giovedì 24 aprile 2014

«Le telefonate del Papa sono private, su quanto diffuso non c'è conferma di attendibilità»

Padre Lombardi sulla vicenda della donna argentina alla quale era stata negata la comunione: bisogna «evitare di trarre da questa vicenda conseguenze per quanto riguarda l’insegnamento della Chiesa»
Le telefonate private del Papa, se vengono fatte uscire «dall’ambito proprio dei rapporti personali», per la loro «amplificazione mediatica» sono  «fonte di fraintendimenti e confusione». Non si può trarre da queste alcuna conseguenza circa l'insegnamento della Chiesa. Lo ha precisato questa mattina padre Federico Lombardi, direttore della Sala Stampa della Santa Sede, con una nota che evidentemente si riferisce alla telefonata di Francesco alla donna argentina sposata con un uomo divorziato, alla quale era stata negata la comunione.
Ecco le parole di Lombardi, arrivate dopo che la notizia aveva fatto il giro del mondo ed era stata interpretata da alcuni come un cambiamento nelle posizioni della Chiesa cattolica sui sacramenti alle persone divorziate risposate: «Parecchie telefonate hanno avuto luogo, nell’ambito dei rapporti personali pastorali del Papa Francesco. Non trattandosi assolutamente di attività pubblica del Papa - ha precisato il portavoce - non sono da attendersi informazioni o commenti da parte della Sala Stampa».
«Ciò che è stato diffuso a questo proposito - ha continuato padre Lombardi - uscendo dall’ambito proprio dei rapporti personali, e la sua amplificazione mediatica conseguente, non ha quindi conferma di attendibilità ed è fonte di fraintendimenti e confusione. È perciò da evitare di trarre da questa vicenda conseguenze per quanto riguarda l’insegnamento della Chiesa».

(Fonte: Andrea Tornielli, Vatican Insider, 24 aprile 2014)

 

Embrioni e nozze gay, ormai Dio indossa la toga

Non dirò nulla sulla fecondazione eterologa ma dopo i commenti, in gran parte euforici sull’intervento della Corte costituzionale sulla legge 40 restano due cose di ordine generale.
La prima è che il legislatore e i rappresentanti del popolo sovrano, i medici, i sacerdoti e gli scienziati non contano nulla, possono solo proporre; ma a disporre alla fine è il magistrato. È lui che detiene il monopolio assoluto in materia di vita e di morte, di leggi e di valori, di libertà e divieti. Il giudice è dio in terra e ultima istanza suprema, detentore della Verità e del monopolio della Forza. A lui solo è concesso il decisionismo negato agli altri poteri. A me non piace vivere in un Paese in cui tutto è relativo meno il potere dei giudici, tutto è opinabile salvo le scelte ideologiche della Corte, c’è la divisione dei poteri tra legislativo, esecutivo e giudiziario ma il potere giudiziario sovrasta gli altri due. Non contano le leggi del Parlamento né i costumi e le tradizioni dei popoli. Il giudice è l’unico Assoluto in una società relativista. Gli altri, parlamentari, medici, preti ed esperti al più sono i suoi periti, in tutti i sensi.
La seconda cosa da notare è che nel giro di poche settimane le grandi riforme annunciate e scadenzate non si sono viste, a cominciare dalla riforma elettorale, i grandi tagli si riducono a robetta, si spacciano accendini per termosifoni, più la vendita spettacolare di auto usate, passando dalla rottamazione all’autosalone. Poche migliaia d’euro che non basterebbero neanche a una concessionaria per vivere, figuriamoci a uno Stato come il nostro. In compenso è stato smantellato a tambur battente tutto un apparato legislativo, dalle leggi in materia di droga alle leggi sull’immigrazione clandestina, fino alle leggi sul concepimento. È scarsa la capacità di fondare, costruire, promuovere leggi; ma è inesorabile la capacità di demolire, smantellare, distruggere tutto quel che c’era.

Un rullo compressore nel nome del Progresso contro la Reazione. È considerato infatti reazionario scoraggiare l’uso delle cosiddette droghe leggere, anche se risulta ormai diffusamente modificato il principio attivo della cannabis e decuplicato il suo potenziale nocivo. È reazionario scoraggiare con norme dissuasive lo sbarco dei clandestini già decuplicato in questo primo scorcio d’anno, con il relativo, prevedibile caos che seguirà nei centri d’accoglienza. Ed è reazionario tutelare la famiglia come è sempre stata, secondo natura e civiltà. La tecnica è sempre la stessa: sbandierare casi estremi o pietosi, tenere storie, e poi far passare sotto le comprensibili aspettative di alcune coppie in cerca di figli, norme che relativizzano la famiglia e la natura. Seguirà a ruota la fecondazione artificiale per le coppie gay; come aperitivo, il tribunale di Grosseto ha sancito che le nozze gay sono legittime. In un colpo, un giudice solitario si sostituisce ai comuni, al popolo e ai suoi rappresentanti e decide da solo cosa fare. Insomma il Verbo del presente ridotto in sintesi è il seguente: l’umanità finora ha sbagliato, il progressismo ci dona d’un colpo la Verità negata nei secoli e Dio non è più in cielo perché presta servizio in tribunale.

(Fonte: Marcello Veneziani, “Il Giornale”, 12 aprile 2014)

mercoledì 16 aprile 2014

Un clericalismo falso e un anticlericalismo vero

Riportiamo alcuni brani liberamente tratti da un libro del quale consigliamo la lettura integrale: Paolo Gambi - Quello che i preti  non dicono (più) - Duemila anni di linguaggio anticlericale  nelle parole dei santi, Fede & Cultura, Verona 2012.
Cos’è dunque questo clericalismo che affligge la Chiesa? In tanti si sono cimentati a trovare il significato più profondo di questa parola. Facciamo nostra la definizione di Paolo Gulisano (da “Tempi”, n. 40, 1999): “Il clericalismo è una sorta di vizio che può prendere i cristiani, sia preti che laici, per cui alla sostanza della fede, cioè l’adesione a Cristo, viene sostituita la forma, e lo stesso cristianesimo non diventa che un mezzo per raggiungere fini differenti da quelli indicati dal Vangelo. Il clericale non si avvale dell’autorevolezza della Fede, ma dell’autoritarismo derivante dalla propria posizione e dal proprio ruolo nella società ecclesiale. Il clericale non è colui che pensa che l’istituzione è necessaria, ha osservato Giacomo Noventa, ma colui che pensa che è sufficiente. Inoltre il clericalismo avverte come insufficiente il solo cristianesimo per i propri progetti e finisce per coniugarsi con le ideologie in auge, motivando questa scelta con una machiavellica giustificazione dei propri fini”. 
Intanto, allora, clericalismo non è sinonimo di appartenenza al clero. Ci sono preti non clericali e laici clericalissimi.
“Prete clericale non significa niente” dice don Camillo.
“Significa qualcosa invece” risponde Peppone. “Voi per esempio siete un prete, sì, ma non siete un prete clericale”.
Guareschi l’aveva ben capito. Infatti alcuni degli anticlericali più accesi della storia erano sacerdoti, o anche vescovi.
Potremmo definire ancora il clericalismo quella tendenza a teorizzare e proiettare sul mondo una realtà fatta a misura di prete. E ancora, è il pensiero che i preti per il solo fatto di essere tali siano già salvi, e possano quindi fare ciò che vogliono. È una tendenza a mettere al centro dell’universo l’esser preti, e a far ruotare intorno a ciò tutto il resto. È un’idolatria della Chiesa-struttura, di cui il prete, in quanto appartenente al clero, è parte adorata.
E tutto questo investe le piccole cose, come tener chiuse le chiese quando le persone normali escono dal lavoro, così come quelle grandi, come il voler imporre incomprensibili linguaggi clericali al mondo.
Con alcuni punti fermi.
Punto primo: quando si ha a che fare con dei preti, se sono clericali hanno sempre una concezione della verità mediata da processi mentali di matrice pontificia o veterogesuitica: prima della verità viene la prudenza, la cautela, la circospezione, con la conseguenza che non si sa mai quale sia la verità. Qual è la verità? Quella mormorata al buio o quella taciuta alla luce?
Esempio: c’era un sacerdote, rettore di un seminario, che appariva a tutti un esempio di virtù insieme umana e sacerdotale, e che aveva un grande seguito di gente. Un bel giorno si seppe che se n’era andato in Svizzera. Tutti provarono a cercar di capire perché. Passò qualche mese dalla sua dipartita, e il sagrestano del duomo mi disse che era stato mandato via perché aveva fatto grossi debiti. Passati altri mesi, forse qualche anno, qualcun altro mi disse che era stato mandato via perché aveva una amante (femmina, quantomeno). Sono passati 16 anni, e io ancora non so quale sia la verità.
Punto secondo: nei mari di questo clericalismo in cui verità e menzogna si mischiano, navigano sempre storture di carattere sessuale fatte nel buio e nella frustrazione.
Esempio: in una diocesi tutti i preti sostengono che un certo prete sia pedofilo, ed anche amante di un altro prete che ora è diventato vescovo. Nessuno di questi preti però lo ha mai denunciato. Lo ha fatto un laico.
Quel prete è stato condannato, ma senza che questa storia sia passata dai media. Il vescovo è ancora pastore di una diocesi.
Punto terzo: in questo sordido contesto di incertezza sulla verità, l’attitudine clericale è sempre prevalente. Non importa se si opera contro il buon senso, la giustizia, o i più elementari insegnamenti di Gesù: l’importante è far rilucere la propria coppa esternamente. C’è un ego farisaico profondo, nel clericale, che fa sempre prevalere l’amor proprio, l’egocentrismo, l’essere al centro di quelle dinamiche in cui qualunque cristiano dovrebbe mettere Dio.
Esempio: in una certa diocesi il direttore del settimanale diocesano è un prete che pensa di essere un grande letterato e un grande giornalista. Tanto che qualche anno fa fece uscire sul settimanale diocesano una poesia erotica scritta e firmata da lui stesso. Per la cronaca: è ancora direttore di quel settimanale diocesano.
Punto quarto: le dinamiche clericali, ancor più che dal sesso sono riconducibili a un’altra chiave di lettura: il potere. Ossia il più facile idolo da adorare per ottenere successo in questo mondo.
Esempio: qualche anno fa in una certa diocesi iniziarono a girare lettere anonime contro il vescovo e contro i preti e i laici a lui più vicini. Erano tutti pedofili, criminali e ignoranti, a leggere quelle lettere. Tutti indicavano, e tuttora indicano, come autore di tali lettere un prete della città, che si sarebbe inviperito con il vescovo perché non lo aveva aiutato a divenire vescovo a sua volta.
Sono passati tanti anni, ma al di là di voci mormorate all’ombra del campanile, non so quale sia la verità, se quel prete sia o no colpevole. Ma le voci hanno continuato a girare.
Si aggiungano anche due principi: 
1) Quelli mancati sono i preti peggiori. E sono i più clericali.
2) Il mondo di riferimento del prete clericale è il suo e nessun altro.
Ecco che allora, con tutto questo si ricreano gerarchie di importanza completamente sbagliate, fondate sulla centralità del prete come figura sociale, e non sul suo ministero: diventa più importante che un vescovo presenzi a una cerimonia pubblica piuttosto che educhi il suo clero, è più importante che il parroco organizzi il campo scuola rispetto alla sua presenza nel confessionale. E questo crea un vero e proprio sbandamento di costumi.
C’è il prete che ti confessa sbuffando, perché ha di meglio da fare, e quello che celebra Messa lanciandosi in improbabili creazioni stilistiche, perché al centro c’è lui e non Dio, quello semianalfabeta che si atteggia a grande letterato e quello che predicando la povertà si dedica a grandi affari immobiliari; c’è il prete che predicando la castità va con le donne, perché il suo dovere l’ha fatto, e quello che condannando l’omosessualità va con gli uomini (o con i ragazzini…), c’è quello che dice che in fondo il cristianesimo e le altre religioni sono la stessa cosa, e quello che ti dice che se vai a prendere un aperitivo in spiaggia incontri il diavolo. Tutto va bene, perché alla fine al centro non c’è Gesù, ci sono loro, qualunque cosa dicano o facciano.
Questo è clericalismo, un “ismo” come tanti altri, che mette al centro i preti.
Ma i preti non sono gli unici intrappolati in questa gabbia ideologica. Ci sono anche i laici. Quelli che, prima di fare qualunque cosa, in coscienza si chiedono non cosa farebbe Gesù al loro posto, ma cosa farebbe un prete.
Questa logica porta alla formazione di esseri umani disinnescati, di umanità incompiute, di persone la cui vita parla sottovoce. Come ha scritto un valente giornalista di “Avvenire”, Roberto Beretta: “Forse è venuto il momento di considerare il clericalismo come un ambiente psichicamente malato, che non solo nuoce alla Chiesa ma condiziona intimamente un’esistenza buona e serena di migliaia di persone”.
Ma chi ha detto che per relazionarsi con quell’universo meraviglioso che si è aperto con la venuta in terra del Figlio di Dio si debba per forza passare dagli alambicchi clericali, fatti di improbabili serate in parrocchia, lettere pastorali banali e distaccate dalla realtà, omelie insulse e altre amenità dall’ammuffito sapore pontificio? Il tutto poi con una implicita rinuncia sostanziale a tutto ciò che di buono la contemporaneità offre?
La risposta ce la dà Joseph Ratzinger, proprio lui, in un discorso pronunciato al meeting di Rimini nel 1990: “Diffusa oggi qua e là, anche in ambienti ecclesiastici elevati, l’idea che una persona sia tanto più cristiana quanto più è impegnata in attività ecclesiali. Si spinge ad una specie di terapia ecclesiastica dell’attività, del darsi da fare; a ciascuno si cerca di assegnare un comitato o, in ogni caso, almeno un qualche impegno all’interno  della Chiesa.
In un qualche modo, così si pensa, ci deve sempre essere un’attività ecclesiale, si deve parlare della Chiesa o si deve fare qualcosa per essa o in essa. Ma uno specchio che riflette solamente se stesso non è più uno specchio; una finestra che invece di consentire uno sguardo libero verso il lontano orizzonte, si frappone come uno schermo fra l’osservatore ed il mondo, ha perso il suo senso. Può capitare che qualcuno eserciti ininterrottamente attività associazionistiche ecclesiali e tuttavia non sia affatto un cristiano.
Può capitare invece che qualcun altro viva solo semplicemente della Parola e del Sacramento e pratichi l’amore che proviene dalla fede, senza essere mai comparso in comitati ecclesiastici, senza essersi mai occupato delle novità di politica ecclesiastica, senza aver fatto parte di sinodi e senza aver votato in essi, e tuttavia egli è un vero cristiano”.
Nella storia della Chiesa, il messaggio cristiano è sopravvissuto ai secoli grazie ad un principio molto semplice: l’inculturazione. L’idea cioè che bisogna portare Cristo nel presente e in tutte le latitudini secondo i modi e la lingua del tempo e del luogo... (...) un buon modo per arrangiarsi è acquisire consapevolezza della bontà della tensione anticlericale che vive fra le mura cattoliche. Per poter vivere da cristiani, e da cattolici, senza adeguarsi al clericalismo.
Bisogna insomma essere anticlericali.
Secondo una antica tradizione che andiamo ora a scoprire insieme.
Clericalismo/anticlericalismo: un binomio con una lunga storia
Chiariamo però una cosa. All’interno della Chiesa ci sono quelli che la criticano perché la odiano. E ci sono quelli che la criticano perché la amano.
I primi, rimanendo nella Chiesa, aderiscono a ideologie anticristiane e muovono feroci critiche contro il Papa, il Vaticano e contro i vescovi nella misura in cui non aderiscono, ad esempio, a una visione del mondo marxista, liberale o secolarizzata.
I secondi invece, gli anticlericali per amore, criticano i vescovi e le strutture ecclesiastiche nella misura in cui rispondono alle logiche del mondo a discapito delle logiche di Dio.
Sono quelli che amano la Chiesa follemente e soffrono a vedere come la struttura ecclesiastica bronto-saurica proietti nel mondo un’immagine del cattolicesimo sbagliata, anacronistica e clericale. E questi sono i cattolici anticlericali che ci interessano.
Due tensioni opposte che si sono confrontate e si sono scontrate in una dialettica non sempre facile. Una dialettica che nasce col finire delle persecuzioni e col sorgere del rapporto fra Chiesa e potere. Cioè, molto presto. E che ha due poli opposti.
Da un lato una naturale e umanissima tendenza della Chiesa a inserirsi nelle logiche del mondo con la costruzione di strutture e sovrastrutture volte ad acquisire potere, danaro e influenza. Tendenza che presto ha portato al nascere di una vera e propria casta chiusa, che ha creato, elaborato e proiettato poi sul mondo sistemi linguistici e organizzativi.
Questo è appunto il clericalismo, l’autoreferenzialità interna dei membri della Chiesa-organizzazione, che ha espresso nella tendenza clericale, nel modo più pieno, tutta la sua umanità. Le lotte di potere, i diffusi comportamenti scandalosi e moralmente inaccettabili.
Tutti elementi riconducibili a questa tendenza clericale (..).
E qui si collocano tanti grandi Papi, santi, Padri e Dottori della Chiesa che hanno fortemente criticato il declinarsi del clericalismo nella loro epoca, spesso con toni e contenuti decisamente netti. Persone che la Chiesa stessa riconosce e venera all’interno della propria identità e dello svolgimento della propria missione.
Non vogliamo arrivare a definire questi santi in modo diretto “anticlericali”, trasponendo a epoche magari lontane un termine che nasce in tempi troppo recenti. Ma vediamo nella loro azione un’opera di opposizione alle naturali e umane tendenze clericali. In questo senso la loro azione rientra nella tensione anticlericale che mi ha abbandonato la Chiesa.
Sulla base di questa dialettica la Chiesa si è conservata sino a oggi nella sua dicotomia che riflette pienamente la sua natura: insieme divina e umana, clericale e anti-clericale.
È tutta una questione di linguaggio Quanto detto sin qui ha un risvolto immediato nella comunicazione. La lingua è lo strumento tramite cui comunichiamo agli altri il nostro mondo interiore. E se è vero che esiste una dinamica clericalismo-anticlericalismo all’interno della Chiesa, per quel che riguarda il linguaggio, ad aver vinto, almeno in Italia, pare sia proprio il clericalismo.
Chi di noi ha ricordo di una presa di posizione netta e chiara, in quest’era dei media, da parte di uno dei nostri vescovi? Chi ha impresso nella mente un forte messaggio lanciato da una qualche assemblea dei vescovi riuniti in conferenza episcopale? O chi ricorda, escludendo il Santo Padre, delle dichiarazioni di vera condanna di queipreti pedofili che così tanto male hanno fatto alla Chiesa, e soprattutto alla sua immagine? Ci troviamo sempre di fronte a dichiarazioni criptiche, ovattate, completamente inadatte al linguaggio di questi tempi. Pare quasi ci sia sempre, sottesa all’apparente prudenza, la paura di scomodare qualcuno, il timore di rimettere in discussione equilibri e rapporti.
Che ne è di ciò che disse Gesù: “Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno”  (Mt 5,37)? E perché tutta questa paura nei nostri pastori, se leggiamo nel Vangelo: “Io vi darò lingua e sapienza, a cui tutti i vostri avversari non potranno resistere, né controbattere” (Lc 21,15)? L’apostolo ci aveva avvertiti: “Così anche voi, se non pronunziate parole chiare con la lingua, come si potrà comprendere ciò che andate dicendo? Parlerete al vento!” (1Cor 14,9).
Guardando la scena degli ascoltatori di certe omelie o di certe prolusioni prelatizie, mai profezia fu più azzeccata. Ecco perché riteniamo davvero utile mostrare come la Chiesa, nella sua bimillenaria storia, abbia mostrato anche nel linguaggio un volto diverso da quello a cui oggi siamo abituati..
(..) il beato Antonio Rosmini, per esempio, il quale, nell’illustrare la genesi di una di quelle che lui chiama “piaghe” della Chiesa si spinge a un’analisi storica impietosa, dolce nel modo ma sferzante nella sostanza.
Ecco un’analisi clericalmente anticlericale dei secoli successivi alla caduta dell’Impero Romano:
“Allora il clero, senza saper come, si vide alla testa delle nazioni; e mentre si era piegato all’invito irresistibile della carità che lo pressava ed urgeva perché soccorresse la società distrutta, si ritrovò in un baleno padre delle città orfane e reggitore degli affari pubblici. Fu allora che la Chiesa si trovò all’improvviso abbondantemente piena degli onori e delle ricchezze del secolo, le quali si riversarono in essa e per il loro peso la sdrucirono come le acque del mare che entrano in una nuova ansa apertasi laddove il continente si è ritirato. Questa nuova occupazione, che cominciò per il clero del VI secolo, era infinitamente gravosa e molesta a quei santi prelati, che da una parte vedevano la Chiesa gravata dal fardello dei beni terreni, perdendo essa quella povertà preziosa che gli antichi Padri avevano tanto raccomandata; e dall’altra vedevano il clero oppresso dalla mole delle cure secolari, che allontanavano i loro animi dalla contemplazione delle cose divine e rubavano il loro tempo prezioso e le loro forze dal dispensare la parola di Cristo ai fedeli, nell’educazione del clero, e nell’assiduità alle pubbliche e private preghiere”.
Ed ecco dunque giungere le conseguenze di questa scelta: “Il clero, che aveva cominciato con dolore e con lacrime a lasciarsi coinvolgere negli affari temporali, e a vedersi attorniato delle spoglie del secolo che veniva meno; cominciò ben presto, come è la condizione della natura umana, ad affezionarsi ad esse e preoccupandosi, nelle occupazioni sopraggiunte alle quali era nuovo e non ancora scaltrito, a sapersi guardare dai pericoli che portavano con sé, e dimenticò poco a poco le mansuete e spirituali consuetudini proprie del governo pastorale; e imparò, ahi troppo bene! la ferocia e la materialità degli affari mondani. Si compiacque di legarsi con i nobili, e ne prese ed emulò i modi: e da quell’ora gli fu sgradito l’accompagnarsi con il piccolo e povero gregge di Cristo; da quell’ora ebbe come occupazioni più care quelle politiche ed economiche, ed essendo a lui più care, non penò a persuadersi, cogli argomenti sofistici che non mancano mai alle passioni, che quelle erano anche le più importanti per la Chiesa. Allora i vescovi scaricarono sopra il clero inferiore l’istruzione del popolo e le cure pastorali..."
Per seguire questo discorso torna utile immergerci nel ’700 e ricorrere a sant’Alfonso Maria de’ Liguori (Marianella, 27 settembre 1696 – Nocera de’ Pagani, 1 agosto 1787), un vescovo cattolico  proclamato santo da papa Gregorio XVI nel 1839 e Dottore della Chiesa (Doctor Zelantissimus) nel 1871 da papa Pio IX.
Non si può certo identificare la sua figura e la sua opera come anticlericale. Eppure, anche in un contesto clericale settecentesco, rinchiuso e assediato dal nuovo che avanza, c’è posto per sommesse esposizioni anticlericali. In un’operetta intitolata Considerazioni per coloro che son chiamati allo stato religioso, alla Considerazione VII intitolata “Il danno che apporta a’ religiosi la tepidezza”, scrive: “Considerate la miseria di quel religioso, che dopo aver abbandonata la patria, i parenti e ’l mondo con tutti i suoi piaceri, e dopo essersi donato a Gesù Cristo, consecrandogli la sua volontà, la sua libertà, e tutto se stesso, si espone poi al pericolo di dannarsi, con restarsene caduto in una vita tepida e trascurata.
No, che non è lontano dal perdersi un religioso tepido, ch’è stato chiamato da Dio alla sua casa per farsi santo. Dio minaccia a questi tali di vomitarli e abbandonarli, se non si emendano […].
Misero quel religioso che chiamato alla perfezione, fa pace coi difetti! Fintanto che alcuno detesta le sue imperfezioni vi è speranza di farsi santo; ma quando commette i difetti e li disprezza, allora san Bernardo dice ch’è perduta per esso la speranza di farsi santo”.
Niente a che fare con i tuoni che abbiamo sentito rimbombare nei secoli passati.
Leggermente più esplicito è in Stimoli a’ religiosi per avanzarsi nella perfezione del loro stato, dove scrive: “Oimè, piange la chiesa, perché vede ne’ religiosi un comune rilassamento di spirito, unito ad una gran freddezza nel divino servizio! Non si nega, che vi sono i buoni fra tanti i quali vivono da veri religiosi, separati dagli at-tacchi mondani, e che attendono a farsi santi ed a portare anime a Dio.
Vi sono questi, ch’io chiamo giudici, che un giorno serviranno per giudicare i loro compagni nella valle di Giosafat; ma questi buoni religiosi, questi giudici, quanti sono? Oh Dio! son troppo pochi, come si vede; e perciò piange la Chiesa con tutti coloro che amano la gloria divina […].
Dov’è oggidì (comunemente parlando) nei religiosi lo spirito di ubbidienza, lo spirito di povertà, di mortificazione, di annegazione interna? Dov’è l’amore alla  solitudine, alla vita nascosta, il desiderio di essere disprezzato, come han desiderato i santi? Queste sorte di virtù son divenute cose strane e pare che se ne sia perduto anche il nome”.
E conclude con una proposta fra il mistico e il clericale: “Ma che rimedio vi sarebbe a questo male così grande e così universale? Che voglio dire? Il rimedio ha da venire dal cielo; e perciò dobbiamo noi pregare il Signore, ch’egli rimedii colla sua potenza e pietà; giacché, siccome il buono spirito de’ religiosi si comunica ancora ai secolari, così all’incontro del loro rilassamento anche gli altri ne partecipano”.
“Detesto il clericalismo e comprendo che, accanto a un anticlericalismo inaccettabile, ci sia anche un sano anticlericalismo”. Ed eccolo qua: preti chiamati “demoni incarnati”, “animali bruti”, “divoratori delle anime”, “templi del diavolo”, “sterco”, “animali feroci”, “bestie”, “sventurati”.
Un pensiero: “Ho la sensazione che da qualche fessura sia entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio”. “È infatti tenebroso di vizi, sporco di lussuria, corrotto dai vermi della cupidigia, instabile per la superbia, labile per la vanità delle cose mondane”. “È venuto dunque il diavolo; questo è l’inimico che ha fatto tante malignità nel tempio di Dio, ha usati per i suoi strumenti i cattivi prelati, i quali colle prave opere e col cattivo esempio l’hanno distrutto”. Tanto che “i prelati del nostro tempo non sono discepoli di Cristo ma dell’anticristo”, “non benedicono la loro madre, la chiesa, anzi distruggono la sua fede, che invece dovrebbero predicare con la parola e con l’esempio”, “a nient’altro sono buoni, se non ad essere gettati nel letamaio dell’inferno”.
“Ecco quali membra si trovano nel corpo di Cristo, che è la Chiesa: gli avari e i lussuriosi, i quali non sono certo la Chiesa di Cristo, bensì la sinagoga di satana”. 
“Quanta sporcizia c’è nella Chiesa e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui! Quanta superbia, quanta autosufficienza!”: “sono divenuti sfrontati come una prostituta: non sono più capaci di vergogna”.
Ma non finisce qui: “La sozzura sodomitica si insinua come un cancro nell’ordine ecclesiastico”. “Se quelli che permettono agli altri di commettere questi peccati meritano la morte, quale supplizio si potrebbe escogitare degno di quelli che compiono con i loro figli spirituali queste  nefandezze, punibili con la dannazione eterna?”.
“I prelati corrotti, partoriscono carni morte, cioè i figli carnali, che sono di colore bianco, come i sepolcri imbiancati, pieni di putridume”: “avete corrotto li uomini nella libidine, le donne alla disonestà, li fanciulli avete condotto alle soddomie e alle spurcizie e fattoli diventare come meretrici”. “I sorveglianti della chiesa sono tutti ciechi, privi della luce della vita e della scienza; cani muti, che hanno in bocca il «rospo» del diavolo”. “Dormono  nei peccati, amano i sogni, cioè le cose temporali che poi deludono amaramente coloro che le amano. Sono cani avidissimi, sfrontati come una prostituta, e non vogliono arrossire”....
Tutte queste sono citazioni testuali. Che non provengono dalle labbra rabbiose di un qualche massone garibaldino, ma da quelle di Papi, Servi di Dio, Beati, Santi, Dottori della Chiesa. Che se la sono presa, ciascuno per un motivo diverso, con preti, frati, vescovi e cardinali, usando un linguaggio chiaro come un cielo limpido e diretto come una freccia scoccata che sembra oggi così lontano dai toni prudenziali del clero e di certa gerarchia...
Curioso è che un frate minacci l’inferno ai vescovi del suo tempo: “Vescovi  mitrati, che hanno sulla testa due corna (la mitria) come i tori; tutti costoro, se non avranno fatto una vera penitenza dei loro peccati, «cadranno giù insieme con i potenti», cioè con i prìncipi e le autorità; cadranno nell’inferno, che è la terra dei morenti, la quale «sarà come ubriacata dal loro sangue e dal loro grasso», cioè dalla loro malizia e superbia” (Sant'Antonio da Padova Sermone Domenica I di Avvento, IV 18).
Nel pensiero di sant’Antonio questa propensione clericale verso tutto ciò che è terreno non solo condanna loro personalmente, ma manda del tutto all’aria i frutti del loro ministero...
In un articolo del 21 maggio 2006, intitolato: “Il ciclone sulla Chiesa si chiama Josef Ratzinger”, Antonio Socci scrive: “Quello veramente scomodo e imbarazzante, per il mondo clericale, è un altro. Si chiama Joseph Ratzinger e infatti le sue parole esplosive sono silenziosamente censurate. Quelle sì fanno tremare i palazzi del potere curiale” (sintesi dei due interventi forti dell'allora cardinale Ratzinger, cliccare qui).
Dal libro dedicato a santa Ildegarda (Ildegarda di Bingen, nel XII secolo, vide la sporcizia della Chiesa del XXI secolo) riportiamo, a chiusura, il suo monito al Pontefice del suo tempo: «O uomo accecato dalla tua stessa scienza, ti sei stancato di por freno alla iattanza dell’orgoglio degli uomini affidati alla tue cure, perché non vieni tu in soccorso ai naufraghi che non possono cavarsela senza il tuo aiuto? Perché non svelli alla radice il male che soffoca le piante buone?... Tu trascuri la giustizia, questa figlia del Re celeste che a te era stata affidata. Tu permetti che venga gettata a terra e calpestata… Il mondo è caduto nella mollezza, prestò sarà nella tristezza, poi nel terrore… O uomo, poiché, come sembra, sei stato costituito pastore, alzati e corri più in fretta verso la giustizia, per non essere accusato dal Medico supremo di non aver purificato il tuo ovile dalla sua sporcizia!... Uomo, mantieniti sulla retta via e sarai salvo. Che Dio ti riconduca sul sentiero della benedizione riservata ai suoi eletti, perché tu viva in eterno!» (Lettera a Papa Anastasio IV).
Sono lontane le voci dei grandi santi che tuonavano contro la corruzione nel clero e che non temevano di rimproverare Vescovi e Papi. Quella spinta pare oramai essersi diretta fuori dalle mura della Chiesa divenendo persino, e in modo negativo, appannaggio mediatico e corruttivo. Sopravvivendo in una forma quasi intimidita, forse, sottovoce perché perseguitata.

(Fonte: Clericali falsi e anticlericali veri, in Cooperatores veritatis, 2014)

 

“Noah”, un diluvio di perplessità

Se pensate di trovare in Noah un film biblico, lasciate perdere. La bibbia qui è servita soltanto come fonte di nomi e spunto da cui ricavare un polpettone commerciale, appetibile per chi ama il genere fantasy sul tipo de “Il Signore degli Anelli” o della serie dei “Transformers”. In ogni caso, onore sul campo per un professionista del calibro di Russel Crowe.
Darren Aronofsky, già autore de "Il cigno nero", è un regista visionario e ateo professo che accarezzava da anni il sogno di cimentarsi con la trasposizione cinematografica del racconto biblico del diluvio universale.
Purtroppo il suo "Noah", costato ben 130 milioni di dollari, lascia davvero perplessi per le aggiunte arbitrarie, la deriva fantasy, l'impiego spropositato del digitale e la presenza disordinata di troppi spunti. Il materiale sulla vicenda contenuto nel libro della Genesi, del resto, non era sufficiente a trarne una pellicola della durata di oltre due ore e questo ha comportato integrazioni a dir poco discutibili. L'aggiunta più stridente sotto tutti i punti di vista è quella dei giganti di pietra, angeli caduti che fanno da aiutanti nella costruzione dell'arca. Stona non poco anche il personaggio del vecchio mago, nonno del protagonista, interpretato da un sornione e ironico Anthony Hopkins alle prese con pozione magica e imposizione delle mani. Molto spazio è dato ai tormenti interiori che la circostanza apocalittica genera nel patriarca biblico e nei suoi congiunti. In questo senso non mancano realismo psicologico e intensità morale, soprattutto perché il Noah di Russel Crowe è un uomo buio, angosciato e che da umile servitore di Dio diventa a un certo punto una specie di invasato fanatico religioso. Peccato che la performance dell'attore, ottima e intensa, finisca mortificata in un film che presenta più di un momento kitsch. Nel cast spiccano Jennifer Connelly, nei panni della moglie e Emma Watson in quelli della figlia adottiva che sarà al centro di un doloroso dramma familiare.  Questa versione assai audace, anche se mai blasfema, dei passi biblici ha fatto insorgere molti cattolici americani e vietare la proiezione della pellicola in numerosi paesi islamici. A poco è servito che la sceneggiatura usi la parola Creatore anziché Dio o che la Paramount abbia diffuso una nota ufficiale in cui mette le mani avanti dichiarando che la vera storia di Noè si trova nella Bibbia e che l'opera artistica in questione ne è solo stata ispirata. In definitiva, nonostante il notevole impatto visivo, "Noah" si presenta come un calderone da cui spuntano, alla rinfusa, riferimenti darwiniani, moniti ambientalisti e dubbi etico-filosofici. Non ci si annoia, ma i limiti del film sono piuttosto evidenti. 

(Tratto da: Serena Nannelli , Il Giornale, 12 aprile 2014)

giovedì 10 aprile 2014

Scandalo nella cattedrale di Cordoba (Argentina)

Sabato 5 aprile la piccola Umma Azul ha ricevuto il sacramento del Battesimo presso la cattedrale di Cordoba in Argentina (http://video.corriere.it/argentina-battezzata-figlia-coppia-lesbica/e8264652-bdba-11e3-b2d0-9e36fa632dc6). Non si può che gioire per la rinascita in Cristo di Umma.
Grazie al sacramento del Battesimo, questa neonata, è redenta, liberata dal peccato originale, incorporata in Cristo, accolta nella Santa Chiesa, elevata alla dignità di figlia di Dio, inabitata dalla Santissima Trinità. La gioia per quest’anima segnata dal carattere battesimale non può che essere grande.
Tuttavia sorge più d’una perplessità quando si scoprono i particolari di questo insolito Battesimo, così pubblicizzato da aver scatenato una vivace polemica internazionale prima ancora d’essere celebrato. Umma, infatti, è il frutto di una fecondazione artificiale, figlia di una donna che risulta unita in “matrimonio” ad un’altra donna. Entrambe le donne si presentano come “madri” di Umma rivendicando la così detta omogenitorialità.
La piccola, secondo questa strana logica, avrebbe due “madri” e nessun padre, essendo il padre biologico ridotto ad un impersonale “fornitore di sperma”. Soledad Ortiz e Karina Villarroel, le “madri” di Umma, non solo hanno contratto, la prima coppia a Cordoba, «matrimonio igualitario (omosessuale)», istituto giuridico illegittimo perché contrario al diritto naturale recentemente introdotto nella legislazione argentina, ma pure manifestano pubblicamente la propria adesione alla “cultura gay” e il proprio orgoglio d’essere lesbiche rivendicando una nuova idea di genitorialità declinata in senso omosessuale.
Il battesimo della piccola Umma è stato così presentato, dalle due donne come dalla quasi totalità dei media, quale sorta di benedizione ecclesiale alle unioni gay. Le due donne hanno rilasciato ampie dichiarazioni in merito e la galassia gay non ha perso l’occasione per rilanciare strumentalmente la vicenda (si veda ad es. http://www.queerblog.it/post/130137/le-foto-del-battesimo-di-umma-azul-figlia-di-una-coppia-lesbica).
La scelta stessa della madrina è indicativa. Le due donne hanno voluto che, ad accompagnare Umma Azul al fonte battesimale, fosse Cristina Fernandez de Kirchner, ovvero proprio colei che, in qualità di presidente dell’Argentina, promulgò la legge istitutiva dei “matrimoni omosessuali”. La presidente Kirchner ha accettato e, pur non essendo fisicamente presente al Rito, ha svolto per procura la funzione liturgica assumendo titolo e oneri di madrina. È difficile credere che la scelta della cattedrale quale luogo e del Capo dello Stato quale madrina sia priva di finalità mediatiche e ideologico-propagandistiche. Ci si chiede perché le autorità ecclesiastiche abbiano permesso simile strumentalizzazione d’un sacramento. Sacramento amministrato con il dichiarato consenso, anche relativamente a luogo e modi, dell’arcivescovo monsignor Carlos Nanez.
L’arcidiocesi di Cordoba avrebbe potuto stabilire un luogo più appartato e modesto per la celebrazione del battesimo e imporre la massima discrezione, avrebbe potuto eccepire più d’una obbiezione circa la scelta della madrina, viste le oggettive e pubbliche posizioni assunte dalla Kirchner in aperto contrasto con la Dottrina cattolica. E, invece, nulla di tutto ciò! Ci si chiede, poi, perché l’arcidiocesi di Cordoba abbia accettato di riconoscere Umma come figlia delle due donne quando è figlia solo di una delle due e di un padre ignoto. Cosa rende “madre di Umma” la seconda donna? Forse il fatto d’essere unita alla madre della bimba in uno scandaloso vincolo “matrimoniale” omosessuale?
Aver riconosciuto a Soledad e Karina lo status di genitori, riconoscimento addirittura liturgico avendo svolto, le due donne, ciò che il Rito del Battesimo prevede per i genitori (papà e mamma), e averle persino definite “madri” (a parlare, per prima, di “madri” al plurale è stata Rosana Triunfetti responsabile del Servizio di Comunicazione pastorale dell’arcidiocesi di Cordoba) lascia perplessi costituendo un reale, se pur non esplicito, riconoscimento delle rivendicazioni gay alla omogenitorialità. A rendere ancora più problematica e preoccupante la vicenda ci hanno pensato don Javier Klajner, stretto collaboratore di Bergoglio a Buenos Aires, e padre Antonio Spadaro, direttore de “La Civiltà cattolica”, collegando la vicenda di Cordoba con il pontificato di Francesco.
Padre Spadaro, parlando ad un convegno promosso dalla rivista “Limes”, si è spinto a dire che: «se non ci fosse stato papa Francesco non sarebbe stato facile battezzare una bambina nata da una coppia lesbica». Il direttore de “La Civiltà cattolica” indica così nella vicenda di Cordoba, addirittura, un frutto del pontificato di Bergoglio. Fa rabbrividire notare come per così autorevole gesuita la vicenda di Umma non sollevi alcuna problematicità ed anzi si possa presentare il tutto tra i meriti di papa Francesco. Che poi per padre Spadaro Umma sia “nata da una coppia lesbica” e non, come invece è, da un uomo (irresponsabile) e una donna (“sposata” con un’altra donna) dice quanto l’ideologia omosessualista sia penetrata nel clero.
Abbiamo premesso la gioia per la grazia ricevuta nel Battesimo dalla piccola Umma, che certo non porta su di sé le colpe della madre lesbica e del padre “fornitore di sperma”, ma non possiamo fare finta che non si sia consumato uno scandalo oggettivo, che un Sacramento sia stato strumentalizzato per fini di propaganda immorale, che dentro la cattedrale di Cordoba si sia de facto celebrata la omogenitorialità, che l’autorità ecclesiastica si sia dimostrata connivente e, infine, che tutto ciò sia stato autorevolmente spiegato come frutto della nuova linea impressa alla Chiesa da papa Francesco.
Come la Chiesa insegna, per l’ammissione al sacramento del Battesimo è necessaria le fede. «Nel caso del battesimo degli infanti, la fede dei genitori e del padrino/madrina i quali si impegnano a educare cattolicamente il battezzato. Qualora non vi sia la fondata speranza di ciò, non è lecito battezzare quel bambino»(cfr. CIC, can. 868).
Ma se la fede è l’assenso soprannaturale col quale l’intelletto, sotto l’impero della volontà e l’influsso della grazia, aderisce con fermezza a tutte e singole le verità da Dio rivelate e come tali dalla Chiesa insegnate, come si può avere la fondata speranza che Umma sia educata nella fede cattolica quando la madre e l’altra donna pubblicamente professano idee radicalmente contrarie alla Dottrina cattolica in campo antropologico e morale? Considerato che il padrino e la madrina «devono essere credenti solidi, capaci e pronti a sostenere nel cammino della vita cristiana il neo-battezzato» (CCC, 1255), come può la signora Kirchner adempiere a tale “officium” ecclesiale (Sacrosanctum Concilium, 67) quando ella stessa  condivide i medesimi errori sposati dalle due donne e tali errori ha persino tradotto in leggi civili? Compito del padrino/madrina è «adoperarsi ugualmente che il battezzato conduca una vita cristiana conforme al battesimo ed adempia fedelmente agli obblighi ad esso inerenti» (CIC, can. 872); come può la presidente Kirchner garantire ciò se, per prima, professa convinzioni ideologiche incompatibili con la Dottrina cattolica? Come è evidente, la madrina di Umma non è stata scelta per garantire l’educazione cattolica della piccola, piuttosto per sottolineare propagandisticamente l’ opzione per l’omogenitorialità compiuta dalle due donne e dalla Kirchner resa possibile per legge grazie al così detto “matrimonio omosessuale” introdotto nell’ordinamento argentino. Una funzione ecclesiale è stata, così, manifestamente pervertita, strumentalizzato, per fini contrari al bene, un sacramento, dato scandalo attraverso un atto liturgico e tutto con il tacito consenso delle autorità ecclesiastiche.
Considerato il rilievo mediatico accordato alla vicenda, per evidente iniziativa delle due donne e della rete omosessualista ma non senza responsabilità delle autorità ecclesiastiche e di personalità come p. Spadaro, lo scandalo è stato universale coinvolgendo, indirettamente, persino la figura del Romano Pontefice. Urge, pertanto, una parola di verità che ripari a simile scandalo e tale parola deve venire da Roma.  Confidiamo la Congregazione per il Culto Divino e la disciplina dei Sacramenti intervenga con autorità facendo chiarezza e ristabilendo la verità del Battesimo.

(Fonte: Christian De Benedetto, Corrispondenza Romana, 10 aprile 2014)

Card. Brandmüller. Divorziati risposati, così nella Chiesa primitiva

In previsione del prossimo Sinodo dei vescovi, la discussione sulla posizione dei divorziati risposati all’interno della comunità della Chiesa ha acquistato nuova urgenza. In tale contesto vengono citate una serie di testimonianze dell’era patristica che deporrebbero a favore di una ammissione di questo gruppo di persone all’Eucaristia. Ciò avviene soprattutto in un’opera di Giovanni Cereti, un sacerdote della diocesi di Genova che ha studiato patristica e teologia ecumenica e continua tutt’oggi a lavorare in questi campi.
Con il suo libro Divorzio, nuove nozze e penitenza nella Chiesa primitiva, del 1977 (riedito da Aracne nel 2013), Cereti intende perseguire un interesse ecumenico e pastorale: il riconoscimento delle seconde nozze dei divorziati da parte della Chiesa e il loro accesso alla comunione eucaristica. Egli ritiene che ciò sia stato una prassi già nella Chiesa primitiva. Pare che la riedizione del 2013 da parte di Aracne del volume sia stata intrapresa proprio in occasione del Sinodo dei vescovi, che si terrà in Vaticano nell’ottobre del 2014.
La tesi di fondo di Cereti è tuttavia insostenibile. Sebbene alcuni Padri abbiano manifestato una certa tolleranza in riferimento a singole situazioni difficili, né nell’Occidente, né nell’Oriente si può però parlare di un regolare riconoscimento delle seconde nozze dopo il divorzio e di una ammissione all’Eucaristia dei divorziati risposati. Nonostante gli Ortodossi riconoscano oggi un secondo e un terzo matrimonio di penitenza, si deve tener presente che nella Chiesa primitiva la possibilità di accedere a nuove nozze si verificava unicamente per i vedovi e non nel caso del matrimonio dopo un divorzio.
Cereti chiede molto suggestivamente che lo sguardo sulla Chiesa primitiva si liberi dalla severa prassi odierna, la quale non consente una riammissione dei divorziati risposati all’eucaristia. Nella Chiesa primitiva si parlava spesso di seconde e terze nozze e, secondo Cereti, con ciò si intendevano le nozze dopo un precedente divorzio. Certamente, è davvero necessario liberarsi della visione odierna nel guardare all’antichità: dobbiamo però stare bene attenti a non proiettare sulla Chiesa primitiva la disinvoltura con la quale la società odierna accetta il divorzio e le seconde nozze. Già l’antichità precristiana trattava il divorzio e le seconde nozze in modo molto restrittivo. Non si può assolutamente parlare nell’epoca dei Padri di una prassi generale di divorzio e di nuove nozze.
Un secondo matrimonio simultaneo, cioè contratto mentre era in vita il primo coniuge, veniva considerato come un adulterio perpetuo e mai era preso in considerazione come una scelta cristiana. Non risulta nessuna iniziativa dei Padri per regolare pastoralmente un tale matrimonio. Solo la separazione poteva essere, eventualmente, permessa. Quando invece nei testi ecclesiastici si parla di seconde, terze o quarte nozze, si intendono le nozze dei vedovi. Se ne parlava perché erano permesse, ma non viste di buon occhio. Dove i Padri o i Sinodi parlano di un divorzio permesso o addirittura dovuto, Cereti ne deduce inoltre il diritto di risposarsi mentre il coniuge è ancora in vita, ma da nessuna parte esiste una prova di ciò. Divorzio e seconde nozze sono due realtà completamente distinte. La separazione e l’adulterio venivano sanzionati e non si poteva affatto parlare di un permesso per un secondo matrimonio contratto durante la vita del primo coniuge.
Cereti ritiene che i Sinodi del quarto secolo, che riammettevano nella Chiesa i digamoi (coloro che contraevano un secondo matrimonio) dopo un periodo di penitenza, intendevano con ciò sia il caso delle seconde nozze simultanee (un secondo matrimonio mentre il primo coniuge è in vita) che di quelle successive (un secondo matrimonio dopo la morte del primo coniuge). In tal senso anche i divorziati risposati avrebbero potuto essere ammessi all’Eucaristia. Addirittura il Concilio ecumenico di Nicea (can. 8) lo avrebbe considerato un’ovvietà. In realtà, in nessun Padre della Chiesa si può trovare un riferimento alla parola digamoi nel senso di un’equiparazione tra le seconde nozze simultanee e quelle successive dei vedovi.
A maggior ragione nessun testo sinodale, che di per sé esigeva chiarezza giuridica, avrebbe mai potuto intendere con digamoi sia le seconde nozze simultanee che quelle successive. Con ciò si sarebbero messe sullo stesso livello le seconde nozze simultanee, che risultano sempre da un adulterio, con le seconde nozze successive dei vedovi, che venivano considerate dalla maggioranza dei Padri come indesiderate, ma non peccaminose.
A favore di una simile interpretazione del termine digamoi da parte dei Sinodi depone anche il canone 19 del Sinodo di Ancira (314), il quale prevedeva che chi infrange il voto di verginità doveva sottoporsi alla disciplina (penitenziale) dei digamoi. Infine, il Sinodo di Laodicea, nella seconda metà del quarto secolo, disponeva che ai digamoi che avessero celebrato un secondo matrimonio in modo libero e formale, e non in segreto, venisse imposto solo un breve tempo di penitenza.
Ma anche qui si tratta dei digamoi nel senso delle seconde nozze dei vedovi. Come risulta da quanto sinteticamente sopra esposto (ma criticamente documentato in modo più ampio e adeguato in altra sede: cfr. W. Brandmüller, Den Vätern ging es um die Witwen, “Die Tagespost”, 27 febbraio 2014, p. 7; H. Crouzel, S.J., L’Église primitive face au divorce: du premier au cinquième siècle, Paris 1971; G. Pelland, S.J., La pratica della Chiesa antica relativa ai fedeli divorziati risposati, in: Congregazione per la dottrina della fede, Sulla pastorale dei divorziati risposati. Documenti, commenti e studi, LEV, Città del Vaticano 2010, pp. 99-131), un’interpretazione dei testi che voglia seguire correttamente le esigenze del metodo storico-critico, non permette di trarre le conclusioni alle quali Cereti arriva. Inoltre non pare superfluo ricordare che solo un consensus Patrum, un insegnamento consensuale dei Padri – e non una scelta arbitraria di testi – può pretendere di possedere autorità dottrinale e quindi avere valore probante in vista di una nuova prassi pastorale. Va infine ricordato che lo Spirito guida la Chiesa nella verità tutta intera (cfr.Gv 16,13). Ciò comporta che la Chiesa avanza in una comprensione sempre più approfondita della verità. Poiché d’altra parte lo Spirito Santo nel percorso della storia non può contraddirsi, ogni successiva acquisizione non può contraddire le precedenti.

(Fonte: Walter Brandmüller, Chiesa e post concilio, 10 aprile 2014)

venerdì 4 aprile 2014

Lettera aperta al direttore del mensile paolino “Jesus”

Una lettera forte, assolutamente condivisibile per la sua obiettività, che merita di essere letta con attenzione e meditata, senza dover ricorrere ad un inconsulto "stracciarsi le vesti" per bestemmia. Quelle che seguono sono le testuali parole che il sacerdote padre Ariel Levi di Gualdo rivolge a padre Antonio Rizzolo, direttore responsabile del mensile “Jesus”:
«Caro Confratello. La rivista Jesus è divenuta una tale melassa di luoghi comuni di estrazione modernista da farla ormai apparire come un’appendice della esotica congrega bosiana del cattivo maestro Enzo Bianchi, vostra firma di punta [qui, qui] assieme a Gianfranco Ravasi [qui].
Se l’autorità ecclesiastica avvertisse la propria naturale vocazione alla difesa della verità contro l’errore, anziché essere paralizzata nel ristagno originato dal peccato di omissione che genera la peggiore impotenza, la vostra congregazione religiosa sarebbe stata commissariata al posto di quella dei Francescani dell’Immacolata, ed al vostro giornale la Conferenza Episcopale Italiana avrebbe provveduto da tempo a togliere il titolo di “cattolico”, con relativa precisazione che Jesus per un verso, Famiglia Cristiana per un altro, non rappresentano il sentire della comunità cattolica italiana e quello dei vescovi che la guidano.
Come spiegavo a un auditorio di Rieti pochi giorni fa durante una conferenza promossa dalla Fondazione Internazionale Tomas Tyn [qui, qui], oggi il peccato di omissione va per la maggiore tra i nostri vescovi, mentre il principio di inversione tra bene e male pare regnare sovrano. La conseguenza logica e al tempo stesso tragica è uno stato di ristagno che genere quella impotenza in virtù della quale tutti fanno tutto e nessuno reagisce, se non nei confronti di chi tenta di difendere la sana dottrina cattolica.
Dopo che nel corso degli ultimi cinquant’anni il dogma è stato fatto a pezzi dall’ascia dei Rahner e degli Schillebeeckx, per poi seguire appresso con la dispersione dei brandelli sezionati per opera del prolifico esercito dei loro nipotini ideologici, la situazione odierna è quella di una Chiesa nella quale una non meglio precisata “dottrina” antropocentrica si è andata sostituendo a quella cristocentrica.
Passo adesso a commentare una frase chiave apparsa sul tuo ultimo editoriale di Jesus: «E’ passato un anno dall’elezione di Papa Francesco, il 13 marzo 2013, ma la sensazione è che si siano fatti enormi passi in avanti nella Chiesa, riducendo quel ritardo di 200 anni di cui parlava il cardinale Martini». In occasione di questo anniversario bisogna «riflettere sulla Chiesa del futuro, sulle prospettive aperte dalla rinuncia di Benedetto XVI, gesto profetico che ha desacralizzato la figura del Papa, e l’elezione di Bergoglio che ha rimesso al centro il Vangelo» [testo integrale: qui].
Sorvolo sui deliri fanta-ecclesiali dell’ultimo Carlo Maria Martini citato in somma gloria come un profeta e riguardo il quale pochi osano dire la verità a proprio rischio e pericolo [qui]. Proverò a dirla io con la devozione dovuta a un vescovo dalla sincera tenerezza di un sacerdote che reputa opportuno richiamare quanti fossero interessati a un’evidenza così solare: «Il re è nudo!».
l’Arcivescovo emerito di Milano ha vissuto gli ultimi anni della sua vita ed è morto colpito da una profonda crisi di fede, lo dimostrano i suoi ultimi discorsi angosciosi e alcuni inquietanti libri-intervista. Se ne facciano una serena ragione, i devoti Martinitt. Perché se negli anni Settanta molti preti progressisti, anziché fare i confessori e i direttori spirituali si sono messi invece a giocare con le indagini psicanalitiche, inevitabilmente, quelle stesse tecniche d’indagine, finiranno all’occorrenza applicate simile modo ai preti stessi e a certi loro vescovi bandiera.
Se li boni gesuiti compirono un’opera altamente meritoria, tale fu quella di smontare su La Civiltà Cattolica il libro di Vito Mancuso [qui] nel quale erano concentrate perlomeno una dozzina di eresie [qui], siffatta opera resta però compiuta a metà e in modo pure maldestro, perché nessuno scrittore di quella prestigiosa redazione si è premurato di rammaricarsi per l’eminente firma che a quel libro vergò prefazione: il Cardinale Carlo Maria Martini, in assenza della quale mai avrebbe riscosso il successo avuto. Né alcuno ha puntualizzato che fu Carlo Maria Martini in persona a consacrare sacerdote Vito Mancuso per la Diocesi di Milano nel 1986 all’età di soli 23 anni [qui] con la prevista dispensa chiesta e ottenuta dalla Santa Sede. Infatti, l’età minima prevista dal Codice di Diritto Canonico per l’ordinazione dei presbiteri è fissata a 25 anni dal canone 1031. Il vescovo ha facoltà di dispensare un anno, ma al di sotto dei 24 anni è obbligatorio chiedere e ottenere la dispensa dalla Santa Sede.
Nel 1987, ad appena un anno dalla sacra ordinazione, Vito Mancuso mostra tutta la solidità della sua formazione conseguita nel seminario di una diocesi governata dal più celebrato astro del progressismo episcopale italiano, chiedendo di essere sospeso dal sacro ministero. A quel punto, Carlo Maria Martini, cerca di farlo riprendere dalla crisi inviandolo a studiare presso Bruno Forte, affinché la toppa potesse risultare nel tempo molto peggiore dello strappo [qui].
A questo punto la domanda sorge a dir poco legittima: considerando che il Cardinale Carlo Maria Martini chiese e ottenne persino la dispensa dalla Santa Sede per poter procedere all’ordinazione sacerdotale di questa stella nascente della teologia che un anno dopo appena abbandonava il sacro ministero; può essere credibile che dinanzi al vespaio sollevato da questo libro, l’eminente prefatore facesse affermare a varie interposte persone che in verità, questo Vito Mancuso, in pratica quasi non lo conosceva? [qui].
Appresso, li boni gesuiti de La Civiltà Cattolica, per bocca e per penna del Padre Gianpaolo Salvini tentavano di far credere tra le righe che Vito Mancuso aveva strappato al povero cardinale una prefazione quasi con artifizio e inganno, usando sue lettere private e amenità circonlocutorie di vario genere atte però di fatto ad offendere l’intelligenza di chiunque se le sia viste presentare come plausibili giustificazioni veritiere mirate a smontare un dato oggettivo e grave: Carlo Maria Martini ha scritto la prefazione all’autentico distillato di eresie di un personaggio che in verità conosceva così bene da averlo consacrato sacerdote con la prevista dispensa pontificia al di sotto del limite di età, da averlo dispensato come proprio presbitero dall’esercizio del sacro ministero, da averlo inviato a studiare con Bruno Forte e suvvia a seguire. Dal canto suo, Vito Mancuso, ritrovandosi ad essere accusato dai maestri della “riserva mentale” e della “doppia coscienza” di avere compiuto un gesto che in sé sarebbe a dir poco infame — ossia l’avere estrapolato una prefazione da alcuni messaggi privati — essendo sì fuori discussione un eretico conclamato, ma non essendo affatto un uomo né disonesto né bugiardo, rispose dimostrando che quella prefazione era autentica senza facile pena di smentita [qui].
Con queste dovute precisazioni desideravo far calare una trapunta di lana pesante sulla cara persona del Cardinale Carlo Maria Martini, che taluni si ostinano a presentare da morto ancora più che da vivo come un autentico Santo Padre e Dottore della Chiesa, nonché difensore della vera fede cattolica.
Vorrei poi che tu spiegassi con approfondita ecclesiologia l’altra tua frase agghiacciante: «L’elezione di Bergoglio che ha rimesso al centro il Vangelo». E sarebbe bene spiegarla perché molti cristiani non “adulti”, poiché non cresciuti alla gloriosa Scuola di Bologna di Dossetti&Alberigo, tra un ritiro spirituale a Bose ed un drink ecumenico con una vescovessa luterana lesbica che si diletta a ordinare preti gay [qui], nel loro povero infantilismo pre-adolescenziale e cattolico-paesano potrebbero persino dedurne che sotto i pontificati di Paolo VI, di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI il Vangelo non era affatto al centro della vita della Chiesa.
Infine l’ultima domanda: siamo forse giunti alla celebrazione della ghigliottina sulle riviste “cattoliche”? Perché nel caso in cui la cosa sfuggisse, merita allora ricordare ai membri dell’episcopato italiano preposti a vigilare ed a difendere la verità dall’errore, che la cultura liberista, anticlericale e massonica ha sempre celebrato il taglio della testa dell’ultimo Re di Francia con parole ben precise: «Il taglio della testa di Luigi Filippo e di Maria Antonietta ha de-sacralizzato la figura del Re, portandolo dalla sua dimensione di monarca avvolto d’aura trascendentale, a quella di cittadino assoggettato come tutti alle leggi del Popolo Sovrano». Quel Popolo ideale e quel Popolo idolo ideologico che voleva dire tutto e niente, perché nei concreti fatti non valeva e non contava niente, visto che padrone della vita e della morte, sulla base di puri umori ed arbitri, era un autocrate sanguinario come Maximilien de Robespierre, il quale finì poi col fare la fine che fece, come del resto quasi tutti i tiranni.
Lasciami pertanto rammaricare per la tua carente cultura storica, teologica ed ecclesiologica, di cui il mensile Jesus ci ha data eloquente saggio in questo numero con l’editoriale da te firmato. E detto questo la chiudo in breve allegando qui di seguito una serie di collegamenti a dei filmati che parlano e che spiegano più di qualsiasi parola quel che è stato prodotto dalla ghigliottina che ha «desacralizzato la figura del Papa».
Negli anni Settanta io ero adolescente, sono nato nell’agosto del 1963. In quegli anni, quando i sacerdoti paolini cominciarono a gettare per primi la talare alle ortiche per indossare completi in giacca e cravatta [qui, qui, qui], esisteva un giornale chiamato Il Male [qui], fatto tra l’altro anche molto bene a livello grafico, al di là dei contenuti difficilmente accettabili per qualsiasi mente cattolica. Questo giornale pubblicava attacchi periodici molto pesanti nei confronti del Sommo Pontefice Paolo VI, nonostante fosse ormai anziano e gravemente ammalato. E non fu solo Paolo VI a subire attacchi d’ogni sorta, li subì anche il Beato Pontefice Giovanni Paolo II nel corso di tutta la prima e la seconda fase del suo pontificato.
Sempre in quegli anni, il giovane rockettaro Edoardo Bennato cantava una canzone irriverente intitolata «Affacciati affacciati», che era tutta una dura contestazione al Pontefice e alla istituzione religiosa e storica del papato [qui, qui].
La differenza che corre tra queste due diverse epoche storiche con annesse conseguenti reazioni, è questa: gli attacchi passati, o se vogliamo quelli di sempre, erano mossi da credo religiosi diversi, da ideologie, da dottrine politiche, da forze occulte quali ad esempio la Massoneria, che miravano all’attacco preciso e deciso, spesso infarcito di filosofismi e politicismi animati da apparente buonsenso e, talvolta, supportati anche su errori o su politiche sicuramente sbagliate portate avanti dalla Chiesa o dai Pontefici nel corso delle varie fasi storiche legate al passato recente e remoto.
Oggi che invece siamo giunti alla desacralizzazione celebrata dal giacobinismo del tuo mensile “cattolico”, quella del Romano Pontefice — casomai non te ne fossi accorto — è una figura che da molti è stata mutata in oggetto di pubblico sberleffo sui giornali e sulle televisioni. Una figura — e si badi bene che parlo della figura e non di Jorge Mario Bergoglio — trattata giornalmente alla stregua di quella di un pagliaccio. Subdola e terribile è infatti la logica: si distrugge l’ufficio, ossia il papato, ed al contempo si esalta la simpatia e l’amabilità della persona di Jorge Mario Bergoglio, che da questo ufficio è stato completamente scisso a livello mediatico. Insomma: «Bergoglio si, papato no!».
Sarebbe poi interessante fare un’indagine storica con relativa ricerca per verificare in quale stile erano impastate nel corso dell’Ottocento le pesanti e infamanti vignette satiriche che prendevano di mira principalmente il Beato Pontefice Pio IX. Immagini durissime nelle quali il Pontefice era ritratto in modo sprezzante sotto la forma di porco o di rospo. Delle immagini che erano mirate a suscitare profondo disprezzo; e per questo lungi dal presentare il Romano Pontefice come un pagliaccio che tra una risata e l’altra suscitava invece simpatia e senso di affetto a scapito del ministero e del mistero da esso incarnato: «Tu es Petrus»[cf. Mt 16,18].
Credo che dovresti ricercare e studiare certi testi e immagini del passato, facili peraltro da trovare perché i tuoi colleghi di Micromega le hanno messe a gentile disposizione in una preziosa pubblicazione [qui] nella quale troverai prova e ragione di quanto ti ho appena espresso in toni doverosamente allarmati.
Dio benedica i tempi nei quali, quando la salma del Pontefice Pio IX fu traslata nella Basilica di San Lorenzo al Verano tra la notte del 12 e 13 luglio 1881, un gruppo di anticlericali furenti cercò di scagliarsi sul suo feretro al grido «Al fiume il papa porco!», con l’intento di gettare la bara nel Tevere. Perché dietro a quell’odio furibondo verso un grande uomo di Dio, c’era un dato di fatto: quegli aggressori riconoscevano — seppure con profondo sprezzo interiore — che il cadavere di quell’uomo era appartenuto al Romano Pontefice. Cosa del tutto chiara, questa, anche ad Ali Ağca un secolo dopo [qui], che pure non proveniva da una cultura né da un contesto storico e sociale cattolico e che tentò di assassinare in Piazza San Pietro Giovanni Paolo II in quanto Sommo Pontefice della Chiesa Cattolica Apostolica Romana, come anni prima accadde a Manila a Paolo VI [qui].
Era molto meglio quando si tentava di gettare a fiume le salme dei Sommi Pontefici consapevoli che erano Pontefici o quando si tentava di assassinarli in Piazza San Pietro. Era molto meglio allora rispetto ai giorni d’oggi, dove grazie alla tua celebrata desacralizzazione i Pontefici sono invece presentati dai mass-media anticattolici e filo massonici come dei buffoni, che in quanto tali strappano un sorriso facendo amorevole tenerezza alla stessa stregua del mitico matto del villaggio, mentre si fa a pezzi il mistero e il ministero di Pietro sul quale Cristo ha fondato la sua Chiesa [Supra: Mt 16,18]
E adesso guardati a una a una le immagini filmate che seguono, poi dimmi se la mia analisi è sbagliata, illustre direttore di Jesus, mensile cosiddetto “cattolico” che esalta «un gesto» — che non è affatto un semplice «gesto» ma una lacerazione e un trauma forse irreversibile — attraverso il quale è stata «desacralizzata la figura del Papa», dopo che noi siamo riusciti a realizzare dall’interno ciò che mai riuscì a realizzare dall’esterno neppure il periodo del terrore della Rivoluzione di Francia che si avventò con rara ferocia contro la Chiesa Cattolica. Firmato: Ariel S. Levi di Gualdo».

(Fonte: Riscossa Cristiana, 3 aprile 2014)