venerdì 28 novembre 2008

Il vizio comunista della Luxuria

L'ultima edizione de L’isola dei famosi è stata vinta da Vladimir Luxuria. “Liberazione”, il giornale di Rifondazione Comunista ha festeggiato la vittoria asserendo che il trionfo dell’ex deputato transessuale comunista, è paragonabile all’elezione di Barak Obama in America. Il paragone fa sbellicare dalle risate, ma almeno non si potrà più dire che i nostalgici dell’impero rosso e della fame non abbiano il senso dell’umorismo.
Comicità in "Casa Marx" a parte, ci si chiede: ma fino al giorno prima della consacrazione dell’unica forma di comunismo vincente (Luxuria in bikini), i paladini del potere operaio non amavano unicamente disoccupati, precari, extracomunitari ed irregolari e aborrivano la TV spazzatura e i suo strapagati prezzolati VIP di cartapesta? Vuoi vedere che l’ebbrezza della ribalta mediatica e la sensualità esplosiva di Luxuria hanno convertito al capitalismo anche gli ultimi irriducibili nipotini di Stalin? (Gianni Toffali, La voce di don Camillo, 26 novembre 2008)

Se ci si indigna a intermittenza

Per diventare cadaveri eccellenti bisogna morire in buona compagnia: come a dire che se a Mumbai non ci fossero state le vittime occidentali, inglesi tedesche italiane, ad affiancarsi ai cadaveri indiani, anche questa volta la tragedia sarebbe passata quasi inosservata. E invece è esplosa sul sempre più choccante mercato della comunicazione del terrore anche grazie a una strategia diversa che andava a cercare bersagli occidentali e portava l’attacco ai lussuosi indirizzi del turismo internazionale.
E’ dunque questo il misero bilancio etico della strage di Mumbai: vittime di serie A e di serie B, doppio standard in materia di diritti umani, due pesi e due misure anche nel momento estremo della verità? Insomma i morti si pesano e non si contano? «I morti purtroppo non sono eguali, ci identifichiamo di più con il connazionale a rischio perché proprio la globalizzazione ha scatenato nuovi giochi di identità. E poi ci angosciamo di più a vedere assediato quell’albergo dove magari siamo stati o dove volevamo andare a Natale, e ora ci tocca pure cambiare le vacanze, e scegliere la più sicura Sicilia».
Così Andrea Riccardi professore di Storia contemporanea che nel ’68 è andato controcorrente, ha riletto il Vangelo e ha fondato la comunità di Sant’Egidio. Mentre un altro professore di Storia contemporanea, il laico Giovanni Sabbatucci, risponde alla domanda enunciando una specie di legge al riguardo: «C’è sempre una correlazione inversa fra il grado di coinvolgimento nella tragedia e la distanza, sia essa fisica o culturale. Non si giustifica eticamente, ma è innegabile che sia così».
Anche se, continua Sabbatucci, questa legge sembrerebbe contraddetta dallo scarso rilievo dato dai media europei alle persecuzioni cristiane in India: anche qui una congiura della distrazione perché soltanto quest’estate, in Orissa, stato dell’India orientale, sarebbero stati massacrati (secondo il partito comunista del luogo) cinquecento cristiani: «A Kandhamal siamo stati trattati peggio degli animali: ogni cosa indegna, ogni tortura è stata possibile contro di noi» secondo la testimonianza di padre Bernard Dighal ad AsiaNews . Ma in realtà — continua Sabbatucci — questa scarsa attenzione mediatica ai martiri non contraddice la legge di cui sopra, perché ormai «non sussiste più la comune appartenenza alla cristianità come un dato primario». Insomma, secondo lo storico, è un altro dato di fatto che le radici cristiane, nonostante i tentativi di ravvivarle anche da parte di grandi laici politici (per esempio Nicolas Sarkozy) e intellettuali (Jürgen Habermas e Bernard-Henri Lévy), sono, nella percezione comune, meno forti di un tempo.
In realtà il cristiano perseguitato fa «un po’, ma solo un po’ notizia se è italiano» aggiunge Riccardi. «Anche se spesso gli rinfacciano di essersela andata a cercare mettendosi a rischio. E invece io penso che queste persone disorientino perché sono testimonianze conturbanti per il nostro mondo europeo infragilito». Martiri così diversi — continua Riccardi — da quelli musulmani perché danno la vita e non la tolgono, portano spesso nuove aperture e sono segno di contraddizione. In Orissa, per esempio, i cristiani indiani «avevano grande capacità attrattiva perché in nome dell’eguaglianza evangelica volevano far uscire i paria dalle caste». E i cristiani iracheni, che erano in Mesopotamia molto prima dell’Islam, sono stati combattuti come agenti dello straniero e visti come avamposti dell’Occidente: «motivi speciosi: in realtà osteggiati in quanto unica presenza non armata nel caos tribale dell’Iraq».
Cattolico e medievalista, gran conoscitore dell’universo musulmano Franco Cardini sostiene che il clima contro i cristiani negli ultimi anni è molto peggiorato e mette in guardia contro l’idea un po’ edulcorata che abbiamo delle religioni in India che «non sono pacifiche ma piuttosto militari come il buddismo, o persecutorie come i sik e gli indù. Siamo di fronte a una religionizzazione della politica e il modo migliore per neutralizzarla è quello su cui ha insistito il Santo Padre, mai abbassare la guardia sul dialogo». Ma, visto che l’Islam è una fede distinta in un numero indefinito di comunità autocefale — il che vuol dire che ogni comunità risponde solo a se stessa — trovare l’interlocutore non sarà facile. (Maria Luisa Agnese, Corriere della sera, 28 novembre 2008)

Donna lapidata in Somalia nel silenzio del mondo

Chisimaio, porto sulla costa somala a pochi Km dal Kenia, era un nome esotico ed evocativo per i nostri nonni e bisnonni. Sulla foce del fiume Giuba era uno dei pochi angoli tropicali del nostro “impero coloniale”, una delle poche terre senza sabbia e pietraie. Era anche “capitale” della stravagante colonia d’Oltregiuba, una striscia di terra che prolungava a sud la Somalia, magra consolazione per i morti della prima Guerra Mondiale.
Qualche km quadrato di bananeti e di palmeti lungo la costa e steppe semidesertiche nell’interno, fu ceduto dall’Inghilterra all’Italia in base al protocollo di Londra del 15 luglio 1924, così da far sembrare meno amara la frustrazione dei progetti espansionistici italiani in Dalmazia e nell’Egeo.
Nel periodo coloniale italiano Chisimaio divenne la terza città per importanza politica, economica e sociale della Somalia; dal suo porto partivano le bananiere verso la madrepatria, quando il regime fascista impose che in Italia si potessero vendere solo banane somale. Oggi Chisimaio e il suo hinterland sono terra di nessuno e forse molti dei suoi abitanti, ascoltando i racconti dei vecchi, rimpiangono quegli anni e il “monopolio bananiero”.
Da anni la Somalia intera è teatro di scontri tra le bande armate dei “signori della guerra”. In particolare nel sud dettano legge i miliziani delle “Corti islamiche”, la versione somala dei Talebani, ed è la dura legge della “Sharia”. Lo scorso 28 ottobre la Sharia è stata applicata a Chisimaio. Ne ha fatto le spese Aisha Ibrahim Duhulow, accusata di fornicazione e quindi lapidata. Tradizionale velo verde sul capo, il volto coperto da un panno nero, Aisha è stata sepolta sino al collo in una buca e poi uccisa a colpi di pietra.
Aveva 23 anni, addirittura 13 secondo le fonti di Amnesty International. Eppure è passata tra le brevi di cronaca, qualche accenno in tv, qualche trafiletto sui giornali – non tutti – pochi commenti, la maggior parte sulla stampa cattolica, da sempre abituata ad uno sguardo che va oltre il balcone di casa. Niente “sit-in”, nessuna delle “fiaccolate” di rito, nessuna manifestazione, nessun corteo, nessun slogan, nessuno striscione. Semplicemente non interessa o come si dice oggi non fa “odiens”.
Ad Aisha è andata male! Purtroppo per lei, è stata uccisa in Somalia a sassate e non in una prigione dal Texas: eggià i morti ammazzati non sono tutti uguali! Purtroppo per lei, è morta in un periodo di crisi finanziaria: si sa che la borsa val ben più della vita! Purtroppo per lei, è stata uccisa in osservanza ai dettami della legge islamica: l’islam non si tocca né si critica perché fa troppa paura all’Occidente codardo; con l’islam vige il comandamento del dialogo, ma rigorosamente con la “coda tra le gambe” e le “braghe calate”!
Per togliersi, ogni tanto, qualche sassolino dalle scarpe, verrebbe da chiedersi dove son finiti tutti quegli sbraitanti giornalisti, uomini di cultura, liberi pensatori, quelli che fanno le pulci a Pio XII e, falsamente, lo accusano di complici silenzi. Perché tacciono davanti a tanta barbarie? Perché non pretendono pubbliche condanne, inchini e scuse almeno dagli imam di casa nostra? Perché non chiedono ad Arabia Saudita ed Emiri del Golfo di prendere la distanza e di rigettare tali pratiche? Forse hanno paura che qualche sasso di rimbalzo colpisca anche loro o forse, abituati a criticare il passato, han finito per estraniarsi del tutto dal presente.
E poi c’è la politica internazionale che ha abbandonato la Somalia, fintanto da far diventare le sue coste, in pieno 2008, covi di pirati che assaltano le navi, come ai tempi dei Bucanieri dei Carabi. Interessi, strategie, equilibri, che ci sfuggono tanto sono più grandi di noi, ma che pure ci inquietano e ci fanno indignare, tanto lontani dall’umanità e dal diritto sono a volte i criteri della politica mondiale. Angoli del mondo sui quali i riflettori dei notiziari fanno fatica a posarsi, ma dove un’umanità desolata continua a soffrire e a morire. Una storia tutta da riscrivere, compreso il mito della decolonizzazione africana che proprio nel Corno d’Africa, Somalia, Etiopia ed Eritrea, ha registrato uno dei suoi più clamorosi fallimenti.
Chisimaio, deriva il suo nome da due vocaboli kibajuni, la lingua dei suoi fondatori, “Kisima”, cioè “pozzo”, e “yu”, cioè “profondo”, cosicché il nome della città significa “pozzo profondo”. Il pozzo in Africa è vita; se è profondo significa acqua sempre, anche nella stagione secca, quando la pioggia non cade per mesi. Significa allevamento, agricoltura, raccolti, gioia, festa, colori, danze e suoni. Il silenzio e l’indifferenza del mondo non lo condanni a diventare un’ennesima foiba di orrore. (don Maurizio Cerini, Rassegna stampa, 27 novembre 2008)

Dio e le prove matematiche della sua inesistenza

Se l'evoluzionista Charles Dawkins (quello del "gene egoista") mi ripete in modo ossessivo che Dio non esiste e mi dipinge la religione come una droga (quando va bene) o come una malattia mentale (quando va peggio), un virus of the mind, per dirla come lui, il suo parere conta quanto quello del mio barbiere sullo stesso argomento (ma vi assicuro che dal barbiere, quelle rare volte che ci vado, parliamo d'altro).
Se scorgo sullo scaffale di una libreria un libretto di un professore inglese con prefazione di Piergiorgio Odifreddi, dal titolo Le prove matematiche dell'inesistenza di Dio, non me ne curo più di quanto non faccia con un articolo di Novella 2000 sul sesso degli angeli.
Non prendete questo mio atteggiamento per un dogmatico oscurantismo medievale o per un'innata avversione nei confronti degli scienziati. Che, anzi, sono letteralmente affascinato da questi investigatori instancabili dell'ignoto. E' solo che Dawkins, Odifreddi e il suo collega inglese, e molti altri, nel momento in cui cominciano a parlare "scientificamente" di Dio, addirittura "matematicamente", ne sanno quanto il barbiere o la cronista di Novella 2000, anzi, forse anche meno, in quanto il modello scientifico non è in grado di decidere l'ipotesi di Dio, né positivamente, né negativamente.
Di fronte a tali argomenti, uno scienziato serio, invece di scrivere libretti di sicuro impatto, ma di scarso valore, dovrebbe pronunciarsi per un sano e prudente (perché quando si parla di Dio non si sa mai) agnosticismo. Una sospensione di giudizio. Questo è l'atteggiamento non solo più sano, ma più corretto, perché le acquisizioni scientifiche sono sempre parziali e provvisorie e, soprattutto, si applicano ad oggetti misurabili, quantificabili. Per cui quando Dawkins sostiene che l'evoluzionismo obbliga ad essere atei, dice una sostanziale, colossale idiozia. Inoltre, sta abbandonando i confini del sentiero scientifico e si sta addentrano in quello della filosofia. Insomma, è fuori tema.
L'impostura è che questi signori, invece, ci tengono a presentarsi come scienziati.
In questi giorni si parla di Dawkins, perché il vecchione se ne va in pensione e pare che sia piuttosto disincantato e deluso: nonostante i molti libri che ha scritto contro la fede, la gente continua a credere. I suoi seguaci intanto si danno un gran da fare. C'è una bella e giovane giornalista, Ariane Sherine, che ha lanciato addirittura l'idea di una campagna pubblicitaria a favore dell'ateismo a Londra.
E così può capitare di vedere su uno di quei tipici bus londinesi il cartellone con su scritto (la traduzione è mia): "Probabilmente Dio non c'è. Ora smettete di disperarvi e cominciate a godervi la vita". Ovviamente il nemico numero uno da abbattere è il cristianesimo (pare che esistano diverse sette in giro che hanno proprio l'obiettivo principale di distruggerlo), e ancora una volta l'offensiva viene dal Regno Unito: l'ultima notizia è che ad Oxford stanno tentando di abolire il Natale e di sostituirlo con una più generica festa della luce invernale.
La battaglia in favore dell'ateismo è dunque combattuta in nome di una scienza che scienza non è. Semmai è scientismo, cioè un'ideologia, una filosofia, una specie di religione alternativa.
Recentemente Benedetto XVI ha evocato Galileo durante il suo saluto all'Accademia Pontificia, riunita in un convegno sull'evoluzione dell'universo alla presenza del cosmologo Stephen Hawking. Bene, il Papa ha ribadito che il "processo" è ormai definitivamente superato e che religione e scienza devono entrare (fatta salva la loro specifica autonomia) in un dialogo costruttivo. Ma se rispetto al suo predecessore Urbano VIII (quello della condanna di Galileo) Benedetto XVI (come già Giovanni Paolo II prima di lui) dimostra di aver imboccato la giusta strada del rispetto e del dialogo, gli scientisti dimostrano, invece, di essere rimasti bloccati nell'assurda pretesa di definire "come si va", o come non si va, in cielo. Cosa di cui invece non dovrebbero proprio occuparsi.
Forse Urbano VIII aveva già intravisto il pericolo di una scienza che diventa religione e che giudica la religione, tra l'altro senza nemmeno avere le prove di quel che sostiene (come nel caso di Galileo).
Pare che Hawkins abbia concluso il suo intervento confidando che tra breve la scienza, da sola, darà la risposta alle domande primordiali: Perché siamo qui?, Da dove veniamo?
"Non si accorge - commenta l'astrofisico Piero Benvenuti - che qualora questa sua profezia si avverasse, da quel momento in poi la Scienza e la Ricerca terminerebbero e non avrebbero più senso: come scienziato mi sembra una prospettiva molto triste e senza speranza".
Io penso che sia Hawkins, che Dawkins, che Odifreddi farebbero bene ad avere più senso della realtà, unito a un pizzico di umiltà. E a rileggersi continuamente (visto che tra l'altro, il Natale, quello vero, si avvicina) l'ammonimento saggio di Dante: «State contenti, umana gente, al quia; chè, se possuto aveste veder tutto, mestier non era parturir Maria». (Gianluca Zappa, La Cittadella, 24 novembre 2008)

Finalmente c'è un giudice anche a Roma

La buona educazione imporrebbe di non esultare per una condanna, perché quando qualcuno finisce in galera si usa dire che è una sconfitta per tutti. Ma siccome a volte, per non dire sempre, è meglio essere maleducati che ipocriti, ci rallegriamo pubblicamente per i dieci anni che il gup Marina Finiti ha inflitto a tale Stefano Lucidi, un signore che nel maggio scorso a Roma aveva investito e ucciso due ragazzi che viaggiavano su uno scooter. Investiti, si badi bene, in queste condizioni: 1) era drogato; 2) era ubriaco; 3) andava a velocità folle; 4) era passato con il rosso; 5) era interdetto alla guida; 6) dopo aver travolto i due ragazzi, era scappato.
È la condanna più pesante mai comminata in Italia per un incidente stradale: il precedente «record» era di sei anni e mezzo, e spettava a Marco Ahmetovic, il giovane rom che il 23 aprile 2007 aveva ammazzato quattro ragazzi ad Appignano del Tronto guidando - pure lui ubriaco - un furgone. Ma, soprattutto, ieri per la prima volta in Italia il responsabile di un incidente stradale è stato riconosciuto colpevole di omicidio volontario.
Ed è questa la vera novità. Con la sentenza di ieri il gup Marina Finiti ha non solo fatto giustizia, ma spazzato via tutta la retorica auto-giustificazionista di legioni di suoi colleghi i quali, ogni volta che si contesta loro di usare la mano morbida, rispondono che questa è la legge, e loro non possono farci nulla. Dicono: il codice ha le sue norme, e noi quelle dobbiamo applicare; se non si fa giustizia, la colpa è dei politici che non cambiano le leggi.
In realtà in Italia la legge già riconosce ai magistrati - molto più che altrove - un ampio potere discrezionale. Nel caso degli incidenti, è vero che quasi sempre si tratta di colpa e non di dolo, perché non c'è la volontà di uccidere. Ma il Codice - il Codice che c'è già: non quello fantasticato da giudici che allargano le braccia in segno di impotenza - prevede il cosiddetto «dolo eventuale», cioè l'aver «agito nonostante la previsione dell'evento». Ad esempio: se vado ai giardinetti in pieno giorno e sparo contro una siepe, posso ragionevolmente mettere in conto l'elevata possibilità di far secco qualcuno che non vedo, ma che è probabile stia dall'altra parte. Allo stesso modo, chi guida nelle condizioni in cui guidava Lucidi, non può dire, se ammazza qualcuno, che non l'ha fatto apposta.
Non sappiamo se la sentenza del giudice Finiti resisterà ai successivi gradi di giudizio. Conoscendo la giustizia italiana, ne dubitiamo. Ma intanto un giudice ha finalmente avuto il coraggio di far prevalere il buon senso sui cavilli. Ha rotto un tabù, insomma, e fissato un precedente. Per questo ci rallegriamo. A costo di passare per rozzi forcaioli. (Michele Brambilla, 27 novembre 2008)

giovedì 20 novembre 2008

Dialogo? No! Solitudine sul servizio pubblico

Lupus extra: Gianni Gennari, giornalista di Avvenire a firma Rosso Malpelo, non è stato accettato da “La 7” come interlocutore in un confronto diretto con Corrado Augias.
Lo stesso giornalista ce ne dà notizia: «Ieri giustamente tante pagine su religioni e "dialogo", ma su "Repubblica" (p. 30) Corrado Augias risponde ad una lettrice ripetendo secco che Chiesa e cattolici "tradiscono" alla grande "il messaggio evangelico". Lui non "dialoga": in due recenti libri di radicale accusa a cristianesimo e Chiesa cattolica ha voluto due comodi interlocutori e soprattutto nel secondo, "Inchiesta sul cristianesimo", ha avuto campo libero per demolire tutto; poi, alla valanga di critiche argomentatissime, tra esse anche qui su "Avvenire", non ha degnato risposta. Non basta: ha portato i suoi libri in Tv, servizio pubblico, nelle varie trasmissioni da lui condotte, e anche altrove più volte: "almeno due dal docilissimo Fabio Fazio" e mai in dialogo serio con altri. Era la premessa. Lunedì 10 novembre mi informano che "La 7", in vista del programma "Le invasioni barbariche", ha chiesto alla Santa Sede un nome per un dialogo-confronto con Augias, sul suo libro, e che il nome suggerito è stato il mio. Ebbene: in trasmissione, il 14 scorso, Augias parla a lungo a Daria Bignardi tutta complimenti, ma in beata solitudine e coi soliti spunti: Gesù? Mai detto di essere Dio, mai pensato a una religione e tanto meno ad una Chiesa, pura invenzione successiva di secoli, e quindi gigantesco falso giunto per disgrazia fino a noi e che ancora rovina l'Italia e il mondo. Tutto da solo! Sì, c'era il giovane Tobia Zevi, di religione ebraica, ma per un breve sipario giustamente critico sulle risse tra cristiani al Santo Sepolcro.
A "La 7" giustificano: sentito quel nome [Gennari], immediato rifiuto: bell'esempio di dialogo... (© Copyright Avvenire, 20 novembre 2008)

Ebrei. Sospesa la collaborazione con la Chiesa cattolica nella giornata dell'ebraismo

La giornata dell'ebraismo, celebrata dagli ebrei italiani ogni 17 gennaio, non prevede, quest'anno, iniziative comuni con la Chiesa cattolica. Lo rende noto il rabbino Giuseppe Laras, presidente dell'Assemblea rabbinica italiana. Una "sospensione" della collaborazione, spiega, motivata dall'irrisolta questione della preghiera del venerdì santo che, nonostante la riformulazione voluta dal Papa proprio per andare incontro alla sensibilità ebraica, è finita, invece, col riattizzare le tensioni. "Quest'anno la giornata dell'ebraismo non verrà fatta insieme, come si è sempre fatto. Ci sarà una sospensione della collaborazione, dato che non è stata ancora risolta la 'vertenza' nata lo scorso febbraio sulla cosiddetta preghiera del venerdì santo", afferma Laras a margine di una tavola rotonda interreligiosa alla Camera dei deputati. Sul tema, con i vertici della Chiesa cattolica c'è stato un "dialogo", conferma Laras, "ma non si è arrivati a nessun risultato soddisfacente dal nostro punto di vista. Per il momento abbiamo deciso la sospensione, poi nella vita si supera tutto...". Non vi sarà, dunque, una 'giornata della riflessione ebraico-cristiana' targata Cei, ma solamente una giornata dell'ebraismo. Dopo le critiche ebraiche alla preghiera del venerdì santo tornata in uso con il messale preconciliare liberalizzato da Ratzinger (la cosiddetta messa in latino), la Santa Sede ha deciso di modificarne il testo. Già Giovanni XXIII, nel 1959, aveva 'ammorbidito' la preghiera, eliminando sia il 'perfidis' attribuito agli ebrei che il successivo riferimento alla "perfidia" giudaica. Ma nella preghiera erano rimasti riferimenti all'"accecamento" e alle "tenebre" del popolo ebraico, eliminati da Ratzinger. La nuova formula di preghiera per gli ebrei, introdotta lo scorso 6 febbraio, invoca Dio perché "illumini" i cuori degli ebrei "perché riconoscano Gesù Cristo salvatore di tutti gli uomini. Dio onnipotente ed eterno, che vuoi che tutti gli uomini si salvino e giungano alla conoscenza della verità - prosegue la nuova preghiera - concedi nella tua bontà che, entrando la pienezza dei popoli nella tua Chiesa, tutto Israele sia salvo. Per Cristo nostro Signore. Amen". La controversia su Pio XII beato ha influito nella decisione di sospendere la giornata ebraico-cristiana? "Ho detto in passato e ora ribadisco che il problema della beatificazione è interno alla Chiesa e su di esso noi non dobbiamo assolutamente intervenire", risponde Laras. "Però rivendichiamo il diritto di formulare un giudizio storico critico. Si poteva protestare di più (nei confronti dei regimi nazifascisti, ndr.)". (© Copyright Apcom). Commenta giustamente Raffaella, curatrice di “Papa Ratzinger blog”: Sapete che vi dico? Allargo le braccia e pronuncio un sonoro: pazienza!La Chiesa non puo' vivere sempre sotto pressione per uno o l'altro motivo.Mi pare che gli sforzi del Papa per portare avanti il dialogo siano lodevoli, ma non possiamo strapparci i capelli se l'altra parte non apprezza.Da notare che questo atteggiamento si riscontra solo nel mondo ebraico italiano.Ricordo agli amici Ebrei che per anni la preghiera del Venerdi' Santo e' rimasta in vigore, senza modifiche, grazie all'indulto di Giovanni Paolo II, ma, allora, nessuno ebbe nulla da dire.Come mai? E' la preghiera che disturba o un Papa in particolare?Il processo di beatificazione di Pio XII? Inizio' sotto Paolo VI e continuo' sotto il Pontificato di Papa Wojtyla, ma allora le polemiche non era cosi' accese. Come mai?Da segnalare anche che i giornaloni riportano con molta enfasi questa notizia privilegiando, ovviamente, la voce ebraica.Non una parola sulle dichiarazioni di Laras a proposito del "caso" Eluana.Enno'! Che cosa c'e'? E' politicamente-religiosamente-mediaticamente corretto attaccare solo la Chiesa Cattolica? (18 novembre 2008)

L'ombra del materialismo sul premio negato a Cabibbo

Non è raro che l'assegnazione del premio Nobel susciti polemiche di vario tipo. Il premio è accompagnato da una ricca aneddotica, ad esempio riguardo l'assenza di una sezione per la Matematica accanto a quelle per le altre discipline scientifiche, o la coincidenza che ha visto scrittori premiati non appena le loro opere erano tradotte in svedese (con relativa corsa ad assicurarsi i favori delle case editrici scandinave) o le ragioni per cui uno scrittore come Borges non fu mai premiato.In realtà, troppo spesso i membri dell'Accademia sono stati permeabili a pressioni politiche di vario genere. L'Italia ha il poco invidiabile privilegio di essere il paese che ha subito l'ultima scelta controversa. Il premio Nobel per la Fisica è stato assegnato, come è usuale da diversi anni, ad una terna di studiosi. Due di loro sono fisici teorici giapponesi che nel mondo della ricerca sono famosi per il contributo dato allo sviluppo del Modello Standard della fisica delle particelle: si tratta di Kobayashi e Maskawa. Il terzo è un altro fisico teorico giapponese, Nambu, premiato - dettaglio che potrebbe essere sfuggito al grande pubblico - per una ricerca differente da quella dei primi due. Tra i premiati manca quindi la lettera "C" della matrice "CKM", iniziale del cognome di uno dei più brillanti fisici italiani: Nicola Cabibbo. Di Cabibbo fu l'intuizione originaria (nel 1963), che fu poi estesa e portata a compimento dai due giapponesi. La matrice CKM riguarda il comportamento dei quark. Non c'è dubbio comunque che il contributo dei tre sia inscindibile e in tutto il mondo scientifico la matrice è nota come CKM. In un caso come questo, premiare solo le due "lettere finali" sembra una vera forzatura. La motivazione ufficiale recita che in realtà solo la matrice finale spiega un particolare fenomeno. Questo però non sminuisce il fatto che la giusta impostazione iniziale, da tutti riconosciuta, sia stata quella dovuta a Cabibbo. Fatte le debite proporzioni, sarebbe come avere di fronte Newton ed Einstein.. e premiare solo il secondo, perché la meccanica classica non spiega importanti fenomeni. La vicenda pare più che mai una forzatura, soprattutto se si considera che il terzo premio Nobel, Nambu, è anche lui un fisico teorico giapponese, ma è stato premiato per una ricerca diversa. Per quella che pare l'ultima ironia, il secondo firmatario del lavoro di Nambu è un altro italiano, Giovanni Jona Lasinio; il modello era solitamente citato, nell'ambiente, come "modello Nambu-Jona Lasinio". Il voler premiare tre nomi non ha aiutato, come doveva, Cabibbo, e insieme ha sacrificato l'altro italiano, producendo questa strana terna "ibrida". Perché escludere Cabibbo? L'ambiente scientifico italiano è compatto nel deplorare la scelta di Stoccolma, ma non si pronuncia ufficialmente. Non si ha notizia di alcuna polemica mai intercorsa tra Kobayashi, Maskawa e Cabibbo. Secondo alcuni c'è una spiegazione possibile, almeno parziale, ma avrebbe ben poco di scientifico. Qualcuno avrà letto che Stephen Hawking, il più illustre astrofisico vivente, è venuto in questi giorni a Roma per partecipare ai tre giorni della Pontificia Accademia delle Scienze, dedicati al dialogo tra scienza e fede. Ha partecipato Papa Ratzinger, che ha citato Galilei e l'accordo tra la sua concezione della Natura come "libro" scritto da Dio e creazione (non "creazionismo" antiscientifico). Ebbene, il presidente della Pontificia Accademia delle Scienze è proprio Nicola Cabibbo. In quanto tale, negli ultimi 15 anni ha avuto un ruolo nella riabilitazione di Galilei e nella posizione cattolica di ritenere la teoria di Darwin non in sostanziale contrasto con la Creazione (mentre lo è l'evoluzionismo materialista propugnato oggi da alcuni studiosi). Cabibbo è spesso intervenuto sulla necessità di una scienza che non dimentichi i problemi etici, ad esempio nella prolusione da lui tenuta per il Giubileo degli scienziati nel 2000. Il sospetto è quindi che qualcuno possa essere stato influenzato (anche inconsciamente) da vecchi pregiudizi positivisti e scientisti, o dai nuovi pregiudizi del "politically correct". I pregiudizi, di qualunque tipo e origine, sono i peggiori nemici della scienza; quelli citati sono tra i più pericolosi, perché inficiano l'obiettività della scienza dal suo interno, apparentemente con l'obiettivo di difenderla. Se Cabibbo fosse stato davvero danneggiato dalle sue convinzioni personali o religiose (in modo estremamente accorto e difficilmente "dimostrabile") sarebbe un segnale molto negativo, indice di una progressiva ristrettezza di vedute laddove meno dovrebbe trovarsi. Già nel secolo scorso l'astrofisica "ufficiale" perse vent'anni di tempo rifiutandosi di accettare l'idea di un universo in espansione, perché questa sembrava implicare una "Creazione" troppo simile a quella della Genesi; era preferibile un universo ciclico, eterno. Solo l'evidenza sperimentale fece superare tali pregiudizi. Non resta quindi che augurarsi che i "sospetti" sul Nobel 2008 siano infondati. (© Copyright Il Tempo, 19 novembre 2008)

Se “Amici” è più avanti, forse nelle scuole statali c’è qualcosa che non va.

C’è già una scuola ambitissima dai giovani, severissima, che costringe a una disciplina sfiancante, che dopo massacranti prove e giudizi aguzzini sforna vincitori e vinti. è Amici, di Maria de Filippi. Lo studente Domenico Primotici ne è stato sospeso per un mese per aver insultato l’insegnante, con la possibilità di esservi riammesso solo dopo aver superato un regolare esame di ammissione. Esattamente quello che è stato sottratto alla scuola di tutti: eliminare e demonizzare selezioni, impegno, disciplina, rispetto, competizione, valutazioni, è stato presentato come una vittoria. Il risultato è che troppi ragazzi sono oggi smarriti e arrabbiati. In genere non si sanno neppure descrivere: non si conoscono. La conversazione, arte che in adolescenza dava forma alle tensioni ideali, è pressoché ignota, a furia di sentire e pronunciare sentenze non motivate. Resi incapaci di guardare, vedere, sentire, ascoltare, descrivere, pensare, i giovani, poveri di vocaboli, sono diventati poveri di pensieri e sensazioni. Le sfumature sono ingoiate dal sistema binario dei contrari e tutto diventa uguale, uno scivolo per la droga. Così, chiedendo a un ragazzino perché sia bello il videogioco a base di massacri, mi sento rispondere che è bello perché è bello. Ma perché? Perché dà emozioni forti. Quali? Uccidere e scappare. Ti piacciono i cadaveri? Ma no, che c’entra! E fare una scoperta, salvare qualcuno, compiere un viaggio avventuroso? Boh. Non parliamo della cultura. Mai sentito nominare Quasimodo (corso universitario)? Quelli, diligenti, alzano la mano: è il gobbo di Notre Dame. Per maggiori informazioni, chiedere alle Iene. L’intelligenza è uno scrigno di talenti. Li sotterri, e li perdi tutti. I becchini, facile vederli, stanno sfilando in corteo. (Federica Formando, psichiatra, Tempi, 4 novembre 2008)

lunedì 17 novembre 2008

Un orrore che ci divorerà

Per la prima volta, dopo mesi, oggi mi fa paura il foglio bianco. Non riesco a scrivere. Osservo la foto di Eluana e penso che dentro quegli occhi che ti guardano e non ti vedono c'è tutto il mistero della vita e della morte. C'è il senso della nostra esistenza. Ci sono i nostri ricordi, il passato, il futuro, c'è il nostro credo e la nostra speranza. Ho conosciuto da vicino il dramma del coma, sono entrato in quelle stanze piene di scienza e vuote di speranza, ho accarezzato mani vive sapendo che quelle mani non avrebbero potuto accarezzarmi mai più. So cosa significa fissare un volto caro sapendo che è lo stesso eppure ormai non ti riguarda, so cosa vuol dire il dramma di quei tratti che restano così vicini eppure diventano immensamente lontani, sempre familiari eppure come già in un altro mondo.So che tutto questo lacera le coscienze, ci interroga nel profondo. Meriterebbe un po' di silenzio, anziché la solita gazzarra. Ieri, dopo la sentenza della Cassazione, c'era chi esultava. Come si faccia a esultare per una giornata che profuma di angoscia e di morte, Dio solo lo sa. Verrebbe voglia di chiedere la moratoria delle dichiarazioni. Sono stato 50 giorni a interrogarmi di fronte al coma di mio padre, e mi sembrava impossibile da reggere. Dunque m'inchino di fronte al dolore disumano del papà di Eluana che da 16 anni vive immerso in un'angoscia che si rinnova. Daremo voce nel Giornale, come sempre, alla sua posizione. E daremo conto nei prossimi giorni delle opinioni di chi crede che di fronte al progredire della scienza è diventata irrinunciabile una legge sull'eutanasia. Ma io oggi, ve lo devo confessare, ho paura di questo foglio bianco. Scusate, ma lo penso: di una condanna a morte non avevo scritto mai.Dicono che Eluana morirà dolcemente, e non è vero: morirà dopo una lunga agonia. Dicono che a Eluana staccheranno le spina, e non è vero: in realtà smetteranno di nutrirla. Dicono che era accanimento, e non è vero: non si accaniscono, le danno solo il cibo per vivere. Dicono che Eluana voleva così, e magari è vero: ma di quante Eluana dovremo occuparci d'ora in poi? Il fatto è che da ieri si può, con una sentenza di tribunale, smettere di dare da mangiare e da bere a una persona che non può nutrirsi da sola. Quanti malati gravi può riguardare? E se vale per Eluana perché non per Maria o Giovanna o Antongiulia? E se vale per chi è in coma perché non per un disabile psichico, incapace di intendere e di volere? Chi stabilisce qual è la vita che vale la pena di essere vissuta e quale invece può essere interrotta? Un giudice? E in base a quali codici?Eluana mi commuove, la sua fine mi sgomenta, ma il «caso» mi atterrisce. Se penso a quello che accadrà alla ragazza rabbrividisco: saranno giorni di tormenti, come per Terri Schiavo. Ma se penso a quello che accadrà a noi, se possibile, rabbrividisco ancora di più. Perché il «caso» singolo, circondato da umana comprensione e ovvia pietà, rischia di diventare il grimaldello del liberatutti, il lasciapassare per ogni esagerazione. È sempre stato così. Quando si parlava dell'aborto, per esempio, spesso si citavano casi limite: ragazze stuprate, minorenni, magari in condizioni di disagio. Non volete ammettere l'interruzione di gravidanza in queste situazioni? Poi, una volta ammessa, se n'è fatta una pratica consueta, un'abitudine, il surrogato del preservativo. Succederà così anche con l'eutanasia? Durante quei 50 giorni attorno al letto di mio padre, sono stato tentato più volte di chiedere ai medici di interrompere l'agonia. Non escludo che l'abbiano fatto, non escludo che lo facciano regolarmente. In cuor mio, forse, l'approvo pure: la disperazione merita sempre comprensione. Ma usare la disperazione per scavalcare il Parlamento e introdurre, via tribunale, il diritto di uccidere chi non si può nutrire da solo non è comprensione. È un errore e un orrore. Anzi, di più: è un orrore mostruoso, che ci divorerà. (Mario Giordano, il Giornale, 14 novembre 2008)

giovedì 13 novembre 2008

Vescovo episcopaliano lancia crociata gay

È Gene Robinson, episcopaliano statunitense, che ha condotto un ritiro segreto con 75 preti gay cattolici per promuovere i diritti della cultura omosessuale nella Chiesa cattolica.
“Catholic Online”, un sito particolarmente seguito negli Stati Uniti, pubblica questo articolo, che vi offriamo nella nostra traduzione, e che è rappresentativo di come alcuni temi siano avvertiti con particolare forza e provochino, naturalmente, controversia, proprio mentre la Congregazione per la Dottrina della fede conferma la volontà di non permettere l’accesso agli ordini sacri di persone omosessuali. Ecco il testo: “Per anni, il vescovo episcopaliano apertamente attivista omosessuale Gene Robinson non si è accontentato di informare il mondo intero delle sue pratiche omosessuali. Invece ha cercato di condurre una crociata all’interno della sua stessa comunità cristiana per cambiare l’insegnamento della cristianità vecchio di duemila anni. Il vescovo ha posto la Chiesa Episcopaliana e l’intera Comunione Anglicana nello stato di turbolenza attuale quando fu consacrato all’episcopato nel 2003 come un omosessuale apertamente attivo. Non ha assunto il celibato, ma ha continuato a vivere il suo rapporto omosessuale. Fra le molte azioni apertamente intese a promuovere la sua eresia e la sua chiara agenda, è andato alla televisione nazionale e ha annunciato i suoi piani di ottenere un’Unione Civile con il suo partner maschio. Ha annunciato con fierezza: “Voglio essere una sposa di giugno”. ….Nell’intervista televisiva si è dipinto come un nuovo genere di “martire”. Con condiscendenza ha definito i fedeli cristiani ortodossi che si oppongono alla sua relazione omosessuale attiva – così come ai suoi appelli allo stato e alla chiesa di dare equivalenza legale e morale alle relazioni omosessuali e ai matrimoni eterosessuali – come non illuminati, bigotti e discriminatori. Il vescovo predica quello da cui San Paolo, nella lettera ai Galati, metteva in guardi, come “un altro Vangelo”. Sostiene di seguire lo Spirito Santo nel chiedere una revisione radicale dell’ortodossia cristiana…. E’ entrato pubblicamente in un’Unione Civile con il suo partner maschile, Mark Andrei, in una cerimonia privata condotta da un Giudice di Pace il 7 giugno 2008. E subito l’ha resa pubblica con una campagna stampa….E’ anche autore di un libro che crede sia una specie di “manifesto” per un nuovo ordine, “Nell’occhio della tempesta”. Ora il vescovo Robinson vuole fare della chiesa cattolica il nuovo campo di missione per la sua crociata. Dalla notizia data dall’Associated Press e confermata da numerose fonti di agenzia e di stampa, si è venuto a spaere che il vescovo Robinson ha guidato un “ritiro confidenziale” di 75 preti cattolici romani nel 2005, che ha incoraggiato a dissentire apertamente dall’insegnamento della loro chiesa e a rinnegare apertamente il loro impegno al celibato. La sue intenzione sembra essere quella di promuovere la sua rivoluzione di stile libertino nella chiesa cattolica. Il “ritiro” è avvenuto senza approvazione da parte di nessun vescovo o superiore di ordine religioso per gli uomini che vi hanno preso parte. Fra le molte istruzioni e suggerimenti che ha dato ai sacerdoti presenti c’era questo: ‘E’ troppo pericoloso per voi andare allo scoperto come gay davanti ai vostri superiori, ma credo che se lavorate per l’ordinazione delle donne nella vostra chiesa, farete un bel pezzo di strada per aprire la porta verso l’accettazione di sacerdoti gay’”. (Marco Tosatti, San Pietro e dintorni, 11/11/2008)

Scienza e lustrini al San Raffaele

Biologisti disinvolti, filosofi cari alla sinistra radical chic, matematici relativisti. All’ateneo fighetto di don Verzé gli intellettuali italiani giocano alle celebrità. L’importante è far notizia.
Nel mondo accademico milanese nei tempi più recenti non erano mancate certo iniziative di rilievo. Basti pensare ai due nuovi poli universitari di particolare impegno, la Bovisa e la Bicocca, uno germinazione del Politecnico e l’altro della Statale, decollati nell’ultimo decennio nella periferia già industriale della città. Ma niente ha saputo eguagliare, quanto a luccichio e a sovraesposizione mediatica, la nuova Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele. A Palazzo Borromeo di Cesano Maderno, in un fantastico stile barocco lombardo con 3.700 metri quadrati di affreschi, un nugolo di aspiranti filosofi teologi scienziati e liberi pensatori hanno intrapreso la più bizzarra ed estroversa forma di produzione intellettuale di matrice “cattolica” nata grazie ai fondi della casa di alta moda Prada. L’iniziativa è stata promossa dalla strana coppia Massimo Cacciari-don Luigi Verzé, il celebre prete che nel 2004 aprì alla ricerca con le staminali embrionali al motto di «nulla può fermare la scienza» (per poi rimangiarsi il frettoloso lapsus scientista). Cacciari, intellettuale coccolato dalla gauche caviar ulivista, sempre pronto a commenti prêt-à-porter, ma dalla lunga prospettiva strategica. L’altro, Verzé, faticone della sanità privata, spesso vituperato dalla stessa gauche caviar che santifica Cacciari. Le recenti polemiche fra la filosofa relativista Roberta de Monticelli, arruolata da Verzé, e l’arcivescovo di Firenze, Giuseppe Betori, a proposito del fine vita e dell’annessa libertà di coscienza, hanno riportato il San Raffaele al centro dell’attenzione. Sono passati, ma non tutti sono rimasti, dalla prestigiosa facoltà milanese, quell’Enrico Bellone noto fustigatore dell’arretratezza scientifica italiana ovvero dell’oscurantismo patrio di matrice cattolica; il biologista Edoardo Boncinelli, quello di «ci vuole un bel coraggio per chiamare individuo una masserella di cellule»; l’evoluzionista Luca Cavalli-Sforza, quello di «la previsione di malattia genetica del nascituro e la successiva interruzione di gravidanza non sono operazioni eugeniche, ma semplicemente un trattamento profilattico»; tale Piergiorgio Odifreddi e anche l’heideggeriano Emanuele Severino che ha avuto un bel po’ di problemi accademici con le alte sfere della gerarchia cattolica. Lo sperimentalismo di Verzé assume spesso tratti parossistici. Oggi la star di questo proscenio teologico-intellettuale è Vito Mancuso, il pensatore che digerisce temi vecchi e nuovi dell’agenda ecclesiale con quel suo piglio genialoide da outsider un po’ nicciano, il quale dice addirittura di non vedere «molta differenza tra bin Laden con le sue stragi di “fedeli crociati” e l’inquisitore cattolico di Verona con la sua strage di “infedeli catari”, oppure tra i talebani che hanno distrutto la statua del Buddha e il papa e i cardinali che costrinsero Galileo ad abiurare l’eliocentrismo». Mancuso, la nuova star. È lui ormai il teologo di punta della Facoltà teologica di Milano. Sul magistrale discorso di Ratisbona, pietra miliare della rifondazione del dialogo fra cristianità e islam, Mancuso si domanda: «Perché il Papa, per dire che la fede non si diffonde con la violenza, ha sentito ancora il bisogno di distinguere così fortemente il Dio cristiano dal Dio islamico? Io penso che il compito principale al quale la Chiesa non deve venire mai meno rispetto al mondo sia favorire la riconciliazione e l’armonia tra i popoli». Di teologia biblica e patristica si occupa invece il monaco multiculturalista Enzo Bianchi, fondatore e priore, dal 1965, della comunità di Bose, nel biellese, in cui vivono una settantina di monaci, uomini e donne. Tra un dibattito e un sermone, tra un editoriale contro le maledette guerre di Bush e una meditazione sui padri del deserto, il monaco Enzo Bianchi sembra sempre più a proprio agio nei panni del guru cristiano prêt-à-porter. La sua versione è che il rapporto tra ebraismo e cristianesimo, che ci fa parlare da sempre di cultura “giudaico-cristiana”, vada equiparato (a scanso di risentimenti musulmani) a quello tra cristianesimo e i-slam. Più politicamente corretto di così. C’è sempre di che polemizzare con le idee che escono da questa sfavillante università milanese. E forse senza la cittadella di Verzé il dibattito culturale sarebbe ancora più morto di così. Certo, però, è curioso che un’università cattolica come il San Raffaele, più che a interpretare lo spirito del tempo, sembri votata alla sua giustificazione. (Giulio Meotti, Tempi, 20 ottobre 2008)

Povero Grillo sul “carruggio” del tramonto

A poco più d’un anno dai fasti del «Vaffaday», Beppe Grillo pare aver già imboccato il viale del tramonto, anzi il caruggio del tramonto, visto quanto è angusto il passaggio verso l’uscita di scena, senza più folle oceaniche ai lati. La Cassazione ha bocciato i suoi quesiti referendari: e non perché abbia scovato qualche cavillo per bocciarli, ma perché le firme presentate non bastano. L’uomo che doveva raccogliere attorno a sé il popolo italiano, non ha raccolto neanche mezzo milione di firme.Un mesto e lesto declino, cominciato con i vaffa che Grillo si è beccato in gran quantità sul suo stesso blog quando grazie a Visco (anche gli orologi guasti ogni tanto segnano l’ora giusta) s’è scoperto che la sua opera moralizzatrice gli rende quattro milioni e passa di euro all’anno (redditi 2006). Quando poi, qualche giorno fa, il masaniello genovese aveva cercato di cavalcare la protesta degli studenti a Bologna, s’era sentito rispondere, anzi intimare, di togliersi dai piedi.La parabola di Grillo non è altro che l’eterno riproporsi delle gesta di Agostino Greggi-Alberto Sordi, il «moralista» di un memorabile film del 1959. Inflessibile custode del comune senso del pudore per conto dell’Organizzazione internazionale della moralità, Greggi-Sordi finisce smascherato per quello che era, un turpe individuo dalla doppia vita; ma poiché chi di moralismo ferisce di moralismo perisce, anche il suo giustiziere, Vittorio De Sica, scivola su vizietti e capricci. Un po’ così è successo a Grillo. Convinto assertore della messa al bando di chiunque abbia una condanna, s’è visto ricordare la propria, di condanna: un anno e tre mesi per l’omicidio colposo di due adulti e un bambino. Implacabile accusatore di evasori fiscali, è stato beccato in castagna per aver usufruito del famoso «condono tombale». Sostenitore della necessità di proibire la politica agli over 50 e promotore di liste civiche, ha forse pensato che gli italiani fossero così fessi da non dare un’occhiata alla sua data di nascita, che risale a oltre sessant’anni fa.Ma gli italiani sono meno tonti di quel che credono i molti, ricorrenti tribuni che s’illudono di infinocchiarli denunciando vizi e peccati. Altrui, s’intende. (Michele Brambilla, Il Giornale, 12 novembre 2008)

Indegna gazzarra di religiosi al Santo Sepolcro

Se le sono suonate di santa ragione. Come sempre quando il ring è il Santo Sepolcro e a darsele arrivano bande di monaci scalmanati. Va così da secoli, da quando 1300 anni fa, cattolici e siro-ortodossi, copti ed etiopi, armeni e greco-ortodossi iniziarono a bastonarsi per il controllo di tabernacoli, colonne, e sagrestie disseminati tra il marmo del Santo Sepolcro e l’altare del Golgota. Ieri l’immortale zuffa si è riaccesa. La data era di quelle fatidiche. Alla chiesa del Santo Sepolcro gli armeni celebravano il 400º anniversario del ritrovamento della Croce di Gesù Cristo e, come sempre da 400 anni, gli altri «fratelli» eran già in trincea.
Per evitar botte da orbi in quella penombra di archi, scalinate, e colonne bisognava interpretare le antiche regole, decidere chi passava, dove andava, cosa celebrava, quando sfilava. Quattro anni fa, a scatenar la rissa era bastata una porta lasciata spalancata da un frate francescano. Stavolta la fatidica scintilla scaturisce dall’edicola alle spalle della tomba di Gesù, simbolica roccaforte dei greco ortodossi. I barbuti monaci armeni avvolti nei manti rosa e vermigli son già pronti a sfilare, quando un corvino frate ortodosso blocca la processione. Lì all’edicola non c’è neppure uno di loro e gli armeni devono dunque aspettare. La confraternita greca teme il colpo di mano, una repentina e ben orchestrata occupazione capace di strapparle il controllo di quel chiostro appollaiato sopra il Santissimo Sepolcro. Gli ortodossi chiedono dunque ai barbuti armeni di rispettare l’antico fair play, di dar loro il tempo di rioccupare l’edicola. I rosa vermigli non ne vogliono neppur sentir parlare, intonano sacri salmi, innalzano ceri e croci, muovon come una fatidica crociata.
Forse stavolta Dio non vuole, ma lo scontro è inevitabile. Per i greco ortodossi schierati come una squadra di neri celerini l’antico catholicon è il Piave da difendere con unghie, denti e sonori cazzotti. Per gli armeni in corteo l’avanzata è una liturgia inarrestabile. E così centinaia di turisti allibiti assistono alla più devota rissa del pianeta. Tonache rosse e sai neri si confondono in un arcobaleno di colori, urla e nasi rotti. I crocefissi dorati calano sulle schiene imporporate, i bianchi ceri fendono l’aria come manganelli, le mani mollano il libro dei salmi per stringersi alla collottola degli avversari. Dopo minuti di diretti e sinistri, spinte e bastonate è la volta dei poliziotti israeliani. Piombano nel mucchio con gli sfollagenti, si buttano in quella canea benedetta, disperdono rossi e neri. Poi ne scelgono uno per parte, lo cercano tra i più scalmanati, gli infilano le manette. Avvinghiato tra sbirri anti sommossa sfila via un rosa vermiglio, lo segue un greco-ortodosso con la fronte sanguinante e la tunica stracciata.«Si son presi un diritto che non hanno, sono stati loro ad iniziare, noi volevamo solo bloccarli, son vigliacchi, mi han tirato un pugno da dietro, mi hanno rotto gli occhiali» - si lamenta Serafino, un confratello dell’arrestato con un taglio all’occhio destro. Per padre Pakrat del patriarcato armeno la pretesa greco-ortodossa «calpesta lo status quo e le regole interne del Santo Sepolcro». L’arcivescovo greco ortodosso Aristarco nega che i suoi frati siano «stati i primi a far violenza».
Tra accuse e insulti la Chiesa del Santo Sepolcro diventa una piazza d’armi dove la polizia israeliana con i mitragliatori e manganelli spianati cerca di rimettere ordine tra turisti in fuga e congregazioni in subbuglio. L’ordine, lo san tutti, non tornerà tanto presto. Da 1300 anni si discute su chi debba custodire la chiave della chiesa. Da allora il sacro chiavistello riposa nella cassaforte di una famiglia musulmana. Da allora ogni mattina gira nella toppa grazie ai servigi di un altro maomettano. Dallo scorso secolo non si capisce chi debba spostare la scala lasciata appoggiata a un davanzale. Da decenni la contesa tra copti e preti etiopi barricati nel sovrastante monastero di Deir El Sultan impedisce qualsiasi restauro e lascia allibiti gli esperti israeliani. A dar retta a loro un apocalittico crollo rischia di abbattere il tetto della cattedrale e seppellirvi i monaci e le loro indistricabili contese.

Il razzismo dei cattivi maestri

Andrea Camilleri dice che il ministro Mariastella Gelmini non è un essere umano. Andrea Camilleri si comporta tanto male e dà lezioni cattive, pericolose, ai giovani, anche perché è in folta compagnia. L’Italia è piena di personaggi che praticano ogni giorno indisturbati il doppiopesismo, termine francamente brutto mai sufficientemente chiaro. Lidia Ravera può dire che Condoleezza Rice è una scimmia più che una donna, il suo non è razzismo. Il professor Veronesi può dare degli animali stolti e primordiali a coloro che danno alla vita umana un valore diverso da quello che gli attribuisce lui, anche questo non è razzismo, tantomeno prevaricazione. Giovanna Melandri può dichiarare indignata che lei in Kenya ci va solo per ragioni umanitarie, giammai nella casa di proprietà di Briatore, anche se ci sono le fotografie che la vedono danzare scatenata col medesimo. Se gli ex terroristi rossi sono tutti fuori, si è finalmente sanata una ferita della nostra storia; se invece Francesca Mambro, che ha fatto più galera di tutti, ottiene la libertà condizionale, è recuperata alla società, è una buona madre, e fa un lavoro davvero socialmente utile, allora è uno scandalo che esige riparazione.
Tutto così, in una ruota insopportabile che rischia di succhiarci il cervello, sì, anche a noi che al conformismo resistiamo. Il nostro, non da solo ma in testa alla classifica, è il miglior produttore di cattivi maestri, quelli che «se lo fanno gli altri mi indigno e li sbrano, se lo faccio io avrò le mie buone ragioni».
Insomma, se il premier Berlusconi si fa scappare un’innocua battuta sull’abbronzatura di Barack Obama, il coro degli indignati speciali che gridano al razzismo si esercita senza freni chiedendo misure severissime. Poi capita che Massimo D’Alema chiami il ministro Renato Brunetta «un energumeno tascabile», laddove tascabile, nel loro linguaggio politically correct, dovrebbe essere proprio proibito.
Niente, va bene così, anzi è sana dialettica.
Ora è di nuovo toccato a Camilleri farne una delle sue. L’uomo ci ha abituati alle sue sortite che nessuno può non dico stigmatizzare ma neanche criticare. Il partito comunista, amato e rimpianto senza una sola remora, la fede marxista mai rinnegata, nel nome dei gulag, i girotondi, eversivi quanto inutili, entusiasticamente corteggiati, con tanto di creazione per la piazza di cinque «poemi incivili», ora, come poteva mancare, il tour delle scuole in rivolta, senza neanche sapere il perché, contro la riforma della scuola e l’attuale ministro della Pubblica Istruzione, reo di tentare un cambiamento che in Italia non s’ha da fare: Andrea Camilleri avrà pure compiuto in settembre ottantatré fantastici anni vissuti a suon di sigarette, catarro, carattere notoriamente brutto, e milioni di copie di gialli venduti Dio solo sa spiegare perché, ma a gettarsi nell’ultima polemica per dare una mano a modo suo non potrebbe mai rinunciare.
Infatti giovedì scorso si è infilato in un liceo classico romano, il Mamiani, ha infiammato un’assemblea e tenuto uno dei suoi discorsetti da intellettuale che non conosce tramonto, spiegando ai ragazzi che per lui «Mariastella Gelmini di sicuro non è un essere umano», e che «dovremmo chiamare i professori di chimica per capire che cos’è». C’era naturalmente il cronista de L’Unità che ha riferito, e la gloriosa attività del Maestro è finita all’attenzione di politici e media. Camilleri però stavolta un piacere alla sua sinistra amata non lo ha fatto, al contrario ha costretto molti dei critici implacabili di Mariastella Gelmini a dissociarsi, in nome, se non altro dell’emergenza educativa che nessuno dovrebbe poter negare. Sai quanto gliene importa dell’emergenza al Maestro Camilleri, che ha campato una vita in Rai da dirigente, e poi ha fatto i miliardi scrivendo libri in finto siciliano. Gentile Maestro, l’età avanzata e il grande successo, creda, sono altrettante fortune smisurate, ma non costituiscono alibi per andare in giro a pronunciare parole infami, tanto più perché indirizzate a un pubblico di giovani, facilmente influenzabili, se non plagiabili. Si riguardi, stia di più a casa, rifletta sulla saggezza e il distacco che una lunga vita dovrebbe regalare. Quanto a noi, i doppiopesisti li inseguiremo con sano accanimento. (Fonte: Il Giornale, 9 novembre 2008)

Stop Californication!

L’America che vota Obama ha detto no alle nozze omosessuali. Il vescovo di San Diego spiega perché i giovani e i neri non hanno seguito gli spot (e i dollari) delle star hollywoodiane.
La sorpresa è tutta per il bel mondo hollywoodiano e dei mass media che non s’aspettava certo la vittoria del “sì” perché, come ha detto il sindaco di San Francisco, Gavin Newsom, «dove va la California, poi va l’America». Solo che stavolta la California è andata contromano rispetto alle aspettative progressiste, e chissà che il sindaco Newson, gran celebratore di matrimoni fra omosessuali, non si sia pentito di aver vantato l’avanguardia californiana. Il 4 novembre negli Stati Uniti non si è votato solo per le elezioni presidenziali, ma anche per una serie di referendum, tra cui quello californiano sui matrimoni fra persone del medesimo sesso. Ci si doveva esprimere sulla Proposition 8, la risoluzione che chiedeva di annullare la sentenza con cui la Corte suprema in maggio aveva legalizzato nello Stato i matrimoni omosessuali. «È stata una grande vittoria», dice a Tempi monsignor Salvatore Joseph Cordileone, vescovo ausiliario di San Diego, tra i più attivi in campo cattolico per il “sì”. Cordileone era assai fiducioso sull’esito del voto. «Già nel 2000 si era svolto il referendum e il 61 per cento si era detto contrario al matrimonio omosessuale. Il Protect Marriage (il comitato per il “sì”, ndr) ha svolto un lavoro di informazione porta a porta e noi sapevamo, al di là di quel che era fatto passare sui media, che la maggioranza della popolazione era contraria a riconoscere il matrimonio tra omosessuali».L’esito del referendum (52 per cento “sì”, 48 “no”) è interessante per diversi motivi. In California Barack Obama ha raccolto il 61 per cento dei consensi, eppure il gruppo etnico che ha maggiormente sostenuto la Proposition 8 è stato quello afro-americano, tanto che oggi sui siti omosessuali si parla espressamente di «tradimento della comunità di colore» che ha scelto Obama come presidente, ma ha seguito l’indicazione di John McCain – per il “sì” – sul referendum. Forse consapevole di ciò, lo stesso candidato democratico era stato piuttosto ondivago sulla questione: ora dichiarandosi contrario al matrimonio omosex, ora sostenendo le istanze dei gay (che ha espressamente ringraziato il giorno della vittoria). I sondaggi hanno rilevato un secondo dato in controtendenza rispetto al luogo comune che vorrebbe i giovani tutti entusiasti sostenitori delle istanze progressiste, e cioè che, come spiega Cordileone, «sono stati proprio gli under trenta il gruppo generazionale che, dall’inizio della campagna elettorale al giorno del voto, più hanno modificato il proprio orientamento, passando dal “no” al “sì”». Il terzo elemento è che i californiani non hanno accettato che fossero i giudici, i mass media e le star a decidere per loro. Dopo il referendum del 2000, infatti, le lobby gay erano tornate a far pressione per far introdurre il matrimonio. Il sindaco di San Francisco, Newsom, aveva iniziato, sull’esempio di quanto accaduto in Massachusetts, a rilasciare licenze matrimoniali per le coppie gay. Sebbene la Corte suprema avesse definito illegittima l’iniziativa, nel settembre del 2005 l’assemblea statale californiana, a maggioranza democratica, aveva modificato il codice di famiglia, aprendo, di fatto, a matrimoni “diversi” da quelli tradizionali. E nel maggio di quest’anno, grazie alla sentenza della Corte suprema, erano partite le celebrazioni delle unioni. «Addirittura, il procuratore generale californiano Jerry Brown, che pure per la sua carica avrebbe dovuto difendere una legge del suo Stato, ha osteggiato in ogni modo il nostro referendum, modificandone il testo che, tendenziosamente, risultava chiedere se si fosse contrari o meno ai “diritti” dei gay». Tutto questo non è bastato, così come vani sono risultati gli appoggi a favore del “no” di Bill Clinton, Steven Spielberg, Ellen DeGeneres e la sua fresca sposa californiana Portia De Rossi, Brad Pitt (che ha donato alla causa 100 mila dollari), America Ferrera (protagonista di Ugly Betty), oltre che dei proprietari di Google e Apple, e dei quotidiani Los Angeles Times e New York Times. Quella che dal mondo glamour californiano era stata presentata come «la Gettysburg dei diritti civili» – dal nome della battaglia che decise la guerra di Secessione per liberare dalla schiavitù gli Stati del sud – si è rivelata una cocente sconfitta. Tanto che oggi, nei forum online, oltre a denigrare il voto dei neri e la tiepidezza di Obama, si ritorna alla carica mediatica inneggiando all’uscita del film di Gus Van Sant Milk, con protagonista Sean Penn. È la storia dell’attivista e politico Harvey Milk, il primo gay a diventare consigliere comunale a San Francisco, assassinato il 27 novembre 1978. La nascita di un networkLa propaganda delle star oggi fa meno paura al mondo del Protect marriage. «Lo sappiamo – afferma Cordileone – che torneranno ad attaccarci. Possono contare su molti fondi, come hanno dimostrato durante la campagna elettorale quando, in una sola sera, sono riusciti a raccogliere quattro milioni di dollari. E sappiamo che sono molto aggressivi nel sostenere le loro tesi, come è successo nelle ore immediatamente successive al voto quando a Los Angeles un gruppo di manifestanti ha attaccato una chiesa di mormoni». Eppure, dice il vescovo, «per la prima volta abbiamo visto nascere in California un fronte che, senza grandi media e nomi altisonanti, ha saputo muoversi tra la gente – anche noi abbiamo raccolto diversi milioni di dollari – e muovere consensi assai trasversali». Il cuore del Protect marriage è costituito da mormoni, protestanti e cattolici (la Conferenza episcopale californiana si è esplicitamente espressa per il “sì”). «Stiamo discutendo su come proseguire questa esperienza che ci ha unito – spiega Cordileone – in particolare con i fratelli evangelici. Ho sempre sentito dire che la Chiesa è un gigante che dorme e negli ultimi anni, qui in California, mi pareva fosse addirittura in coma. Oggi, però, si è svegliata dal suo torpore». (Emanuele Boffi, Tempi, 11 novembre 2008)

Obama: è soltanto un presidente, non il Messia

«Il mondo è cambiato» (prima pagina di Repubblica). «4.11.2008 Nuovo mondo» e «Un pianeta migliore» (l’Unità). «Il nuovo mondo» (il manifesto). «È crollato il muro di Washington» (Liberazione). «Nulla è impossibile» e «Sembra che parli ma prega» (Il Riformista). Questi alcuni titoli dei nostri giornali di ieri. Altre sobrie reazioni alla vittoria di Obama: «Adesso sono certo che assisterò al ritorno della civiltà» e «Ora possiamo assistere a un’epoca di apertura, illuminismo e creatività» (Michael Moore, regista); «È un momento storico, il mondo sta cambiando» (Patrick McGrath, scrittore); «Obama è come il primo uomo sbarcato sulla Luna» (Wilton Daniel Gregory, presidente dei vescovi degli Stati Uniti). Lasciamo pure perdere Veltroni di cui si occupa Maria Giovanna Maglie: sta di fatto che «Il mondo balla da Berlino a Londra, da Parigi all’Africa», come titola (per puro e obiettivo dovere di cronaca, va detto) il Corriere. Ma sì, il mondo cambia, dall’anno che verrà: sarà tre volte Natale e festa tutto il giorno, si farà l’amore ognuno come gli va e anche i preti potranno sposarsi ma soltanto a una certa età.
Sono tra quelli che hanno accolto con soddisfazione la vittoria di Obama, e condivido alla lettera le parole dello stesso John McCain: «Questa è un’elezione storica, e riconosco il significato speciale che ha per gli afroamericani e per l’orgoglio speciale che devono provare questa notte». Ho provato sincera commozione nel veder piangere di gioia tanti neri in piazza a Chicago, ho pensato a quante generazioni senza nome stanno dietro quelle lacrime. Credo anche che Obama sarà un buon presidente, tanto bravo da deludere molti di coloro che oggi lo esaltano e da rassicurare molti di coloro che oggi lo temono. Viva Obama, insomma. Viva il primo presidente nero.
Mi fanno però sorridere certi infantili entusiasmi, la fede cieca nel potere della politica, l’attesa di un presidente redentore del mondo. Ieri abbiamo appreso che il magnifico discorso pronunciato da Obama la notte della vittoria l’ha scritto uno del suo staff: un ragazzo di 27 anni. Non era neanche roba sua, insomma. Abbiamo anche appreso che il paladino della povera gente dei ghetti ha avuto dai grandi potentati Usa un sostegno economico mai concesso ad alcun candidato: quasi il triplo di quello di cui ha goduto il rivale McCain. Certo: così fanno tutti. Tutti hanno finanziatori, e tutti hanno un ghostwriter che scrive i discorsi. Ma è proprio questa constatazione che dovrebbe indurre a un maggior realismo, a prendere la politica per quello che è e che può essere, ad evitare certe attese messianiche.
La politica è importante, necessaria, ma relativa: serve per gestire uomini e cose che passano, uomini e cose per natura imperfetti com’è imperfetto il mondo. Un cattivo politico può produrre l’inferno sulla Terra, ma nessun grande politico può portarci il paradiso. Riporre in un leader così grandi illusioni è pericoloso. Che cosa diranno gli entusiasti di oggi alla prima decisione pragmatica di Obama? Eppure la politica è soprattutto pragmatismo. E che cosa diranno alla prima bomba che farà sganciare? O quando confermerà la base Nato di Vicenza?
La divinizzazione della politica è uno dei grandi inganni della modernità: per millenni, l’uomo l’ha considerata come amministrazione - spesso cattiva ma comunque inevitabile - dell’esistente. Dall’illuminismo in poi è diventata una nuova religione, tutta terrena, e promette quel che non può dare: la felicità. I disastri del Novecento, a quanto pare, non hanno insegnato niente.
Ripeto: viva Obama. La fine di una discriminazione è davvero un segno di speranza. Ma quanto è patetica l’eccitazione di chi immagina il cammino della politica come un percorso più o meno netto verso un nuovo Eden. La politica non ha mai fatto sdraiare nessuno sul lettino dello psicanalista, né ha mai regalato a nessuno la gioia di vivere. Tantomeno la salvezza. (Michele Brambilla, Il Giornale, 7 novembre 2008)

giovedì 6 novembre 2008

Universita': servirebbe un decreto

Un grido d'allarme è stato lanciato due giorni fa da Francesco Giavazzi sulle colonne del Corriere della sera, e anche qualcosa di più: una richiesta, quasi una preghiera a maggioranza ed opposizione perché insieme concertino un decreto che metta una toppa allo scandaloso concorso per associati ed ordinari bandito dal governo Prodi.
Sarà l'ennesima infornata di docenti in Università, l'ennesimo stuolo di privilegiati che assalteranno la diligenza avendo, almeno pare, il posto già garantito prima ancora di concorrere. Giavazzi chiedeva un decreto, intanto, per modificare il sistema di formazione delle commissioni giudicanti: attualmente i commissari vengono eletti, mentre sarebbe meglio sorteggiarli. In più andrebbero eliminate le selezioni a quiz, per eliminare il vizietto molto poco edificante di far conoscere già le risposte ai candidati. Infine bisognerebbe evitare il sistema per cui, anche se vi sono solo 1.800 posti disponibili, entrerebbero anche i secondi classificati, praticamente il doppio degli aventi diritto.
Ma bisogna far presto, ripeteva Giavazzi, bisognerebbe varare un decreto ad hoc entro lunedì prossimo. Sono pessimista, molto pessimista. Non credo che qualcuno accoglierà il suggerimento.
Il concorso farsa si farà, con un bel pernacchione a tutti quei sempliciotti molto benintenzionati che continuano a portare striscioni in piazza contro i tagli, piangendo il triste destino dell'università pubblica. E che in pratica stanno facendo il gioco di chi l'università la sta davvero rovinando.
Ora, io dico, si fa un concorso del quale si conoscono già i vincitori. Un concorso nel quale non contano i titoli, le pubblicazioni scientifiche, ma conta ben altro. E' questo il sistema che si vuole difendere, che si vuole perpetrare? Per quale arcano motivo non bisognerebbe "tagliarlo"?
Non credo che il Governo avrà il coraggio di intervenire a fermare questo scandalo con un bel decreto. Ci sono le piazze già mobilitate, gli indici di gradimento traballanti, le opposizioni (sinistre e centristi casiniani) che fanno il gioco sporco e continuano a ripetere "no ai tagli", che è lo slogan più facile e demagogico che ci sia. Un politico è un politico, e anche se di centrodestra, anche se forte di una maggioranza che gli permetterebbe di prendere delle decisioni, non ha certo la vocazione del martire. Non ci sta a farsi impallinare come un tordo.
Per questo credo, sinceramente (e mi dispiace molto), che il decretino invocato da Giavazzi non si farà e che quel concorsaccio andrà avanti come se niente fosse.
Intanto anche la Gelmini è costretta a percorrere la via più lunga. Aveva pronto il suo decretone sull'Università, ma opterà per un disegno di legge, da discutere e su cui trovare le più ampie convergenze. E pazienza se mentre a Roma si discuterà, Sagunto verrà espugnata.
Vale la pena notare che nel decreto Gelmini c'erano delle proposte molto interessanti: togliere il blocco del turn over imposto dalla legge 133 per ricercatori e passare la patata bollente direttamente alle università, che avrebbero dovuto scegliere se immettere un giovane docente al posto di un professore settantenne, oppure concedere a quest'ultimo una proroga di due anni.
Si prevedeva inoltre una penalizzazione per le università spendaccione, e il divieto di bandire nuovi concorsi (con assunzioni) a quegli atenei che hanno sforato il tetto del 90% del finanziamento statale per pagare i docenti. Per gli atenei più virtuosi si pensava, invece, a un ulteriore fondo straordinario.
E poi c'erano misure per scoraggiare l'apertura di corsi inutili e le numerosissime sedi decentrate. Dulcis in fundo i concorsi per i ricercatori, per i quali erano previste norme che li rendessero più trasparenti.
Un decreto, insomma, che conteneva molte buone e ragionevoli misure per assestare un sistema universitario che ha molti buchi, molti lati oscuri e, quel che è peggio, uno scarso rendimento.
Ma la piazza si è scatenata, anzi, è stata scatenata a discutere non di equità ed eccellenza, ma di tagli a una spesa che non è nemmeno giustificata, visto il ritorno in termini di qualità.
Ho una tremenda paura che il cambiamento, quel cammino, per usare un'espressione della Gelmini, verso "riforme non di facciata", subirà un brutto, pesante rallentamento.
C'è solo da augurarsi che il Governo, questo Governo, abbia la forza e il coraggio di andare avanti nonostante l'offensiva delle forze della conservazione, che si annidano ovunque, nelle università, nelle piazze, nei mezzi d'informazione.
Perché la nostra università è morta e spacciata non se si va nella direzione indicata dalla Gelmini, ma se si va avanti così. (Gianluca Zappa, La Cittadella, 5 novembre 2008)

I voltagabbana del maestro unico

«Quando l’antica maestra intera si scisse nelle tre maestre per due classi, per ragioni sindacali contro il crollo demografico, si minò un pilastro della nostra convivenza». Ecco, non riuscivo a trovare le parole per esprimere quel che penso sulla questione del maestro unico, sui danni prodotti dalla sua abolizione, e perfino sulle ragioni («sindacali», non pedagogiche) che portarono alle tre maestre invece che una, e grazie al Cielo ho trovato un altro che aveva già messo in fila le parole giuste prima di me. Così, con una bella citazione, me la sono cavata senza faticare troppo. E sapete di chi è la frase sopra riportata fra virgolette? Di Mariastella Gelmini? Del leghista Roberto Cota? O addirittura del premier? No: sono parole di Sofri. Adriano Sofri.
E sapete dove le ha scritte? Forse sul Foglio, che è un po’ berlusconiano? No: le ha scritte su Repubblica.
E sapete quando le ha scritte? Forse anni fa, in un altro tempo e con un’altra scuola? No: le ha scritte il 3 giugno 2008. Meno di cinque mesi fa.
Per completezza di informazione: l’articolo di Sofri era pubblicato in prima pagina e s’intitolava «Ecco perché ci servono più maestre da libro Cuore». Sempre per completezza, Sofri prendeva spunto da due fatti: un articolo di Zagrebelsky («La democrazia ha ancora bisogno di maestri») e l’appello di una quarta elementare di Roma al ministero affinché non cambiasse la maestra, in età di pensione.
Siccome quando si citano frasi altrui è sempre dietro l’angolo l’accusa di estrapolazioni selvagge, chiarisco che la frase citata all’inizio va inserita nel seguente contesto, che cito testualmente: «Zagrebelsky commemora i grandi maestri civili, soppiantati da televisione, pubblicità, moda: altrettante seduzioni facili, aliene dal suscitare i bravi discepoli senza i quali non compaiono i bravi maestri. Ma nel mondo che si perde la prima e decisiva formazione civile era l’opera delle maestre. Erano loro a insegnare a leggere e scrivere, a fare le operazioni, a dire le preghiere, a stare seduti e alzarsi in piedi. Il tramonto delle maestre può essere salutato come un capitolo dell’emancipazione femminile». E subito qui di seguito la frase citata all’inizio: «Ma quando l’antica maestra intera si scisse...».
Si potrebbe obiettare che Repubblica dispone di un ampio parco di grandi firme, e non è detto che quella di Sofri sia la posizione del giornale. Ok. Però, così, giusto per procedere sulla completezza d’informazione: pochi giorni prima, sempre sulla questione della quarta elementare romana che rischiava di cambiare maestra, Repubblica aveva affidato il commento a un altro suo esperto di scuola, Marco Lodoli. Il quale, dopo aver tratteggiato le qualità e l’importanza della vecchia maestra, scriveva: «Poi qualcuno ha deciso che la maestra doveva moltiplicarsi e da una è diventata tre, e tre maestre sono diventate un viavai di volti, abbondanza e confusione, e forse qualcosa si è guadagnato e di sicuro qualcosa si è perso». Notare il «forse» e il «di sicuro». Era il 27 maggio 2008, esattamente tre mesi e venti giorni prima che lo stesso Lodoli, sempre su Repubblica, così commentasse il progetto del governo di reintrodurre il maestro unico: «Le elementari, fiore all’occhiello del nostro sistema educativo, sono finite sotto l’accetta della ministra Gelmini, che per rispettare le esigenze di risparmio non ha immaginato nient’altro che la maestra unica: come dire suicidiamoci per consumare meno ossigeno». Era il 16 settembre 2008.
Non è che vogliamo sottolineare, a proposito di maestrine dalla penna rossa, incoerenze e giravolte (nel caso di Sofri, tra l’altro, non risulta che abbia cambiato idea). Vogliamo solo esprimere lo stupore per l’attuale levata di scudi della sinistra contro il ritorno del maestro unico. Sono giorni che sentiamo demonizzare questa figura da pedagogisti che mai avevamo udito, prima, esprimersi in tal modo. Politici, giornalisti e genitori anti-Gelmini s’accodano. L’altra sera ad AnnoZero hanno parlato di «rischio di pensiero unico». Fosse un vecchio cavallo di battaglia della sinistra, capiremmo. Ma mai c’è stata, nella cultura della sinistra, l’esaltazione dei tre maestri, anzi. La loro introduzione fu motivata solo dalla volontà di salvare posti di lavoro, ma mai nessuno ne aveva esaltato l’efficacia. Al contrario, sono tantissime le testimonianze di una sinistra perplessa. Ortensio Zecchino, ministro dell’Università con D’Alema e Amato, al momento della riforma votò contro dicendo: «Non resta che prendere atto dell’esistenza di uno schieramento che ha inteso privilegiare il momento sindacale... svalutando il momento formativo e culturale». Ed Edgar Morin, consulente del ministro Fioroni proprio per la riforma della scuola, ha fatto dell’unitarietà dell’apprendimento il suo credo: «Il nostro sistema d’insegnamento - ha detto - separa le discipline e spezzetta la realtà, rendendo di fatto impossibile la comprensione del mondo».
Chissà come mai, insomma, tanti repentini cambiamenti. Personalmente ho un ricordo fantastico e commovente, della mia maestra unica. Solo che fatico anche qui a trovare le parole. Le prendo in prestito: «La figura della maestra campeggia nella nostra memoria come un totem sacro, è l’asse attorno al quale ha girato la nostra infanzia, fu la solenne e dolce depositaria di ogni sapere, quella che ci ha insegnato gli affluenti del Po e le divisioni a tre cifre, le Guerre Puniche e le poesie di Pascoli, ci ha aiutato a crescere nella pace di un tempo immobile e fecondo. (...) L’infanzia ha bisogno di certezze (...) se l’amata maestra dopo quattro anni scompare, allora tutto può svanire». Chi ha scritto queste belle parole? Ma sempre Marco Lodoli, sempre su Repubblica. Sembra ieri, invece erano ben cinque mesi fa. (Michele Brambilla, Il Giornale, 29 ottobre 2008)

Referendum in California: Si alla messa al bando delle nozze gay

Marce di protesta sulla Sunset Boulevard a Los Angeles e a San Francisco dopo la vittoria del sì al referendum sulla messa al bando delle nozze gay in California.
I matrimoni omosessuali tornano dunque fuorilegge nello Stato più popoloso dell'Unione, che non di rado serve da modello per il resto degli Stati Uniti. Approvando con una percentuale di oltre il 52% la cosidetta proposta numero 8, i californiani hanno sancito per la seconda volta in pochi anni che le nozze sono una unione tra un uomo e una donna, rimettendo in dubbio la legalità di migliaia di matrimoni omosex celebrati negli ultimi quattro mesi e mezzo. Attualmente i matrimoni omosessuali sono autorizzati solo in Massachusetts, da diversi anni, e nel Connecticut, da pochi mesi. Altri due referendum sui matrimoni tra persone dello stesso sesso sono stati vinti dai fautori del no alle unioni gay e lesbiche in Florida e in Arizona, ma in questi due Stati si è trattato di decisioni scontate (Ap).

Una proposta di legge contraddittoria

Una proposta di legge in favore dell'omosessualismo (proposta C.1568 - "Reati commessi per finalità di discriminazione o di odio fondati sull'orientamento sessuale o sull'identità di genere") é attualmente in discussione presso la II Commissione permanente della Camera, competente per la Giustizia.
Questa proposta si qualifica per la sua contraddittorietà:
1a contraddizione: la presidente della Commissione, l'on. avvocato Giulia Bongiorno, ha nominato, contro la consuetudine parlamentare, Relatrice del Progetto di legge una deputata dell'opposizione di Sinistra, l'on. Anna Paola Concia (nella foto), che ha dichiarato: "E' la prima volta, in questa Legislatura, che viene affidato l'incarico di Relatrice a una deputata dell'opposizione e, per di più, unica lesbica 'libera' di questo Parlamento" ("l'Unità on line", 25-10-2008).
2a contraddizione: nella sua relazione, l'on. Concia afferma, nel primo periodo del paragrafo 1 della pdl C.1568, che "fulcro sostanziale" della proposta è la "nozione di omofobia", termine inventato da uno psicologo nel 1971 ed oggi adottato dal Parlamento Europeo. Nella relazione si precisa, nel quinto capoverso del paragrafo 2, che il "dato che si trova alla base dell'omofobia" sarebbe "l'ignoranza del diverso da sé che si traduce in paura". Al contrario, la più elementare etimologia ci dice che il termine "omofobia" è composto da due parole greche: φóβος (fobos, paura) ed ομóς (omos, uguale, comune, identico), e quindi significa "paura di ciò che è eguale a sé", mentre invece il significato "paura del diverso" esige la combinazione di φóβος (paura) ed ετερος (eteros, diverso), così come omogeneo vuol dire dello stesso tipo ed eterogeneo di tipo diverso. Ad esempio, per indicare l'avversione allo straniero si è correttamente coniato il termine xenofobia, unendo a φóβος la parola ξενος (xenos, estraneo, straniero).
3a contraddizione: per captare l'altrui benevolenza, l'on. Concia richiama più volte nel testo della sua relazione la necessità di punire i delitti commessi nei confronti delle persone omosessuali nonché l'istigazione a commettere quei medesimi delitti. Il nostro ordinamento già prevede la punizione del delitto di ingiuria o di violenza contro la persona o i beni perpetrato nei confronti di terzi, sia l'istigazione a compiere uno specifico delitto, nonché le aggravanti previste per motivi futili o abietti.
Ma la proposta di legge mira, come si evince dal primo capoverso del paragrafo 4, ad estendere la punizione a non meglio precisati "discorsi intrisi d'odio", distinti ("e"), si badi bene, dalle "istigazioni alla discriminazione, dileggio, violenza verbale, psicologica e fisica, persecuzioni e omicidio".
4a contraddizione: a proposito della così mal detta "omofobia" viene riportata nel secondo capoverso del paragrafo 1 della relazione la definizione del Parlamento Europeo che la qualifica come "una paura e una avversione irrazionale nei confronti dell'omosessualità (…) basata sul pregiudizio".
Da questa definizione e da quella ricordata sopra ne dovrebbe conseguire che un giudizio di condanna dell'omosessualità in sé e delle conseguenze sociali che possono avere la sua propaganda come modello per i giovani nel mondo mediatico, giudizio che non sia a priori come il pregiudizio, né irrazionale e non motivato, ma che nasca da una seria e meditata analisi storica e filosofica, sociologica ed antropologica, dovrebbe essere del tutto lecito. Al contrario l'on. Concia esprime nel tredicesimo capoverso del paragrafo 5, con la determinazione evidenziata nel carattere corsivo di queste frasi nel testo, la sua ferma volontà che, con l'approvazione della proposta di legge C.1568, comunque ed in qualsiasi forma, sia proibito criticare qualsiasi "orientamento sessuale. Voglio che non lo si possa giudicare e condannare (…) senza che questo venga considerato un reato dallo Stato".
5a contraddizione: L'on. Concia, all'inizio della sua relazione, evoca il dovere, "dobbiamo", di avere "a cuore solo ed esclusivamente il 'bene comune' (…) per partecipare alla costruzione del bene comune" Tuttavia precisa, con la determinazione che si evince nel testo con la frase scritta a tutte maiuscole: "A PRESCINDERE DAL PROPRIO ORIENTAMENTO SESSUALE".
Come è possibile la "costruzione del bene comune" senza un giudizio razionale e meditato su ciò che è bene e ciò che è male in tutto ciò che riguarda le relazioni sociali, ossia i rapporti fra i cittadini?
Il sadomasochismo o l'incesto sono orientamenti sessuali positivi o negativi per la costruzione del bene comune? Occorre proibirli o porvi dei limiti o lasciarli del tutto liberi?
6a contraddizione: L'on. Concia, nel reclamare dure sanzioni penali contro chi critica l'omosessualismo, ricorda, nel settimo ed ottavo capoverso del paragrafo 5, che, data l'importanza che hanno per la formazione degli individui i "messaggi del mondo circostante (la società, la scuola, lo Stato), è sui messaggi che da essi provengono che dobbiamo lavorare. Il primo passo è quello dello Stato che assume una funzione pedagogica, che passa attraverso le leggi". Al contrario lo schieramento cui appartiene l'on. Concia non vuole che la funzione pedagogica della sanzione penale venga applicata per ridurre il dramma dell'aborto o per ridurre il dramma dell'uso di droga, anzi nega che esista una funzione pedagogica della sanzione penale.
7a contraddizione: all'inizio della sua relazione, l'on. Concia loda, rivolgendosi ai "cari colleghi della maggioranza, il vostro nome, Partito 'delle' libertà". Al contrario, nel primo capoverso del paragrafo 4, si unisce alla denuncia del Parlamento Europeo contro chi vuole ostacolare la diffusione dell'omosessualismo in nome di "libertà religiosa e diritto all'obiezione di coscienza".
8a ed ultima contraddizione: L'on. Concia termina la sua relazione facendo appello, nel terzo e nel quattordicesimo capoverso del paragrafo 5, ai Cattolici.
Al contrario ella tace che, diventando Legge, la proposta C 1568 impedirebbe ai Cattolici di professare l'immutabile condanna della pratica e della propaganda dell'omosessualismo sanzionata dalle Sacre Scritture e dal Magistero di Santa Romana Chiesa. (www.lepantoblog.org/31 ottobre 2008)