione della confusione generata dall'azione di alcuni vescovi e da pronunciamenti contraddittori. Ma la verità è che il problema non si colloca nella carenza di norme o nella loro oscurità, ma più semplicemente nell'azione imprudente di singoli prelati; tant'è vero che le Nuove Norme riprendono sostanzialmente i criteri del documento del 1978. Se il problema fosse dunque quello della prudenza, il documento sarebbe inutile.
La vera novità del documento sta invece nel fatto che d'ora in avanti verrà preclusa la possibilità di esprimersi positivamente quanto alla soprannaturalità di un evento, ma ci si dovrà limitare, al massimo, ad un nihil obstat; il caveat presente nell'art. 22 §2 esprime questa novità: anche nel caso del nulla osta, «il Vescovo diocesano presterà attenzione (...) a che i fedeli non ritengano nessuna delle determinazioni come un’approvazione del carattere soprannaturale del fenomeno». Il concetto è stato ribadito da Fernández in Conferenza Stampa, rispondendo ad una domanda della giornalista Diane Montagna; giustificandosi con il fatto che occorre limitarsi ad una decisione prudenziale, il cardinale ha affermato che «non si può chiedere una dichiarazione dell'origine soprannaturale per decidere in questo caso, precisamente perché il rischio di dichiarare [un fenomeno] come soprannaturale è quello di dare piena certezza. In modo che, in ultima analisi, non si possa più dubitare».
Ora, anche i sassi sanno che quando un vescovo si esprime favorevolmente circa la soprannaturalità di un'apparizione o di un miracolo, ed anche quando lo dovesse fare un papa, né intende né può vincolare la coscienza dei fedeli, quasi stesse insegnando un dogma o una verità de fide tenenda. Si è sempre trattato di un giudizio prudenziale, anche quando ci si esprimeva con un constat de supernaturalitate, il cui massimo grado di assenso è la certezza morale, non la certezza assoluta di un atto di fede. Tant'è vero che l'opposizione al giudizio autorevole del vescovo in tale materia di per sé significherebbe al massimo temerarietà, non eresia o scisma.
Il contenuto specifico del documento è pertanto ben altro: la negazione che la Chiesa abbia i mezzi per poter portare su un evento un giudizio di probabilità o di certezza morale circa la sua origine soprannaturale; ma come dare credito alla Chiesa che annuncia il miracolo della guarigione dell'idropico da parte del Signore, o dello storpio da parte di Pietro e Giovanni, se quella stessa Chiesa oggi ci dice che in sostanza non è possibile dire alcunché circa la soprannaturalità di un evento? Perché il punto in questione non è ciò che è oggetto di fede e ciò che non lo è, ma la capacità di esprimersi sulla credibilità di un fatto. Al netto delle molteplici differenze a riguardo tra i teologi, la linea che il Dicastero sta portando avanti appare del tutto nuova nella storia della Chiesa: sacrificare la credibilitas, per salvaguardare la credentitas, ossia rinunciare a pronunciarsi sulla soprannaturalità di un fatto per custodire l'atto di fede. Il cruccio di Tucho, come afferma nella Presentazione delle Nuove Norme, è che l'approvazione di alcune rivelazioni conduca ad apprezzarle «più dello stesso Vangelo»; ergo, meglio non dare segni di approvazione, ma solo di concessione.
L'esperienza è però diversa e considera le ragioni di credibilità un ausilio all'atto di fede vero e proprio e non un ostacolo. Lo si osserva quotidianamente nelle nostre chiese e nella pratica del popolo di Dio: se certe apparizioni mariane, come Lourdes, Fatima, Guadalupe, non fossero state accolte dalla Chiesa, la vita cristiana del popolo e la frequenza dei sacramenti sarebbe persino peggiore di quanto già non sia. La forza dei segni di credibilità dei miracoli eucaristici o delle apparizioni, emersi proprio grazie alla prudente e talvolta diffidente indagine dei vescovi, ha sempre sostenuto la fede delle persone, specie nei momenti di oscurità. Altro che ostacolare la fede.
La sensazione è che Tucho sia del tutto condizionato da quella corrente che da svariati decenni ha polverizzato l'apologetica, creando non un salto ma un vuoto tra le esigenze della ragione e l'atto di fede, sostenendo una sostanziale impossibilità di riconoscere con certezza (morale) le tracce degli interventi di Dio nella storia degli uomini.

(Fonte: Luisella Scrosati, LNBQ, 23 maggio 2024) 
https://lanuovabq.it/it/le-nuove-norme-sulle-apparizioni-fanno-a-pezzi-lapologetica

ORGOGLIO E SENSUALITÀ, "FIDUCIA SUPPLICANS" RIBALTA L’ORDINE DIVINO


La dichiarazione del prefetto del Dicastero per la dottrina della fede Víctor Manuel Fernández, detto Tucho, reca in sé alcune caratteristiche del pensiero rivoluzionario. Corrêa de Oliveira le riassumerebbe in orgoglio e sensualità. Infatti, FS rifiuta l’ordine voluto da Dio e sottomette l’intelletto e la volontà alla sensualità.

Il documento "Fiducia supplicans", che legittima le benedizioni delle coppie irregolari e di quelle omosessuali, reca in sé alcune caratteristiche proprie del pensiero rivoluzionario, ossia di quel pensiero che muove guerra all’ordine costituito da Dio. Vediamo un paio di queste caratteristiche citando alcune pagine del volume Rivoluzione e Contro-Rivoluzione (1959) del pensatore Plinio Corrêa de Oliveira.
Quest’ultimo scrive: «Due nozioni concepite come valori metafisici esprimono adeguatamente lo spirito della Rivoluzione: uguaglianza assoluta, libertà completa. E due sono le passioni che più la servono: l’orgoglio e la sensualità» (p. 98). Partiamo dal binomio uguaglianza-orgoglio. Corrêa de Oliveira rileva che «la persona orgogliosa, soggetta all’autorità di un’altra, odia in primo luogo il giogo che in concreto pesa su di lei. In secondo luogo, l’orgoglioso odia genericamente tutte le autorità e tutti i gioghi, e più ancora lo stesso principio di autorità, considerato in astratto. […] E in tutto questo si manifesta un vero odio a Dio» (pp. 98-99).
Non è un mistero che questo pontificato da una parte rifiuta l’autorità della Chiesa intesa come realtà gerarchica – pensiamo alla figura evocata dal Papa della piramide rovesciata, alla Chiesa non docente ma in ascolto, al concetto distorto di sinodalità – ma dall’altra governa la Chiesa con autoritarismo. Il rifiuto dell’autorità della Chiesa inteso come rifiuto della gerarchia permette, apparentemente, di trasferire questa stessa autorità al popolo di Dio, anzi alla gente e dunque di rivestire di validità morale e teologica qualsiasi istanza provenga da essa, perché è il popolo ad insegnare la verità, non più la Chiesa. Abbiamo aggiunto l’avverbio “apparentemente” perché il rimando insistente al doveroso ascolto della base serve solo per promuovere un’agenda culturale di pochi da imporre ai “riottosi”. Ecco spiegato dunque l’inevitabile aspetto dell’autoritarismo nell’attuale governo della Chiesa, vero motore pastorale – motore comandato da un pastore unico – che gira a pieno regime dietro il paravento dell’uguaglianza, anzi dell’egualitarismo.
In questa agenda c’è sicuramente la voce “omosessualità”. Dato che forse il sinodo sulla Sinodalità è stato troppo timido su questa tematica, ecco che si agisce d’imperio e si pubblica FS. La benedizione dell’omosessualità esprime, tra le altre cose, il giudizio di rifiuto della condanna dell’omosessualità, il fastidio per questo giogo considerato ingiusto. Da qui la ribellione, il cui fulcro è l’orgoglio o, ancor meglio, la superbia, primo peccato, in senso temporale e di importanza, da cui scaturiscono gli altri. La ribellione in FS è evidente: rifiuto dell’autorità della Rivelazione che condanna l’omosessualità e dunque rifiuto dell’autorità della Chiesa quando insegna il contrario di ciò che esprime FS. L’umiltà avrebbe comandato obbedienza ad entrambe queste due fonti anche se tutto il mondo fosse insorto chiedendo di benedire l’omosessualità.
Viene da chiedersi perché alla fine benedire l’omosessualità, ossia perché considerare un bene questo orientamento e le relative condotte tanto da promuoverle anche in seno alla liturgia. E qui passiamo al secondo binomio indicato da Correa de Oliveira: libertà completa e sensualità. «L’intelligenza deve guidare la volontà, e questa deve dirigere la sensibilità […]. Il processo rivoluzionario […] una volta trasferito nelle potenze dell’anima, dovrà produrre la tirannia deplorevole di tutte le passioni sfrenate su una volontà debole e fallita e una intelligenza obnubilata. In modo particolare, il dominio di una sensualità ardente su tutti i sentimenti di modestia e pudore. Quando la Rivoluzione proclama la libertà assoluta come un principio metafisico, lo fa unicamente per giustificare il libero corso delle peggiori passioni e degli errori più funesti» (pp. 102-103).
Davvero il male è banale. Infatti il fulcro di FS è tutto qui: il dominio della sensualità su intelligenza e volontà. La passione contro natura per il fatto che esige di essere soddisfatta, di essere appagata viene letta dall’intelligenza come un bene verso cui la volontà deve tendere, pena vedersi tarpare le ali della libertà. La temperanza e/o l’orientamento delle passioni secondo le indicazioni della recta ratio vengono letti come attentati alla propria libertà personale. E dunque anche qui abbiamo un rovesciamento della piramide gerarchica voluta da Dio quando ha ordinato le potenze dell’anima: sono le passioni a dettare legge all’intelletto e alla volontà.
Ritorna poi l’autoritarismo che predica l’uguaglianza ma impone poi l’unicità di alcune idee: «Il liberalismo [ossia la libertà intesa in senso assoluto] dà poca importanza alla libertà per il bene. Gli interessa solo la libertà per il male. Quando è al potere, toglie facilmente e persino allegramente al bene la libertà, in tutta la misura possibile. Ma protegge, favorisce, sostiene, in molti modi, la libertà per il male. […] Mentre da un lato si proibiscono tirannicamente mille cose buone, o almeno innocue, dall’altro si favorisce il soddisfacimento metodico, e a volte con caratteri di austerità, delle peggiori e più violente passioni, come l’invidia, la pigrizia, la lussuria» (pp. 103-104). La libertà ricercata, infine, è solo quella che tende al male. La libertà propria di chi vive il bene viene vista come minaccia – anche solo perché ricorda fastidiosamente a tutti dove stia la verità – e deve essere soppressa.
Si potrebbe obiettare che FS non obbliga alla benedizione delle coppie irregolari e omosessuali. Le cose però non stanno così. Infatti il comunicato stampa del Dicastero per la Dottrina della Fede del 4 gennaio 2024, redatto per esplicitare la natura di questo documento e dunque valevole come interpretazione autentica, esplicitamente dichiara che, a fronte di alcune riserve, il documento dovrà prima o poi essere recepito dalle conferenze episcopali e quindi dai singoli sacerdoti. Il testo è chiaro: «La prudenza e l’attenzione al contesto ecclesiale e alla cultura locale potrebbero ammettere diverse modalità di applicazione, ma non una negazione totale o definitiva di questo cammino che viene proposto ai sacerdoti. […] Resta importante che queste Conferenze episcopali non sostengano una dottrina differente da quella della Dichiarazione approvata dal Papa, in quanto è la dottrina di sempre» (nn. 2-3. Notare che inevitabilmente un’indicazione pastorale come quella della benedizione delle coppie omosessuali non può che rimandare a monte ad una dottrina).
Ricapitolando, in principio ci sono le passioni che comandano su intelletto e volontà: assecondarle appare l’unica strada per essere libero. Le determinazioni assunte dalla ragione sono così in netto contrasto con il volere di Dio. Ecco allora che la superbia non piega le ginocchia davanti a Lui e non rispetta la sua autorità e quella del Magistero di sempre, ma esclama «Non serviam!». Considerando infine le passioni sregolate un bene, non si può poi che imporle a tutti. Questa è, nel fondo, parte della struttura ideologica su cui si regge FS.

(Fonte: Tommaso Scandroglio, LNBQ, 8 maggio 2024) 
https://lanuovabq.it/it/orgoglio-e-sensualita-fiducia-supplicans-ribalta-lordine-divino

 

LA VENDETTA DI FRANCESCO SU GÄNSWEIN È PIENA DI IMPRECISIONI


Nel suo libro Bergoglio torna sui rapporti col predecessore, contro il segretario di Ratzinger che aveva smentito la "leggenda" della sintonia tra i due Papi. Dice la sua anche sul conclave del 2005, ma i conti non tornano.

Mentre invoca la pace per il mondo, Francesco apre nuovi fronti di guerra nella Chiesa. Lo ha fatto con le dichiarazioni concesse al giornalista spagnolo Javier Martinez-Brocal nel libro-intervista “El sucesor”. Nelle anticipazioni uscite in queste ore, il Papa ha detto la sua sul rapporto con Benedetto XVI senza risparmiare critiche durissime a monsignor Georg Gänswein.
La colpa del fidatissimo segretario particolare di Ratzinger è di aver smentito una volta per tutte nel suo libro Nient'altro che la verità la narrazione di una coabitazione armoniosa tra il Pontefice regnante ed il suo predecessore ritiratosi al monastero Mater Ecclesiae. Commentando i contenuti del volume scritto a quattro mani da Gänswein con il giornalista Saverio Gaeta, Bergoglio da un lato ha ostentato superiorità dicendo che «naturalmente non mi colpisce, nel senso che non mi condiziona», dall'altro invece ha esternato tutta la sua rabbia perché quel libro lo avrebbe «messo sottosopra, raccontando cose che non sono vere».
Nient'altro che la verità ha svelato i retroscena del siluramento di Gänswein nel 2020 dall'ufficio di prefetto della Casa Pontificia presumibilmente per non aver impedito a Benedetto XVI di pubblicare un testo a difesa del sacerdozio all'interno dell'ormai famoso Dal profondo del nostro cuore (Cantagalli editore) scritto dal cardinale Robert Sarah poco dopo il Sinodo sull'Amazzonia. Gänswein ha raccontato che Bergoglio non ascoltò la richiesta del suo predecessore di reintegrarlo come prefetto della Casa Pontificia. I fatti confermano che Gänswein, dopo lo scoppio del caso Sarah, non tornò più al fianco del Papa regnante nelle udienze pubbliche pur mantenendo formalmente l'incarico.
Scagliandosi sempre contro l'arcivescovo tedesco, Francesco ha detto a Martinez-Brocal di aver «vissuto come una mancanza di nobiltà e di umanità» l'uscita delle anticipazioni di Nient'altro che la verità nel giorno del funerale.
Al di là della critica in sé, inutile nascondere la reazione sbigottita di fronte a queste parole da parte dei molti che non dimenticano l'atteggiamento tenuto da Bergoglio nei giorni dell'esposizione e delle esequie del suo predecessore. Francesco non si recò in Basilica di San Pietro a pregare davanti alla salma, ostinatamente confermò l'udienza generale del mercoledì in aula Paolo VI nonostante i consigli di cardinali e collaboratori che riuscirono a malapena a convincerlo a spostare il funerale di qualche giorno per consentire ai porporati di tutto il mondo di arrivare a Roma in tempo. Tutti ricordano, poi, l'omelia breve e spersonalizzata così come la frettolosità del Papa durante le esequie.
Al di là del giudizio sulle questioni dottrinali e pastorali dell'attuale pontificato, in quel frangente emerse quella componente caratteriale che spesso ha portato Francesco a prendere decisioni amaramente incomprensibili in questi undici anni. La cacciata di Gänswein dal Vaticano un mese dopo, senza alcun altro incarico, ha chiuso il quadro.
Da un po' di tempo, a spregio dell'evidenza e a tratti del ridicolo, c'è chi deve aver consigliato al Papa di presentare una narrazione ben diversa del suo rapporto con Ratzinger, distinguendo quest'ultimo dai "ratzingeriani" che lo avrebbero usato contro di lui. In questa cerchia è finito persino monsignor Gänswein, l'uomo al suo fianco fino alla fine e che ne è stato esecutore testamentario. Nel libro-intervista El sucesor, questa volontà di presentare un rapporto probabilmente diverso dalla realtà è forse all'origine delle non poche contraddizioni dell'intervistato. Francesco non ha esitato a rendere pubblico il suo racconto del conclave del 2005.
L'immagine di un Papa che si mette a rivelare dettagli degli ultimi due conclavi – peraltro uno dei suoi argomenti preferiti con giornalisti e biografi – in forza del suo essere legibus solutus è di per sé poco rassicurante. Peggio ancora se queste presunte rivelazioni cozzano con le informazioni esistenti e con dichiarazioni precedentemente rilasciate da lui stesso.

Bergoglio ha sostenuto di essere stato "usato" dai cardinali che dopo la morte di Giovanni Paolo II volevano bloccare l'elezione del favorito Ratzinger e di aver favorito quest'ultimo facendo un passo indietro dopo aver raccolto 40 preferenze. In base al dettagliato resoconto del conclave di 19 anni fa pubblicato su Limes dal vaticanista Lucio Brunelli – estimatore di Bergoglio e uno dei pochi a prevederne l'elezione nel 2013 – sappiamo che l'allora cardinale argentino raccolse effettivamente 40 voti alla terza votazione. Il Papa ha detto a Martinez-Brocal che «se avessero continuato a votarmi, [Ratzinger] non sarebbe riuscito a raggiungere i due terzi necessari per essere eletto papa». A quel punto, secondo la sua versione, l'argentino avrebbe detto al cardinale Darío Castrillón Hoyos: «Non scherzare con la mia candidatura, perché adesso dico che non accetterò, eh? Lasciami qui'. E lì Benedetto fu eletto». Quindi, secondo il Pontefice regnante, il suo passo indietro sarebbe stato decisivo per sbloccare l'impasse e portare all'elezione di Ratzinger.
Ma questa versione suscita più di un dubbio. Infatti, in base al diario del cardinale anonimo pubblicato da Brunelli, sembrerebbe che alla quarta votazione non si azzerarono i voti per Bergoglio, come un ritiro "annunciato" del candidato avrebbe lasciato immaginare, ma ci fu un suo calo a 26 preferenze, con le restanti andate al favorito tedesco divenuto in quel modo Papa. Che quella attorno a Bergoglio fosse una candidatura vera già nel 2005 e che la sua sconfitta non fu l'effetto di un ritiro volontario sembra testimoniarlo l'amaro commento del cardinale belga, suo sostenitore, Godfried Danneels al quotidiano fiammingo De Morgen al quale disse che il conclave aveva «dimostrato che non era ancora il momento per un papa latinoamericano». Inoltre, sembra davvero improbabile che il cardinale Castrillón Hoyos, uno dei membri più conservatori dell'intero collegio e poi braccio destro di Benedetto nel dialogo con la Fraternità San Pio X, potesse essere addirittura un alfiere della fronda anti-Ratzinger.
Un'altra imprecisione è quella affermata a proposito dei «due terzi dei voti necessari per essere eletto» che il tedesco non avrebbe raggiunto se Bergoglio non si fosse ritirato. In realtà, la costituzione apostolica Universi Dominici Gregis in vigore dal 1996 aveva mandato in pensione il quorum della maggioranza di due terzi (poi ripristinato da Benedetto nel 2007): quindi, se gli anti-Ratzinger avessero resistito, ai suoi sostenitori sarebbe bastato andare avanti fino al 34° scrutinio per averla vinta a maggioranza assoluta. Il Papa ha 87 anni e da quel conclave ne sono passati quasi venti, quindi la memoria potrebbe avergli fatto un brutto scherzo.
Un'altra anticipazione del libro El sucesor destinata a far discutere è quella relativa alla difesa che Benedetto XVI, ormai emerito, avrebbe fatto del suo successore con alcuni cardinali che si sarebbero lamentati con lui per le dichiarazioni bergogliane sulle unioni civili. Queste le parole del Papa: «Ho avuto un colloquio molto bello con lui quando alcuni cardinali sono andati a incontrarlo sorpresi dalle mie parole sul matrimonio, e lui è stato chiarissimo con loro, li ha aiutati a distinguere le cose (...) così mi ha difeso». Il riferimento è probabilmente alle polemiche scaturite da uno spezzone di intervista tramesso in un documentario del regista Evgeny Afineevsky in cui il Pontefice apriva ad una legge sulle unioni civili. Quello dell'anziano e ormai emerito Benedetto che dà ragione al suo successore con i cardinali che lo vanno a trovare per lamentarsi con lui sembra quasi un topos di cui Francesco si è già servito, ad esempio sul volo di ritorno dall'Armenia rispondendo ad una domanda della  giornalista Elisabetta Piqué. Il viaggio apostolico, però, risale al 2016 quindi 4 anni prima la bufera sulle parole nel documentario. Il Papa emerito ha cacciato più di una volta i cardinali "criticoni" dal Mater Ecclesiae per difendere il suo successore o quello di Francesco è piuttosto un espediente narrativo, un po' come quando ha raccontato più di una volta che il suo segretario avrebbe visto un cagnolino in un passeggino collocando di volta in volta la scena ad un fantomatico "l'altro giorno"? Come fa il Pontefice regnante a sapere del contenuto di queste presunte conversazioni di Benedetto XVI con alcuni cardinali? Tirando in ballo un colloquio "molto bello" avuto con lui a ridosso di questo presunto episodio sembrerebbe alludere al fatto che sia stato Benedetto XVI stesso a raccontarglielo.
Difficile immaginarlo visto che, per quanto ci risulta, Ratzinger nel suo periodo al monastero Mater Ecclesiae non ha smesso di incontrare e di ascoltare i porporati più a disagio nell'attuale pontificato. In ogni caso per ciò che attiene le leggi sulle unioni civili, più di un episodio riferito de relato più di un anno dopo la morte del diretto interessato, fa fede quanto Joseph Ratzinger scrisse nel 2003 in un documento ufficiale della Congregazione per la Dottrina della Fede – le Considerazioni circa i progetti di riconoscimento legale delle unioni tra persone omosessuali – dove si legge che «ci si deve astenere da qualsiasi tipo di cooperazione formale alla promulgazione o all’applicazione di leggi così gravemente ingiuste nonché, per quanto è possibile, dalla cooperazione materiale sul piano applicativo».

(Fonte: Nico Spuntoni, LNBQ, 3 aprile 2024) 
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