sabato 30 dicembre 2017

Al “Credo” non ci credo: il prete ora è libero di non avere fede


Cronache dalla neo Chiesa: «Io al Credo non ci credo». I fedeli della chiesa di San Rocco di Torino, radunati per la messa di mezzanotte si sono lasciati sfuggire una risatina di complicità. E così il parroco, don Fredo Olivero, ha annunciato in sostituzione il canto Dolce sentire. Insomma: un canto ispirato al Cantico delle creature come sostitutivo del Credo, che rappresenta l’ossatura fondante della fede di ogni battezzato.
Ora, si potrebbe anche alzare le mani e dire: bè, con queste premesse, ha vinto lui. Anni e anni a tentare di camuffare articoli scomodi o parti della messa troppo farraginose e poi arriva lui con la soluzione gordiana: perché non toglierlo del tutto? Chapeau, effettivamente… La cattiva teologia che si mangia la dottrina ha toccato vette sublimi l’altra sera durante una messa che definire show è eufemistico: liturgia eucaristica modificata alla bisogna, comunione distribuita solo da ministri straordinari, anzi, fatta prendere in mano dai fedeli che l’hanno intinta personalmente nel calice, un Padre nostro condiviso con il più profano canto spagnoleggiante ricalcato da Sound of silence di Simon & Garfunkel. Liturgia anni ’70 allo stato puro, mancavano solo i cantori con zampa d’elefante.
Invece è l’anno del Signore 2017 che ci consegna l’ultima frontiera della messa fai da te, presentata con il viso pacioso e rassicurante di un parroco con 50 anni di messa alle spalle che si dice molto attivo nel sociale e che a quelle latitudini viene chiamato con terminologia ecclesialmente corretta “un prete di strada”, perché si occupa di migranti e perché anche recentemente ha detto di voler modificare il concetto di transustanziazione.
Ovviamente criticarlo non si può, un po’ perché non si possono criticare i preti che si spendono nel sociale, anche se nel toccare le cose divine utilizzano zappa e vanga, e poi perché oggi, nella neo Chiesa, non si può prendere di mira chi attenta alla dottrina. Semmai, bisogna punire chi sommessamente fa notare che qualche cosa non va, come testimoniano i provvedimenti presi nei confronti di don Minutella o che c’è una verità di Dio sull’uomo che non cambia, come don Pusceddu.
La sorpresa arriva al minuto 26,50 dopo un’omelia giocata ad invitare i genitori a trasmettere la fede ai figli, ma «smettendo di parlare loro dell’inferno che non serve a nessuno e fa male».
Il cantore annuncia il canto del Credo: «Dolce sentire, pagina 39». Don Fredo attacca per primo: «Sapete perché non dico il Credo? Perché non ci credo». Risate dei fedeli. Poi riprende: Se qualcuno lo capisce…, ma io dopo tanti anni ho capito che era una cosa che non capivo e che non potevo accettare. Cantiamo qualche cos’altro che dica le cose essenziali della fede».
A Torino non è andata poi così male. A Genova ad esempio un altro prete di frontiera, ma con rubrica fissa su Repubblica, don Paolo Farinella, ha annunciato dalle colonne del giornale di aver cancellato per quest’anno la celebrazione del Natale, del 1 gennaio (Maria Madre di Dio) e del 6 gennaio, l’Epifania. In pratica ha detto no alle feste comandate. Perché? Perché il Natale è diventata «una favoletta da presepe con ninne-nanne e zampogne, esclusivo supporto di un'economia capitalista e consumista, trasformando l'intero Cristianesimo in “religione civile”».
Curioso. Anche solo dieci anni fa, non un passato lontanissimo, un prete che si opponeva di affermare le verità principali della fede cattolica o ad abolire a piacere le feste comandate sarebbe stato sospeso a divinis, oggi invece quasi quasi lo fanno monsignore. O comunque non gli succederà nulla. Magari il suo vescovo allargherà le braccia e sospirerà: «Vabbè, lo conosciamo, l'ho richiamato venti volte, ma lui fa così. In fondo è un mio figlio anche lui». Umanamente comprensibile, ma sicuri che non ci sia dell'altro? Invece il problema è tremendamente serio e non solo per questo povero sacerdote che ammettendo di non accettare le verità della fede cattolica semplicemente ammette di non avere fede.
Ma anche per le pecorelle che gli sono affidate: che cosa insegnare ai bambini del catechismo se lui per primo questa fede ammette di non averla? E quale fede poi? Di che cosa stiamo parlando? Di un sentimento vago e mellifluo all’insegna del vogliamoci bene?
La questione del Credo è invece strettamente connessa con la fede. E non è un caso che il Catechismo della Chiesa Cattolica dedichi la sua primissima parte proprio a questo. Perché il Credo è “la risposta dell’uomo a Dio”. Una risposta che è la fede e con la quale l’uomo si sottomette pienamente a Dio. E’ quella che il primo articolo del Catechismo chiama l’obbedienza della fede sull’esempio di Abramo e Maria. Credere in un solo Dio, in Gesù Cristo figlio di Dio, nello Spirito Santo. E poi credere in tutte le altre verità sotto forma di professione di fede, dall’Incarnazione alla Resurrezione fino alla comunione dei santi e la vita eterna.
Don Fredo e don Farinella vogliono rinunciare a tutta questa raccolta organica di verità che va sotto il nome di simbolo? Facciano, ma perché utilizzare il loro ruolo che gli consente di essere pastori per le anime che sono loro affidate? Una volta si sarebbe detto ciechi che guidano altri ciechi. Che cosa resta a un sacerdote che pubblicamente disconosce tutto questo? Resta probabilmente soltanto la sua narcisistica volontà di potenza di imporre una religione in forma ideologica, che è però tremendamente umana, ma con il candore e la pacifica verve del buon parroco tanto engagé. È da lupi di questo tenore travestiti da candidi agnelli che il fedele dovrebbe guardarsi. Perché stanno lentamente segando il ramo sul quale si sono seduti con loro. 
  

(Fonte: Andrea Zambrano, LNBQ, 30 dicembre 2017) 




Il sepolcro vuoto: per Bruno Forte è una “leggenda”


Dai tempi apostolici, come attesta il discorso di Paolo all’Areopago, non si è mai smesso di dubitare della veridicità della risurrezione di Gesù Cristo. Anzi, egli non era ancora asceso al cielo e, come il vangelo di Matteo annota: “Quidam autem dubitaverunt!” (alcuni però avevano dubitato: Mt 28,17).
Alcuni anni fa a Gerusalemme ci fu sul tema un dibattito teologico: il teologo cattolico ricorse alla ‘leggenda eziologica’ per spiegare l’avvenimento, e quello ortodosso reagì al punto da abbandonare l’incontro; così sulla risurrezione inciampò anche il dialogo ecumenico cattolico-ortodosso, proprio nella Città Santa. Ai nostri giorni, il dubbio sulle ‘prove’ della risurrezione è stato alimentato proprio da taluni esegeti e cristologi, contro tutta la tradizione della Chiesa, quella tradizione che il Concilio Vaticano II nella Dei Verbum, descrive come ciò che rende possibile l’accesso al vero senso del testo della Scrittura. Si è adottata la perifrasi ‘evento pasquale’ e si è immaginato un Cristo pre-pasquale in contraddizione con quello post-pasquale. Forse il popolo cristiano non è stato molto toccato da ciò, malgrado non pochi preti e docenti di seminario abbiano attinto ampiamente, come a materia canonizzata, ai vari Raymond E. Brown, Pierre Benoit e Marie-Emile Boismard. Qualche direttore di ufficio catechistico ha anche invitato i catechisti e gli insegnanti di religione alla prudenza: a non dire che Cristo è risorto, ma che i discepoli hanno detto che egli è risorto!
Anche in Italia non sono mancati i divulgatori di questa teologia debole e derivativa.
Per esempio, in uno dei suoi studi, Bruno Forte comincia con l’attribuire scarso valore storico ai racconti del sepolcro vuoto, ritenendo questo argomento ambiguo e frutto del lavoro redazionale degli evangelisti; quindi, sulla scia di autori come G. Schille, L. Schenke, E. Schillebeeckx, lo considera appunto una “leggenda eziologica”, ovvero un artificio per suffragare il culto che i giudeo-cristiani svolgevano al luogo della sepoltura di Gesù.
Inoltre, il dato della tomba vuota viene ritenuto ambiguo, perché suscettibile di svariate interpretazioni e perciò incapace di fondare la fede nella risurrezione. Per cui, al contrario, secondo un tipico procedimento bultmanniano, sarebbe la fede ad interpretare il sepolcro vuoto, il quale non aggiungerebbe né toglierebbe nulla all’esperienza degli apostoli che confessarono la risurrezione e la glorificazione di Cristo, cioè la sua signoria sulla morte (cfr. B. Forte, Gesù di Nazareth storia di Dio, Dio della storia, Cinisello B. 1994, 7ed., p 103).
Si dovrebbe dedurre di conseguenza, che, qualora la risurrezione fosse storicamente avvenuta, la fede sarebbe superflua. Inoltre, riferendosi a Mc 16,1-8, Forte ritiene “inverosimile” che le donne si siano recate al sepolcro per “ungere un cadavere a tanta distanza dalla morte” (Ibid., p 103, n 31). Il sepolcro vuoto è all’origine di una suggestione mitica dei discepoli, ereditata dai cristiani (cfr. Ibid., p 103, n 35). Dunque, il sepolcro vuoto, come altri particolari evangelici riguardanti la risurrezione, sarebbe una ‘prova’ fabbricata dalla comunità (V. Messori, Dicono che è risorto, Un’indagine sul Sepolcro vuoto, Torino 2000, p 86).
Che dire? Nelle Vite dei Profeti, un documento del I secolo, è attestato che i capi religiosi giudei usavano recarsi a pregare presso i sepolcri intorno a Gerusalemme, molti dei quali sono stati messi in luce dagli archeologi.
Chi conosce il giudaismo sa che la mishna e il talmud prescrivevano che i sepolcri rimanessero aperti per tre giorni dal momento della sepoltura di un defunto, onde permettere i riti di pietà come l’unzione, che, infatti, veniva ripetuta sui cadaveri già avvolti nei teli; però, in prossimità delle grandi festività giudaiche come la Pasqua, i sepolcri venivano chiusi temporaneamente. Quindi, anche i discepoli di Gesù si apprestavano ad osservare tali prescrizioni (cfr. Mc 16,6), se non fosse intervenuta la risurrezione.
Infatti la sepoltura del suo corpo era stata fatta in tutta fretta a motivo della parasceve pasquale, pertanto bisognava ritornare a completare l’operazione. Tutto questo avvalora ulteriormente l’importanza del sepolcro vuoto. Ma Bruno Forte lo ignora.
In realtà, come Vittorio Messori ha osservato, sussiste “in molti biblisti contemporanei, pur di formazione e convinzioni cristiane, la persuasione sociologica che l’uomo ‘moderno’ non potrebbe accettare l’idea di una risurrezione corporale…”(Ibid., p 87): per loro quel che conta è ‘l’esperienza’ soggettiva degli apostoli e non l’avvenimento storico della risurrezione.
Allora, ci si dovrebbe chiedere: se il sepolcro vuoto non avesse avuto alcuna importanza, perché l’angelo avrebbe invitato a vedere il luogo dove era stato deposto il Signore? (cfr. Mc 16, 5 s). Se lo fece, non fu perché le donne non ne conoscessero l’ubicazione, ma perché constatassero di persona lo stato dei teli funerari, come meglio e con sguardo d’aquila farà Giovanni, sì che ‘vide e credette’(cfr. Gv 20,8).
Il sepolcro vuoto è ‘prova’ della risurrezione perché in esso le bende e il sudario erano come svuotati, anzi, ad osservarli attentamente, davano la sensazione che non fosse trascorso molto tempo. Così, il sepolcro vuoto appartiene al segno di Giona promesso dal Maestro.
Come ben ricorda Messori, l’invito dell’angelo a visitare la tomba vuota è del tutto collegato ai segni del mistero che vi si era appena compiuto (cfr. Ibid., p 143). L’angelo rimosse la pietra dall’ingresso del sepolcro dopo che Cristo era risorto; così la fede nasce dalla risurrezione e non il contrario, a meno che non si ritenga che anche l’angelo sia un genere letterario.
Dunque, nel sepolcro vuoto non v’è ambiguità, anzi vi sono i segni che provano la risurrezione; più che da interpretare c’è da vedere e credere; quindi il sepolcro vuoto “aggiunge” molto – e come! – all’esperienza apostolica della risurrezione, altrimenti, secondo san Paolo, non sussisterebbe la fede (cfr. 1Cor 15,14). È proprio il contrario di ciò che sostiene Bruno Forte.
Ora, il sepolcro vuoto è capace di fondare la fede nella risurrezione; non è argomento con “qualche contenuto storico”; anzi, proprio le “incongruenze storiche” stanno a dimostrare che il cosiddetto “lavoro redazionale dell’evangelista” non era teso ad annullarle ma a rispettarle, in quanto collegate ad un fatto storicamente avvenuto. La Chiesa di certo non le ha attenuate nella proclamazione delle Scritture; pertanto, si deve affermare che ancora oggi “La struttura della parola è sufficientemente univoca” (J. Ratzinger, Che cos’è la teologia? in La Comunione nella Chiesa, Cinisello B., 2004, p 32).
A questo punto, il sepolcro vuoto si dimostra come un fatto degno d’essere raccontato e un argomento che prova la risurrezione del Signore: perciò dalle origini ad oggi ha motivato il culto a Gerusalemme e il pellegrinaggio da tutto il mondo. Il sepolcro trovato vuoto non si può spiegare naturalmente, perché appartiene ai fatti straordinari provati storicamente: cioè che Gesù era stato sepolto in una tomba nuova e che fu visto (oftê), risorto ‘in carne ed ossa’ (Lc 24,39), da Cefa e da molte altre persone (si veda la lista in 1Cor 15,5-7). Se la tomba non fosse stata vuota, gli apostoli non avrebbero potuto predicare in Gerusalemme; nemmeno ai Giudei fu possibile negarlo, sebbene accusassero gli apostoli d’aver trafugato il corpo (cfr. Mt 28,11-15). Se la tomba non era vuota, e il corpo di Gesù continuava a giacervi, subendo la decomposizione, così che tutt’oggi avremmo potuto trovarvi i suoi resti, le sue ossa, Gesù non è risorto.
La tomba vuota non è la condizione sufficiente per la fede nella risurrezione, ma è la condizione necessaria: quello che confessiamo dicendo ch’egli è risorto, precisamente che il suo corpo non è rimasto morto. Diversamente ci sarebbe soltanto la sopravvivenza dell’anima, e l’anima di tutti è sempre, per definizione, immortale (per natura sua, come insegna l’Aquinate, o per speciale decreto divino, come dice Scoto).
Oppure, come vorrebbero appunto i demitizzatori vari, idealisti e liberal protestanti, si tratterebbe meramente di una sopravvivenza ideale, morale, che non aggiunge niente a quella di qualsiasi personaggio venerato o persona amata. Inutile, parlare della convinzione dei discepoli ch’egli sia sempre vivo, se poi di fatto non lo sia. E allora, secondo san Paolo, saremmo i più miserabili degli uomini (cfr. 1Cor 15,19).
Confessare Gesù risorto vuol dire che la tomba è realmente vuota, ch’egli vive in anima e corpo, che il suo corpo non è rimasto nella tomba e non ha subito decomposizione, ecc. Dire che questo non importa vuol dire non credere nella risurrezione. Ad onta del ‘pensiero debole’ diffuso tra taluni teologi ed ecclesiastici, la liturgia, come nel communicantes del canone romano, afferma la risurrezione di Cristo “nel suo vero corpo”.
In verità, “Il messaggio della risurrezione continua ad essere accompagnato e contrastato dal dubbio, anche se alla fine si rivela essere un messaggio vincente capace di superare tutti i dubbi” (J. Ratzinger, Dio e il mondo, Cinisello B., 2001, p 306), ad onta del ‘pensiero debole’ militante tra teologi ed ecclesiastici spiritualisti. Surrexit Dominus vere!

(Fonte: Nicola Bux, La Terra Santa, Anno LXXX Luglio-Agosto 2004, p 9-11. 




La Germania lo ha stabilito per sentenza: i sessi sono tre

Per i tedeschi, d'ora in poi, i sessi non saranno più due, maschio e femmina, ma tre. Entro il 2018, infatti, in Germania all’anagrafe si potrà essere registrati come “inter” o “divers”: si introdurrà cioè un terzo sesso nel quale potranno riconoscersi le persone intersex, quelle cioè che alla nascita hanno caratteristiche “che non possono essere attribuite alle tipiche definizioni di maschile o femminile” (secondo la definizione dell’Alto rappresentante Onu per i diritti umani). Ma di che si tratta, realmente?
Nella discutibilissima sentenza della Corte Costituzionale tedesca l’argomento è il seguente: “L’assegnazione a un sesso è di primaria importanza per l’identità individuale; tipicamente, gioca un ruolo-chiave sia nell’immagine che una persona ha di se stessa sia nel modo in cui la persona interessata è percepita dagli altri. L’identità sessuale di quelle persone che non sono né maschi né femmine è protetta”. In altre parole, secondo la Corte Costituzionale tedesca esiste un terzo sesso che va riconosciuto, proprio per proteggere l’identità sessuale delle persone che vi appartengono. Ed è il sesso dell’indeterminatezza sessuale, che avrebbe lo stesso peso e la stessa legittimità degli altri due.
Ma esiste veramente un terzo sesso? Il nostro Comitato nazionale per la bioetica ha affrontato l’argomento in un parere del 25 febbraio 2010, con un titolo che dà la chiave di lettura della vicenda: “I disturbi della differenziazione sessuale nei minori: aspetti bioetici”.  Nel parere, approvato all’unanimità, si parte con la definizione, che recita: “Con la dizione “disturbi della differenziazione sessuale” (d’ora in poi DDS), si indica uno sviluppo disarmonico delle diverse componenti del sesso biologico che può condizionare anche la strutturazione dell’identità sessuale e l’assunzione del ruolo di genere. Si parla anche di ambiguità sessuale o di intersessualità”.
Non si tratta quindi di un fantomatico “terzo sesso”: le persone “intersex” soffrono di disturbi della differenziazione sessuale che hanno una loro classificazione e i relativi quadri clinici. Il nostro Comitato si è trovato unanime nel riconoscere come interesse preminente del bambino di essere cresciuto come maschio o come femmina. Inoltre auspicava che “nei casi di ambiguità genitale assoluta (quando alla nascita manchino dati obiettivi), sia opportuna una assegnazione sessuale condivisa tra i genitori e i medici e una conseguente educazione in senso maschile o femminile, con il necessario sostegno psicologico e con particolare attenzione all’eventuale emergere di una identità sessuale diversa da quella inizialmente assegnata”.

La sentenza tedesca va in direzione esattamente opposta, pienamente coerente con la deriva gender che in questi anni ha cercato in ogni modo di annientare ogni espressione della differenza sessuale, e lo ha fatto nel modo più “creativo” possibile, cioè, anziché ridurre i due sessi a uno solo, se ne è inventato di sana pianta un terzo. L’importante è negare il dato naturale, il dualismo maschio/femmina. Sul resto, la corte tedesca deve aver pensato che “melius abundare quam deficere”.  Sarà interessante a questo punto vedere se e come il parlamento applicherà la sentenza. La referente per l'Istituto tedesco dei diritti umani, Petra Follmar-Otto, propone di non scrivere il sesso alla nascita ma "di lasciare che sia il bambino dopo i 14 anni d'età a decidere sul suo sesso", mentre il Comitato etico tedesco ha consigliato di lasciare nella registrazione la dicitura "altro".
Ma ancora più interessante (e curioso) sarà vedere quando si cominceranno a trarre le ovvie conclusioni di questa sentenza. Perché se esiste un terzo sesso, anche a questo andranno per forza di cose estesi gli stessi diritti civili previsti per gli altri due, in particolare la possibilità di modificare il sesso assegnato all’anagrafe, sia in senso “transessuale” che in senso “transgender”. In altre parole: se una persona nata uomo crescendo si percepisce donna, e  può scegliere se e fino a che punto modificare il suo corpo, dagli organi genitali ai caratteri sessuali secondari, e può scegliere anche se cambiare nome e sesso anagrafico, allora tutto questo va per forza di cose esteso al terzo sesso, per evitare discriminazioni.  Cioè se una persona alla nascita viene riconosciuta come uomo o come donna, ma crescendo si percepisce del terzo sesso,cioè indeterminato, che si fa? Si vorrà negare il "diritto" a cambiare sesso? Si vorrà discriminare?



giovedì 23 novembre 2017

La falsa teologia di Vito Mancuso


Il libro “L'anima e il suo destino” (Cortina, 2007) ha purtroppo imposto all'attenzione del pubblico Vito Mancuso come «teologo cattolico».

Dico «purtroppo» perché il caso è emblematico di quanto la cultura di oggi disconosca (volutamente o per mera ignoranza) lo statuto epistemologico (cioè la natura e i compiti) della teologia cristiana. L'autore è teologo nel senso che insegna Teologia moderna e contemporanea alla Facoltà di Filosofia dell'Università San Raffaele (Milano), ma l'effettivo contenuto e l'impianto metodologico del suo libro sono in netta contraddizione con l'idea stessa di teologia.

Il suo saggio vorrebbe essere un «moderno» trattato di escatologia, e infatti i nove capitoli che compongono il libro trattano dell'esistenza dell'anima, della sua origine e della sua immortalità, della speranza di salvezza, della morte e del giudizio, dell'aldilà (purgatorio, paradiso, inferno) e infine della «parusia» (la seconda venuta di Cristo alla fine della storia) e del giudizio universale.

Gli argomenti di per sé sono certamente suscettibili di una trattazione teologica, ma l'autore li affronta in un modo che non è quello della teologia, come non è quello della filosofia né di alcuna altra scienza. Da un punto di vista formale, Mancuso non rispetta le più elementari esigenze della logica in generale e in particolare dell'epistemologia; da un punto di vista materiale, poi, dimostra una superficialità scandalosa nel trattare temi ai quali un teologo dovrebbe accostarsi con rispetto, con attenzione e soprattutto con le dovute competenze storiografiche, esegetiche e critiche. È facile pensare di poter «ridefinire» o «riproporre in termini nuovi" le verità rivelate che sono oggetto della dottrina della Chiesa: occorre però intenderle nel loro vero senso e accettarle come verità rivelate da Dio, sapendo che hanno come premesse le verità che l'uomo può raggiungere con le sue forze naturali.

La questione della verità è la questione essenziale, non solo in filosofia ma anche e soprattutto in teologia, e chi pretende di fare teologia deve scoprire le proprie carte, facendo vedere da quali presupposti di verità parte, altrimenti le sue argomentazioni sono dei veri e propri sofismi, utili non a fare scienza, ma a imporre in altri modi la ben nota «dittatura del relativismo».

Non si può ignorare, ora che siamo già nel terzo millennio del cristianesimo, che la teologia cristiana è la riflessione scientifica di un credente sulla propria fede, assunta non come ipotesi da «verificare» ma proprio come verità rivelata da Dio, nei termini precisi con i quali essa è proposta dalla Chiesa, che ha l'autorità e il dovere di custodire e interpretare la Rivelazione. Quando il discorso su Dio e su temi religiosi cristiani non è svolto a partire dalla fede come verità creduta, non si fa più teologia cristiana ma filosofia della religione cristiana o semplicemente filosofia di Dio, cioè «teologia» nel senso aristotelico, come culmine della metafisica. È lo stesso Mancuso a squalificare il suo lavoro fin dall'inizio quando spiega che esso mira alla «costruzione di una "teologia laica", nel senso di rigoroso discorso su Dio, tale da poter sussistere di fronte alla scienza e alla filosofia». Che significato può avere l'aggettivo «laico» applicato alla teologia? Se per «laico» si intende un fedele cristiano che non è membro della gerarchia, l'aggettivo non aggiunge nulla allo statuto epistemologico della teologia, che oggi è coltivata con frutto da tanti laici, uomini e donne. Se invece per La buona filosofia ha saputo dimostrare, fin dall'antichità (Platone), la natura spirituale, cioè immateriale, dell'anima umana, in quanto capace di atti (le intuizioni intellettive e le volizioni libere) che trascendono i limiti della materialità.

La Chiesa ha poi fatto proprie queste acquisizioni della filosofia, non in quanto legate a una particolare epoca storica o a una particolare scuola filosofica, e nemmeno in quanto sostenute dalle indagini delle scienze empiriche, ma solo perché la loro evidenza appartiene alla retta ragione, cioè al senso comune.

Ignorando sia il senso comune e la filosofia, sia il significato del dogma, Mancuso parla di «materia» riferendosi alla corrispondente nozione einsteiniana, senza accorgersi che quest'ultima è in funzione della teoria fisico-matematica e nulla ha a che vedere con la nozione metafisica di «materia», incomprensibile senza quella di «forma». Già in Aristotele, infatti, la materia è il sostrato della forma, è ciò che ha la capacità di ricevere la forma e quest'ultima è ciò che configura e organizza la materia, è il principio di organizzazione e di configurazione della materia intrinseco alla materia stessa.

Ma, anche a proposito di "forma", egli ignora che essa costituisce l'uomo singolo come «sostanza», tanto che arriva invece a scrivere che la dottrina cattolica concepisce l'anima come «sostanza»; in realtà, per la dottrina cattolica, come per la metafisica classica, sostanza è la persona, nell'unità di corpo (materia) e anima (forma).

D'altronde, Mancuso aveva dichiarato nelle premesse la sua incondizionata adesione all'ideologia dell'evoluzionismo cosmico (Teilhard de Chardin), che è quanto di più lontano dalla vera filosofia e - proprio per questo - quanto di più incompatibile con la verità rivelata, sia nei capisaldi teoretici che nelle conseguenze morali, specialmente bioetiche. Basti pensare che, da un principio scientificamente errato come quello che Mancuso enuncia dicendo che «non c'è più (nel caso di una vita colpita da una grave malattia o da senilità acuta) l'anima razionale-spirituale» (p. 107), deriva niente meno che la legittimità dell'eutanasia indiscriminata di malati e di anziani; Mancuso non capisce che la facoltà di intendere e di volere (ciò che ci fa vedere che c'è l'anima immateriale) è permanente e costituisce la persona umana con i suoi inalienabili diritti, anche quando il suo esercizio attuale è accidentalmente impedito da fattori materiali di vario genere. Anche in questo caso, la mancanza di categorie metafisiche (che sono le uniche compatibili con il senso comune e con la Rivelazione) non consente né di intendere né di rispettare la verità sull'anima, che è innanzitutto verità dell'uomo che si sa creato da Dio «a sua immagine e somiglianza», e poi verità di Cristo che «rivela pienamente l'uomo all'uomo».



(Fonte: Antonio Livi, Il Timone, n. 75)



giovedì 2 novembre 2017

Un teologo scrive al papa: C'è caos nella Chiesa, e lei ne è una causa


Thomas G. Weinandy è teologo tra i più noti e stimati e vive a Washington nel Collegio dei Cappuccini, l'ordine francescano al quale appartiene. È membro della commissione teologica internazionale, la commissione che Paolo VI volle a fianco della congregazione per la dottrina della fede perché questa si avvalesse del fior fiore dei teologi di tutto il mondo. Ed è membro di questa commissione dal 2014, ivi nominato da papa Francesco.
Lo scorso mese di maggio, mentre si trovava a Roma per una sessione della commissione, sentì sbocciare in sé l'idea di scrivere a Francesco una lettera aperta, per confidargli l'inquietudine non solo sua ma di molti per il crescente caos nella Chiesa, che vedeva causato in buona parte proprio dal papa.
Pregò a lungo, anche sulla tomba di Pietro. Chiese a Gesù di aiutarlo a decidere se scrivere o no la lettera e di dargli a tal fine un segno… E il segno arrivò il giorno dopo, identico a quello che lui stesso aveva invocato nella preghiera, e che egli ora racconta così: > "There was no longer any doubt that Jesus wanted me to write…"
Confortato dal Cielo, Padre Weinandy scrisse dunque la lettera. A metà estate la fece arrivare a papa Francesco. E oggi, festa di Tutti i Santi, la rende pubblica, negli Stati Uniti sul portale  di informazione religiosa Crux e a Roma, in quattro lingue, su Settimo Cielo.
Padre Weinandy, 71 anni, ha insegnato negli Stati Uniti in numerose università, a Oxford per dodici anni e a Roma alla Pontificia Università Gregoriana.
È stato per nove anni, dal 2005 al 2013, direttore esecutivo della commissione per la dottrina della conferenza episcopale degli Stati Uniti.
*
Santità,
scrivo questa lettera con amore per la Chiesa e rispetto sincero per il suo ufficio. Lei è il Vicario di Cristo sulla terra, il pastore del suo gregge, il successore di san Pietro e quindi la roccia su cui Cristo costruisce la sua Chiesa. Tutti i cattolici, clero e laicato assieme, devono guardare a lei con fedeltà e obbedienza filiali, fondate sulla verità. La Chiesa si rivolge a lei in uno spirito di fede, con la speranza che lei la guiderà nell'amore.
Tuttavia, Santità, una confusione cronica sembra contrassegnare il suo pontificato. La luce della fede, della speranza e dell'amore non è assente, ma troppo spesso è oscurata dall'ambiguità delle sue parole e azioni. Ciò alimenta nei fedeli un crescente disagio. Indebolisce la loro capacità di amore, di gioia e di pace. Mi consenta di offrire alcuni brevi esempi.
In primo luogo c'è il controverso capitolo 8 di "Amoris laetitia". Non c’è bisogno qui di dire le mie personali preoccupazioni riguardo al suo contenuto. Altri, non solo teologi ma anche cardinali e vescovi, lo hanno già fatto. La fonte principale di preoccupazione è il modo con cui lei insegna. In "Amoris laetitia", le sue indicazioni a volte sembrano intenzionalmente ambigue, e in questo modo indirizzano sia a un'interpretazione tradizionale dell'insegnamento cattolico sul matrimonio e il divorzio, sia a un’altra interpretazione che potrebbe implicare un cambiamento in quell'insegnamento. Come lei nota giustamente, i pastori dovrebbero accompagnare e incoraggiare le persone in situazioni matrimoniali irregolari; ma l'ambiguità persiste sul vero significato di questo "accompagnamento". Insegnare con una tale mancanza di chiarezza, per di più apparentemente voluta, inevitabilmente conduce al pericolo di peccare contro lo Spirito Santo, lo Spirito della verità. Lo Spirito Santo è dato alla Chiesa, e in particolare a lei, per sconfiggere l'errore, non per favorirlo. Inoltre, solo dove c'è verità può esserci amore autentico, perché la verità è la luce che rende liberi uomini e donne dalla cecità del peccato, un'oscurità che uccide la vita dell'anima. Eppure sembra che lei censuri e persino derida coloro che interpretano il capitolo 8 di "Amoris laetitia" in accordo con la tradizione della Chiesa, come se fossero dei farisei che tirano le pietre e incarnano un rigorismo privo di misericordia. Questo tipo di calunnia è alieno dalla natura del ministero petrino. Alcuni dei suoi consiglieri, purtroppo, sembrano impegnarsi in azioni del genere. Tale comportamento dà l'impressione che i suoi punti di vista non possano sopravvivere a delle verifiche teologiche, e quindi debbano essere tenuti in piedi da argomenti "ad hominem".
In secondo luogo, troppo spesso la sua maniera d'agire sembra declassare l'importanza della dottrina della Chiesa. Ripetutamente lei descrive la dottrina come una cosa morta e libresca, lontana dalle preoccupazioni pastorali della vita quotidiana. I suoi critici sono stati accusati, stando alle sue stesse parole, di fare della dottrina un'ideologia. Ma è precisamente la dottrina cristiana – comprese le distinzioni sottili fatte a riguardo di credenze centrali come la natura trinitaria di Dio, la natura e le finalità della Chiesa, l'incarnazione, la redenzione, i sacramenti – che libera le persone dalle ideologie mondane e garantisce che effettivamente predichino e insegnino l'autentico e vivificante Vangelo. Coloro che svalutano le dottrine della Chiesa si separano da Gesù, autore della verità. Ciò che essi possiedono, e solo questo possono possedere, è un'ideologia che si conforma al mondo del peccato e della morte.
In terzo luogo, i fedeli cattolici possono essere solo sconcertati dalle sue nomine di certi vescovi, uomini che non solo appaiono aperti verso quanti hanno una visione contrapposta alla fede cristiana, ma addirittura li sostengono e difendono. Ciò che scandalizza i credenti, e anche alcuni colleghi vescovi, non è solo il fatto che lei ha scelto tali uomini per essere pastori della Chiesa, ma anche che lei sembra stare in silenzio di fronte a ciò che insegnano e alla loro pratica pastorale. Questo indebolisce lo zelo dei molti uomini e donne che hanno sostenuto l’insegnamento cattolico autentico per lunghi periodi di tempo, spesso a rischio della loro reputazione e serenità. Il risultato è che molti dei fedeli, che incarnano il "sensus fidelium", stanno perdendo fiducia nel loro supremo pastore.
Quarto, la Chiesa è un corpo unico, il Corpo mistico di Cristo, e lei ha il mandato dal Signore stesso per promuovere e rafforzare la sua unità. Ma le sue azioni e parole troppo spesso sembrano intente a fare il contrario. Incoraggiare una forma di "sinodalità" che permette e promuove diverse opzioni dottrinali e morali all'interno della Chiesa può solo portare a una maggior confusione teologica e pastorale. Una tale sinodalità è insipiente e di fatto agisce contro l'unità collegiale tra i vescovi.
Padre Santo, questo mi porta alla mia preoccupazione finale. Lei ha parlato spesso della necessità della trasparenza all'interno della Chiesa. Lei ha incoraggiato spesso, soprattutto durante i due sinodi passati, tutte le persone, specialmente i vescovi, a parlare francamente e a non aver paura di ciò che il papa potrebbe pensare. Ma lei ha notato che la maggioranza dei vescovi di ​​tutto il mondo stanno fin troppo in silenzio? Perché è così? I vescovi imparano alla svelta, e ciò che molti di loro hanno imparato dal suo pontificato non è che lei è aperto alla critica, ma che lei non la sopporta. Molti vescovi stanno in silenzio perché desiderano essere leali con lei, e quindi non esprimono – almeno in pubblico; in privato è un’altra cosa – le preoccupazioni che il suo pontificato alimenta. Molti temono che se parlassero con franchezza sarebbero emarginati o peggio.
Mi sono spesso chiesto: "Perché Gesù ha lasciato che tutto questo accada?" L'unica risposta che mi viene in mente è che Gesù vuole manifestare proprio quanto debole sia la fede di molti all'interno della Chiesa, anche fra troppi dei suoi vescovi. Ironia della sorte, il suo pontificato ha dato a coloro che sostengono punti di vista teologici e pastorali rovinosi la licenza e la sicurezza di uscire in piena luce e di esibire la loro oscurità precedentemente nascosta. Nel riconoscere questa oscurità, la Chiesa umilmente sentirà il bisogno di rinnovare se stessa e così continuare a crescere in santità.
Padre Santo, prego per lei costantemente e continuerò a farlo. Che lo Spirito Santo la guidi alla luce della verità e alla vita dell'amore, così che lei possa rimuovere l'oscurità che ora nasconde la bellezza della Chiesa di Gesù.
Sinceramente in Cristo, Thomas G. Weinandy, O.F.M., Cap.


mercoledì 18 ottobre 2017

Gli ortodossi russi celebrano Benedetto XVI: “Fermo oppositore di ogni compromesso sulla fede”


Il metropolita di Volokolamsk, Hilarion, si è recato personalmente al monastero Mater Ecclesiae, in Vaticano, per consegnare a Benedetto XVI una copia del volume “Teologia della liturgia. La fondazione sacramentale dell’esistenza cristiana”, tradotto in russo e pubblicato dalle edizioni del Patriarcato di Mosca. Si tratta del volume XI dell’Opera omnia di Joseph Ratzinger. La prefazione è curata dallo stesso Hilarion, che scrive: “Al nome di Papa Benedetto XVI è legata la battaglia per la difesa dei valori cristiani tradizionali e, a un tempo, quella per la riscoperta e la riaffermazione della loro attualità nella moderna società secolarizzata”.
“Papa Benedetto – prosegue Hilarion nel testo ripreso dall’Osservatore Romano – ha spesso espresso la sua profonda simpatia per l’ortodossia e da sempre ritiene che, a livello teologico, gli ortodossi siano i più prossimi ai cattolici. Non è un caso che proprio lui sia stato uno dei primi membri della Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa, a seguito della sua fondazione nel 1979. Da teologo, Ratzinger ha fatto sforzi enormi per chiarire la questione del primato del vescovo di Roma, spostando l’accento da una visione giuridica del primato a una sua comprensione primariamente come testimonianza cristiana di tipo particolare e come servizio all’unità nell’amore. Egli è stato sempre fermo oppositore di qualsiasi compromesso nel campo della dottrina della fede, indicando, giustamente, che l’unità — per principio possibile tra Oriente e Occidente — deve essere preparata con cura, deve maturare sia spiritualmente sia a livello pratico, grazie anche a profondi studi di carattere teologico e storico”.
L’auspicio è “che la pubblicazione in Russia del volume “Teologia della liturgia” rappresentasse non solo un attestato di grande stima per l’autore ma anche che attirasse l’attenzione dei nostri lettori alla lettura del volume”. Joseph Ratzinger – prosegue il metropolita ortodosso –“si oppone alla tendenza alla ‘creatività’ superficiale che talvolta mostra oggi il cristianesimo in Occidente, ovvero alla tendenza allo svuotamento del contenuto autentico della liturgia e della sua finalità di essere incontro e legame vitale con Dio e con il suo creato. In tal senso alcune questioni trattate nel libro — come a esempio le innovazioni nel rito e gli esperimenti liturgici quali la liturgia domenicale senza sacerdote — riguardano soprattutto una sfera di problemi del cattolicesimo. Perciò è importante che il lettore russo — che ha molto sentito parlare delle tendenze modernistiche nel cattolicesimo contemporaneo — possa conoscere lo sguardo critico di uno dei più grandi teologi cattolici dell’epoca moderna sul tema della rottura dolorosa con la tradizione avvenuta nel periodo successivo al concilio Vaticano II e sulle difficoltà di cui è irta la strada dell’aggiornamento”.
La pubblicazione in Russia del volume è stata resa possibile dalla collaborazione tra la casa editrice del Patriarcato di Mosca, l’associazione “Sofia: idea russa, idea d’Europa”, l’accademia Sapientia et Scientia, la Fondazione Ratzinger e la Libreria editrice vaticana. Nei prossimi mesi, a Mosca, avrà luogo la presentazione del volume, nella cornice della Scuola teologica del Patriarcato.

(Fonte: Matteo Matzuzzi, Il Foglio, 17 ottobre 2017)
http://www.ilfoglio.it/chiesa/2017/10/17/news/benedetto-xvi-ortodossi-hilarion-papa-chiesa-158036/




Sul foglietto della Messa spot a Lutero e ius soli


Sorpresa sul foglietto della messa pubblicato dalla Paoline: un elogio a Martin Lutero e la sua apertura allo straniero

Una delle “correzioni filiali” pubblicata qualche settimana fa nei confronti di Papa Francesco, una delle “eresie” che si starebbero diffondendo a causa delle sue parole e delle sue omissioni, è quella del protestantesimo.
Visto che il Papa ha più volte riconosciuto a Martin Lutero alcuni meriti, tra cui quello di “voler rinnovare la Chiesa, non dividerla”, secondo gli accusatori il cattolicesimo si starebbe macchiando di teologia luterana, nonostante sia stata ufficialmente dichiarata come eretica.
L’ultima “conferma” arriva dal foglietto domenicale pubblicato dalle Paoline e diretto da Nicola Baroni con due condirettori, Orlando Zambello e Guido Colombo. Quello, per dire, che gran parte dei fedeli utilizzano durante la Messa per seguire le letture e la liturgia.
Il documento contiene ogni domenica anche una sorta di commento, a firma di qualche teologo o pensatore cristiano: il contributo in questione porta la firma di Vittoria Prisciandaro.
La quale si è lasciata andare ad un elogio all’eretico Martin Lutero. “A mezzo millennio dall’affissione sul portone della chiesa di Wittenberg delle 95 tesi di Lutero contro le indulgenze, le due Chiese - si legge - esprimono gratitudine per i doni spirituali e teologici della Riforma protestante e mettono al centro della loro testimonianza la riconciliazione, il superamento delle fratture storiche, il riconoscimento degli errori, l’accoglienza dello straniero”.
Insomma: uno spot allo ius soli e al protestantesimo.

(Fonte: Claudio Cartaldo, Il Giornale, 03 ottobre 2017)
http://www.ilgiornale.it/news/cronache/sul-foglietto-messa-spot-lutero-e-ius-soli-1448628.html




lunedì 11 settembre 2017

La profanazione dell’Eucaristia è già cominciata: una realtà nella Diocesi di Torino!

Mi dispiace se i miei interventi sono sempre portatori di cattive notizie. Ma è giusto rendere noto a tutti i lettori la continua demolizione che “Omissis” cerca di compiere nei confronti della Chiesa Cattolica.
Abbiamo parlato in diversi spifferi che vi è una commissione riservata che sta preparando testi “ad experimentum” per “messe ecumeniche”.
La strategia di “Omissis & Co.” non si ferma qui. Infatti è sua abitudine far sembrare che le cose arrivino senza alcuna imposizione dall’alto. E che le iniziative partano dal “basso”. In realtà sotto il suo ossessivo controllo (da buon dittatore).
Ebbene. L’esperienza della “messa ecumenica” è già partita. Dalla diocesi di Torino. Dal fatidico gruppo ecumenico “spezzare il pane”, capitanato -udite udite- dal sacerdote cattolico don Fredo Oliviero (ilbenevincera.wordpress.com/tag/chi-e-don-fredo-olivero/), che gode dell’appoggio grandissimo del suo vescovo, Mons. Cesare Nosiglia, (forse perché è un prete pro migranti sempre, comunque e dovunque) torino.repubblica.it/…/1820120). Vi suggerisco di leggere gli articoli che sto linkando.
Questo gruppo ecumenico -“spezzare il pane”-, fondato da don Fredo qualche tempo fa, sta ormai iniziando a celebrare “ecumenicamente” la Messa insieme ai valdesi, ortodossi, anglicani e luterani. Leggete qui (www.lavocedeltempo.it/…/Unita-nella-div…).
In poche parole questa gente ha escogitato una sorta di “ospitalità eucaristica”, dove una volta dall’uno e una volta dall’altro si celebra tutti insieme “alla stessa mensa”, facendo tutti la “comunione” (cattolici, protestanti, valdesi ecc…) e dando così il via alla famosa “messa ecumenica” voluta intensamente da “Omissis”.
Vi cito solo alcune frasi dell’articolo citato : “Non viene richiesto, per vivere insieme quest’evento, l’adesione ad un ‘pensiero unico’ sull’eucarestia, ma piuttosto il rispetto di tutti per il pensiero di ognuno; del resto – come anche Paolo Ricca ha osservato nel suo ‘L’ultima cena, anzi la prima’ – se né Gesù, né Paolo hanno spiegato il ‘come’ di questa presenza, perché allora dobbiamo farlo noi?”.
“E’ ormai consuetudine che, una volta al mese, il gruppo si incontri in un chiesa cattolica, luterana, valdese o battista per condividere l’eucarestia, partecipando al culto o alla messa – officiati secondo la liturgia della chiesa ospitante – e collaborando con ruoli diversi alla celebrazione. Distribuzione della comunione, letture e commento della Parola divengono così altrettante occasioni di condivisione ecumenica, ricollocando in primo piano la propria identità di cristiani rispetto a quella di appartenenza ad una specifica chiesa. All’accoglienza eucaristica hanno così aderito, in misura crescente, diversi luoghi di culto, qualche comunità e qualche realtà parrocchiale, e questa pratica va ora diffondendosi anche in altre città” (don Fredo Olivero).
“Anche il dogma della transustanziazione, introdotto dal Concilio di Trento in un clima segnato dalla Controriforma, e che ha a lungo diviso i cattolici dagli altri cristiani, è oggi letto da molti teologi cattolici (Alberto Maggi e Carlo Molari in Rocca n.9/2017, e molti altri) come transignificazione delle specie e commemorazione nel rito, con ‘distinguo’ che è sempre più difficile riconoscere rispetto alle letture evangeliche; la presenza ‘reale’ infatti non è più intesa come ‘materiale’, ma come ‘presenza reale spirituale”.
La cosa raccapricciante è che questa farsa sia partita in seno al cattolicesimo.
La mia fonte mi ha segnalato che questo gruppo e queste iniziative sono strettamente raccomandate da “Omissis”.
Come mai altrimenti l’Arcivescovo di Torino non ha preso provvedimenti contro queste iniziative? Anzi, vengono incentivate? Come mai invece i provvedimenti vengono presi solo per sacerdoti e vescovi che vogliono restare fedeli alla Dottrina della Chiesa?
Ormai l’iter della “messa ecumenica” è iniziata. A livello pratico. E si comincia anche a farne pubblicità (riforma.it/…/fare-rete-saper…).
A breve usciranno anche le “linee guida” liturgiche ufficiali per queste farse. E il dado è tratto. Tra qualche tempo chi non si adegua sarà emarginato. Come è solito fare Omissis.
La situazione è gravissima. Siamo dentro l’eresia più totale. Siamo dentro la profanazione dell’Eucaristia, della negazione del Sacramento.
Tutto ciò è il segno del tempo dell’anticristo: l’abolizione del “Santo Sacrificio”.
E se qualcuno aveva dubbi che avessero intenzione di varare una “nuova messa”, ora i signori sono serviti.

(Fonte: Fra Cristoforo, Anonimi della croce, 9 settembre 2017)



martedì 5 settembre 2017

Liturgia al centro. I progressisti ora sono conservatori

Ancora una volta la questione liturgica è tornata al centro dell’attenzione della vita della Chiesa e non solo, visto che anche numerosi mezzi di informazione ‘laici’ ne hanno dato un certo risalto: alcuni giorni fa papa Francesco ha rivolto un discorso denso e articolato ad un importante organismo (il CAL) che si occupa di liturgia e che compie settant’anni di vita; quasi in contemporanea è uscita l’intervista che il cardinal Sarah, prefetto del dicastero per il Culto Divino, ha rilasciato ad una rivista cattolica francese (la Nef). Pur tenendo presente che si tratta di due interventi di tenore diverso per destinatari e per contesto, sarebbe comunque difficile negare che vi sia tra essi una difficoltà di sintonia. Infatti mentre il cardinale Prefetto rilancia ancora una volta, e nonostante le ripetute opposizioni ad essa, l’idea di un possibile intervento correttivo sulla ‘riforma’ liturgica in corso da cinquant’anni, il Papa dichiara questa stessa riforma irreversibile, aggettivo che a questo punto pare sinonimo di irreformabile.
Dunque, dicevamo, la questione liturgica è di nuovo al centro. E lo è in una forma sorprendente: il fronte progressista, che sta dietro a questo discorso di papa Francesco e agli altri suoi interventi in materia, è ora paradossalmente arroccato in una posizione conservatrice per cui la riforma liturgica postconciliare non si può toccare; il fronte conservatore invece sostiene, pur con mille distinguo, l’esigenza di interventi correttivi sulla scorta della ‘riforma della riforma’ ratzingeriana o, per meglio dire, della ‘riconciliazione liturgica’ di cui parla il cardinal Sarah. Inutile dire che le forze in campo sono assolutamente sproporzionate e che il destino della tesi riformistica è, nello stato attuale, già segnato. Non di meno la questione è di importanza capitale e merita qualche riflessione.
Anzitutto resistiamo alla tentazione di pensare che si tratti di problemi di lana caprina, di ‘roba da preti e che se la vedano loro’. La liturgia è sempre espressione di una visione della fede, del cristianesimo, della Chiesa; e mentre la esprime ne è anche il veicolo: cinquant’anni fa la Chiesa (nel senso dell’autorità ecclesiastica) ha cambiato la messa, e in questi cinquant’anni la (nuova) messa ha cambiato la Chiesa (nel senso della comunità dei fedeli e della loro mentalità). D'altronde gli stessi operatori della riforma liturgica postconciliare hanno motivato l’esigenza del cambiamento del rito e coerentemente hanno proibito con forza per decenni la forma liturgica tradizionale, poiché – sostenevano – solo il nuovo rito era pienamente adeguato ad esprimere il rinnovamento della visione teologica ed ecclesiologica di cui erano portatori i documenti conciliari. Dunque non si tratta di dettagli. Non possiamo non citare ancora una volta le parole, più attuali che mai, dell’allora cardinale Ratzinger: “Sono convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte dal crollo della liturgia” (La mia vita, Ed. San Paolo 1997, pag. 113).
Detto questo, occorre quindi valutare con attenzione la forma liturgica in corso e la congruenza di una sua presupposta irreversibilità. Riguardo a questo, infatti, non si possono evitare alcune osservazioni.
Per prima cosa, già stando alla semplice cronologia, c’è un problema di logica: pare strano infatti che si dichiari intoccabile una storia liturgica che ha cinquant’anni, mentre i suoi fautori cinquant’anni fa non si sono fatti problema a mettere le mani su una storia liturgica che di anni ne aveva mille e cinquecento! Infatti è vero che il messale in uso fino alla riforma postconciliare è stato codificato da san Pio V (XVI secolo), ma l’ordo, cioè la struttura e i testi, della messa tradizionale risale a san Gregorio Magno (VI secolo) tanto che essa può a giusto titolo essere chiamata anche messa gregoriana.
In secondo luogo c’è un altro problema di coerenza. Stiamo vivendo un momento di attuati o previsti mutamenti non della forma ma addirittura del contenuto della messa e dei sacramenti: in seguito ai due sinodi sulla famiglia è ampiamente mutata la prassi circa la ricezione dei sacramenti della confessione e della comunione ai divorziati risposati e ai conviventi; riguardo al sacramento dell’ordine è ufficialmente al lavoro ai più alti livelli una commissione che studia la possibilità del diaconato femminile e contemporaneamente la Civiltà cattolica, organo sempre più quasi ufficiale della santa Sede, lascia intendere che l’esclusione delle donne dal presbiterato non sia poi così definitiva come sembrava ai tempi di Giovanni paolo II; quanto poi al battesimo, è da un pezzo che il suo valore è stato relativizzato, visto che ben pochi lo considerano ancora davvero necessario alla salvezza eterna; infine veniamo alla messa: è noto, anche se non ufficialmente confermato, che a Roma si stia lavorando per produrre un rito che consenta a cattolici e protestanti di mettersi intorno allo stesso altare; come si intenda realizzare questo non è dato saperlo, ma visto che i protestanti hanno una dottrina opposta circa l’essenza stessa della messa, cioè circa il sacrificio, il sacramento e il sacerdozio, i mutamenti richiesti da una presunta ‘concelebrazione’ non saranno quisquiglie… E dunque con tutto questo in ballo, mentre si stanno compiendo o almeno preparando epocali cambiamenti di contenuti dottrinali bimillenari, contemporaneamente si proclama l’intangibilità delle forme rituali codificate pochi decenni fa?
Alla luce di tutto questo la barriera messa in atto in questo momento dall’Autorità ecclesiastica e dai corifei della conservazione dello status quo contro qualunque ipotesi di correzione della riforma liturgica postconciliare è più che comprensibile: l’idea di ‘riforma della riforma’ o di ‘riconciliazione’ tra le due forme liturgiche, quella preconciliare e quella postconciliare, porta con sé l’idea di un benefico reciproco influsso tra di esse (che Benedetto XVI auspicava nella promulgazione del Summorum Pontificum) e quindi di un riequilibrio rispetto alle spinte innovatrici che hanno estremizzato la riforma in ambito liturgico, ma anche, di conseguenza, in ambito teologico, morale, pastorale, ecc… Ora, è evidente che questo è incompatibile con la visione di coloro, e sono la maggioranza in alto e in basso, che ritengono che il problema sia invece non aver portato ancora a radicale compimento il cambiamento iniziato cinquant’anni fa.

(Fonte: Claudio Crescimanno, La NBQ, 5 settembre 2017)


mercoledì 9 agosto 2017

Abuso di Marcinelle

Lasciate stare l’indecente demagogia nel ricordo della tragedia di Marcinelle, dove morirono nel 1956 duecentosessantadue lavoratori in miniera, di cui la metà italiani, quasi tutti meridionali.
Lasciate stare, gufi, sinistreria e autorità, inclusi voi presidenti Mattarella e Boldrini, il paragone tra quei lavoratori morti sul lavoro e gli immigrati clandestini che arrivano a fiumi sulle nostre sponde.
Il paragone è totalmente infondato: quei minatori andarono in Belgio richiesti al nostro governo dalle autorità di Bruxelles e furono il frutto di un accordo di dieci anni prima tra i due paesi. Carbone per l’Italia a prezzi agevolati in cambio di 50mila lavoratori per le miniere del Belgio.
Uno scambio pattuito tra due paesi europei che necessitavano l’uno di energia e l’altro di braccia-lavoro.
Non clandestini ma richiesti, non disoccupati ma lavoratori dal primo giorno in cui arrivarono, non in fuga dal proprio paese ma costretti a lasciarlo per aiutare casa, non manovalanza disperata per la criminalità o business per Ong e centri di accoglienza, ma gente che partiva sapendo di finire in miniera, non per strada.
E di sbarcare su richiesta dello Stato-ospite, in un paese che era pur sempre figlio della stessa civiltà, della stessa religione, dello stesso universo di valori.
Entrambe sono tragedie, ma di tutt’altro tipo.
È una vergogna star lì appollaiati come sciacalli a cercare ogni occasione per rilanciare l’ideologia dell’accoglienza, con relativo traffico di imbarchi, sbarchi e con la prospettiva di lucrare qualcosa politicamente ed elettoralmente per aver detto e fatto “una cosa di sinistra”.
Persino a teatro, da noi, rifanno l’Eneide e attualizzano Enea come un immigrato ed esule per ragioni politiche: con la trascurabile differenza che Enea secondo il mito è un principe, proviene da una civiltà distrutta e viene a fondare una civiltà, Roma; mentre i poveri migranti sui gommoni si affidano agli scafisti e vengono qui per aggrapparsi a una civiltà, sfuggendo dalla barbarie e dalla miseria.
In tema d’immigrazione, la sinistra in Italia cerca di coprire tutte le posizioni e si presenta come un armadio quattrostagioni per tutti i gusti e i climi: cavalca un giorno l’accoglienza, un giorno i respingimenti, un altro dice che vuole aiutarli a casa loro, un altro ancora li carica sulle nostre spalle.
E adotta, da Crozza a Calabresi de la Repubblica, lo stesso ragionamento capzioso. Isola un episodio, una storia o un singolo sbarco per toccare l’emotività di ciascuno, per suggestionare con un’immagine anziché far ragionare.
Per poi dire: vedete che cento migranti in una città o centomila in una nazione sono una percentuale irrisoria. Ma certo che è irrisoria quella fetta, se si paragona un dato parziale e provvisorio a un dato generale e permanente, certo che non fa impressione se si isola il fotogramma; se invece vedi il film per intero, in tutte le sequenze e in prospettiva, se ti affacci davvero nella realtà, per le strade, per le piazze, nei mezzi pubblici, allora ti accorgi che si tratta di un fiume e non di una pozzanghera.
Prima che giungesse il freno alle Ong stavano sbarcando a decine di migliaia a settimana, i nostri centri d’accoglienza sono pieni. Il flusso non è una fallace “percezione” indotta dagli impresari della paura più di quanto sia una fallace percezione indotta dagli impresari del traffico di vite umane, l’impressione opposta, che sia una piccola, inerme minoranza di casi umani che possiamo agevolmente contenere nel nostro Grande Paese.
E ora si attaccano pure a quella tragedia di 61anni fa, al dolore di una storia, per cercare tramite una tragedia di dar corso a un’altra. Siete voi ad abusare del mercato delle emozioni, a speculare sui ricordi e sui lutti.
La tragedia di Marcinelle riemerse dopo anni di oblio grazie a Mirko Tremaglia che guidava i comitati per gli italiani all’estero. Fu una tragedia che strinse tutto il nostro popolo attorno a loro; ricordo da bambino un altro funerale di ragazzi che erano andati a lavorare dal mio paese nel nord Europa ed erano morti sul lavoro.
Giorni fa in piazza Maggiore a Bologna ho visto uno splendido documentario di Vittorio de Seta nei primi anni cinquanta sui lavoratori nelle miniere sarde e siciliane. Sembra preistoria, ma quei lavoratori umili, ignoranti, invecchiati precocemente, ti sembrano giganti rispetto a noi per i sacrifici immani che facevano per portare il pane a casa e mantenere le loro numerose famiglie, accontentandosi di poco.
E l’altra sera ho visto un film dedicato ai minatori in Cile, The 33, una storia vera, a lieto fine, di trentatrè minatori che furono salvati dopo un lungo calvario nelle viscere della terra che durò due mesi.
Storie di umanità, di pietà, di dedizione. Di quelle che rendono drammatico e non retorico l’articolo uno della costituzione, la repubblica fondata sul lavoro.
Non sporcate quelle storie e quelle memorie con le vostre prediche ideologiche, i vostri miserabili calcoli politici, le vostre insopportabili tirate finto-moralistiche.

(Fonte: Marcello Veneziani, Il Tempo, 9 agosto 2017)



La crisi del prete. Accettare “lo scarto”

L’attuale crisi del prete tocca l’identità e, di conseguenza, chiede di rivedere il modello ministeriale e pastorale, ritornando all’essenza della chiamata e all’essenziale del ministero. Siamo partiti da qui, solo per una breve fotografia e per iniziare a toccare qualche nervo scoperto.
Ritornerò sulla problematica, su alcuni dei suoi aspetti principali e sulla tipologia di prete che, almeno oggi, sembra entrare in crisi, invocando piste nuove e creative su come ripensare questa figura; tuttavia, proprio partendo dalla convinzione che prima di ogni “ricetta” pragmatica occorrono la riflessione e il pensiero – cosa che, peraltro, non convince molto neanche i preti! – è bene soffermarci sulla questione già accennata dell’identità presbiterale. Non si riuscirà ad affrontare la figura del prete se le possibili soluzioni, anzitutto, non partono dalla domanda sull’identità: chi è davvero il prete?
Quello “scarto” incolmabile
La domanda non vuole essere retorica né limitarsi ad offrire una qualche meditazione di taglio spirituale. Essa nasce da una semplice convinzione: sulla crisi in atto, vi sono motivi contingenti e contestuali, come i cambiamenti socio-culturali degli ultimi decenni, la crescente disaffezione nei confronti della fede cristiana, le nuove sfide rivolte all’annuncio della fede o il calo delle vocazioni che sovraccarica alcuni e aumenta l’età media del clero; tuttavia, essa coinvolge per così dire la “totalità dell’essere prete”, cioè quella sua identità profonda e radicale, che trascende ogni aspetto storico particolare.
Nessuno si spaventi se affermo che… la domanda sulla crisi del prete è strettamente “teologica”, cioè non potrà essere davvero affrontata se ci soffermeremo epidermicamente sull’analisi sociologica o su facili soluzioni di tipo pastorale.
C’è una parola che, più di tutte, ci rappresenta: scarto.
La avvertiamo dentro, quasi come un brivido, per la sua capacità di fotografare ciò che sperimentiamo ogni attimo sulla nostra pelle e ci rimanda, appunto, al contenuto teologico dell’identità presbiterale. Non si tratta di un semplice sentirsi “inadeguati” – anche un medico in parte lo è rispetto alla gravità di certe situazioni da prendere in cura, o un giudice rispetto a una decisione difficile – e né, tantomeno, dobbiamo scivolare in un certo moralismo depressivo che si fissa sulle fragilità e sul peccato. Saremo sempre dei preti peccatori.
Qui c’è molto di più: lo scarto è iscritto in modo costituzionale in ogni vocazione cristiana e, in generale, nell’esperienza di fede: Dio e l’uomo, Colui che chiama e il chiamato, il Maestro e il discepolo, il Vangelo e il cuore dell’uomo, non saranno mai sullo stesso piano. La rivelazione di Dio in Gesù Cristo abbatte i muri di separazione e colma tale distanza ma, tuttavia, ciò non significherà mai un annullamento della “differenza”. Tra Dio e noi essa continuerà ad esistere.
È Dio che invia e sostiene Mosé, che purifica le labbra di Isaia, che rassicura il giovane Geremia, che affida a un pescatore impulsivo la guida della Chiesa; tuttavia, ciò non avviene a prezzo di un “salto” della loro umanità, che di colpo cancellerebbe l’essere impuro, o giovane o impulsivo ma – come confesserà splendidamente san Paolo – proprio dentro le debolezze e le spine della carne.
Perciò, la questione dell’identità del prete ci rimanda alle origini della vocazione e a quella “differenza” che segnerà sempre uno scarto rispetto a Colui che ci ha chiamati e al compito affidatoci; si tratterà di restare sempre in cammino – mai arrivati e appagati – aperti a come il Signore, pur conservandoci in questo scarto talvolta difficile da portare nella carne, ci consolerà, ci rafforzerà e ci farà vedere, seppur in lontananza, “il paese dove scorrono latte e miele”.
Non siamo chiamati a fare “tutto”
Ogni volta che il ministero stesso ci colloca altroveci chiama e ci ridefinisce, ci invita a ricominciare sempre da capo, facendoci cambiare destinazioni pastorali e modelli precedentemente acquisiti, la nostra identità di preti cambia, si evolve, matura e si apre a paesaggi inediti. A patto che non ci chiudiamo rigidamente in uno schema precostituito e ci lasciamo – con grande fatica – interrogare dallo Spirito e dalla vita.
Dello scarto nella vita del prete ha scritto con grande efficacia Antonio Torresin, affermando che il ministero sacerdotale “è segnato da uno scarto, da un insuperabile contrasto che segna l’esperienza di essere discepoli, la missione e il mandato ricevuti. Meglio, che segna ogni chiamata, fino all’umano stesso. Non siamo all’altezza del compito assegnato, esso ci trascende in modo insuperabile, ci travolge e ci supera: è troppo per noi. Eppure è proprio ciò che meglio ci corrisponde, è ciò senza il quale la nostra umanità si perde. Questo eccesso che è il ministero è la nostra unica salvezza; non solo la via alla santità, ma la grazia per non perderci. (A. Torresin, «Il paradosso del ministero. Quando la missione ridefinisce il prete», Il Regno/Attualità 2/2010, 22).
Questo scarto è vissuto in modo diverso non solo da ciascun prete – cosa che rimane ovvia – ma anche a seconda delle fasi della vita sacerdotale, degli anni di messa, delle esperienze pastorali vissute nel tempo e, non da ultimo, dei contesti ecclesiali in cui siamo posti.
Senza voler negare alcune problematiche esistenti e inedite, che invocano un’ampia riflessione ecclesiale, credo che riconciliarci con questo scarto, accoglierlo e farselo amico nella vita sacerdotale di ogni giorno e, forse ancor prima, formarsi e prepararsi ad esso e a come conviverci, potrebbe essere un primo antidoto alla crisi e un punto di forza per la “tenuta” del prete.
Non è forse vero che, piccoli o grandi momenti di crisi nella nostra vita, dipendono talvolta dal non aver compreso che al prete non è richiesto “tutto”, che non è chiamato “salvare il mondo” (già fatto, ci ha pensato Nostro Signore), che non è e non dovrebbe essere il centro, la fonte e il culmine della comunità e dell’azione pastorale? Non sarà che molte frustrazioni, sofferenze e depressioni, dipendono anche dall’aver sopravvalutato noi stessi e fatto delle richieste eccessive (o almeno troppo numerose) al nostro ministero?

(Fonte: Francesco Cosentino, Settimana News, 14 luglio 2017)