lunedì 16 ottobre 2023

Il cardinale Joseph Zen denuncia il regime sinodale


Sinodo significa "camminare insieme", ma a quanto pare solo in una direzione opportunamente prestabilita, anche grazie a procedure raffinate nel corso del pontificato. L'anziano porporato di Hong Kong invita a vigilare di fronte alle chiare derive in atto.

Nel pomeriggio di mercoledì, ACI Stampa ha lanciato la notizia della lettera che il cardinale Joseph Zen Ze-Kiun ha inviato ad una trentina di cardinali e vescovi, il 26 settembre scorso, riportandone alcuni stralci. Si tratta di un appello alla vigilanza ed anche all’opposizione di fronte alle chiare derive di questo Sinodo.

Nella lettera si trova una decisa denuncia dell’agenda che i quadri di questo Sinodo stanno portando avanti, nonostante le false rassicurazioni al riguardo, che, secondo il cardinale Zen, sono «veramente un’offesa alla nostra intelligenza». Ma il cardinale cinese non si sofferma tanto sulla disamina dei contenuti, quanto su quella procedura architettata ad hoc per permettere a questo sinodo di provocare una vera rivoluzione nella Chiesa. Zen, in altre parole, ha fiutato nelle procedure sinodali quella tipica copertura democratica che ogni regime oligarchico sa abilmente manovrare per esercitare la più spietata tirannia.

Dietro ai proclami dell’ascolto dello Spirito Santo, della valorizzazione del sensus fidelium, della partecipazione del popolo di Dio, della parresia e della trasparenza, si trova un vero e proprio «piano di manipolazione», che al cardinale Zen, che di regimi ne sa qualcosa, risulta evidente e che riassume in questo modo: «Cominciano col dire che bisogna ascoltare tutti. Adagio adagio fanno capire che tra questi “tutti” ci sono specialmente quelli da noi “esclusi”. Finalmente, si capisce che si tratta di gente che opta per una morale sessuale diversa da quella della tradizione cattolica». Quindi l’invito ad una inclusività a tutto tondo, senza giudicare nessuno, che è presentato come la divisa ufficiale del Sinodo in corso, è funzionale allo sdoganamento dei comportamenti delle persone “accolte”.

A spingere in questa direzione è il continuo richiamo, da parte degli organizzatori del Sinodo, alla “conversazione nello Spirito”. Questo Sinodo sarà caratterizzato appunto da interventi che dovranno essere in linea con la “conversazione spirituale”. Nella pletora di documenti, sussidi e parole che caratterizzano questo Sinodo (ma non bisognava tacere per ascoltare lo Spirito?), troviamo che la “conversazione spirituale” sembra una seduta psicoterapeutica, nella quale il contenuto delle parole ascoltate e pronunciate praticamente non ha alcun valore di per sé. Si raccomanda infatti di «ascoltare gli altri senza giudizio», prestando attenzione «non solo alle parole, ma anche al tono e ai sentimenti di chi sta parlando»; poi il suggerimento di «evitare la tentazione di usare il tempo per preparare ciò che si dirà invece di ascoltare» e la raccomandazione di controllare «le possibili tendenze ad essere egocentrico» quando si parla. Si tratta in sostanza di una castrazione preventiva di qualsiasi intervento che si volesse situare nella linea della difesa della dottrina della Chiesa e persino della semplice discussione. Questa fissazione sulla modalità della conversazione piuttosto che sui contenuti indica già abbastanza chiaramente che questi ultimi sono già stati decisi in altre stanze.

Giustamente, il cardinale Zen manifesta più che un sospetto di fronte alla regola sinodale del «conversare, ma non discutere»: «Ma allora il consenso e l’unanimità avvengono miracolosamente? (…) Evitare discussioni è evitare la verità». E, con singolare perspicacia, consiglia ai confratelli: «Non dovete obbedire a loro quando dicono di andare a pregare, interrompendo i lavori. Rispondete che è ridicolo pensare che lo Spirito Santo stia aspettando le vostre preghiere dell’ultimo momento».

Altre anomalie procedurali fanno nascere più di un sospetto, come l’inversione dell'abituale procedura dei sinodi, che faceva precedere il dibattito nell’Assemblea generale al lavoro nei più ristretti gruppi linguistici. Ed ancor più la decisione del Papa di aggiungere 70 membri non vescovi, inclusi i laici, con diritto di voto «senza nessuna consultazione, nella immediata vicinanza del Sinodo». «Se io fossi uno dei membri incalza Zen , farei una forte protesta, perché questo cambia sostanzialmente il Sinodo dei vescovi». È quanto ha messo in luce padre Gerald Murray al Convegno del 3 ottobre scorso (vedi qui). Zen fa notare che, sotto questo punto di vista, il Sinodo in corso è decisamente più radicale di quello tedesco, perché in quest’ultimo almeno «i voti dei Vescovi e quelli dei laici» sono stati «separatamente contati».

Un altro cambiamento a gara iniziata è stata l’aggiunta della sessione sinodale del 2024: «Il mio malizioso sospetto spiega il Cardinale è che gli organizzatori, non sicuri di raggiungere in questa sessione ciò a cui mirano, sperano di aver tempo di preparare altre manovre».

In effetti, è più che una sensazione che nei sinodi celebrati sotto questo pontificato ci sia stato un progressivo aggiustamento di procedure mirate a ridurre al minimo fattori disturbanti. Il Sinodo sulla Famiglia aveva messo sufficientemente in luce che la normale procedura presentava troppi rischi: c’erano ancora abbastanza vescovi che avevano coraggio e preparazione sufficienti per mettere i bastoni tra le ruote e rallentare l’onda della rivoluzione, esercitando anche una non trascurabile influenza verso molti confratelli. Non si deve dimenticare che il Papa dovette decidere il colpo di mano di reinserire nella Relatio Synodi finale anche quei tre paragrafi che non avevano raggiunto i due terzi dei voti favorevoli, e che dunque non avrebbero dovuto comparire nel documento finale.

Era già chiaro allora che Francesco non aveva alcuna remora a cambiare in corsa regole e procedure pro domo sua. Quest’ultimo sinodo è stato, da questo punto di vista, il capolavoro di un tale atteggiamento e il cardinale Zen lo mette lucidamente in evidenza. L’apparente procedimento più democratico è il paravento e lo strumento di cui si serve una ben precisa oligarchia per raggiungere i propri scopi, mentre tutti salutano meravigliati la nuova grande chiesa democratica. Zen acutamente domanda: «ma sono sicuri che questi laici invitati siano fideles? che almeno vadano in chiesa? Si noti che questi laici non sono stati eletti dal popolo cristiano praticante».

Quando apparve il Documento di lavoro, avevamo già fatto notare come le sintesi riportate dimostravano, nel loro frasario ideologico e del tutto estraneo al linguaggio della fede dei semplici, che ad essere rappresentato non era affatto il popolo dei fedeli, ma quella porzione opportunamente ideologizzata, con un duplice processo di falsificazione, che andava dagli oligarchi ai fedeli “scelti” e poi da quest’ultimi nuovamente all’oligarchia. Al sensus fidei si è così sovrapposta una «consultatio fidelium, ideologicamente condotta e riportata». Il Papa ha oltretutto sfruttato la sua facoltà di scegliere personalmente una porzione di membri del Sinodo per includere quegli “esclusi” che nessuno aveva voluto, come Mons. Paglia e il cardinale McElroy, accomunati dalla promozione dell’agenda rivoluzionaria.

È la normale tecnica di regime: si è democratici, fino a quando il demos, opportunamente catechizzato, va nella linea imposta; quando questo non avviene, l’oligarchia sceglie altre strade. In ogni caso, è sempre l’oligarchia che comanda.


(Fonte: Luisella Scrosati, LNBQ, 6 ottobre 2023)
Il cardinale Joseph Zen denuncia il regime sinodale - La Nuova Bussola Quotidiana (lanuovabq.it)



martedì 15 agosto 2023

Murgia santa subito? Non è proprio il caso


Pur con tutto il rispetto dovuto per la morte, l'esaltazione di Michela Murgia appare fuori luogo. Definita scrittrice "controcorrente", in realtà è stata sempre dalla parte del potere, quello vero. E per paradosso anche la Chiesa istituzionale la celebra come "grande cattolica".

Michela Murgia «ricorda Sant’Agostino: l‘esperienza personale diventa simbolo universale» declama, spericolatamente, Dacia Maraini su Huffington Post. Una fra le tante uscite ispirate dalla morte della scrittrice. La celebrazione pressoché unanime della Murgia da parte del mondo della cultura, della politica e dello spettacolo, ci fa comprendere che era investita di un ruolo importante nel comunicare la mentalità contemporanea di cui i principali media si fanno megafono.

Di fronte alla morte di una persona ancora giovane – spirata il 10 agosto, a 51 anni, pochi mesi dopo aver annunciato un tumore –, che ha mostrato coraggio e dignità di fronte alla propria morte, è difficile scrivere, soprattutto quando si va in direzione contraria al coro di lodi unanimi. Si teme di apparire inopportuni, stonati. Tuttavia, la Murgia era un personaggio pubblico e se viene celebrata come una grande intellettuale, addirittura «indispensabile», una «lottatrice» per i diritti degli ultimi, «attivista», «teologa», «filosofa», «innovatrice», «grande scrittrice» o «grande cattolica» allora è giusto esprimersi e ricordare gli elementi della sua vicenda che risultano critici a chi abbia una visione differente da quella propagandata dalla scrittrice sarda.

Su Repubblica Giulia Santerini definisce la Murgia una scrittrice «cattolica». Se si può scrivere tanto è perché l’identità cattolica è in crisi, attaccata anche dall’interno della Chiesa. Nessuno può dare patenti di cattolicità perché è la dottrina che definisce e lei non può essere definita, per le dottrine che propagandava, cattolica, se ha ancora un senso la parola. Il Sole 24 Ore la ricorda come scrittrice «antagonista contro il patriarcato», dimenticando che non siamo negli anni Sessanta e il patriarcato è smantellato da tempo e la Murgia ne combatteva il fantasma eliminando le vocali finali delle parole.

Diceva di essere scomoda ma l’11 agosto Rai 3 ha presentato in prima serata una programmazione a lei dedicata, un onore mai concesso agli scrittori scomodi. I palinsesti di ogni media si sono riempiti di sue riapparizioni, celebrazioni, letture, lodi senza contraddittorio. Persino Giorgia Meloni, con tutto il governo schierato, ha fatto il suo dovere istituzionale delle condoglianze che si presentano alle grandi personalità.

Michela Murgia, in fondo, aveva scelto di stare dalla parte del potere anche se lo negava con sdegno; quel potere che, attraverso le lotte che lei appoggiava, sta rimodellando le nostre vite abolendo confini fra sessi, nazioni, proprietà. Quel potere che, attraverso istituzioni comunitarie, favorisce il traffico di uomini attraverso le Ong e i loro complici scafisti. Quel potere che favorisce la denatalità a favore di una fertilità tecnica e mercenaria, l’aborto sempre più facile, l’omogenitorialità, l’eutanasia, la maternità surrogata, tutti punti difesi tenacemente dalla donna che puntellava queste scelte con la volontà o espediente di essere vicina a “Dio Madre”.

La scrittrice sarda esprimeva un pensiero fazioso e violento, irridente e blasfemo, persino feroce. Però era chiara: definiva amici e nemici con chiarezza. Dunque, riabilitarla, portarla dalla propria parte anche da quella “destra” – vera o sedicente – che lei individuava nei cattolici lontani dalle innovazioni creative degli ultimi anni o in mentalità politiche da lei vituperate, o lontane dalla sinistra neoliberista prodotto del marxismo culturale, non ne rispetta la volontà. Le va dato atto di non essere stata ipocrita: ha sempre attaccato, morto o vivo che fosse, chiunque andasse contro le sue idee. Non avrebbe gradito riabilitazioni da chi disprezzava.

Sino alla fine ha “combattuto” con segni e rituali forti, come il matrimonio “queer” della famiglia allargata. Ma se i segni hanno un valore, allora il fatto che il suo vestito da cerimonia sia stato impreziosito dalla scritta ricamata God Save the Queer della stilista di Dior, Maria Grazia Chiuri, avrà un significato. Il marchio del lusso Dior, come tutti i marchi importanti, appoggia le idee che sono maggioritarie come la grande finanza, le multinazionali dei media, le grandi istituzioni appoggiano le medesime lotte care alla Murgia. Quello del 15 luglio fu «matrimonio» fatto «pur non credendo nel matrimonio», aveva chiarito. Le teorie radical-femministe, “intersezionali”, della Murgia sono una vecchia conoscenza della cultura europea che demolisce il bello e il passato; ma lei era riuscita, partecipando a trasmissioni televisive e usando il suo talento comunicativo, a farle tornare novità. Il suo odio per un fascismo più immaginario che reale e contro una Chiesa “vecchia” era implacabile.

La teologa Marinella Perroni sull’Osservatore Romano ne loda l’amicizia e l’umanità: «Non avrebbe certo potuto scrivere in God Save the Queer le pagine davvero magiche di teologia trinitaria, se non avesse fatto questa esperienza di Dio e degli umani». Su Avvenire – che ha dedicato molti articoli alla Murgia in poche ore – Roberto Carnero insiste soprattutto sull’«inclusività» della sua teologia delle «periferie», perché il cattolicesimo è religione dell’«et-et», non dell’«aut-aut». Vero, ma ci sono dei limiti: in un’intervista su Repubblica definiva la Trinità «due uomini e un uccello», «patriarcato tossico» e meglio sarebbe una Trinità di «tre donne». Sono concetti «illuminanti» di teologia trinitaria? È l’applicazione dell’et-et? Lo lasciamo giudicare al lettore.

Quanto al catechismo femminista della Murgia, ne scriveva già 100 anni fa l’occultista Valentine de Saint Point e in termini molto simili parlando già di un Dio-Madre, con tutto quanto conseguiva.

La scrittrice sarda verrà ricordata soprattutto per i suoi pamphlet polemici Stai zitta, Morgana Ave Mary, testi brevi, rapsodici, taglienti che ritagliava fra le sue collaborazioni giornalistiche, le rubriche sulle riviste femminili. Come diventare fascisti polemizzava contro un fascismo parodistico, felliniano. Della sua opera letteraria si può ricordare Accabadora (2009) che ha grazia di scrittura, il romanzo breve L’incontro (2014) e Tre ciotole (2023), racconti ispirati alla malattia. Probabilmente, Michela Murgia più che scrittrice era donna di spettacolo, attivista moderna, spesso in televisione, spessissimo alla radio e nei teatri.

 

(Fonte: Mario Iannacone, LNBQ, 14 agosto 2023)
https://lanuovabq.it/it/murgia-santa-subito-non-e-proprio-il-caso

 

 

IL CASO AVVENIRE: Con la Chiesa o con gli usurpatori: ognuno decida


L'aperta legittimazione dell'omosessualità da parte del quotidiano dei vescovi italiani, che nega così un Magistero consolidato, deve far prendere coscienza della vera sfida che riguarda tutti i fedeli e, in primis, ogni singolo vescovo.

Che Avvenire sia da tempo impegnato nella promozione dell’agenda Lgbt nella Chiesa non è certo una novità e noi lo abbiamo più volte denunciato. Ma forse non si era mai arrivati a una tale chiarezza sulla legittimazione dell’omosessualità e transessualità come varianti naturali della sessualità. In pratica a una piena accettazione dell’ideologia gender. La risposta data da Luciano Moia a una lettrice sull’edizione del 10 agosto è eloquente. Lo spiega bene Tommaso Scandroglio nell’articolo di primo piano, in cui documenta anche le falsità dottrinali e magisteriali di cui fa sfoggio Moia per poter sostenere la sua tesi.

Non ci ripeteremo qui, piuttosto vorremmo allargare il discorso cogliendo le implicazioni e le conseguenze di tale situazione. Ora, è vero che quanto pubblicato da Avvenire – pur se in forma autorevole, come è l’articolo di Moia – non può essere attribuito automaticamente alla Conferenza Episcopale Italiana (CEI), proprietaria del quotidiano. E però non si può essere così ingenui da pensare che certi articoli e soprattutto la linea tenuta su un argomento così delicato non sia ispirata dall’alto o goda comunque dell’approvazione dei vertici della CEI. Come detto, infatti, non si tratta di un episodio isolato ma di una campagna vera e propria che dura da anni e punta a convertire tutta la Chiesa italiana al verbo omosessualista, compresa una pressione piuttosto esplicita su movimenti e diocesi perché si occupino di pastorale Lgbt. Né possiamo far finta che questa non sia la strada imboccata anche da Roma: certe manifestazioni alla recente GMG di Lisbona e la preparazione del Sinodo di ottobre sono decisamente eloquenti.

Semplicemente ad Avvenire si fa dire quello che i vescovi non possono (ancora) dire apertamente, anche se già agiscono così: vedi il caso della benedizione della coppia gay a Bologna, diocesi retta dal presidente della CEI, cardinale Matteo Zuppi (vedi qui e qui).

E a questo proposito è chiaro che – se non ci saranno interventi “correttivi” – la strada imboccata è proprio quella della piena legittimazione delle unioni gay. Se infatti «esistono diversi approcci alla sessualità» e non ci sono «gerarchie di rispetto e di dignità», non solo non c’è alcun motivo per impedire le benedizioni delle coppie gay, ma non si potrà neanche discriminare in fatto di matrimonio. È una questione di pura logica. Tutti i distinguo clericali, i giri di parole, il permettere delle cose facendo finta di non saperne nulla, sono soltanto tattiche per abituare il popolo di Dio alle nuove idee.

Quindi torniamo al punto: alla presidenza e segreteria della CEI sono tutti d’accordo sulla promozione dell’ideologia gender e della legittimazione dell’omosessualità e di tutte le altre varianti possibili (la “beatificazione” in corso di Michela Murgia ha anche digerito il “matrimonio queer”)? E, uscendo dal Palazzo, in Italia tutti i vescovi concordano con i concetti espressi da Avvenire o li trovano “normali”? Non pretendiamo grosse manifestazioni pubbliche di dissenso – non sia mai – ma ci sono comunque molti modi “istituzionali” per manifestare preoccupazione o porre domande adeguate alla gravità della situazione.

Perché non ci si può prendere in giro: o sbaglia la Parola di Dio e il modo con cui la Chiesa l’ha sempre interpretata, oppure sbaglia – e di grosso – Avvenire con tutti i vescovi che spingono in quella direzione. Non è un caso che Moia, a sostegno delle sue tesi, non possa citare nulla della Tradizione della Chiesa e deve addirittura forzare anche Amoris Laetitia: siamo al cospetto di una “nuova Chiesa” che sta prendendo il possesso della Chiesa di Cristo. Come del resto aveva “visto” Paolo VI, in quella riflessione raccolta dal filosofo francese Jean Guitton l’8 settembre 1977: «Ciò che mi colpisce, quando considero il mondo cattolico, è che all’interno del cattolicesimo sembra talvolta predominare un pensiero di tipo non cattolico, e può avvenire che questo pensiero non cattolico all’interno del cattolicesimo diventi domani il più forte. Ma esso non rappresenterà mai il pensiero della Chiesa».

Ecco, in questi frangenti crediamo sia doveroso da parte di tutti - vescovi, preti, laici – decidere se seguire e difendere apertamente «il pensiero della Chiesa» o lavorare per i suoi nemici usurpatori. Può essere che il «pensiero non cattolico» si presenti come vincitore assoluto, appaia inutile opporvisi e sia quindi più conveniente adeguarsi, ma non dimentichiamo mai che la Chiesa è di Dio ed è al Signore che alla fine dovremo rispondere.

 

(Fonte: Riccardo Cascioli, LNBQ, 14 agosto 2023)
https://lanuovabq.it/it/con-la-chiesa-o-con-gli-usurpatori-ognuno-decida?fbclid=IwAR3x89Up9Rtld_r95hvslKr4Mp3maUphX2tFSZs19GJgrjvBCfSOsCDyndM

 

  

“Veritatis splendor”: i 30 anni di un'enciclica dimenticata


I media vaticani hanno ignorato i 30 anni di "Veritatis Splendor", l'enciclica di San Giovanni Paolo II che denunciava i travisamenti della morale cattolica su questioni fondamentali. Ora quei travisamenti sono diventati la regola nella Chiesa per cui commemorare l’enciclica diventa compromettente.

Il 6 agosto di 30 anni fa Giovanni Paolo II pubblicava l’enciclica Veritatis splendor “su alcune questioni fondamentali dell’insegnamento morale della Chiesa”. L’Osservatore Romano non ha ricordato l’anniversario. Vatican News non he ha parlato. Avvenire nemmeno. È vero che di solito si ricordano i 25 e i 50 anni di avvenimenti di questo tipo, come avviene con i matrimoni, come è vero che la GMG ha monopolizzato la comunicazione ecclesiale in questi giorni, ma una così generale dimenticanza lascia attoniti. Questo atteggiamento esprime bene il disprezzo che la Chiesa ufficiale dedica all’enciclica sulla morale di un grande Pontefice.

La Veritatis splendor non contiene tutta la dottrina morale cattolica, suo scopo era denunciare e correggere alcuni travisamenti della morale cattolica su questioni fondamentali. Ora quei travisamenti sono diventati la regola nella Chiesa per cui commemorare l’enciclica diventa compromettente. Meglio non parlarne, abbandonarla nel gorgo dell’oblio, come se non fosse mai stata scritta. Come sarebbe possibile, senza arrossire, ricordare in questi giorni quell’enciclica senza notare che essa fa a pugni con Amoris laetitia e in generale con lo status della teologia morale sotto Francesco? Come sarebbe possibile spacciare per continuità una differenza così evidente e sostanziale? Infatti, per trovare delle commemorazioni di questo trentennale bisogna rifarsi a centri di pensiero più o meno critici verso l’abbandono di quella prospettiva di teologia morale, come per esempio Catholic Thing oppure Crisis Magazine.

La condanna della Veritatis splendor e la damnatio memoriae ordinata a suo riguardo non avvengono in modo espresso, ma nel grigio dell’ombra. Nell’attuale pontificato non c’è stato alcun documento di revisione di quanto insegnato da Giovanni Paolo II. In altre parole: perché la Veritatis splendor debba esse lasciata alla deriva non è mai stato spiegato. Cosa ci fosse di sbagliato o di inadeguato in essa non è mai stato detto. Si è solo deciso di andare oltre, di voltare pagina. Tanto il tempo passa, la gente si dimentica, e coloro che continueranno a tenerla presente e a far notare le contraddizioni con i nuovi insegnamenti prima o dopo si stancheranno e tutto finirà così nel nulla.

Ma la Chiesa che volta pagina è come un esercito che lascia i propri soldati in territorio nemico, abbandonandoli. La Veritatis splendor, e lo stesso si può dire per la Humanae vitae, non sono solo dei testi da mettere in archivio: su di essi molti cristiani hanno costruito la battaglia della loro vita. Dimenticare quei documenti senza dire perché significa abbandonare quei compagni di viaggio a se stessi.

Di questo voltare pagina in silenzio, di questo fingere che il convitato di pietra non esista, di questo procedere come se tutto fosse iniziato dopo la Veritatis splendor due aspetti colpiscono in modo particolare. Uno riguarda il metodo e l’altro il contenuto.

L’imposizione dall’alto del nuovo corso della teologia morale cattolica antitetico alla Veritatis splendor è avvenuto non solo senza spiegare i perché, ma anche tramite colpi di mano e manovre politiche, tramite sotterfugi e sgambetti, ossia in modo poco decoroso. La vicenda dell’Istituto Giovanni Paolo II testimonia il disprezzo per le persone, le macchinazioni politiche, una nuova collocazione giuridica inventata ad hoc e funzionale alla trasformazione sostanziale delle finalità dell’Istituto. Potevano essere scelti modi meno lesivi della memoria di Giovanni Paolo II e meno irriguardosi per quanti si erano validamente impegnati in quella istituzione.

Le nomine di discussi membri delle Pontificie accademie, le dichiarazioni provocanti su temi di etica teologica del Presidente della Pontificia accademia per la vita, gli slogan creativi detti da Francesco in svariate interviste, la promozione nella Chiesa di personaggi schierati sulle nuove prospettive di etica cattolica, la provocazione e la gestione di processi rivoluzionari come nei sinodi sulla famiglia, le note a piè pagina di Amoris laetitia … in queste modalità poco ortodosse e poco rispettose è stata scavata la tomba della Veritatis splendor.

Per quanto riguarda l’aspetto contenutistico, bisogna notare che la damnatio memoriae è stata totale, nessun suo aspetto si è salvato, nessuna pietà per i vinti. Non si è salvato l’impianto di teologia fondamentale di riferimento dell’enciclica, la visione antropologica che vi sottendeva, i problemi di conoscenza della norma naturale e rivelata, i rapporti tra le due, il rapporto tra la norma e la coscienza, l’esistenza di azioni sempre erronee e da non compiersi mai e in nessuna occasione, la valutazione del ruolo delle circostanze, l’aspetto oggettivo e pubblico del peccato, la visione stessa del peccato ora visto come inadeguatezza rispetto ad un ideale, la possibilità di riconoscere giuridicamente le azioni contro la legge naturale e la stessa concezione della legge morale naturale.

Niente si è salvato della Veritatis splendor. 
L’enciclica non esiste. Perché commemorarla?

 

(Fonte: Stefano Fontana, LNBQ, 8 agosto 2023) 
https://lanuovabq.it/it/veritatis-splendor-i-30-anni-di-unenciclica-dimenticata

 

 

giovedì 1 giugno 2023

AVVENIRE PUBBLICIZZA IL 5 PER MILLE A FAVORE DELL'ARCI


Viene da chiedersi se la CEI sa che l'Arci promuove il gender, l'aborto, l'eutanasia, l'afflusso dei clandestini, la droga libera, i gay pride, i rave party, ecc. ecc.

Di nuovo. È successo di nuovo. Non a caso, non per una svista, né per un errore. Bensì deliberatamente, consapevolmente, pervicacemente. Il quotidiano della Cei, Avvenire, che ama definirsi genericamente «di ispirazione cattolica», quasi la sua non fosse sequela, apostolato, testimonianza, missione, bensì un tenue sentimento, un timido stato d'animo, un'intuizione senza impegno, dallo scorso 3 maggio ha ripreso a pubblicare in prima pagina, come manchette, accanto alla testata, a destra ed a sinistra, quindi con la massima evidenza possibile, la pubblicità del 5 per mille a favore dell'Arci.

Era già capitato l'anno scorso e già qui, con un articolo, evidenziammo l'anomalia: con tutte le associazioni e le realtà cattoliche benemerite, cui invitare i lettori a destinare il 5 per mille, sponsorizzare proprio l'Arci ha dell'incredibile. E proprio in quell'articolo ne sintetizzammo i motivi, ripercorrendo la storia di quest'organizzazione impregnata ancora oggi di Sinistra col pugno chiuso, di immigrazionismo spinto, di ideologia Lgbtqa+, di genderismo fatto di schwa e asterischi per Statuto e poi ancora di aborto, di suicidio assistito, di eutanasia, stracciando così pagine e pagine di Catechismo della Chiesa cattolica, infischiandosene della sua Dottrina con una foga che non fa certo rima con “accoglienza” dei valori altrui, con “ascolto” di chi solo la pensi diversamente, con un autentico “rispetto” di tutte le posizioni.
L'Arci ne ha per tutti coloro che non cantino col (suo) coro: sul suo sito, bolla senza mezzi termini e senza appello il governo Meloni d'esser «a trazione post-fascista», «pericoloso per la nostra Costituzione e per la nostra democrazia», si scaglia contro il decreto «anti-rave», monopolizza il 25 aprile, promuove la «Giornata internazionale della visibilità transgender» con tanto di «Carriera Alias» nelle scuole e via elencando.

L'ARCIGAY
Del passato l'Arci non rinnega nulla, anzi: anche nell'ultima redazione dello Statuto, approvata al XVIII Congresso nazionale del dicembre 2022, ribadisce di rappresentare «la continuità storica e politica» dell'«Associazione Ricreativa Culturale Italiana delle origini, fondata a Firenze il 26 maggio 1957», quella che affondava le proprie radici nel Pci, nel Psi e nella Cgil, come evidenziato da Vincenzo Santangelo, ricercatore presso l'Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea, nel suo libro Le Muse del popolo.
Nell'alveo dell'Arci sorse il 9 dicembre 1980 l'Arcigay, voluto da un sacerdote omosessuale, un teologo della liberazione sospeso a divinis, don Marco Bisceglia (riammesso nella Chiesa solo poco prima di morire, malato di Aids, dopo la supplica da lui inviata alla Congregazione per la Dottrina della Fede, supplica in cui si pentì di quelli che chiamò «i miei errori e traviamenti»). Con lui collaborò a quest'avventura anche un allora giovane obiettore di coscienza in servizio civile, Nicola Vendola detto Nichi, che poi divenne suo convivente. Con la sua adesione al World Social Forum, l'Arci ha fatto sue le bandiere dell'antagonismo e della «globalizzazione alternativa» terzomondista, ribadendo la propria natura «antiliberista» ed «antimperialista».
Insomma, ce n'è abbastanza per indurre chi si dichiari cattolico a prender le distanze da posizioni tanto estremizzate e tanto lontane dal proprio credo. Anche quando si tratti di contratti pubblicitari, specie quando i messaggi contrastino con i propri ideali (ammesso che contrastino davvero). Perché a Vespasiano, che sentenzia «pecunia non olet» («il denaro non puzza»), risponde Orazio, che argomenta «Est modus in rebus» («v'è una misura nelle cose») ed aggiunge: «Sunt certi denique fines, Quos ultra citraque nequit consistere rectum» («Vi sono determinati confini, al di là e al di qua dei quali non può esservi ciò ch'è giusto»). Allora, perché insistere, un anno dopo, riproponendo la medesima pubblicità a scapito delle realtà cattoliche, che più e meglio l'avrebbero meritata? Allora è un vizio, verrebbe da commentare...Esattamente. Come conferma il Catechismo.

“AVERSIO A DEO, CONVERSIO AD CREATURAS”
Secondo San Tommaso d'Aquino, infatti, il peccato è «aversio a Deo» ovvero allontanamento cosciente e volontario da Dio, da Colui che infonde l'essere e la vita, aderendo viceversa alle creature, al mondo («conversio ad creaturas»). Coincide con quanto recepito nel Catechismo della Chiesa cattolica, che, al n. 1849, definisce il «peccato» come «una mancanza contro la ragione, la verità, la retta coscienza; è una trasgressione in ordine all'amore vero, verso Dio e verso il prossimo». Richiamando Sant'Agostino - e lo stesso San Tommaso, non a caso citato - bolla il peccato come «una parola, un atto o un desiderio contrari alla Legge eterna».
Ora, promuovere pubblicamente chi sostenga aborto, eutanasia e tutto quanto sopra richiamato allontana indubbiamente da Dio sé stessi ed, ahimè, anche il prossimo, essendo manifestamente contrario alla Legge eterna.
Il peccato inizia come seduzione e, specie quando ripetuto, diviene schiavitù. Come scrive ancora il Catechismo al n. 1876, «la ripetizione dei peccati, anche veniali, genera i vizi». Ed ecco, dunque, per quale motivo non appaia né sbagliato, né esagerato ritenere un «vizio» la promozione di ideologie contrarie alla fede, alimentando la confusione tra credenti e non. Nelle sue parole di commiato, Marco Tarquinio, che ha recentemente lasciato la direzione di Avvenire al collega Marco Girardo, ha scritto d'aver voluto «offrire a tutti un'informazione sempre limpida e libera, ancorata ai grandi valori cristiani e civili del nostro umanesimo». Certamente la scelta degli inserzionisti non è stata oculata, né coerente: lascia anzi una brutta eredità ed una pesante ipoteca sulla linea editoriale del giornale della Cei, linea che sarebbe bene a questo punto chiarire: infatti, «nessun servo può servire a due padroni: o odierà l'uno e amerà l'altro oppure si affezionerà all'uno e disprezzerà l'altro. Non potete servire a Dio e a mammona» (Lc 16, 13).

 

Fonte: Mauro Faverzani, Radio Roma Libera, 8 maggio 2023 
Pubblicato su BastaBugie n. 821

 

 

martedì 30 maggio 2023

IL PROBLEMA DELLA CHIESA? LA LEADERSHIP DEI VECCHI DELUSI

 


Mentre Francesco si reca nei salotti della televisione italiana, all’interno della Chiesa vi sono diversi problemi, i quali sembrano non importare al Papa dell’innovazione.

In questi anni abbiamo sentito numerose persone che hanno lanciato l’allarme: “Non ci sono più vocazioni. I giovani non vogliono seguire Cristo”. Ma è davvero così? Se tentiamo di abbandonare il mantra tipicamente italiano che è volto a demonizzare i giovani, ci renderemmo conto che il problema non è questo. Sì, il risultato è che nei seminari e nei monasteri non ci sono più giovani, ma il motivo non è perché questi non vogliono seguire Cristo.

La Chiesa ha una crisi d’identità 
La società è certamente cambiata e il mondo offre molte possibilità ai giovani ma il Signore non ha mai fatto mancare “operai nella Sua messe”. Anzi, se oggi un giovane sceglie di abbandonare tutto ciò che gli viene proposto e bussare alla porta di un monastero o un seminario, questo dovrebbe far comprendere come questa scelta è ancor più encomiabile. L’errore che la Chiesa compie, da cinquant’anni a questa parte, è quello di guardare con sospetto a chiunque bussa alla propria porta. Il problema è essa stessa che si è convinta di “non essere abbastanza” e, di conseguenza, diviene sempre meno attraente. L’atteggiamento è lo stesso che assumono quelle persone, ferite dalla vita, che non si sentono “degne di essere amate”. “Perchè viene in seminario?”, “Perchè non va altrove?”, “Cosa cerca qui?”, sono le tante domande che abitano la testa di molti preti e di molte suore sessantottini.

Oggi, soprattutto nei luoghi di potere, vi sono dei soggetti che sono vecchi, stantii, piagnucolanti. Queste persone sono convinte di avere un tesoretto da custodire. Pensiamo alla parabola che Gesù racconta in merito ai talenti (Mt 25,14-30). Il comportamento di queste persone è simile a quello del servo che ricevette un solo denaro. Ricevo un monastero con 10 monaci? Lo riconsegno con dieci monaci, se va bene. Ho un seminario con 4 seminaristi? Ne porto all’ordinazione due e gli altri li mando a casa. Poi?

Non c’è lungimiranza, non c’è quel senso di appartenenza, non c’è l’amore del padre di famiglia che lavora per consegnare qualcosa ai suoi figli. Si tratta di uomini e donne che sono entrati in seminario, in convento, durante gli anni fruttuosissimi del Concilio ed hanno ricevuto realtà floride. Quello che hanno ricevuto non sono stati capaci di curarlo, implementarlo. Tutto gli era dovuto, tutto gli è dovuto, ma loro nulla debbono alla Chiesa di Dio. Sono le stesse persone, ormai ridicole, che rilasciano interviste, appaiono in televisione e infangano ogni giorno la Chiesa sostenendo che è una realtà abusante, che tutto è perduto e quant’altro.

 Le vocazioni: un problema non una ricchezza 
 Nella maggior parte di questi casi, ci si imbatte in vescovi, rettori dei seminari o abati che guardano alle vocazioni con sospetto. La porta della Chiesa è aperta a tutti, proprio a tutti, ma per il tempo necessario per poter ballare e cantare insieme. Poi? Poi ognuno a casa propria. Oggi, le vocazioni sono un problema per le comunità. Pensiamo, ad esempio, a quelle comunità piene di uomini “maturi” che ormai non hanno più voglia di far nulla. Durante la ricreazione scappano in camera, per la liturgia delle ore hanno molti impegni pastorali, il capitolo diviene un adempimento burocratico da risolvere in 5 minuti. Ecco, pensiamo ad una realtà del genere. Se un giovane bussasse a quel monastero, sarebbe il panico. Significherebbe dover trovare qualcuno capace di fare il “maestro dei novizi”; significherebbe ristabilire una regola di vita, ormai perduta; significherebbe stravolgere la propria comoda e insignificante vita. In sostanza, oggi, molte comunità hanno paura dei giovani. Ecco, quindi, che il racconto prende un’altra piega. Non è il Signore che non manda vocazioni, siamo noi a non accettarle perché sono uno specchio nel quale non vogliamo guardare.

Il giovane che viene definito “rigido”, infatti, è semplicemente colui che, giungendo alle porte di un seminario, cerca una realtà strutturata. Se arriva e trova persone che cantano, ballano, escono a bere lo spritz e gli unici momenti che passano insieme sono il pranzo e la cena, è chiaro che sbatterà la porta e se ne andrà. La risposta di molti formatori, oggi, però, è quella di demonizzare il giovane e non fare un esame di coscienza. Lo stesso Papa continua a puntare il dito contro coloro che vivono seriamente la loro vita religiosa, la loro vita sacerdotale. Ricevendo i seminari li invita sempre a “ripensare alla loro scelta” o chiede loro: “perché siete qui? Potete andare e trovarvi una ragazza”. Bisogna iniziare a leggere queste affermazioni alla luce della vita, delle esperienze di vita, di coloro che le pronunciano. Forse sono loro stessi che non vivono serenamente la loro scelta e, di conseguenza, la rendono meno appetibile anche agli altri. 

Dove vogliamo andare? 
Se un sacerdote non vive la propria vita di preghiera, se un monastero non segue la propria regola di vita, dobbiamo chiederci: cosa stiamo facendo? Si tratta di una casa di cura, una casa di riposo dove ognuno conduce la propria vita? Si tratta di persone che stanno insieme per poter pagare un inserviente solo?

La Chiesa, la quale avrebbe il compito di riaccendere questo fuoco nel cuore dei suoi membri, è oggi guidata da persone che non hanno addosso la “voglia di vivere”. Oggi sono numerosi i monasteri che vengono commissariati ma per quale motivo? Problemi economici, problemi interni di lotte di potere oppure perché sono “troppo tridentini”. Quella che era uno strumento volto a vagliare lo stato di salute di una comunità, la visita apostolica, è divenuta uno strumento repressivo/ punitivo. Difatti, oggi le visite apostoliche non vengono commissionate perché in un monastero o in un seminario, non si prega, le monache non portano il velo oppure perché la vita fraterna non esiste. Oggi, le realtà vengono commissariate per punire, non per curare. Ci sono monasteri che non vivono affatto la loro regola ma se non creano problemi e a Roma non schiacciano i piedi, possono continuare in questo modo senza alcun problema. Nessuno se ne preoccupa, anzi. Se un monastero segue la propria regola, allora si interviene perché sono rigidi. Questi uomini e queste donne, che si sono formati alla scuola di un Concilio che non è mai stato celebrato, oggi sarebbero in grado di etichettare come “rigidi” anche san Benedetto o san Bruno.

Se in una comunità discutono fra loro, allora si interviene a gamba tesa. Ma quando mai ci sono stati monasteri, comunità, nei quali non si è discusso? Il problema è che oggi qualcuno ha fatto credere che la soluzione è rivolgersi a Roma, così l’abate o il superiore non contano più nulla. Ciò che importa, infatti, è avere le giuste amicizie oltre Tevere.

Oggi sono sufficienti due o tre monaci che si rivolgono a Roma sparlando del proprio abate per farlo dimettere. Se si indaga un po’, poi, si viene a scoprire che quei monaci erano stati richiamati perché non vivevano fedelmente la loro regola. È sufficiente che vi sia qualche laico incattivito contro l’abate, per farlo spedire in un altro Paese e far commissariare tutta la sua comunità. Scavando un po’, però, si scoprirà che quei laici avevano sete di denaro e di potere.

Sono numerose le comunità che oggi si trovano in queste situazioni spiacevoli e non vi è alcuna via d’uscita se non un chiaro cambiamento. Anche quelle comunità che hanno giovani sacerdoti alla loro guida rischiano di non portare alcun frutto perché vi è sempre qualche zavorra che funziona da àncora. Perché il problema di questa generazione di vecchi è anche che non ammettono di aver fallito. Se c’è il giovane rettore del seminario che ha il seminario pieno, beh “chissà che cosa ci sarà dietro”. Se l’abate di un monastero ha il noviziato pieno, beh “quell’abate avrà sicuramente qualche scheletro nell’armadio”.

E così, a forza di gelosie e invidie, la Chiesa continua a restare sotto scacco di uomini e donne repressi perché le loro ambizioni sono svanite nel nulla e, quindi, la Chiesa di Cristo deve terminare con la loro insignificante vita. Fra un tweet ed un post di Facebook, questi boomers, stanno demotivando anche chi ha ottime capacità e aspettative.

 

“Silere non possum”, 28 maggio 2023
https://silerenonpossum.it/il-problema-della-chiesa-la-leadership-dei-vecchi-delusi/

 

PECCATO O FRAGILITÀ? LA RIVOLUZIONE LINGUISTICA NELLA CHIESA


“Peccato”, termine ormai in panchina, evoca un plesso dottrinale di principi, nonché un’offesa a Dio, quindi rimanda ad un piano trascendente. “Fragilità” invece abbassa la temperatura morale rispetto al concetto di “peccato”. E così vale per dottrina/pastorale, Creato/ambiente, Giustizia/misericordia. Viaggio nella rivoluzione linguistica della Chiesa. 

Ogni rivoluzione porta con sé anche una rivoluzione linguistica perché cancellare una certa realtà per sostituirla con una nuova comporta, in parallelo, cancellare tutti quei termini che definiscono la realtà presente per far posto ad un nuovo vocabolario capace di descrivere il mondo nuovo che, per definizione, è sempre migliore di quello vecchio. Anche le rivoluzioni in casa cattolica che investono fede e morale non sfuggono a questa regola lessicale. Qualche esempio.

Prendiamo innanzitutto la parola “peccato” che ha subìto un severo ostracismo a favore del termine “fragilità”.  “Peccato”, termine ormai in panchina, evoca un plesso dottrinale di principi, nonché un’offesa a Dio, quindi rimanda ad un piano trascendente, una volontarietà espressa dalla persona e dunque una sua responsabilità. Ne consegue che, nell’immaginario collettivo, associato a “peccato” abbiamo concetti come comandamento, errore, ingiustizia, colpa, riparazione, pena. “Fragilità” abbassa la temperatura morale rispetto al concetto di “peccato”. Infatti tale lemma fa più riferimento all’essere –. “E’ persona fragile” – che all’azione, alle condotte. Ma la morale riguarda soprattutto l’agire e dunque le regole di comportamento. Ne consegue che la fragilità è abile a liberarsi dalle strettoie della morale.

E poi la fragilità, sempre nella coscienza collettiva e sotto la prospettiva psicologica, può essere connaturata alla persona, dunque inevitabile e quindi priva di colpa. Inoltre – ed ora invece ci muoviamo sotto il profilo teologico – questo termine pare evocare, in senso protestante, quella condizione di intrinseca e irricuperabile debolezza della nostra natura umana ferita dal peccato originale. Ma anche in questo caso la fragilità è insopprimibile, non debellabile. Dunque non può suscitare nessuna condanna e, all’opposto, muove subito alla giustificazione della stessa e perciò alla solidarietà.

Va da sé poi che il concetto di fragilità esclude dal proprio orizzonte Dio, perché la fragilità non offende nessuno, tantomeno il Creatore, il quale entrerà in gioco semmai per sanare il fragile nella confessione, luogo che è diventato solo un’infermeria e non anche un tribunale dove ammettere le proprie colpe. La fragilità invece elimina questo aspetto e presenta il peccatore solo come un ferito che è tale senza sua colpa. Doveroso dunque assassinare il peccato per legittima difesa del quieto vivere.

Un altro termine che è andato in pensione è “dottrina”. Al suo posto troviamo “pastorale”. Non esiste più un plesso di norme e principi di fede e morale che guida il credente nella prassi, che dovrebbe essere declinato dai pastori nell’azione evangelizzatrice. Questo rapporto gerarchico in cui la dottrina è al vertice e la pastorale è alla base è stato invertito.. Anzi, ad essere più corretti, potremmo dire che la pastorale coincide con la dottrina. E’ il contingente, il particolare che rivela la norma altrettanto contingente e particolare. Non c’è posto per la dottrina in questa idea di Chiesa, ma solo per un ponderoso manuale delle esperienze. Regole universali non esistono più: è la casistica a dettar legge. Le uniche regole universali sono principi generalissimi, buoni per tutte le stagioni, che con millanteria vengono desunti da un volutamente imprecisato spirito del Vangelo: l’apertura agli altri in specie agli ultimi, meglio se poveri; il dialogo; la non discriminazione, l’inclusività; il rispetto dell’ambiente; la solidarietà; etc.

Fermiamoci proprio sul sostantivo “ambiente” che ha mandato in soffitta “creato”. Segno, ancora una volta, che il braccio orizzontale della croce, orizzontale come la terra, deve vincere su quello verticale, che indica il Cielo. Dunque deve prevalere un visione immanentistica e non trascendente perché l’ambiente non ha bisogno di Dio per esistere, invece il creato sì. C’è da aggiungere che l’ambiente, in seno ad un ambiente religioso, diventa presto culto, seppur mascherato, di Gea, dea della Terra. La gerarchia dell’ordine naturale voluto da Dio viene rivoluzionato e così la persona diventa solo un animale umano, ma sempre animale è, il quale è subordinato, per conquistarsi il Cielo, ad onorare la Terra, ossia piante, animali e pure ghiacciai.

Colpita da oblio anche la parola “giustizia”, che è stata licenziata dal vocabolario cattolico a favore del termine “misericordia”. O meglio, il termine “giustizia” trova ancora una sua dignità solo se declinata come “giustizia sociale”, ossia solo se spesa in riferimento ai poveri, agli emarginati, ai malati, agli immigrati, etc. Ma quando spiccheremo il volo verso il Cielo, la giustizia rimarrà a terra e nell’Aldilà ci troveremo faccia a faccia solo con una misericordia divina che, nelle intenzioni di alcuni teologi, è così generosa che non guarda in faccia a nessuno e a niente, nemmeno ai peccati. E dunque dopo la fiducia cieca in Dio, ora dobbiamo predicare anche una misericordia cieca, cieca di fronte a meriti e a demeriti. Riguardo a questi ultimi, regnerà sovrana la forza del perdono che, dopo così tante e insistenti operazioni di chirurgia plastica teologica, sarà irriconoscibile tanto che verrà chiamato “condono”.   

Sbianchettata anche la parola “gerarchia” perché il nuovo che avanza si chiama sinodo (che tanto nuovo non è). Il camminare insieme senza meta, inseguendo con tenacia come unico scopo lo stesso camminare insieme, è il sinodo, l’inedito organo di governo della Chiesa che, privo idealmente di gerarchia, produce una marcia dei fedeli inevitabilmente in ordine sparso. Il caso tedesco è in tal senso paradigmatico. In realtà è tutta una voluta finzione: storicamente chi ha sempre parlato di collegialità, di democrazia,  di condivisione, lo ha fatto perché strumentalmente utile al proprio autoritarismo. Dietro lo scudo della sinodalità si nascondono i soliti quattro che non vogliono mollare il potere. La massa è facilmente pilotabile, soprattutto se nella dinamica sinodale si fa partecipe solo chi la pensa come chi sta nella stanza dei bottoni: il consenso viene costruito ad arte e così irrobustisce la forza di pochi. Se poi il popolo di Dio non si orienta come vogliono lor signori i controllori, basterà non ascoltarlo. Questo processo che vede la sinodalità usata surrettiziamente per consolidare il potere è antitetico al principio gerarchico, così come inteso in senso cattolico. Sia perché la gerarchia non prevede l’annientamento dei poteri intermedi a favore del potere di uno solo, sia perché la gerarchia cattolica significa servizio, sia perché la gerarchia degli uomini di Chiesa è sempre subordinata alla gerarchia celeste e dunque alla verità.

Un’ultima coppia di lemmi, tra gli infiniti che si possono citare: fede e dubbio. La fede è stata rottamata perché nel Catechismo della Chiesa Cattolica si legge la seguente "bestemmia": “la fede è certa, più certa di ogni conoscenza umana, perché si fonda sulla Parola stessa di Dio, il quale non può mentire” (n. 157. Notare il corsivo, che non è nostro). Oggi invece viene insegnata la fede nel dubbio: non risposte ma domande, non punti esclamativi ma interrogativi, non luce ma oscurità. Dio non si è rivelato, ma lo possiamo vedere solo dal buco della serratura della nostra personalissima coscienza e si muove pure in una stanza immersa nel buio. La verità appare rigida, non malleabile, così scomoda perché non ergonomica per le delicate anime dei contemporanei tanto versate al compromesso. Ecco allora il dialogo fine a se stesso, la celebrazione delle crisi di fede, la dottrina liquida, anzi gassosa, la priorità dei processi sul risultato, del cammino sulla meta, della ricerca sugli esiti. L’unica liturgia ammessa è quella che celebra l’ambiguo – e ci stupiamo della benedizione ecclesiale dell’omosessualità? – a danno dell’inequivocabile, che incensa il problema e non la soluzione, il relativo e non l’assoluto, come gli assoluti morali. Questa è l’unica certezza da coltivare: che non si hanno più certezze.

  

Fonte: Tommaso Scandroglio, LNBQ, 29 maggio 2023 
https://lanuovabq.it/it/peccato-o-fragilita-la-rivoluzione-linguistica-nella-chiesa

 

 

venerdì 14 aprile 2023

Francesco pontefice a vita. Ma senza un successore “suo”


“Ancora vivo”, parole sue, dopo l’ultimo ricovero in ospedale, Jorge Mario Bergoglio fa di tutto per scoraggiare chi calcola su una sua imminente uscita di scena. Ma quel che accade in questo tramonto di pontificato non fa presagire affatto una successione a lui congeniale.

Un mese prima di Pasqua, Francesco ha immesso cinque nuovi cardinali nel consiglio dei nove che dovrebbe aiutarlo nel governo della Chiesa universale. Tutti a lui vicini, chi più chi meno, con in testa il cardinale e gesuita Jean-Claude Hollerich, che ha anche messo a capo del sinodo mondiale con cui vorrebbe cambiare la struttura della Chiesa cattolica, da gerarchica ad assembleare.

Attivissimo nel promuovere un cambio di paradigma nella dottrina cattolica sulla sessualità, Hollerich è effettivamente il cardinale prediletto da Bergoglio, quello in cui molti vedono il successore a lui più gradito. Ma è anche il cardinale più sulla linea del fuoco, assieme allo statunitense Robert McElroy, pure lui amatissimo da Francesco. L’uno e l’altro bollati pubblicamente come “eretici”, proprio per le loro spericolate tesi dottrinali, non da qualche oscuro professore di dogmatica ma da altri cardinali di primissimo piano: ieri l’australiano George Pell e oggi il tedesco Gerhard Müller, già prefetto della congregazione per la dottrina della fede.

Negli Stati Uniti il vescovo di Springfield, Thomas J. Paprocki, ferrato in diritto canonico e presidente della commissione della conferenza episcopale sul governo della Chiesa, ha addirittura argomentato per iscritto, sulla prestigiosa rivista “First Things”, che un cardinale “eretico” è anche automaticamente scomunicato e quindi dovrebbe essere rimosso dal suo ruolo dalla “competente autorità”, che nel suo caso è il papa. Il quale però non agisce, con la paradossale conseguenza che “un cardinale scomunicato ‘latae sententiae’ per eresia potrebbe ugualmente votare in conclave”.

Ad accendere ancor più questo conflitto è stata soprattutto la decisione dei vescovi di Germania e del Belgio di approvare e praticare la benedizione delle coppie omosessuali, vietata dal dicastero per la dottrina della fede, ma poi lasciata correre dal papa che pure aveva inizialmente sottoscritto il divieto. Col risultato che su questa e altre questioni si è scompaginato lo stesso campo progressista: con da un lato Hollerich e McElroy, e dall’altro lato Walter Kasper, storico rivale di Joseph Ratzinger in teologia, e Arthur Roche, prefetto del dicastero per il culto divino e nemico implacabile del rito liturgico antico, entrambi sempre più critici degli eccessi dei novatori, perché “non si può reinventare la Chiesa” col rischio di “cadere in uno scisma”.

Certo, sul piano comunicativo i novatori dominano la scena. Recitano un copione tutto scritto da fuori, dal “mainstream” secolare, che giustamente li premia. Ma poi, quando dentro la Chiesa si va al sodo, si scopre che i novatori non sono maggioranza nemmeno in Europa.

A fine marzo, l’elezione del nuovo presidente della Commissione degli episcopati dell’Unione Europea ha sorpreso molti. Il presidente uscente era il cardinale Hollerich, e per succedergli era in lizza l’arcivescovo di Digione, Antoine Hérouard, uomo di fiducia del papa, che l’aveva già utilizzato per ispezionare e commissariare una diocesi di stampo tradizionalista, quella di Fréjus-Toulon, e il santuario mariano di Lourdes.

Invece l’eletto è stato l’italiano Mariano Crociata, vescovo di Latina, lì confinato da Francesco all’inizio del suo pontificato, per punirlo per come aveva svolto il suo precedente ruolo di segretario generale della conferenza episcopale italiana, giudicata dal papa troppo sorda alle sue aspettative. Una ruggine, questa, che perdura tuttora, visto come Francesco, nel dare udienza alla Commissione ad assemblea conclusa, s’è mostrato freddo col neoeletto Crociata e caloroso invece nel tributare “riconoscenza” a quanto fatto dal suo predecessore Hollerich, che “mai si ferma, mai si ferma!”.

A favore di Crociata ha pesato sicuramente il voto dei vescovi dell’Europa dell’Est. Ma importante è stato anche il ruolo dei vescovi della Scandinavia, autori di una lettera ai loro fedeli sulla questione della sessualità, diffusa nella quinta domenica di Quaresima, che ha avuto una forte risonanza in tutto il mondo proprio per la novità del suo linguaggio e la solidità del suo contenuto, perfettamente in linea con l’antropologia biblica e con la dottrina cattolica che ne deriva, e quindi opposta alle tesi di Hollerich e compagni. Nel recensirla sul quotidiano laico “Domani”, l’ex direttore de “L’Osservatore Romano” e docente di letteratura cristiana antica Giovanni Maria Vian ha ravvisato in questa lettera della piccola cattolicità scandinava il frutto benefico “di quelle minoranze creative presenti nelle società secolarizzate, come aveva già prefigurato oltre mezzo secolo fa il giovane Joseph Ratzinger”.

Niente, insomma, fa presagire che il successore di Francesco possa essere un Hollerich o qualcun altro della cerchia papale. Il cardinale sino-filippino Luis Antonio Gokim Tagle, più volte indicato come papabile, è anche lui da tempo fuori gioco, caduto in disgrazia presso lo stesso Bergoglio.

Ma sono soprattutto i confusi “processi” messi in moto dall’attuale pontefice, con il conseguente, crescente disordine dottrinale e pratico, a pregiudicare l’elezione di un successore che voglia procedere sulla stessa strada.

La fallita riforma della curia, ben manifesta nel processo sul malaffare di Londra che ogni giorno di più rende evidente che il papa tutto sapeva e tutto approvava, e l’accumularsi degli insuccessi nella politica internazionale, dalla Russia al Nicaragua alla Cina – che nei giorni scorsi ha addirittura imposto il “suo” nuovo vescovo di Shanghai senza neppure consultare Roma, in spregio del tanto decantato accordo –, sono anch’essi parte di questo disordine, inesorabilmente destinato a produrre, quando si arriverà al cambio di pontificato, la volontà di segnare una decisa svolta, da parte di un arco molto ampio del collegio dei cardinali, anche tra i nominati da Francesco.

Così come suscitano disagio e critiche le battute a vuoto nell’affrontare la piaga degli abusi sessuali: dal caso del gesuita Marko Ivan Rupnik, tuttora protetto dal papa nonostante la gravità estrema dei fatti accertati, alle dimissioni dalla commissione per la prevenzione di questi misfatti dell’altro gesuita Hans Zollner, uomo chiave di questa commissione voluta e creata da Francesco, eppure scontento di come funziona.

Sullo sfondo di questa confusione era venuta crescendo, nella rosa dei possibili successori, la candidatura del cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della conferenza episcopale italiana.

In lui veniva ravvisato l’uomo capace di proseguire il cammino iniziato da Francesco in forma più amichevole e ordinata, meno monocratica e senza lo sconcertante viavai di aperture e chiusure che caratterizza l’attuale pontificato. A suo sostegno, nella marcia di avvicinamento al conclave, Zuppi può contare sulla formidabile lobby della Comunità di Sant’Egidio, di cui è membro storico. Con accortezza, sia lui che la Comunità hanno sempre evitato di prendere posizioni nette su questioni controverse come l’omosessualità, il clero sposato, le donne prete, la democrazia nella Chiesa, la guerra in Ucraina, con l’effetto di raccogliere qualche consenso anche tra i cardinali più moderati. Il fondatore e capo indiscusso della Comunità, Andrea Riccardi, storico della Chiesa, si guarda bene anche dal formulare giudizi solo positivi sul pontificato e sulla persona di Bergoglio.

Ultimamente, però, la loquacità di Zuppi – espressa in un diluvio di interviste ad imitazione dell’ancor più loquace Francesco – ha reso sempre più evidente l’ambiguità in cui galleggia. Abbonda nelle parole, ma sui temi che dividono sta sul vago. C’è chi l’ha paragonato a Zelig, il camaleontico personaggio inventato da Woody Allen, applaudito da tutti senza mai scomodare nessuno. Troppo poco per legare e sciogliere, sulla terra come in cielo.

 (Fonte: Sandro Magister, Settimo Cielo, 12 Aprile 2023)

 

  

mercoledì 5 aprile 2023

L'altolà Vaticano non ferma la Chiesa tedesca che tira dritto e disobbedisce. Al via l'organismo della discordia


In Germania ormai l'incendi dilaga e il Vaticano non sa più come frenare le spinte riformatrici. Che sia molto di più di una semplice alzata di spalle è sembrato chiaro a tutti quando il Comitato sinodale istituito dai vescovi e dai laici tedeschi inizierà i suoi lavori a novembre, a Essen, nonostante la ferma opposizione di Roma (e del Papa). L'appuntamento è già stato messo in agenda (si terrà dal 10 all'11 di novembre) ed è stato annunciato ufficialmente dalla Conferenza episcopale, con buona pace di alcuni cardinali curiali che avevano fatto arrivare una lettera per frenare quel progetto. Ma la rivoluzione in corso nessuno riesce a frenarla. E i segnali sono tanti.

Per esempio l'ultima presa di posizione (ampiamente condivisa) di un illustre studioso tedesco di liturgia Benedikt Kranemann che ha chiesto pubblicamente l'introduzione delle cerimonie di benedizione per le coppie omosessuali dal momento che la questione è già stata discussa a lungo sia dal punto di vista teologico che pratico nel Cammino Sinodale. «Il che vuol dire – ha aggiunto - che possiamo ora procedere per rendere ufficiali queste cerimonie e inserirle nella liturgia della Chiesa» ha dichiarato in un'intervista al sito di notizie katholisch.de senza tenere conto che la pratica è formalmente vietata dal Papa e dal magistero.

L'obiettivo più clamoroso, tuttavia, è preparare per novembre a Essen il "Consiglio sinodale" vale a dire un organo permanente per la consultazione congiunta tra vescovi e laici su varie questioni di governo. In una lettera inviata a gennaio Papa Francesco aveva respinto l'idea di una struttura del genere visto che avrebbe interferito nell'autorità dei vescovi e intaccato la teologia. La Chiesa non è strutturalmente nata per applicare regole democratiche ed elettive tipiche delle democrazie mature. 

I vescovi tedeschi (alcuni si sono dissociati) hanno però intenzione di andare avanti. L'organismo di governo sarebbe composto da 27 vescovi diocesani, 27 rappresentanti dei laici e altri 20 membri eletti dall'Assemblea sinodale stessa.

Nel frattempo il gruppo cattolico femminile (influentissimo) Maria 2.0, di fronte alla levata di scudi di Roma, ha dichiarato che occorre rendere maggiormente indipendente la Chiesa cattolica tedesca dal Vaticano, facendo notare che in questi quattro anni di dibattiti i laici - uomini e donne - si sono impegnati e si sono espressi a favore di soluzioni capaci di togliere dalle secche la Chiesa in Germania. Il riferimento riguardava l'emorragia di fedeli causata dagli scandali sugli abusi che ormai tocca punte da record. Ogni anno sono circa 200 mila le persone cattoliche che si disiscrivono dalle liste, spesso anche per non pagare le tasse ecclesiastiche la cosiddetta Kirchensteuer o tassa sulle religioni, praticamente il sistema di finanziamento delle religioni in Germania. 

«Proprio adesso che stiamo facendo passi in avanti per fermare questa emorragia causata dagli abusi, Roma pone il suo veto». Il Vaticano nella lettera (approvata da papa Francesco) aveva respinto le richieste di consentire in futuro le benedizioni alle coppie gay, ai laici di celebrare battesimi e predicare durante la messa (tutte funzioni che sono di appannaggio dei consacrati). L'aria che tira non è proprio delle migliori. 


(Fonte: Franca Giansoldati, Il Messaggero, 5 Aprile 2023) 
https://www.ilmessaggero.it/vaticano/papa_francesco_germania_vescovi_donne_coppie_gay_scisma_cammino_sinodale_vaticano-7329813.html

 

giovedì 23 marzo 2023

Germania, il capo dei vescovi va in tv e sfida il Papa: «Qui continueremo a benedire le coppie gay»


Città del Vaticano – E' sempre più ampio, evidente e incolmabile il solco esistente tra la Chiesa tedesca e il Vaticano. Una crepa affiorata anche alcuni giorni fa quando il presidente della conferenza episcopale, davanti alle telecamere, ha ribadito che la benedizione alle coppie gay, nonostante il 'niet' del Papa, in Germania rimane un dato di fatto: si continuerà a garantire agli omosessuali che la chiedono. Se non era un atto di guerra contro l'inflessibilità di Roma poco ci mancava. Anche di recente il Papa, attraverso il cardinale Pietro Parolin, ha sostanzialmente vietato all'episcopato tedesco di modificare la dottrina e le regole finora in vigore a proprio piacimento. Niente di tanto importante può essere cambiato unilateralmente.

La presa di posizione 
«Tanto per cominciare deve essere detto che la pratica delle benedizioni esiste e noi vogliamo portarla alla luce» ha affermato monsignor Batzing presentandosi in televisione. Ai telespettatori ha spiegato che i vescovi dovrebbero chiedere a loro stessi se una relazione d'amore tra due persone è da considarsi una cosa buona. «Perchè se è buona allora le persone possono effettivamente ricevere la benedizione di Dio, mi pare logico». A sostegno di questa linea, accanto ai tedeschi, ci sono anche i vescovi del Belgio che «hanno già implementato questa pratica». 
Il giornalista che interrogava Baetzing in diretta gli ha chiesto se Papa Francesco davanti alla loro presa di posizione potrebbe accettarla, oppure se si tratta di una sfida al potere costituito.  La spiegazione fornita dal vescovo ha fatto leva sul lungo lavoro collettivo che è stato svolto dalla base cattolica che per ben quattro anni, previo benestare papale, ha avviato un complesso percorso sinodale. «Abbiamo ascoltato esperti, scritto solidi testi e presentato in modo estensivo dietro le nostre regole». E ancora. «Siamo lieti di discuterne, ma la nostra azione non cambierà». Praticamente una sfida. 
Per Roma resta però impensabile dare una forma di benedizione a una famiglia omosessuale, visto che il catechismo descrive l'omosessualità come una attività disordinata e immorale e non può essere trasformata in "buono" semplicemente sulla base del fatto che la coppia lo desidera.

Le regole sulle benedizioni 
Due anni fa il Vaticano ha anche diffuso un responsum molto chiaro, pubblicato per fugare i dubbi degli episcopati e per ripetere per l'ennesima volta che la pratica delle benedizioni nella Chiesa cattolica è tassativamente vietata. «Non è lecito impartire una benedizione a relazioni, o a partenariati anche stabili, che implicano una prassi sessuale fuori dal matrimonio (vale a dire, fuori dell’unione indissolubile di un uomo e una donna aperta di per sé alla trasmissione della vita), come è il caso delle unioni fra persone dello stesso sesso (…) poiché le benedizioni sulle persone sono in relazione con i sacramenti, la benedizione delle unioni omosessuali non può essere considerata lecita, in quanto costituirebbe in certo qual modo una imitazione o un rimando di analogia con la benedizione nuziale, invocata sull’uomo e la donna ». 
La situazione in Belgio a cui ha fatto riferimento il capo dei vescovi tedeschi ha causato l'anno scorso una vera e propria tempesta. Nonostante i divieti la Chiesa belga ha rotto gli argini per procedere in totale autonomia a benedire le coppie gay. Il cardinale Jozef de Kesel e gli altri vescovi fiamminghi davanti a tante persone che «spesso chiedono un momento di preghiera durante gli incontri pastorali per chiedere a Dio di benedire e perpetuare questo impegno di amore e fedeltà» hanno adottato un testo liturgico apposta.  Naturalmente è partita una violenta polemica non ancora sopita del tutto.
Ma di cosa si tratta? La liturgia dei pastori fiamminghi offre una lettura tratta dalla Sacra Scrittura, che precede «l'impegno dei due interessati». Per questo impegno si propone un testo che afferma la volontà della coppia di «essere presenti l'un per l'altro», di «lavorare per la felicità dell'altro», e che richiede la forza di essere «fedeli l'un l'altro». Segue una preghiera della comunità perché la grazia di Dio agisca in loro per prendersi cura l'uno dell'altro, perché siano fedeli, tolleranti, attenti. Infine, dopo un Pater, viene impartita una benedizione.
La scorsa settimana il cardinale Pietro Parolin ha ammesso che lo strappo esiste. «La Congregazione per la dottrina della fede si è già pronunciata in materia. Adesso si continuerà il dialogo» con la Chiesa tedesca e quella belga. «Una singola Chiesa in ogni caso non può prendere una decisione del genere che riguarda la Chiesa universale. Ci vuole tempo per il dialogo. Nella Chiesa ci sono sempre state posizioni diverse, a volte contrastanti. Ora tutto questo confluirà nel cammino sinodale”.
Lo scisma temuto fino a questo momento non si è concretizzato. Man mano che si avvicina il SInodo sulla sinodalità previsto per la fine del 2024 aumenta anche il divario tra la Chiesa del sud, più conservatrice, e quella del Nord. La resa dei conti sembra ormai all'orizzonte. 

(Fonte: Franca Giansoldati, Il Gazzettino, 23 marzo 2023) 
Germania, il capo dei vescovi va in tv e sfida il Papa: «Qui continueremo a benedire le coppie gay» (ilgazzettino.it)

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