mercoledì 26 dicembre 2012

La nostra casa è il cielo

Viviamo in un mondo di illusioni e di inganni, ma la menzogna maggiore ci viene propinata quando ci vogliono fare credere che questa vita, la vita terrena, sia l’unica e la sola vera. Ci vogliono espropriare dell’unica vera vita, che è la vita eterna, quella che professiamo nell’ultimo articolo del Credo apostolico, quando affermiamo: «Credo vitam aeternam. Amen»: Dei dodici articoli del Credo, undici ci indicano la condizione dei cristiani nel tempo, l’ultimo, il dodicesimo, ci mostra la loro ricompensa, che è l’eternità.
L’errore che consiste nel credere che la vita di quaggiù sia la vera vita, ha scritto mons. Gaume, è l’errore più radicale di tutti gli altri, perché non riguarda aspetti particolari o secondari, ma il nostro modo di essere, prende tutte le facoltà della nostra anima, confonde la nostra ragione e la nostra volontà, corrompe tutta la nostra esistenza.
Quest’errore non è solo teorizzato direttamente dagli evoluzionisti e dai pseudo scienziati atei, come Richard Dawkins o i nostri Odifreddi e Galimberti, ma viene inculcato in maniera più insidiosa dai mass media, dalla pubblicità, dalla pressione psicologica dei luoghi comuni. È un ateismo non teorico, ma pratico, una prospettiva secolarista radicalmente distorta perché non ci indica nulla che vada oltre i piaceri e le pene, i beni e i mali della vita terrena. Era l’errore degli uomini che vissero al tempo del diluvio universale di cui il Vangelo dice che «edebant et bibebant» (Mt 24,38; Lc 18,27-28), mangiavano e bevevano. Pensavano solo ai piaceri e ai bisogni del corpo, a mangiare, a bere, a sposarsi, a divertirsi, a fare affari. Erano immersi nelle occupazioni del mondo. E tanto più l’uomo si occupa di questo mondo, tanto meno si occupa dell’altro.
La nostra casa invece è il cielo e il primo passo che dobbiamo fare per occuparci del cielo, è quello di respingere la filosofia di vita egoistica del nostro tempo, incentrata solo sulla soddisfazione dei nostri piaceri e dei nostri bisogni.
Quando recitiamo il Credo dobbiamo pronunziare con forza le ultime parole «Credo vitam aeternam», perché queste parole sono la nostra risposta al secolarismo e al laicismo che voglio convincerci che la vita eterna non esiste, che il Cielo è vuoto, secondo il titolo dell’ultimo insulso libro di Galimberti.
«Credo vitam aeternam»: in queste parole la Chiesa professa la sua fede nell’immortalità dell’anima e nell’esistenza della vita eterna. Ce lo insegna la Chiesa, ce lo dimostra la ragione, ce lo attesta la storia di tutti i popoli; l’anima è immortale: ha avuto un inizio, non avrà mai fine. Vivrà in eterno.
Immagine vivente del Dio vivente, l’uomo è vita. Per lui la vita non è solamente il primo e il più prezioso dei beni, ma è il suo essere. La vita è tutto, l’uomo la ama come se stesso. Amiamo il bambino perché rappresenta la vita che nasce. Rispettiamo l’anziano perché in lui cogliamo la vita che declina. Tutto ciò che pensa e fa l’uomo lo fa per amore alla vita.
La cultura di morte contemporanea vuole spegnere la vita nel suo nascere, con l’aborto e l’infanticidio; vuole spegnerla al suo tramonto, con l’eutanasia; vuole estinguere non solo la vita del corpo, ma prima di tutto la vita dell’anima, e questo la fa diffondendo una mentalità evoluzionista e materialista. Ciò che ci viene proposto è un modello di uomo e di donna che cura al massimo il proprio corpo ma che dimentica la propria anima, che cerca ogni forma di piacere, ma che è incapace di dare un senso alla propria vita, che cerca la felicità sulla terra, ma si avvia alla infelicità, alla depressione, al suicidio.
Chi ci parla oggi del Cielo? Del Cielo non dovrebbero parlarci solo i sacerdoti, dovrebbe essere la società intera a ricordarcelo, in ogni occasione, come quando si faceva il segno della Croce prima di consumare il pasto e il linguaggio quotidiano conosceva formule come “grazie a Dio”, “se Dio vuole”, che esprimevano la convinzione dell’esistenza di una realtà soprannaturale e di una vita eterna dell’uomo.
Il Credo ci ricorda che il fine dell’uomo è il Cielo e Dio vuole che il maggior numero di anime raggiungano il Cielo ed evitino l’inferno, come dice la preghiera insegnata dalla Madonna ai tre pastorelli di Fatima: «Gesù mio, perdonateci le nostre colpe, preservateci dal fuoco dell’inferno e portate in cielo tutte le anime, specialmente le più bisognose della vostra misericordia».
Le religioni secolari hanno negato la vita eterna proponendo il paradiso terrestre della società senza classi marxista. Poi, dopo il crollo del Muro del Berlino, la cultura postmarxista vorrebbe convincerci che non esiste paradiso né celeste né terrestre, ma il nulla è la regola suprema della vita e della morte:
Noi diciamo Credo la vita eterna per indicare che non abbiamo alcun dubbio sull’esistenza di una vita ultraterrena: una vita che sarà piena di tutti beni dell’anima e del corpo e di cui godranno i gusti, secondo i propri meriti. Questa vita eterna felice si chiama cielo. Il cielo è “la terra dei viventi,” perché l’uomo che muore entra nella terra di coloro che vivono: terra viventium.

La terra è una valle di lacrime, dove tutto declina e muore, il cielo è una terra felice dove tutto vive e nulla muore. A York, in Inghilterra, Francis Ingleby (1551-1586), oggi beato, condannato a morte da Elisabetta I perché era un sacerdote cattolico, quando la sentenza fu pronunciata esclamò: “Credo vivere bona Domini in terra viventium”.
Quali sono i “beni del Signore” che i “viventi” godranno in Paradiso? Il bene primo e incomparabile a qualsiasi altro è la visione di Dio faccia a faccia e il suo possesso. Nel Cielo non solo vedremo Dio, fonte di ogni bellezza, non solo possederemo Dio, origine di ogni bene, ma diverremo simili a Lui. Questa sarà la nostra suprema gioia. Ma un giorno avremo anche la gioia di rivedere i nostri cari, e di godere con i cinque sensi del nostro corpo risorto, che avrà le caratteristiche della luminosa chiarezza, della agilità, della sottigliezza, della impassibilità.
Oggi ci raccontano che il Paradiso, come l’inferno, non è un luogo, ma una “condizione”. Così non pensano san Tommaso d’Aquino né i Padri della Chiesa che insegnano che il Cielo è la sede beata dei Giusti. L’inferno che la Madonna mostra ai tre pastorelli di Fatima è un luogo, non una condizione. Ed è a un luogo, non ad una condizione, che si riferisce Gesù, quando dice al Buon Ladrone «Oggi sarai con me in Paradiso».
Si dice, ed è vero, che il Regno di Dio, che è il cielo, comincia sulla terra, nella nostra anima. Quando è in grazia di Dio, la nostra anima è realmente un riflesso del cielo. Ma l’uomo è un essere sociale: nasciamo e cresciamo in una famiglia, viviamo e moriamo in una società e di esse dobbiamo fare una anticipazione della felicità che godremo in Paradiso. Dobbiamo cristianizzare il mondo per fare in modo che questa valle di lacrime sia una valle felice, e non disperata, anche nella sofferenza.
Si può essere felici affrontando le difficoltà, abbracciando i sacrifici, soffrendo e lottando per quei grandi ideali che riempiono di gioia l’anima degli uomini. I santi non sono mai stati lugubri o tristi, ma allegri e gioiosi. Vi sono due note che distinguono chi cerca il cielo: una è lo spirito militante, l’altra è l’allegria che nasce dalla pace dell’anima di chi combatte nel tempo per conquistare la felicità eterna in cielo.

(Fonte: Roberto de Mattei, Radici Cristiane n. 80, 30 dicembre 2012)

AUGURI DI BUON ANNO NUOVO.
 

sabato 22 dicembre 2012

L'anti-catechismo di Enzo Bianchi

Ci eravamo lasciati in aprile con una polemica a proposito di una meditazione che Enzo Bianchi, priore della Comunità di Bose, aveva pubblicato su Avvenire con una esposizione che contrastava con il Magistero della Chiesa cattolica (chi vuole riprendere gli argomenti di quella polemica può cliccare qui). Ora siamo in un altro “tempo forte”, l’Avvento, e di nuovo Bianchi - sempre dalle colonne di Avvenire - ha modo di propinare ai fedeli cattolici il suo anti-catechismo.
Il 16 dicembre si è messo a pontificare sul giudizio di Dio, e anche in questo contesto torna a riferirsi  a Cristo, nostro Signore, in un modo che certamente urta chiunque viva la fede cattolica e abbia pertanto un sentimento di vera adorazione nei confronti del Verbo Incarnato. A un certo punto Bianchi, riferendosi al giudizio universale, scrive: «Gesù confessa la sua ignoranza relativa all’ora precisa del giorno del giudizio: “Quanto a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli del cielo né il Figlio, ma solo il Padre” [Mc 13,32]. Se Gesù non conosce l’ora, annuncia però il criterio del giudizio: il concreto amore fraterno». Ora, parlare di Gesù come di uno che «confessa la sua ignoranza» suona a bestemmia, almeno per chi ama Gesù come il Verbo eterno, consustanziale al Padre, che tutto sa e tutto può. Solo chi è ormai assuefatto al modo di parlare di Bianchi, che si riferisce sempre solo all’umanità di Cristo (lasciando intendere che Egli è un semplice uomo: un uomo esemplare, di grande spiritualità, tanto da poter essere chiamato “Figlio di Dio”, ma pur sempre un uomo) resta indifferente di fronte a questo discorso.
Bianchi può continuare a parlare così perché sa di poter contare, da una parte, sull’appoggio di molti opinion makers laici ed ecclesiastici, e dall’altra sull’ignoranza religiosa del pubblico cui si rivolge. La gran massa dei fedeli cattolici, infatti, soffre di una specie di analfabetismo di ritorno in materia di dottrina cattolica, e questa ignoranza è il vero dramma religioso che ci interpella tutti. Il relativismo dottrinale ha pervaso a tal punto la coscienza di tanti fedeli – quelli che non hanno avuto mai una adeguata catechesi circa il dogma trinitario e cristologico – che ormai non reagiscono più nemmeno di fronte a discorsi che sono oggettivamente blasfemi. E infatti la maggior parte dei fedeli non avverte alcun disagio nel leggere considerazioni spirituali o teologiche che riducono l’Emanuele, il “Dio-con-noi”, il Santo che nasce dalla Vergine Maria e riceve l’adorazione dei pastori e dei Maghi, a un santone laico o a “uno dei profeti”.
Ma chi ha sensibilità pastorale deve ragionare così: proprio perché c’è una carenza sempre più estesa di formazione catechistica nel popolo, è responsabilità degli operatori della pastorale far sì che gli strumenti della catechesi sappiano fornire argomenti di riflessione che mettano in luce, e non in ombra, il dogma centrale della nostra fede. Se non si predica che Gesù è Dio, come si può sperare che ci sia culto eucaristico? Come si può sperare che i “lontani” ritornino alle pratiche religiose, che sono tutte incentrate sull’adorazione di Cristo, vero Dio e vero Uomo, presente nell’Eucaristia «in corpo, sangue, anima e divinità»? Come si può attuare il programma pastorale del Vaticano II, che chiede di fare dell’Eucaristia «il centro e la radice di tutta la vita cristiana»?
L’artificio retorico cui ricorre Bianchi è quello tipico del “biblicismo”, che Giovanni Paolo II deprecava nell’enciclica Fides et ratio.  Esso consiste nel citare solo alcuni passi della Scrittura, selezionandoli e  interpretandoli con un’ermeneutica arbitraria, cioè per dare una parvenza di giustificazione alle proprie tesi di natura ideologica. Da secoli l’esegesi cattolica ha chiarito il senso di quella pericope evangelica nella quale Gesù parla ai discepoli del giorno del giudizio finale. La Scrittura non dice assolutamente che Cristo sia “ignorante” riguardo ai decreti eterni del Padre: dice solo che la rivelazione dei misteri del Padre da parte del Figlio è limitata, per divina disposizione, ad alcuni determinati contenuti, ossia che la missione di Cristo, rivelatore del Padre, ha dei limiti precisi nell’oggetto, nei modi e nei tempi. Chi adopera il metodo esegetico corretto (che esige il ricorso costante all’analogia della fede) ha presenti i passi del Nuovo Testamento nei quali ci è chiaramente rivelata l’onniscienza di Gesù.
In effetti, in Gesù non c’è una persona umana e una persona divina: c’è una sola Persona, ed è la Persona del Verbo eterno, consustanziale al Padre e allo Spirito santo. Per questo Gesù dice di sé: «Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio voglia rivelarlo». Questo Figlio, secondo il Vangelo di Giovanni (Gv 1, 1-8), è il Verbo, che «è presso Dio ed è Dio». Certamente Gesù, Dio fatto uomo, ha una conoscenza umana limitata, fatta anche di esperienza e di acquisizione di nuovi saperi: ma in Lui questa conoscenza umana è unita ipostaticamente a quella visione immediata di ogni cosa che compete all’onniscienza divina. Tutti ricordano l’espressione di Pietro, dopo la Resurrezione, quando si rivolge a Gesù e gli dice «Signore, tu sai tutto!». Prima ancora, Tommaso apostolo rivolge al Risorto questa esplicita professione di fede nella sua divinità: «Tu sei il mio Signore, tu sei il mio Dio!». La Tradizione non ha mai tralasciato di porre l’accento sulla divinità di Cristo. Si pensi, ad esempio, a come parla dei Novissimi (il tema di cui si è voluto occupare Bianchi in un altro articolo su Avvenire del 6 dicembre) san  Giovanni Crisostomo: «Quando Tu, vita immortale, discendesti incontro alla morte, allora annientasti l’Inferno con il fulgore della tua divinità; poi però, quando resuscitasti i morti dai luoghi sotterranei, tutte le potenze che sono sopra il cielo esclamarono: “Gloria a te, o Cristo, Dio nostro, che dai la vita!”».
Non è comunque solo il dogma cristologico a essere ignorato da Bianchi con il ricorso ad arbitrarie interpretazioni della Scrittura. Anche il tema della giustizia divina e del castigo delle colpe è maltrattato nello scritto del 16 dicembre su Avvenire. Con una sicumera che non si sa su che cosa possa essere fondata, Bianchi afferma perentoriamente che «Dio non ci castiga mentre siamo in vita». Subito dopo, per giustificare in qualche modo questa sua tesi teologicamente ingiustificabile, scrive: «In questo caso [nell’ipotesi, cioè, che Dio ci castigasse mentre siamo in vita, ndr] saremmo “costretti” ad agire secondo il suo volere, senza la libertà che appartiene alla nostra dignità umana». Si tratta certamente di considerazioni antropologiche prive di qualsiasi coerenza logica, perché l’ipotesi che Dio ci castighi mentre siamo in vita non comporta affatto la perdita della nostra libertà, che certamente è la condizione per praticare l’amore e avere meritare il perdono in questa vita e infine la salvezza eterna. Nella teologia cattolica il concetto di “castigo divino” è visto in rapporto alla colpa dell’uomo, e quindi presuppone nell’uomo l’esercizio del libero arbitrio, con la conseguente responsabilità personale, sia prima che dopo il castigo stesso; per questo la teologia morale ha creato la figura morale della “recidività”, ossia l’ipotesi di una colpa liberamente ripetuta anche dopo un’eventuale ammonizione e un’eventuale castigo, persino dopo un eventuale pentimento.
Ma preme qui rilevare soprattutto come Bianchi manipoli la Scrittura. Egli commenta e interpreta un passo biblico facendo finta di ignorare tutti quegli altri passi, sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, dai quali si evince che Dio, nella sua sapienza e giustizia infinita, infligge talvolta ai peccatori un castigo, già nella vita presente, in vista del loro ravvedimento. Ma chi conosce la Scrittura non ignora invece che nell’Antico Testamento c’è il racconto del  diluvio universale, della distruzione di Sodoma e Gomorra, delle piaghe che Dio infligge agli Egiziani, delle vicissitudini degli Ebrei nei quarant’anni dell’Esodo (ed è significativo che Dio punisca molte volte il suo stesso popolo per le sue ripetute infedeltà, e alla fine anche Mosè, l’«amico di Dio», è castigato e impedito di entrare nella Terra promessa). Così come non ignora, per quanto riguarda il Nuovo Testamento, che san Luca narra negli Atti degli Apostoli l’episodio drammatico di Anania e Saffira, e che san Paolo e l’autore della Lettera agli Ebrei parlano dei mali temporali che devono essere interpretati come castighi che Dio infligge per indurre i peccatori alla penitenza.  Le considerazioni astratte che si fanno per negare questa verità di fede  sono basate su fantasiose teorie pseudo-teologiche, di cui ho trattato già in passato e che sarebbe lungo ripetere in questa sede.
Resta il rammarico di constatare come l’autore di questo anti-catechismo non solo goda di ampia popolarità fra molti vescovi, ma addirittura trovi modo di propagarlo sistematicamente attraverso il quotidiano ufficiale della Cei che, da parte sua, tratta tesi molto opinabili (per non dire altro) da “verità sacrosante” al punto da escludere qualsiasi altro punto di vista, invitando a “vergognarsi” chiunque ci provi.

(Fonte: Antonio Livi, La nuova Bussola Quotidiana, 22-12-2012)

 

«Una lobby gay condiziona la Chiesa»

La Chiesa è infiltrata pesantemente da una potente lobby gay, che decide nomine e promozioni attraverso un meccanismo di ricatti e omertà. È questa la tesi sostenuta da don Dariusz Oko in un articolo pubblicato originariamente sulla rivista polacca “Fronda” (n. 63, pp. 128-160) e successivamente sulla rivista teologica tedesca “Theologisches”, suscitando molto rumore in tutt'Europa.
Roberto Marchesini ha intervistato don Oko in esclusiva per La Nuova Bussola Quotidiana.
D. Don Oko, quando e come, storicamente, si è affermata la lobby omosessualista all'interno della Chiesa?
R. Esistono diversi tipi di lobby, e da secoli esistono in tanti ambienti. Questo non è un aspetto specifico della Cheisa cattolica. Dopo il Concilio vaticano II, ai tempi della rivoluzione sessuale del 1968, la teologia cattolica morale ha cominciato ad accettare le idee che prima erano considerate estranee al Magistero della Chiesa e alla morale tradizionale. Uno degli esempi può essere l'insegnamento del prete cattolico americano Charles Curran, che difende l'uguaglianza degli orientamenti omosessuale ed eterosessuale. In questo modo l'omosessualità smise di essere considerata contro la legge naturale e contro la Rivelazione. Questo modo di considerare la sessualità umana è si è infiltrato in tanti seminari e monasteri nel mondo. In conseguenza, in molti seminari diocesani e abbazie di tutti i continenti hanno cominciato a sostenere l'idea che esistono due orientamenti sessuali equivalenti: eterosessuale ed omosessuale. Così si chiede ai chierici esclusivamente la castità, considerata come l'astinenza da atti impuri, e la capacità di vivere il celibato, senza entrare nel merito del loro orientamento o tendenze sessuali. In questo modo l'omosessualità come tendenza e tipo di personalità ha finito di essere un ostacolo all'ordinazione sacerdotale. Negli anni Settanta e Ottanta del Ventesimo secolo i sacerdoti con tendenze omosessuali hanno cominciato a creare molti problemi in tante diocesi ed abbazie nel mondo. Lo scandalo degli abusi sessuali su minorenni, esploso negli anni '80 negli USA, è in gran parte dovuto a preti gay e nel 2002 questa situazione ha portato a un vero e proprio terremoto. Nel 1989, don Andrew Greeley, scrittore e sociologo cattolico, ha scritto sul settimanale americano National Catholic Reporter di Kansas City a proposito della “mafia lavanda” [locuzione che indica la lobby gay all'interno della Chiesa cattolica] in un articolo che ha indignato alcuni e ha trovato d'accordo altri. Secondo Greeley il sacerdozio stava diventando sempre più gay, e non era più rappresentativo della Chiesa universale.

D.A questo proposito, lei parla di omoeresia. Quali sono le caratteristiche?
R. L'omoeresia è un rifiuto del Magistero della Chiesa cattolica sull'omosessualità. I sostenitori dell'omoeresia non accettano che la tendenza omosessuale sia un disturbo della personalità. Mettono in dubbio che gli atti omosessuali siano contro la legge naturale. I difensori dell'omoeresia sono a favore del sacerdozio per i gay. L'omoeresia è una versione ecclesiastica dell'omosessualismo.

D.Quali reazioni ha suscitato, in ambienti ecclesiastici, il suo articolo? Come è stato accolto?
R. Le reazioni sono state soprattutto positive e hanno fatto gioire i miei amici che hanno partecipato alla nascita del mio lavoro. Queste voci hanno dato soddisfazione anche a tutti i credenti fedeli alla Santa Sede. Ci sono state così tante citazioni su diversi media che non è possibile ricordarle tutte. È sempre più difficile trovare un sacerdote in Polonia che non conosca il mio articolo. Tanti laici e sacerdoti mi hano ringraziato, mi hanno fatto i complimenti per le mie conoscenze e il mio coraggio, mi hanno dato informazioni nuove e più dettagliate a sostegno delle tesi del mio testo. Tante persone hanno sottolineato quanto sia importante toccare questo tema perché la degenerazione moale dei sacerdoti distrugge qualcosa di particolarmente importante per la Chiesa, la colpisce al cuore. Ho ricevuto queste risposte soprattutto dagli educatori dei seminaristi.
Vescovi, abati e rettori di seminari mi hanno detto che questo articolo è un strumento molto utile per il loro lavoro, perché da una parte ricorda e raccoglie i punti chiave del Magistero sul divieto di ordinazione per le persone di tutte le tendenze omosessuali; dall'altra aiuta la riflessione e a risolvere i dubbi sull'argomento, anche se qualcuno potrebbe averne ancora.
Accolgo con particolare piacere l'opinione molto positiva di questo articolo da parte di un certo numero di suore, insegnanti, amici da una varietà di istituzioni laiche e religiose; in particolare i due sacerdoti che vengono considerati correttamente come quelli con la più alta autorità spirituale e morale della Chiesa polacca: don Edward Staniek e don Mark Dziewieckiego. Entrambi sono persone coscienziose libere dalla dipendenza dal giudizio altrui; persone di grande amore per la Chiesa, con una conoscenza particolarmente vasta ed approfondita su di Essa.

D.Nel suo articolo lei valorizza i laici nella lotta per la purificazione della Chiesa. Quale può essere il loro ruolo?
R. Vorrei focalizzare l'attenzione su due cose concrete. La prima riguarda il modo in cui i laici devono reagire nei casi di rapporti sessuali su un minorenne negli ambienti ecclesiastici, da parte di sacerdoti, animatori di gruppi di preghiera, insegnanti, scout, ecc. In questi casi, purtroppo, esiste una vera e propria congiura del silenzio. C'è la necessità di maggior coraggio ed impegno da parte dei laici.
La seconda riguarda i seminari. Purtroppo i laici hanno poca o nessuna conoscenza di come i futuri sacerdoti sono formati. Eppure nei seminari si decide in modo determinante il futuro della Chiesa. C'è bisogno di un maggior coninvolgimento dei laici al fine di non permettere l'ordinazione degli omosessuali. Tutti, clero e laici, dobbiamo sostenere gli sforzi di Papa Benedetto XVI il quale, invece della divisione tra l'omosessualità attiva e quella passiva, nei documenti ufficiali introduce una distinzione tra tendenze omosessuali transitorie, che accadono nel periodo dell'adolescenza, e quelle profondamente radicate. Tutte e due le forme di omosessualità, e non più soltanto l'omosessualità attiva, costituiscono un impedimento all'ordinazione sacerdotale. L'omosessualità non è conciliabile con la vocazione sacerdotale. Di conseguenza, non è solo rigorosamente vietata l'ordinazione di uomini con qualsiasi tipo di tendenza omosessuale (anche se transitoria), ma anche la loro ammissione in seminario.

D.Lei ipotizza soluzioni per aiutare la Chiesa ad uscire da questa crisi. Ma cosa si può fare per aiutare i sacerdoti con tendenze omosessuali? E per i sacerdoti gay?
R. Gli uomini con tendenze omosessuali già ordinati diaconi, preti e vescovi conservano la validità delle ordinazioni, ma sono obbligati ad osservare tutti i comandamenti di Dio nonché di tutte le disposizioni della Chiesa. Così come gli altri preti, devono vivere in castità e cessare ogni azione contro il bene della persona umana e della Chiesa, qualsiasi attività di carattere mafioso e soprattutto atteggiamenti di rivolta contro il Santo Padre e la Santa Sede. I sacerdoti afflitti da disturbi del genere sono fortemente indirizzati ad intraprendere al più presto una terapia adeguata.

Chi e' don Dariusz Oko
Don Dariusz Oko, nato nel 1960 ad Oswiecim, è stato ordinato sacerdote nel 1985; è prete dell'arcidiocesi di Cracovia, dottore di ricerca in filosofia ed in teologia, professore al Dipartimento di Filosofia dell'Università Pontificia Giovanni Paolo II di Cracovia. I principali settori delle sue ricerche scientifiche sono: metafisica, filosofia di Dio, teologia contemporanea, zone di confine tra filosofia e teologia, critica dell'ideologia atea. Per sei anni ha studiato in diverse università in Germania, Italia e negli Stati Uniti. Dopo l'ordinazione sacerdotale, insieme al lavoro scientifico, ha sempre svolto quello di ministro cattolico come sacerdote residente in diverse parrocchie europee ed americane.
Per sedici anni è stato direttore spirituale degli studenti e dall'anno 1998 è direttore spirituale dei medici nella sua diocesi. Nel corso di studi, congressi scientifici e pellegrinaggi con i medici ha visitato circa quaranta Paesi di tutti i continenti. In Polonia è conosciuto come editorialista e i suoi articoli sono stati spesso accolti con riconoscimento ed hanno dato origine a discussioni e dibattiti a livello nazionale.


(Fonte: Roberto Marchesini, Nuova Bussola Quotidiana, 20 dicembre 2012)

Bianchi e il suicidio del monaco tibetano

Enzo Bianchi è diventato il Norberto Bobbio della cultura religiosa italiana. L’articolo apparso su «La Stampa» del 16 dicembre scorso è il manifesto del pensiero relativista che imperversa anche a causa sua, poggiando le sue asserzioni sul luogo comune, sulla demagogia, sull’utopia politica e religiosa, su idee che hanno il sapore di tutto, tranne che quello della dottrina cattolica.
Parlando di un monaco del Tibet che si è dato fuoco per denunciare l’oppressione del regime politico cinese sull’Altopiano, Bianchi ha preso spunto per scrivere un articolo apologetico sui seguaci del Buddha, definendo «martirio» il suicidio. Qui è definito bene ciò che in realtà è male e che non può essere, per nessun motivo ragionevole, indicato come modello a cui guardare con ammirazione: «il destinatario di questo gesto estremo [il suicidio], divenuto ormai quasi quotidiano, è il loro stesso popolo: con la loro vita e la loro morte vogliono affermare la grandezza di una religione e di una cultura che non accetta di piegarsi al male, vogliono testimoniare a chi è scoraggiato dall’oppressione che si compiono azioni perché è giusto farle, che esistono ingiustizie che vanno denunciate a ogni costo, che ci sono valori per cui vale la pena dare la vita fino alla morte.
Questo è l’interrogativo lancinante che ci porta a ripensare le nostre priorità, la nostra capacità di reazione al male, la nostra disponibilità a pagare un prezzo per ciò che per noi non ha prezzo».
L’encomio e l’esaltazione del suicidio buddhista arriva a punte inimmaginabili: «È pratica antichissima, attestata fin dalla prima metà del V secolo in Cina, con raccolte di biografie degli asceti buddhisti immolatisi nel fuoco: queste testimonianze – una decisiva la si trova in un capitolo della Sutra del Loto – rivelano che non si è mai di fronte a un gesto impulsivo, ma che invece una lunga prassi di ascesi e purificazione fatta di digiuni e meditazioni ha preparato il sacrificio estremo di donarsi al Buddha per il bene degli altri.
«Il martire che si nutre e si ricopre di incensi e profumi per poi ardere compie un’offerta libera e totale per la salvezza di tutti: non mira unicamente alla propria rinascita, ma al rinnovamento del mondo. E questo lo fa attraverso un’azione non violenta nel senso forte del termine, un’azione cioè che accetta di assumere su di sé la violenza senza replicarvi, senza rispondere alla violenza con la violenza, spezzando così la catena infinita dell’ingiustizia riparata con un’ingiustizia più grande. È come se di fronte al male e a chi lo compie il monaco affermasse non solo che il malvagio non potrà avere il suo corpo ma anche, verità ancor più destabilizzante, che non riuscirà a fargli assumere lo stesso atteggiamento malvagio».
Sono tali affermazioni ad essere destabilizzanti per tutti coloro che, ignari, guardano ad Enzo Bianchi come ad un maestro della Chiesa, la quale mai e poi mai potrebbe professare una simile menzogna. Mai Gesù ha parlato in questi termini, mai gli Apostoli, mai i Padri della Chiesa, mai i santi.
Cristo si è lasciato crocifiggere per testimoniare la Via, la Verità, la Vita; Via, Verità e Vita che non hanno nulla da spartire con i «martiri-suicidi» buddhisti o musulmani (perché se tale perverso ragionamento vale per i primi, vale anche per i secondi, anche se il gesto islamico unisce alla violenza nei confronti di se stessi quella nei confronti degli altri, assente il quello buddhista).
Una simile violenza su di sé un cattolico non potrà mai definirla «un’offerta libera e totale per la salvezza di tutti». La definizione cattolica di un tale gesto la offre Dante: «L’animo mio, per disdegnoso gusto, / credendo con morir fuggir disdegno, / ingiusto fece me contra me giusto» (Inferno XIII, 70-72): la vittima, che, per riscattare il proprio onore, si suicida, diviene assassino di se stesso e come tale merita la dannazione eterna.
Cristo si è lasciato immolare per la salvezza di tutti e di ciascuno, anche del monaco tibetano. Ha comandato e continua a comandare di evangelizzare tutte le genti, portando tutti da qualunque falsa religione all’unica Verità: il Redentore è nato e si è lasciato uccidere per la salvezza della loro anima come della nostra.
L’alchimia soggettivistica e relativistica alla Enzo Bianchi produce sostanze venefiche che intossicano il credo dei fedeli. Al centro della sua personale dottrina non c’è la Trinità; la sua dottrina è l’antropocentrismo dei modernisti, apostati di ogni fede, più ancora che eretici, dei quali non hanno neppure il rigore etico nell’errore; pone al culmine della gerarchia dei valori l’uomo e la sua individuale, soggettiva e mutevole brama, oltre ogni oggettiva conoscenza ed ogni oggettiva legge morale: ecco che il suicidio viene scambiato per martirio, solo perché vi si presume tale intenzione nel cuore del suicida stesso.
Enzo Bianchi è il suadente cantore dell’irrazionalismo kantiano, dell’impossibilità per l’uomo di conoscere la verità e del conseguente abbandonansi all’opinione. Da questo, discende, inesorabilmente, la morte di ogni etica naturale, oggettiva ed uguale per tutti. È di ogni evidenza che, senza un’etica naturale, non ci sarà neppure un diritto naturale. Nella Babele delle opinioni contrastanti l’unico collante rimasto per la socialità umana sarà la violenza, del più forte contro gli altri e del più debole contro se stesso.

(Fonte: Cristina Siccardi, BoseCuriose.it, 19 dicembre 2012)

 

«Smantellare la dittatura del relativismo»

I messaggi pontifici per l'annuale Giornata Mondiale della Pace, che cade il 1° gennaio di ogni anno, sono sempre documenti in senso lato «politici». Quello che Benedetto XVI ha diffuso il 14 dicembre per la Giornata Mondiale della Pace 2013, formalmente datato 8 dicembre 2012, non solo non fa eccezione ma - forse non senza consapevolezza dei tanti e importanti Paesi, Italia compresa, che nel 2013 saranno chiamati a delicate tornate elettorali - propone un vero e proprio programma affidato ai politici cattolici di buona volontà.
Il Papa inizia rievocando i cinquant'anni dall'inizio del Concilio Ecumenico Vaticano II - su cui ribadisce, come di consueto in quest'Anno della fede e in risposta ai critici, il giudizio storico secondo cui, pure tra tante difficoltà e fraintendimenti, «ha consentito di rafforzare la missione della Chiesa nel mondo» -, e ricordando una parola di Gesù Cristo che dà pure il titolo al Messaggio: «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9).
Il Concilio ha insistito sull'annuncio delle beatitudini, «un genere letterario - spiega il Papa - che porta sempre con sé una buona notizia, ossia un vangelo, che culmina in una promessa. Quindi, le beatitudini non sono solo raccomandazioni morali, la cui osservanza prevede a tempo debito – tempo situato di solito nell’altra vita – una ricompensa, ossia una situazione di futura felicità». Se fosse così, chi non crede nell'altra vita potrebbe facilmente considerare i credenti «ingenui o lontani dalla realtà». Invece le beatitudini sono un programma molto preciso, che certo si apre alla vita eterna ma ci spiega anche in modo concreto com'è possibile vivere in pace qui e ora sulla Terra.
Non che l'apertura all'altra vita e la pace in questa non siano collegate. Infatti, «la pace presuppone un umanesimo aperto alla trascendenza». Se una società si chiude per principio alla trascendenza, è impossibile che viva in pace. «È indispensabile, allora, che le varie culture odierne superino antropologie ed etiche basate su assunti teorico-pratici meramente soggettivistici e pragmatici». Il Papa lo dice in termini molto forti: «Precondizione della pace è lo smantellamento della dittatura del relativismo e dell’assunto di una morale totalmente autonoma, che preclude il riconoscimento dell’imprescindibile legge morale naturale scritta da Dio nella coscienza di ogni uomo».
Non basta infatti essere in pace con gli altri. Occorre essere in pace con se stessi, con il creato e anzitutto con Dio: un'idea che Benedetto XVI riprende dall'enciclica «Pacem in terris» del beato Giovanni XXIII (1881-1963), spesso evocata dal Magistero nelle ultime settimane in previsione del suo cinquantenario che cadrà nel 2013. Ne consegue che «la negazione di ciò che costituisce la vera natura dell’essere umano, nelle sue dimensioni essenziali, nella sua intrinseca capacità di conoscere il vero e il bene e, in ultima analisi, Dio stesso, mette a repentaglio la costruzione della pace. Senza la verità sull’uomo, iscritta dal Creatore nel suo cuore, la libertà e l’amore sviliscono, la giustizia perde il fondamento del suo esercizio».
Dalla «Pacem in terris» Benedetto XVI cita anche l'appello perché le strutture e le organizzazioni internazionali trovino il loro fondamento ultimo nel «riconoscimento di essere, in Dio, un’unica famiglia umana» e nell'esistenza oggettiva di un «ordine morale». Tale ordine è sia internazionale, sia nazionale: e non si può promuovere un giusto ordinamento internazionale se non si opera in modo conforme a giustizia anzitutto nel proprio Paese.
Ecco allora delinearsi nel Messaggio il preciso programma di una politica conforme all'ordine morale, che parte come di consueto dai principi che il Papa chiama non negoziabili. Anzitutto, la vita: «Chi vuole la pace non può tollerare attentati e delitti contro la vita. Coloro che non apprezzano a sufficienza il valore della vita umana e, per conseguenza, sostengono per esempio la liberalizzazione dell’aborto, forse non si rendono conto che in tal modo propongono l’inseguimento di una pace illusoria». Il tema è consueto nel Magistero di Benedetto XVI, ma qui la condanna delle leggi abortiste è ribadita con particolare vigore. «La fuga dalle responsabilità, che svilisce la persona umana, e tanto più l’uccisione di un essere inerme e innocente, non potranno mai produrre felicità o pace. Come si può, infatti, pensare di realizzare la pace, lo sviluppo integrale dei popoli o la stessa salvaguardia dell’ambiente, senza che sia tutelato il diritto alla vita dei più deboli, a cominciare dai nascituri?». Ugualmente ferma è la condanna delle leggi che pretendono d'introdurre «un preteso diritto all'eutanasia», altro esempio di norme ispirate a «falsi diritti o arbitrii, che, basati su una visione riduttiva e relativistica dell’essere umano e sull’abile utilizzo di espressioni ambigue, [...] minacciano il diritto fondamentale alla vita».
Questi falsi diritti oggi minacciano anche la famiglia. Se si vuole la pace, «la struttura naturale del matrimonio va riconosciuta e promossa, quale unione fra un uomo e una donna, rispetto ai tentativi di renderla giuridicamente equivalente a forme radicalmente diverse di unione che, in realtà, la danneggiano e contribuiscono alla sua destabilizzazione, oscurando il suo carattere particolare e il suo insostituibile ruolo sociale». In terzo luogo, va riconosciuta la libertà di educazione: «Bisogna tutelare il diritto dei genitori e il loro ruolo primario nell’educazione dei figli».
Per l'ennesima volta il Papa risponde all'obiezione, che rende timidi anche tanti politici cattolici, secondo cui non si potrebbero imporre i tre principi non negoziabili - vita, famiglia e libertà di educazione - ai non credenti. Anzitutto, fa parte della libertà religiosa dei credenti il diritto di proclamarli e proporli. Ma «questi principi non sono verità di fede, né sono solo una derivazione del diritto alla libertà religiosa. Essi sono inscritti nella natura umana stessa, riconoscibili con la ragione, e quindi sono comuni a tutta l’umanità», dunque vincolano «tutte le persone, prescindendo dalla loro affiliazione religiosa», e la loro negazione non è tanto un'offesa alla Chiesa ma «un’offesa contro la verità della persona umana, una ferita grave inflitta alla giustizia e alla pace».
La libertà religiosa appare nel Magistero di Benedetto XVI come il quarto principio non negoziabile - o piuttosto l'orizzonte degli altri tre - e implica che «gli ordinamenti giuridici e l’amministrazione della giustizia riconoscano il diritto all’uso del principio dell’obiezione di coscienza nei confronti di leggi e misure governative che attentano contro la dignità umana, come l’aborto e l’eutanasia». È necessario che nelle leggi il diritto alla libertà religiosa «sia promosso non solo dal punto di vista negativo, come libertà da – ad esempio, da obblighi e costrizioni circa la libertà di scegliere la propria religione –, ma anche dal punto di vista positivo, nelle sue varie articolazioni, come libertà di: ad esempio, di testimoniare la propria religione, di annunciare e comunicare il suo insegnamento; di compiere attività educative, di beneficenza e di assistenza che permettono di applicare i precetti religiosi; di esistere e agire come organismi sociali, strutturati secondo i principi dottrinali e i fini istituzionali che sono loro propri». Il Pontefice denuncia ancora una volta le minacce alla libertà religiosa, anche in Occidente, e allude alle questioni relative al crocefisso, al Natale, al divieto di portare croci o altri simboli religiosi: «purtroppo, anche in Paesi di antica tradizione cristiana si stanno moltiplicando gli episodi di intolleranza religiosa, specie nei confronti del cristianesimo e di coloro che semplicemente indossano i segni identitari della propria religione».
È importante che in ogni programma politico che si vuole conforme alla dottrina sociale della Chiesa sia riconosciuto il primato dei principi non negoziabili e della libertà religiosa, che non sono sullo stesso piano degli altri diritti, ma li precedono e li fondano. Nello stesso tempo, la dottrina sociale non si disinteressa certo di altri diritti, a partire da quelli detti sociali al lavoro e a una gestione della vita economica che tenga conto della libertà e della solidarietà. Benedetto XVI denuncia «il prevalere di una mentalità egoistica e individualista espressa anche da un capitalismo finanziario sregolato», nonché - riprendendo un tema che gli è caro - «le ideologie del liberismo radicale e della tecnocrazia [le quali] insinuano il convincimento che la crescita economica sia da conseguire anche a prezzo dell’erosione della funzione sociale dello Stato e delle reti di solidarietà della società civile, nonché dei diritti e dei doveri sociali».
I rimedi proposti per la crisi economica, che talora implicano scelte difficili e dolorose, devono però tenere conto del «primato della dimensione spirituale e dell’appello alla realizzazione del bene comune. In caso contrario, essi perdono la loro giusta valenza, finendo per assurgere a nuovi idoli». Certo, la crisi ci mostra che non è più possibile perseguire «il modello prevalso negli ultimi decenni [che] postulava la ricerca della massimizzazione del profitto e del consumo, in un’ottica individualistica ed egoistica». Ma nella pur necessaria «strutturazione etica dei mercati monetari, finanziari e commerciali» si dovrà porre attenzione a «non arrecare danno ai più poveri» e a non «sottovalutare il ruolo decisivo della famiglia, cellula base della società dal punto di vista demografico, etico, pedagogico, economico e politico».
Il Pontefice è consapevole che perseguire questo impegnativo programma potrà rivelarsi «un lavoro lento, perché suppone un’evoluzione spirituale, un’educazione ai valori più alti, una visione nuova della storia umana. Occorre rinunciare alla falsa pace che promettono gli idoli di questo mondo e ai pericoli che la accompagnano, a quella falsa pace che rende le coscienze sempre più insensibili, che porta verso il ripiegamento su se stessi, verso un’esistenza atrofizzata vissuta nell’indifferenza». Ma, mentre prosegue il lento lavoro della preparazione di nuove classi dirigenti davvero formate da una «pedagogia della pace», il Messaggio indica ai politici di buona volontà quali punti vanno subito inseriti, senza attendere, in programmi che vogliano essere davvero conformi alla libertà, alla giustizia e al bene comune.

(Fonte: Massimo Introvigne, Nuova Bussola Quotidiana, 15 dicembre 2012)

 

mercoledì 19 dicembre 2012

Il Papa e i gay: ecco la doppia bufala inventata dai media

Dopo lo sbarco su Twitter, il Papa rischiava di diventare troppo popolare. Urgeva restituirgli l’immagine stereotipata dell’uomo nero, così familiare ai laici di casa nostra. I nostri organi d’informazione non si sono fatti pregare e hanno sferrato contro Benedetto XVI un tremendo uno-due, roba da mettere al tappeto anche Mike Tyson.
1) IL PAPA HA BENEDETTO CHI METTE A MORTE I GAY?
Ha cominciato il “Fatto Quotidiano”, titolando telegraficamente: “Il Papa benedice promotrice legge che prevede pena di morte per gay in Uganda”. Così, secco. Poi uno approfondisce e scopre che la tipa, tale Rebecca Kadaga, è la presidentessa del Parlamento ugandese. Che ieri è stata ricevuta in Vaticano insieme a un’intera delegazione di parlamentari del Paese africano, in visita a Roma per partecipare, senza che nessuno se ne scandalizzi, nientemeno che alla settima Assemblea Consultiva dei parlamentari per la Corte penale internazionale ed alla Conferenza parlamentare mondiale sui diritti umani (tanto per avere un’idea, proprio la Kadaga sarà relatrice sul tema “Rafforzamento dello Stato di Diritto e del Sistema Giudiziario attraverso l’effettiva applicazione del Principio di Complementarità”, come potete leggere qui). Se si va ancora più a fondo, si scopre che la donna politica ugandese non è la presentatrice della proposta di legge ribattezzata “Kill the gays bill”, anche se ha rilasciato dichiarazioni in suo sostegno; che la legge, nella sua ultima versione, non prevede più in alcun caso la pena di morte; che, in ogni modo, sia la Chiesa Cattolica ugandese che la Santa Sede si sono già espresse contro di essa da molto tempo. Insomma, si scopre che quella montata dal “Fatto”, a cui si sono accodati tutti i pennivendoli nostrani, è un’indegna strumentalizzazione, per non dire una vergognosa bufala.

2) IL PAPA CONSIDERA GLI OMOSESSUALI PERICOLOSI PER LA PACE?
Altro giro, altra corsa: come ogni anno, il Santo Padre ha diffuso il suo Messaggio (scritto in realtà il giorno dell’Immacolata) per la Giornata Mondiale della Pace, che ricorrerà come di consueto il 1° gennaio. Il documento non fa altro che ricalcare le storiche posizioni del Magistero della Chiesa a proposito della pace. Essa non è, con buona pace dei fricchettoni di ogni latitudine, semplice assenza di conflitto, o “volemose bene”. La vera pace è, come scrisse Agostino, “tranquillità nell’ordine”. Di più: come si legge in Isaia (Is 32, 17) e come ripete san Tommaso nella sua Summa, la pace è frutto della giustizia (“opus iustitiae pax” fu anche il motto papale di Pio XII), cioè – in ultima analisi – della verità. Scrive dunque Benedetto XVI che “la negazione di ciò che costituisce la vera natura dell’essere umano, nelle sue dimensioni essenziali, nella sua intrinseca capacità di conoscere il vero e il bene e, in ultima analisi, Dio stesso, mette a repentaglio la costruzione della pace”, in ciò riprendendo anche la roncalliana Pacem in terris, pure considerata uno dei simboli della rottura vaticansecondista, laddove essa affermava che “le leggi con cui vanno regolati gli accennati rapporti [tra gli uomini e tra i popoli] vanno cercate là dove Dio le ha scritte, cioè nella natura umana” (Pacem in terris, 4) e che Dio è “la sorgente più profonda da cui soltanto può attingere la sua genuina vitalità una convivenza fra gli esseri umani ordinata, feconda, rispondente alla loro dignità di persone” (ibidem, 20). Però uno è il “Papa Buono”, l’altro il malvagio “Pastore Tedesco”. Misteri della vita.

Da questa visione, che rifiuta il soggettivismo e mette in guardia dall’idea “di una morale totalmente autonoma, che preclude il riconoscimento dell’imprescindibile legge morale naturale scritta da Dio nella coscienza di ogni uomo”, derivano secondo il Papa una serie di conseguenze. In primo luogo, la necessità del rispetto della vita umana e una condanna senza appello dell’aborto: “la fuga dalle responsabilità, che svilisce la persona umana, e tanto più l’uccisione di un essere inerme e innocente, non potranno mai produrre felicità o pace”. Quindi – e veniamo al punto dolente – il tema della famiglia. Quasi per inciso, Benedetto XVI ammonisce rispetto ai tentativi di rendere l’unione familiare “giuridicamente equivalente a forme radicalmente diverse di unione che, in realtà, la danneggiano e contribuiscono alla sua destabilizzazione, oscurando il suo carattere particolare e il suo insostituibile ruolo sociale”. Si noti che gli omosessuali non vengono neanche esplicitamente nominati, anche se il riferimento è chiaro. Nel capoverso successivo, infine, si afferma che la negazione di tali principi, in primis quello del rispetto della vita, “costituisce un’offesa contro la verità della persona umana”, quindi – in piena coerenza con le premesse generali – “una ferita grave inflitta alla giustizia e alla pace”.
Apriti cielo. “Il Papa: i gay minacciano la pace mondiale”, hanno strillato i giornaloni. La solita Concia si è prontamente mobilitata, accusando Benedetto XVI di “alimentare l’odio” contro gli omosessuali e assicurando, quale esperta in materia, che le parole del Papa vanno “contro qualsiasi messaggio cristiano”. Si è sollevato presto un polverone, insomma, su un documento che nessuno di quelli che ne parlano (a sproposito) ha neanche letto.
E dire che, sulle tematiche economico-sociali, Benedetto XVI scrive cose molto significative, riprovando il fatto che, “presso porzioni crescenti dell’opinione pubblica, le ideologie del liberismo radicale e della tecnocrazia insinuano il convincimento che la crescita economica sia da conseguire anche a prezzo dell’erosione della funzione sociale dello Stato e delle reti di solidarietà della società civile, nonché dei diritti e dei doveri sociali”. Esorta a valorizzare adeguatamente il lavoro, che non può essere ridotto a “variabile dipendente dei meccanismi economici e finanziari”, sacrificato sull’altare della “massimizzazione del profitto e del consumo, in un’ottica individualistica ed egoistica”. Anche qui, il Papa invita a riscoprire la logica del bene comune e di una società organicamente ordinata. Considerazioni che potrebbero suscitare interesse anche a sinistra, se quest’ultima non avesse smesso di occuparsi della povera gente per dedicarsi, per dirla con Bertinotti-Guzzanti, alla difesa “degli omosessuali e di alcune felci” (vedi video).
Di tutta la profondità della riflessione del Papa, dunque, resta solo il titolo scandalistico a caratteri cubitali, buono a suscitare l’indignazione dei guardiani del politicamente corretto. La Chiesa non viene più intesa dal mondo contemporaneo non perché, come affermò il defunto cardinal Martini, essa è rimasta indietro di duecento anni. Semplicemente, il Magistero di Papa Benedetto vola troppo alto per poter essere compreso da un mondo che ha mandato il cervello all’ammasso, rinunciando a fare uso della ragione, quella vera. Troppo alto per gli orizzonti limitati della Concia e dei suoi accoliti, che pure plasmano a proprio gusto un’opinione pubblica rincretinita. Il dramma è tutto qui.
 

(Fonte: Marco Mancini, da Campari & De Maistre, Uccr, 17 dicembre2012)
 

A Carrara allestito presepe “alternativo”

A Carrara, davanti allo splendido Duomo di Sant’Andrea, un gruppo di pseudo artisti ha allestito, in una tenda, un presepe alternativo dove il bambino Gesù, è uno orrendo scheletrino in resina bianca. Gli altri componenti del Presepe, la Vergine Maria, san Giuseppe, il bue e l’asinello sono rappresentati da quattro bidoni di metallo.
All’interno della tenda dove è stato allestito lo squallido presepe sono riprodotti canti natalizi e, in contrapposizione, suoni di guerra con spari di mitragliatrice, scoppi di bombe, ecc. Tale “opera” sarebbe dedicata ad una trentunenne ucraina incinta di otto mesi trovata morta di stenti in una baracca di periferia a Carrara nel febbraio scorso.
Secondo uno degli autori il presepe racconta una storia di sofferenza, in cui il Bambinello riproduce le fattezze di un bambino siriano ricavate da una foto scattata in uno scenario di guerra; in tal modo, gli organizzatori hanno voluto sottolineare le sofferenze che affliggono gran parte delle persone sparse nel mondo proprio nel momento del Natale in cui si è “buoni”. Non è un Gesù che nascendo, illumina il mondo, ma un Gesù morto, incapace di redimere l’umanità.
Il parroco del Duomo, don Raffaello Piagentini, parla di un presepe ancor più realistico rispetto agli altri e di un bambinello che ricorda Gesù che continua a soffrire attraverso la sofferenza di molti. Il parroco ha benedetto l’installazione sperando che si possa riflettere e aiutare gli altri.
Dietro l’iniziativa provocatoria affiora la cristianofobia. Nel 2011 a Carrara furono rubate le statue della Natività, sistemate sul sagrato del Duomo. Oggi con la scusa di lanciare messaggi di pace e di condivisione della sofferenza umana si mira a sporcare le immagini sacre e a ridicolizzare i contenuti della fede cattolica.
Non c’è nulla di più efficace per riflettere sulle miserie umane che volgere lo sguardo alla Croce di Cristo e nulla di più bello per vivere in modo autentico la fratellanza con tutti gli uomini che contemplare la straordinaria e commovente bellezza del Presepe tradizionale.


(Fonte: Alfredo De Matteo, Corrispondenza Romana, 19 dicembre 2012)
 

mercoledì 12 dicembre 2012

I “discorsi di odio”: un reato per reprimere la libertà di espressione dei cristiani

La libertà di espressione si restringe sempre di più per i cristiani in Europa. Anche Paesi di antica tradizione cattolica hanno iniziato ad inserire nelle loro legislazioni un nuovo tipo di crimine, i “discorsi ispirati dall’odio” (in inglese hate speeches), che si riferiscono alla discriminazione e all’ostilità verso un individuo, a causa di caratteristiche particolari, come il suo orientamento sessuale o “l’identità di genere”.
In dodici Stati membri dell’Unione Europea (Belgio, Danimarca, Germania, Estonia, Spagna, Francia, Irlanda, Lettonia, Paesi Bassi, Portogallo, Romania e Svezia) più l’Irlanda del Nord nel Regno Unito, è considerato reato incitare all’odio o alla discriminazione in base all’orientamento sessuale. In quattro Stati membri (Austria, Bulgaria, Italia e Malta) i discorsi ispirati dall’odio sono considerati reati se espressi nei confronti di gruppi specifici, ma gli omosessuali non sono inclusi tra questi. Negli altri Stati membri, i discorsi ispirati dall’odio contro le persone lesbiche, gay, bisessuali e transessuali non sono definiti specificatamente come reato. Le lobbies relativiste vorrebbero una legislazione europea uniforme, che reprima ogni forma di discriminazione, anche solo verbale. Il 24 maggio 2012 il Parlamento europeo ha votato una risoluzione contro l’omofobia e la transfobia in Europa (con 430 voti a favore, 105 contrari e 59 astensioni). Il testo «condanna con forza tutte le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere» ed esorta gli Stati membri a garantire la protezione di lesbiche, gay e transgender dai discorsi omofobi di incitamento all’odio e dalla violenza. Con ciò si intende impedire ogni forma esplicita di critica della condizione omo o transessuale. Si inizia così ad applicare rigorosamente la categoria giuridica di “non discriminazione”, introdotta dall’art. 21 del Trattato di Nizza, recepito dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
Il principio è solo apparentemente nuovo: in realtà non si tratta altro che del vecchio concetto giacobino di uguaglianza assoluta, riproposto con nuovo linguaggio e adattato alla sensibilità contemporanea. E’ difficile infatti trovare un termine ambiguo come quello di discriminazione. L’idea stessa di giustizia, che nella sua formulazione tradizionale significa attribuire a ciascuno quello che gli è proprio (suum cuique tribuere) implica qualche forma di “discriminazione”. Ogni legge è costretta in qualche modo a “discriminare”, per il fatto stesso che stabilisce che cosa è giusto e ingiusto, lecito o proibito, favorendo gli uni ed ostacolando gli altri. La pretesa di non discriminare gli orientamenti sessuali significa applicare un criterio rigorosamente ugualitario a tutte le scelte, quali esse siano, relative alla sessualità umana. Un coerente criterio ugualitario porterà a proteggere giuridicamente ogni forma di disordine morale, dalle unioni omosessuali alla pedofilia e all’incesto, almeno quando siano tra soggetti consenzienti ed escludano una violenza esplicita. Inoltre, ogni critica pubblica di un comportamento ritenuto disordinato e immorale costituisce una forma di “discriminazione”. E’ previsto perciò il divieto e la pesante repressione penale di ogni tipo di attività e di espressione che comporti la critica dell’omosessualismo e dell’abortismo. Un sacerdote dal pulpito o un professore dalla cattedra non possono presentare la famiglia naturale e cristiana come “superiore” alle “unioni di fatto” etero o omosessuali, senza che questo costituisca una “discriminazione” degna di sanzione penale. Una istituzione religiosa, una scuola privata, un’associazione cristiana non potranno allontanare dei membri che all’interno di essa propaghino o pratichino comportamenti ritenuti immorali, senza che questo costituisca una colpevole discriminazione. Tutto questo in nome della condanna dei “discorsi di odio”. Ma l’odio è necessariamente un male?
L’amore e l’odio sono i due sentimenti che guidano la vita degli uomini e dei popoli, Meditando sulla caduta dell’Impero romano, sant’Agostino esponeva nella sua celebre Città di Dio, la visione teologica della storia cristiana, secondo cui l’amore e l’odio guidano la storia del mondo: l’amore di sé fino all’odio di Dio e l’amore di Dio fino all’odio di sé. Amore e odio sono inseparabili nella vita. Non si può amare il bene senza odiare il male e non si può difendere e diffondere la verità senza criticare l’errore. A meno di non credere che verità ed errore siano solo opinioni soggettive e intercambiabili. Oggi però il Parlamento europeo, e molti governi nazionali vorrebbero ammettere come legittima una sola forma di odio, quella al Cristianesimo. Gesù l’aveva detto: «Sarete odiati da tutti a causa del Mio nome» (Mt 10, 16-23). In occasione della Giornata mondiale della Pace del gennaio 2011, Benedetto XVI ha affermato che i cristiani sono attualmente il gruppo religioso che soffre il maggior numero di persecuzioni a motivo della propria fede. Lo scorso 9 novembre l’Osservatorio sull’intolleranza e la discriminazione contro i cristiani in Europa ha fatto pervenire all’Osce (Organizzazione per la cooperazione e la sicurezza in Europa) un rapporto sulla situazione della libertà religiosa nel continente. L’Osservatorio ha documentato negli ultimi sei anni più di ottocento casi in Europa nei quali la libertà dei cristiani di esprimere pubblicamente le loro idee è pesantemente violata. Molti di questi casi si riferiscono al divieto di manifestare pubblicamente la contrarietà all’aborto o al “matrimonio” omosessuale.
L’odio al nome cristiano accompagna fin dai primi secoli la vita della Chiesa. Oggi l’odio contro i cristiani si manifesta sotto forma di persecuzioni violente e di discriminazioni e va sotto il nome improprio, ma efficace, di cristianofobia, che nel suo significato etimologico è paura del Cristianesimo. L’imposizione dell’unione contro natura tra persone dello stesso sesso; l’introduzione del reato di “omofobia”, che proibisce ogni forma di difesa della famiglia naturale; il tentativo di reprimere giuridicamente l’obiezione di coscienza di coloro che rifiutano di cooperare ad omicidi quali l’aborto e l’eutanasia; la promozione della blasfemia nella pubblicità e nelle opere cinematografiche e teatrali sono forme di odio e di intolleranza verso i princìpi e le istituzioni cristiane, realizzate dalla dittatura del relativismo contemporanea. Tutto ciò non può essere tollerato. I cristiani non rimarranno inerti.

(Fonte: Roberto de Mattei, Corrispondenza Romana, 7 dicembre 2012)
 

Anche un Vescovo ad un incontro promosso dalla massoneria

Era preannunciata la sua presenza. Infatti c’era, ha partecipato: anche il Vescovo, mons. Domenico Cancian, è intervenuto al settimo meeting organizzato dall’associazione culturale “Etruria”-Circolo “Voltaire” lo scorso 6 dicembre presso la sala consiliare del Comune di Città di Castello. A darne notizia, è stato il sito del GOI-Grande Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani. In una parola, la massoneria. E da massoni era affiancato il prelato.
A partire dal presidente dell’ente promotore, Fausto Castagnoli, che ha introdotto i lavori, sino al co-relatore, il prof. Antonio Panaino, che non è solo ordinario di Storia religiosa del mondo iranico presso l’Alma Mater Studiorum dell’Università di Bologna, ma è anche direttore scientifico e condirettore della rivista ufficiale del GOI, “Hiram”, nonché autore del volume da cui ha tratto origine il convegno, “I Magi e la loro stella – Storia, scienza e teologia di un racconto evangelico”, incredibilmente pubblicato a novembre dall’editrice San Paolo nella collana “Parola di Dio”.
Già il saggista Francesco Colafemmina, sul blog “Fides et Forma”, ha evidenziato come non sia preoccupazione prima di Panaino preservare la storicità dei Magi, preferendovi prevedibilmente una lettura simbolica: essi sarebbero “iniziati”, una metafora del “cammino dell’umanità” verso ”l’unica stella e la sua luce infinita”, come si legge nel libro edito dalla San Paolo, stella che Colafemmina individua in “quella fiammeggiante che campeggia in ogni loggia, culto satanico al G.A.D.U.”. Stella, che non a caso si fermerebbe presso la “meta” ovvero la “casa” di Cristo, considerato a sua volta un “grande iniziato, in grado di trasformare l’uomo in Dio, il metallo vile in oro”. Il testo mette dunque in discussione la storicità dei Magi, valutando incroci ed innesti con astrologia, miti nordici, solstizio d’inverno, rinascita del Sole, ciclo della luce e letteratura apocrifa.
La stessa attribuzione del Vangelo a Matteo sarebbe “un fatto sostanzialmente tradizionale, ma non un dato inappellabile sul piano storico-filologico”. Incredibile! Perché? Il volume di Panaino trae spunto dal Vangelo di Matteo detto dell’Infanzia: non a caso esso esce contemporaneamente a “L’infanzia di Gesù”, l’ultima opera scritta da Benedetto XVI, in cui il Sommo Pontefice afferma esattamente l’opposto. Nega cioè che quanto contenuto nei Vangeli di Luca e Matteo possa ritenersi una favola o un racconto simbolico e precisa anzi essere “storia reale, avvenuta” realmente, visita dei Magi compresa, che definisce “una via verso la vera conoscenza, verso Gesù Cristo”, non verso la stella. Una prospettiva radicalmente diversa, -di più-opposta a quella suggerita da Panaino.
Val la pena però ricordare come la Congregazione per la Dottrina della Fede nel 1983 con la “Dichiarazione sulla massoneria”, approvata dal Beato Giovanni Paolo II, abbia ribadito la condanna e confermato con chiarezza per i fedeli il divieto di appartenere alla massoneria, essendo i principi su cui si fonda inconciliabili con la Dottrina della Chiesa. Chi vi aderisce, si trova in stato di peccato grave contro l’integrità della fede, in quanto tale eretico, secondo i canoni 1364 e 1374 del vigente Codice di Diritto Canonico Il primo colpisce con “scomunica latae sententiae l’apostata, l’eretico e lo scismatico” -con richiamo peraltro al canone 194, secondo il quale “è rimosso dall’ufficio ecclesiastico per il diritto stesso chi si è separato pubblicamente dalla fede cattolica o dalla comunione della Chiesa”-. Il secondo punisce chi dia “il nome ad un’associazione, che complotta contro la Chiesa”, nonché “con l’interdetto” chi la promuova o la diriga. Anche chi la promuova…
Pubblicare il libro scritto da un massone professo e proporlo al pubblico, appellandosi al dialogo purchessia, riecheggia analoghi e recenti tentativi di porre l’errore grave, il rifiuto di Dio in cattedra. Non a caso nel messaggio scritto per l’ultimo incontro del “Cortile dei gentili”, il regnante Pontefice, Benedetto XVI, ha condannato con chiarezza quel “mondo auto-costruito”, che si sottrae “allo sguardo creatore e redentore del Padre”, trasformando “le«risorse» di Dio in nostri prodotti”, e vi ha opposto con forza la necessità di porre in modo evidente Dio al centro, “di nuovo visibile nel mondo e determinante nella nostra vita”.
E’ a questo che un editore – specie nel caso voglia, oltre a dirsi, anche esser cattolico -, è chiamato e tenuto ad attenersi. Lo stesso dicasi per un Vescovo, quando invitato come relatore ad eventi pubblici. A questo e non ad altro.

(Fonte: Mauro Faverzani, Corrispondenza Romana, 10 dicembre 2012)
 

mercoledì 5 dicembre 2012

Avviso di restauri nel “Cortile dei gentili”

Quando alla vigilia di Natale del 2009 Benedetto XVI lanciò l’idea del “Cortile dei gentili”, ne disse subito la finalità: tener desta la ricerca di Dio tra agnostici o atei, come “primo passo” della loro evangelizzazione.
Ma il papa non ne stabilì le modalità d’esecuzione. Affidò la messa in opera dell’idea al presidente del pontificio consiglio della cultura, l’arcivescovo e poi cardinale Gianfranco Ravasi, valente e sperimentato creatore di eventi culturali.
Ravasi esordì a Parigi il 24 e 25 marzo 2010, organizzando un incontro che ebbe un notevole impatto. Lo stesso Benedetto XVI vi prese parte con un videomessaggio rivolto ai giovani riuniti sul sagrato di Notre Dame.
Nei successivi appuntamenti, però, il papa rimase in silenzio. Il “Cortile dei gentili” proseguì con una sequenza serrata di incontri, in diversi paesi. Con un crescendo culminato il 5 e 6 ottobre di quest’anno ad Assisi, con un cast di partecipanti record, a cominciare dal presidente della repubblica italiana, Giorgio Napolitano, agnostico di formazione marxista.
A questo crescendo è corrisposto, però, un calo di interesse generale e di risonanza nei media.
Un calo comprensibile. Il fatto che dei non credenti prendessero la parola in un incontro promosso dalla Santa Sede non era più una notizia. E non era una notizia nemmeno il fatto che ciascuno vi esponesse la rispettiva visione del mondo, peraltro già risaputa, alla pari con gli altri, in una sorta di “quadri di un’esposizione”.
A dispetto della suggestione di ciascun evento e dell’ammirazione che esso riscuoteva tra i partecipanti, il “Cortile dei gentili” rischiava di non produrre più nulla di nuovo e di significativo, sul versante dell’evangelizzazione.
Se una novità infatti c’è stata, nell’ultimo suo incontro tenuto 1l 16 e 17 novembre in Portogallo, essa è venuta da fuori e dall’alto.
Per la prima volta nella storia del “Cortile dei gentili” – a parte il caso particolare di Parigi –, Benedetto XVI ha inviato ai partecipanti un proprio messaggio.
Un messaggio nel quale egli ha voluto riportare l’iniziativa alla sua finalità originaria: quella di parlare di Dio a chi ne è lontano, risvegliando le domande che avvicinino a Dio “almeno come Sconosciuto”.
Nel messaggio, chiaramente scritto di suo pugno, Benedetto XVI ha preso avvio dal tema principale del “Cortile dei gentili” portoghese: “l’aspirazione comune di affermare il valore della vita umana”.
Ma subito ha argomentato che la vita di ogni persona, tanto più se amata, non può non “chiamare in causa Dio”. E ha proseguito: “Il valore della vita diventa evidente solo se Dio esiste. Perciò, sarebbe bello se i non credenti volessero vivere ‘come se Dio esistesse’. Sebbene non abbiano la forza per credere, dovrebbero vivere in base a questa ipotesi; in caso contrario, il mondo non funziona. Ci sono tanti problemi che devono essere risolti, ma non lo saranno mai del tutto, se Dio non sarà posto al centro, se Dio non diventerà di nuovo visibile nel mondo e determinante nella nostra vita”.
Nel concludere, Benedetto XVI ha citato una riga del messaggio rivolto dal concilio Vaticano II agli uomini di pensiero e di scienza: “Felici coloro che, possedendo la verità, la continuano a cercare per rinnovarla, per approfondirla, per donarla agli altri”.
E ha aggiunto lapidariamente: “Questi sono lo spirito e la ragion d’essere del Cortile dei gentili”.
L’indubbia rettifica impressa al “Cortile dei gentili” da Benedetto XVI con questo messaggio non è stata rimarcata dai media, nemmeno da quelli cattolici e più attenti.
Ma il cardinale Ravasi l’ha sicuramente registrata e sottoscritta. Lo si è capito anche da questo passaggio del bilancio del “Cortile” portoghese pubblicato su “L’Osservatore Romano” del 23 novembre: “A Guimarães, il pubblico ha sollevato una questione: la sacralità della vita presuppone qualcosa che ci trascende. Come possiamo conoscere Dio? È stato cioè toccato l’obiettivo per il quale il ‘Cortile dei gentili’ è stato pensato: esprimere l’inquietudine riguardo a Dio. Tema vasto e complesso sul quale, ha detto il cardinale Ravasi, il ‘Cortile dei gentili’ tornerà in maniera più approfondita nei prossimi incontri”.
Ai prossimi incontri la verifica della svolta.
Intanto, Benedetto XVI ha affidato al cardinale Ravasi, che è anche rinomato biblista, l’onore di presentare ai media di tutto il mondo il terzo tomo della sua opera su Gesù, quella dedicata ai Vangeli dell’infanzia. Segno della fiducia che continua a riporre in lui.
E a sua volta Ravasi ha dato inizio, su “L’Osservatore Romano”, a una serie di articoli sull’incontro/scontro tra la fede e l’incredulità nella cultura contemporanea, come apporto all’Anno della fede indetto dal papa.
Nel primo di questi articoli, il 28 novembre, il cardinale ha sprigionato la sua eccezionale padronanza della letteratura, delle arti e delle scienze, con una lussureggiante fioritura di autori citati. Nell’ordine: Aleksandr Blok, Franz Kafka, Emile Cioran, Jean Cocteau, Rudolf Bultmann, Blaise Pascal, Jan Dobraczynski, Robert Musil, Ludwig Wittgenstein, Luis de León, David Hume, Anatole France, Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Alberto Moravia, Augusto Del Noce, Jacques Prévert, Eugenio Montale, Johann Wolfgang von Goethe.
In mezza pagina di giornale una ventina di autori, quasi tutti non credenti eppure tutti rivelatisi “vulnerabili” alle domande su Dio.
Ma torniamo a Benedetto XVI e al suo poco noto ma importante messaggio all’ultimo “Cortile dei gentili”. Tutto da leggere:
«Cari amici, con viva gratitudine e con affetto, saluto tutti i partecipanti al “Cortile dei gentili”, che s’inaugura in Portogallo il 16 e 17 novembre 2012 e che riunisce credenti e non credenti attorno all’aspirazione comune di affermare il valore della vita umana sulla crescente ondata della cultura della morte.
In realtà, la consapevolezza della sacralità della vita che ci è stata affidata, non come qualcosa di cui si possa disporre liberamente, ma come un dono da custodire fedelmente, appartiene all’eredità morale dell’umanità. “Pur tra difficoltà e incertezze, ogni uomo sinceramente aperto alla verità e al bene, con la luce della ragione e non senza il segreto influsso della grazia, può arrivare a riconoscere nella legge naturale scritta nel cuore (cfr. Rm 2, 14-15) il valore sacro della vita umana dal primo inizio fino al suo termine” (Enciclica “Evangelium vitae”, n. 2). Non siamo un prodotto casuale dell’evoluzione, ma ognuno di noi è frutto di un pensiero di Dio: siamo amati da Lui.
Però, se la ragione può cogliere questo valore della vita, perché chiamare in causa Dio? Rispondo citando un’esperienza umana. La morte della persona amata è, per chi l’ama, l’evento più assurdo che si possa immaginare: lei è incondizionatamente degna di vivere, è buono e bello che esista (l’essere, il bene, il bello, come direbbe un metafisico, si equivalgono trascendentalmente). Parimenti, la morte di questa stessa persona appare, agli occhi di chi non ama, come un evento naturale, logico (non assurdo). Chi ha ragione? Colui che ama (“la morte di questa persona è assurda”) o colui che non ama (“la morte di questa persona è logica”)?
La prima posizione è difendibile solo se ogni persona è amata da un Potere infinito; e questo è il motivo per cui è stato necessario appellarsi a Dio. Di fatto, chi ama non vuole che la persona amata muoia; e, se potesse, lo impedirebbe sempre. Se potesse... L’amore finito è impotente; l’Amore infinito è onnipotente. Ebbene, è questa la certezza che la Chiesa annuncia: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3, 16). Sì! Dio ama ogni persona che, perciò, è incondizionatamente degna di vivere. “Il sangue di Cristo, mentre rivela la grandezza dell’amore del Padre, manifesta come l’uomo sia prezioso agli occhi di Dio e come sia inestimabile il valore della sua vita”. (Enciclica “Evangelium vitae”, n. 25).
Nell’epoca moderna, l’uomo ha però voluto sottrarsi allo sguardo creatore e redentore del Padre (cfr. Gv 4, 14), fondandosi su se stesso e non sul Potere divino. Quasi come succede negli edifici di cemento armato senza finestre, dove è l’uomo che provvede all’areazione e alla luce; e, ugualmente, persino in un tale mondo auto-costruito, si attinge alle “risorse” di Dio, che sono trasformate in nostri prodotti. Che dire allora? È necessario riaprire le finestre, vedere di nuovo la vastità del mondo, il cielo e la terra, e imparare a usare tutto ciò in modo giusto.
Di fatto, il valore della vita diventa evidente solo se Dio esiste. Perciò, sarebbe bello se i non credenti volessero vivere “come se Dio esistesse”. Sebbene non abbiano la forza per credere, dovrebbero vivere in base a questa ipotesi; in caso contrario, il mondo non funziona. Ci sono tanti problemi che devono essere risolti, ma non lo saranno mai del tutto, se Dio non sarà posto al centro, se Dio non diventerà di nuovo visibile nel mondo e determinante nella nostra vita. Colui che si apre a Dio non si allontana dal mondo e dagli uomini, ma trova fratelli: in Dio cadono i nostri muri di separazione, siamo tutti fratelli, facciamo parte gli uni degli altri.
Amici miei, vorrei concludere con queste parole del concilio Vaticano II agli uomini di pensiero e di scienza: “Felici coloro che, possedendo la verità, la continuano a cercare per rinnovarla, per approfondirla, per donarla agli altri” (Messaggio, 8 dicembre 1965). Questi sono lo spirito e la ragion d’essere del “Cortile dei gentili”. A voi impegnati in diversi modi in questa significativa iniziativa, esprimo il mio sostegno e rivolgo il mio più sentito incoraggiamento. Il mio affetto e la mia benedizione vi accompagnino oggi e in futuro. Benedictus PP XVI, Dal Vaticano, 13 novembre 2012

(Fonte: Sandro Magister, www.chiesa, 30 novembre 2012)
 
 

giovedì 29 novembre 2012

Riconosciuto ai genitori incestuosi un diritto ignobile

«Signor Presidente, onorevoli colleghi, un vecchio adagio popolare dice che la via dell’inferno è lastricata di buone intenzioni e io non nego la buona intenzione. Anzi la lodevole intenzione di eliminare una serie di presunte – spiegherò perché presunte – discriminazioni a carico dei figli di una unione incestuosa». Sono le parole di Alfredo Mantovano, deputato pidiellino, ex sottosegretario all’Interno, firmatario degli emendamenti bocciati e contrari al riconoscimento dei figli dell’incesto previsto dalla norma varata ieri dal Parlamento con 366 favorevoli, 31 contrari e 58 astenuti.
Lo scopo della legge era quello di riconoscere i diritti di tutti i figli naturali, nati anche al di fuori del matrimonio, ma il sapore della norma è più di una legittimazione dei diritti degli adulti, al di là di ogni responsabilità civile contratta attraverso il matrimonio. «Se davvero si volevano tutelare i figli, perché si è votato per dare ai responsabili di un incesto il diritto di riconoscere quel figlio, contro il suo vero interesse e contrastando con l’articolo 564 del Codice penale che prevede il carcere per chi pratica l’incesto? Il contrasto tra la nuova legislazione civile e il Codice penale porterà a una sua depenalizzazione. Vedere la gente esultare in aula per l’approvazione di questa legge è stato uno spettacolo grottesco».
D. Chi ha voluto questa norma ha parlato, come Rosy Bindi, di una civiltà liberata dal fardello del bigottismo che non tutela i figli nati fuori dal matrimonio, anche quelli dell’incesto che si dice non avessero diritti. È così?
R. In aula c’era chi citava santi e sacre scritture a favore di questa norma; io mi sono limitato laicamente a citare il diritto positivo e a svolgere considerazioni esclusivamente laiche. In primo luogo, oggi il divieto di riconoscimento – come tutti sanno, ma è il caso di ricordarlo – non è assoluto. Il riconoscimento è possibile in una serie di ipotesi: quando si ignorava al momento del concepimento l’esistenza di un vincolo parentale; quando, in epoca successiva al concepimento, è venuto meno per l’annullamento di un matrimonio il vincolo di affinità. Non solo, la giurisprudenza ha applicato la categoria della buona fede anche alla vittima di violenza, quindi la donna che subiva la violenza dell’incesto poteva già operare il riconoscimento. Il figlio, poi, come recita l’articolo 580 del Codice civile, non otteneva l’eredità ma solo da un punto di vista formale, perché – di fatto – aveva diritto ad un assegno vitalizio che corrispondeva all’eredità che gli sarebbe spettata. Il figlio naturale, senza essere costretto ad apparire figlio di un rapporto incestuoso, poteva quindi ottenere il mantenimento, l’istruzione e l’educazione e, se maggiorenne ed in stato di bisogno, ottenere anche gli alimenti, come prevede l’articolo 279 del Codice civile. È nell’interesse di un figlio, che si trovi in tale drammatica situazione, avere questo marchio, che non dipende dalla sua volontà, ma può dipendere anche dalla volontà di chi è stato autore di una violenza? Perché qui non è più il figlio che, maggiorenne – come dice l’attuale normativa -, decide sul riconoscimento o meno, ma è l’esatto contrario, è il padre o la madre, comunque chi ha commesso una violenza, che d’ora in poi potrà decidere autonomamente se riconoscerlo o meno. Si può arrivare a delle vere e propria assurdità: L’articolo 564 del Codice penale, che nessuno ancora ha abolito, punisce come un delitto con pena severa l’atto di incesto, che accadrà ora?
D. Perché sono stati respinti gli emendamenti alla legge, anche se contrari solo a questo passaggio?
R. Per un insieme di ragioni gravi. Da una parte la sinistra ormai non si presenta più come un alternativa sul piano economico e politico, ma ha spostato la sua attenzione, come tutti i partiti europei, verso temi antropologici di matrice libertaria e radicale. Questo purtroppo accade perché ormai le politiche economiche, strutturali e di sviluppo sono stabilite dall’Europa. C’è poi una ragione politica: si sta rinforzando il patto con Sel a cui si dà carta bianca su tutte le proposte più ideologiche. Non meno grave il fatto che, dall’altra parte, il Pdl sia assente. Siamo pochi ad avere le idee chiare sull’importanza di queste tematiche per la società futura. Perciò è mancata, anche in questo caso, la volontà di agire con decisione. Peggio: il partito non è stato capace di fare una battaglia e un terzo di noi ha votato a favore della norma. e così hanno agito anche ad alcuni parlamentari della Lega, ma anche dell’Udc. Vedremo se questi stessi saranno quelli che sentiremo riempirsi la bocca di slogan sulla famiglia durante la prossima campagna elettorale. Perciò dico che bisogna leggere bene le analisi del sangue di chi parlerà: si può già fare guardando chi ha votato la norma sull’incesto. Perché, come diceva Jean-Paul Sartre, «quanto alla famiglia, scomparirà soltanto quando avremo cominciato a sbarazzarci del tabù dell’incesto; la libertà deve essere pagata a questo prezzo».
D. Hanno votato la legge sull’incesto. Qualcuno si è spinto fino a teorizzare che sia lecito?
R. Chi teorizza che i figli si possono fare in qualsiasi caso e che i genitori non devono essere discriminati rispetto a quelli sposati sono molti, con Paola Concia in testa. Solo che la cosa è subdola perché la lesione dei diritti dei bambini non è esplicita, ma passa con il vessillo della difesa dei diritti degli adulti: bisogna avere diritti senza responsabilità delle proprie azioni. Questa è l’idea di libertà teorizzata dai più radicali. Poi, di fatto, pagano i bambini, ma intanto le norme passano anche con lo sponsor di certi cattolici che sempre più ingrossano le cifre dei voti radicali.
D. Sui temi antropologici le differenze fra i partiti vanno sempre più assottigliandosi. Cosa accadrà alle prossime elezioni?
R. Nella prossima legislazione la maggioranza sarà ancora più libertaria. Date le forze in campo, mi pare evidente che stiamo andando verso un’estremizzazione dei temi etici. Si proporrà il riconoscimento della famiglia omosessuale, la legalizzazione dell’eutanasia, la legge sull’omofobia. E tutto avverrà anche grazie al silenzio imbarazzato di molti, come ormai accade da tempo. Forse ci si accorgerà di quello che sta accadendo quando dovranno chiudere i seminari o le scuole paritarie, come sta succedendo Oltreoceano, ma sarà tardi.
D. Le spinte libertarie e l’assenza di un’alternativa e un’azione forte ci stanno portando a quello che Pier Paolo Pasolini dichiarò negli anni Settanta, quando profetizzo la svolta del Pci, favorevole ad aborto e divorzio, verso un grande partito radicale di massa?
R. Ci stiamo tutti omologando. Ma a quanti hanno citato il Vangelo e i santi a sproposito per giustificare la norma a favore dell’incesto vorrei ricordare le cronache di Sodoma e Gomorra e la fine dell’impero romano imploso nella sua immoralità. Mentre a chi tace dico che, come Sodoma e Gomorra, forse meritiamo la distruzione dei partiti e della politica già in atto.

(Fonte: Benedetta Frigerio, Tempi, 28 novembre 2012)