sabato 29 febbraio 2020

Trump: primo discorso delle Ceneri di un presidente Usa


Per la prima volta un presidente degli Stati Uniti ha tenuto un discorso il Mercoledì delle Ceneri sulla Quaresima e lo ha fatto, non come atto privato, ma come atto ufficiale. La scelta di Donald J. Trump è di importanza cruciale, non solo perché a capo della prima potenza mondiale, ma perché torna a identificare gli Usa come nazione cristiana

«E la luce brillò nelle tenebre e/ contro il Verbo il mondo inquieto ancora/ mulinava attorno al centro del Verbo silenzioso». Quando, nel 1930, T.S. Eliot (1888-1965) pubblicò il poema Ash Wednesday, «Mercoledì delle Ceneri», mai più si sarebbe immaginato che una delle rappresentazioni più plastiche e concrete di quei suoi versi lancinanti sarebbe stato il presidente del Paese che il poeta si era lasciato alle spalle, gli Stati Uniti d’America, e tra tutti i presidenti certamente il più improbabile.
Nel mondo cristiano mercoledì 26 è iniziata la Quaresima con il rito dell’imposizione delle ceneri e il capo del Paese più importante del mondo, Donald J. Trump, ha segnato l’evento sul calendario della storia inviando al proprio Paese e al mondo intero un messaggio. Non era mai successo. «Melania e io auguriamo a tutti di vivere il Mercoledì delle Ceneri come un giorno di pace e di preghiera», ha scritto il presidente. «Per i cattolici e per molti altri cristiani, il Mercoledì delle Ceneri segna l’inizio del periodo quaresimale che si conclude con la gioiosa celebrazione della domenica di Pasqua. Oggi milioni di cristiani saranno marcati sulla fronte con il segno della croce. L’imposizione delle ceneri è un invito a vivere il tempo della Quaresima digiunando, pregando e impegnandosi in gesti di carità. Questa tradizione potente e sacra ci ricorda la mortalità che ci accomuna, l’amore di Cristo che salva e la necessità di pentirci accettando più pienamente il Vangelo. Ci uniamo dunque in preghiera a tutti coloro che osservano questo giorno santo e auguriamo loro un cammino quaresimale di preghiera. Durante questo periodo benedetto possiate avvicinarvi di più a Dio nella fede».
Poche parole, essenziali, che parlano dell’essenziale. Dio, la preghiera, la penitenza, la riconciliazione, il trionfo della Risurrezione. Bellissime. Ma non è solo qui la bellezza intrinseca delle parole di Trump. Il supplemento di bellezza nelle parole di Trump è che Trump quelle parole le abbia scritte. Per diversi motivi. Anzitutto perché Trump dà la fede come un dato normale di realtà. Dagli albori del genere umano fino a grosso modo l’Illuminismo l’ateismo non è mai esistito. Al massimo era il passatempo di qualche intellettualoide borghese che per vincere la noia si sforzava di stupire il prossimo. Oggi invece la fede, almeno in Occidente, sembra una cosa da marziani. Trump ribalta dunque tutto, ricominciando daccapo.
Secondo, perché non lo fa da privato, ma da presidente, e del Paese più potente del mondo. Il suo messaggio è stato diramato ufficialmente dalla Casa Bianca come tutti gli atti ufficiali del presidente. Ora, nessuno è tenuto giudicare la fede personale di Trump, ma la sua fede pubblica è un altro dato potente di realtà.
Terzo, la fede pubblica mostrata dal presidente è la fede cristiana. Gli Stati Uniti si sono concepiti come Paese cristiano sin dall’inizio. Possono avere sbagliato, ma questo è quello che hanno sempre pensato di sé. Solo oggi l’identità cristiana del Paese viene messa ideologicamente in dubbio dall’interno. Il gesto di Trump la ribadisce invece con naturalezza, come un dato di fatto.
Quarto, che la fede svolga un ruolo pubblico non viola la laicità e nemmeno la democrazia. Un Paese è serio anzitutto e soprattutto se lo è rispetto alla propria identità culturale e dunque religiosa. L’omogeneità culturale, che si fonda anche sull’identità religiosa, è la condizione per poter rispettare, difendere e accogliere realtà sociali diverse, che non condividano il dono pieno della medesima fede o la fede in quanto tale. Non è infatti il relativismo che garantisce la libertà religiosa, ma l’identità religiosa cosciente, giacché la libertà religiosa non è fare di Dio quel che si vuole bensì avere la libertà necessaria per adorarLo in spirito e verità, confrontandosi da uomini integrali con Lui.
Quinto, non si può non notare l’accento posto con enfasi, dolce, sul cattolicesimo. In un Paese erroneamente percepito come “protestante” pare strano. Ma, a parte il fatto che i cattolici restano la maggioranza relativa del Paese, e che dunque è statistico che il presidente inizi da loro seguitando poi con gli altri cristiani, Trump “subisce” il fascino del cattolicesimo. Certo, diramando il messaggio a nome della moglie e proprio, e anteponendo per giusta cavalleria il nome della consorte al proprio, ed essendo Melania cattolica, si potrebbe scambiare la cosa per mera cortesia. Ma, a parte il fatto che la buona educazione è già metà della santità, come diceva santa Francesca Saverio Cabrini (1850-1917), e che quindi cedere il passo a lady Melania non è cosa piccola, il punto è che il messaggio del Mercoledì delle Ceneri non lo ha mandato Trump da single, ma la famiglia presidenziale, Trump e signora. Il fatto che la signora Trump sia cattolica è importante; non fa di Trump il secondo presidente cattolico degli Stati Uniti, ma neppure riesce a nascondere il flirt che Trump ha, per un verso o per l’altro, con il cattolicesimo. Flirt culturale e pubblico, ma noi che non siamo i suoi confessori a ciò dobbiamo solo attenerci. Il Dio cattolico non è fiscale.
Alla fine di questo mercoledì da leoni, dunque, che resta? Un fatto che nessun potrà mai sbianchettare. La dimensione pubblica della fede torna senza chiedere né permesso né scusa nel mezzo del buio laicista e relativista più nero, ovvero quando «la luce brillò nelle tenebre» perché «il mondo inquieto contro il Verbo» pur sempre ancora «mulinava attorno al centro del Verbo silenzioso» non riuscendo comunque a scrollarselo di dosso. Quando si scriveranno le cronache della nuova Cristianità, diversa, inedita, gli amanuensi del futuro appunteranno certamente alcune date significative della sua protostoria, fra cui Washington, Mercoledì delle Ceneri, A.D. 2019. Trump non ha la minima idea, ma questo fa parte del fascino sublime della cosa


(Fonte: Marco Respinti, LNBQ, 28 febbraio 2020)
https://www.lanuovabq.it/it/trump-primo-discorso-delle-ceneri-di-un-presidente-usa




giovedì 13 febbraio 2020

Il silenzio di Francesco, le lacrime di Ratzinger e quella sua dichiarazione mai pubblicata


Ciò che più colpisce nell’esortazione apostolica postsinodale “Querida Amazonia”, resa pubblica oggi, 12 febbraio 2020, è il suo totale silenzio sulla questione più attesa e controversa: l’ordinazione di uomini sposati.
Nemmeno la parola “celibato” vi compare. Papa Francesco auspica che “la ministerialità si configuri in modo tale da essere al servizio di una maggiore frequenza della celebrazione dell’eucaristia, anche nelle comunità più remote e nascoste” (n. 86). Ma ribadisce (al n. 88) che soltanto il sacerdote ordinato può celebrare l’eucaristia, assolvere dai peccati e amministrare l’unzione dei malati (perché anch’essa “intimamente legata al perdono dei peccati”, nota 129). E non dice nulla sull’estensione dell’ordinazione ai “viri probati”.
Nessuna novità neppure per i ministeri femminili. “Se si desse loro accesso all’ordine sacro”, scrive Francesco al n. 100, “ci si orienterebbe a clericalizzare le donne” e “a ridurre la nostra comprensione della Chiesa a strutture funzionali”.
La curiosità che sorge immediata, dalla lettura di “Querida Amazonia”, è dunque di capire in quale misura il libro bomba scritto dal papa emerito Benedetto XVI e dal cardinale Robert Sarah in difesa del celibato del clero, pubblicato a metà gennaio, abbia influito sull’esortazione e in particolare sul suo silenzio circa l’ordinazione di uomini sposati.
A questo scopo vanno aggiunte alcune informazioni in più rispetto a quelle già note, su ciò che accadde nei giorni roventi seguiti alla pubblicazione del libro.
La sequenza già nota dei fatti è stata a suo tempo documentata da Settimo Cielo nei tre “Post Scriptum” in coda a questo articolo del 13 gennaio:

> Ancora sul libro bomba di Ratzinger e Sarah. Con il resoconto di un nuovo incontro tra i due
Ma da più fonti tra loro indipendenti Settimo Cielo ha successivamente avuto notizia di almeno quattro fatti in più, di importanza rilevantissima.
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Il primo è avvenuto la mattina di mercoledì 15 gennaio.
Lungo tutta la giornata di martedì 14 l’attacco condotto dalle correnti radicali contro Ratzinger e Sarah aveva avuto un crescendo devastante, alimentato di fatto dalle ripetute smentite del prefetto della casa pontificia Georg Gänswein di una corresponsabilità del papa emerito nella composizione e nella pubblicazione del libro, fino a chiedere il ritiro della sua firma, e inutilmente contrastato dalla precisa e documentata ricostruzione, resa pubblica da Sarah, della genesi del libro stesso per opera concorde dei suoi due coautori.
Ebbene, la mattina di mercoledì 15 gennaio, mentre papa Francesco stava tenendo la sua udienza generale settimanale e Gänswein sedeva come di regola al suo fianco nell’aula Paolo VI, lontano quindi dal monastero Mater Ecclesiae che è la residenza del papa emerito di cui egli è segretario, Benedetto XVI alzò di persona il telefono e chiamò Sarah prima a casa, dove non lo trovò, e poi in ufficio, dove il cardinale rispose.
Benedetto XVI espresse, accorato, a Sarah la sua solidarietà. Gli confidò di non riuscire a comprendere le ragioni di un’aggressione così violenta e ingiusta. E pianse. Anche Sarah pianse. La telefonata si chiuse con entrambi in lacrime.
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Il secondo fatto reso noto qui per la prima volta è avvenuto durante l’incontro tra Sarah e Ratzinger, nella residenza di quest’ultimo, la sera di venerdì 17 gennaio.
Quella sera stessa, il cardinale riferì dell’avvenuto incontro in tre tweet, nei quali confermava la piena concordia tra lui e il papa emerito nella pubblicazione del libro.
Ma non disse che durante quello stesso incontro – in realtà svoltosi in due momenti distinti, prima alle 17 e poi alle 19 – Benedetto XVI aveva scritto assieme a lui un conciso comunicato che egli intendeva rendere pubblico con la firma del solo papa emerito, per attestare la piena consonanza tra i due coautori del libro e invocare la cessazione di ogni polemica.
Ai fini della pubblicazione, Gänswein consegnò la dichiarazione – di cui Settimo Cielo è in possesso e in cui il tratto personale, persino autobiografico, di Ratzinger traspare evidente – al sostituto segretario di Stato Edgar Peña Parra. Ed è ragionevole ipotizzare che questi ne abbia informato sia il proprio diretto superiore, il cardinale Pietro Parolin, sia lo stesso papa Francesco.
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Sta di fatto – ed è la terza notizia fin qui inedita – che questa dichiarazione del papa emerito non ha mai visto la luce. Ma è stata verosimilmente all’origine della decisione di Francesco di esonerare da lì in poi da ogni presenza visibile al proprio fianco il prefetto della casa pontificia Gänswein.
L’ultima di queste apparizioni pubbliche risale alla mattina di quello stesso venerdì 17 gennaio, in occasione della visita in Vaticano del presidente della Repubblica Democratica del Congo. Dopo di che Gänswein non è più comparso accanto al papa, né nelle udienze generali del mercoledì, né nelle visite ufficiali del vicepresidente americano Mike Pence, del presidente iracheno Barham Salih e di quello argentino Alberto Fernández.
Agli occhi di papa Francesco la dichiarazione di Benedetto XVI aveva infatti comprovato l’inattendibilità delle ripetute negazioni fatte da Gänswein della corresponsabilità del papa emerito nella composizione del libro.
In altre parole, l’opposizione del papa emerito a che il suo successore cedesse alle correnti radicali sul fronte del celibato del clero risaltava a questo punto a tutto tondo, senza più alcuna attenuazione.
E tutto questo a pochi giorni dalla pubblicazione dell’esortazione postsinodale in cui molti, in tutto il mondo, aspettavano di leggere un’apertura di Francesco all’ordinazione di uomini sposati.
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A corollario di tutto ciò, va data notizia anche del ruolo che il cardinale Parolin ha svolto in questa vicenda.
Quando infatti mercoledì 22 gennaio l’editore Cantagalli ha pubblicato un comunicato riguardante l’imminente uscita del libro in Italia, con pochissime e marginali variazioni rispetto all’originale francese, non è stato detto che quel comunicato era stato precedentemente visto e limato riga per riga dal cardinale segretario di Stato, che ne aveva infine vivamente incoraggiata la pubblicazione.
Un comunicato nel quale il libro di Ratzinger e Sarah è definito “un volume dall’alto valore teologico, biblico, spirituale ed umano, garantito dallo spessore degli autori e dalla loro volontà di mettere a disposizione di tutti il frutto delle loro rispettive riflessioni, manifestando il loro amore per la Chiesa, per Sua Santità papa Francesco e per tutta l’umanità”.

(Fonte: Sandro Magister, Settimo cielo, 12 febbraio 2020)
http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/



mercoledì 12 febbraio 2020

A PROPOSITO DI BENIGNI E DEL SUO CANTICO DEI CANTICI


1. «Non possiamo tacere. 
Abbiamo il dovere morale, dovere di retta coscienza, di condannare duramente il vergognoso monologo di Roberto Benigni durante il festival di Sanremo su Rai 1, prendendo a pretesto la Bibbia e il libro del Cantico dei cantici. Se e quando la televisione pubblica, cioè finanziata dai soldi dei cittadini, decide di portare sul piccolo schermo un tema di grande valore culturale e religioso, non può lasciare il monopolio interpretativo e comunicativo a una persona che non ha nessuna qualifica di competenza specifica e che si arroga il diritto di propinare il suo sproloquio, infarcito di ignoranza e di falsità, a milioni di telespettatori.
Perfino il pubblico dell’Ariston, in mezzo al quale certo non abbondavano gli esegeti biblici e forse neanche i credenti, se n’è accorto, vista la penuria di applausi. Il Cantico dei cantici è uno stupendo libro dell’Antico Testamento in cui si canta la pienezza dell’amore e dell’amore dello sposo, Dio padre, per il popolo ebraico. Dopo l’incarnazione e con la rivelazione, viene riletto come il canto di amore di Cristo, lo sposo per il nuovo popolo eletto, la Chiesa, sua sposa.
Un amore totale pieno di passione, che viene descritto con una delicatezza di toni che non ha nulla a che vedere con la sguaiata volgarità del suddetto sproloquio. Passione che arriva fino al sacrificio della croce. Se si dovesse scrivere a colori quel testo, si dovrebbe utilizzare il rosso della passione del sentimento amoroso e il rosso del sangue versato sulla croce.
Questo è il canto dell’amore totale, fedele, unico, incancellabile in cui eros, agape, e koinonia si fondono e completano, come ci ha magistralmente insegnato Benedetto XVI nell’enciclica Deus Charitas est (2005). Trasformarlo in un delirante messaggio a cavallo fra pornografia ed erotismo di bassa lega, infarcito di banalità, infine inventandosi di sana pianta una traduzione manipolata, è certamente un’operazione politicamente corretta in linea con i tempi, ma che rivela la strategia dell’indottrinamento bieco e menzognero della cultura cristianofobica.
Le radici della storica frase di Gesù "L’uomo non separi ciò che Dio ha unito” ( matrimonio sponsalità, procreazione, genitorialità) trova le sue radici più profonde e proprio nel cantico: l’amore di Cristo per la Chiesa, e amore inseparabile, indefettibile, totale, fedele, che giunge fino al sacrificio della vita.

Questo è l’amore che, realizzato pienamente in Cristo, ha sempre trovato nella storia, anche oggi, testimoni fedeli pur con tutti i limiti della debolezza umana. Chi avesse qualche dubbio, guardi un crocifisso ed impariamo da Lui, che ha perdonato ma non ha fatto sconti nella proclamazione della verità. Per questo l’hanno appeso ad una croce. »
(Massimo Gandolfini)

 2. Benigni, il furbetto che sfrutta l’ignoranza della gente
L’operazione di Benigni è subdola (e ha fatto bene Diego Fusaro a rilevarlo): perché ha voluto insinuare che la Chiesa è la solita oscurantista di sempre, che nega la bellezza dell’amore sponsale. E il nostro comico lo ha fatto fra l’altro suggerendo di stare leggendo da un testo che non sarebbe quello contenuto nelle edizioni ufficiali! Ma sarei curioso di sapere a quale ur-redaktion, redazione originale primitiva extrabiblica lui si riferisca, quando il testo (masoretico ebraico, traduzione greca dei LXX, Vulgata latina) è disponibile in tutte le librerie! E di grazia, converrete che il proclamare in chiesa o in sinagoga traduzioni poetiche e non letterali (evitando di parlare dall’ambone di peni, testicoli e monti di venere) è solo questione di estetica e di buon gusto e non certo operazione censoria!
Ma per me, lo scandalo più grave è ancora un altro: che pur di addossare tutte le colpe alla Chiesa Benigni ha strappato il Cantico al suo legittimo proprietario che è Israele, e vi dico il perché. Perché è lui, sì lui, che ha invece censurato il testo: perché l’invito della bella Sulamita ad aiutarla a cercare lo sposo non è rivolto genericamente a “figlie”, ma l’invito è rivolto alla “figlie di Gerusalemme”, cosa che lui ha deliberatamente omesso tutte le volte che ha citato il testo. E in questa omissione sta il peccato più grave: decontestualizzando il Cantico dal popolo che lo ha espresso (ma d’altronde, dicendo che leggeva da un testo extra biblico più antico, lo aveva già strappato dalla Bibbia), ha reso così un canto, espressione della più alta spiritualità biblica (e quindi espressione della fede secondo la tradizione ebraica prima e cristiana dopo), un inno generico all’amore che, con un po’ di impegno un bravo poeta avrebbe potuto fare: ridotto così cosa c’è di diverso tra una poesia di Baudelaire o una di Garcia Lorca dal Cantico?
Ma siamo in fondo al vero punto in questione: l’operazione più subdola ancora, quella di insinuare che il cantico inneggia all’amore, ad ogni tipo di amore (sponsale, efebico, saffico). Comprendetemi: non si tratta in questa sede di dare un giudizio morale su cui qui non voglio entrare, ma anzitutto di rilevare una scorrettezza di metodo, esegetica. Benigni doveva qui dire, necessariamente che il Cantico dei cantici narra la storia di un fidanzato e di una fidanzata innamorati: per onestà, come per onestà io debbo dire che dal balcone di Verona si affacciava una Giulietta che spasimava per il suo Romeo (e non posso parlare di due Giuliette o di due Romeo). Punto. 
Che se poi voleva cogliere l’occasione per parlare l’amore omoerotico tra maschi (non mi risultano seguaci della poetessa di Lesbo nella Bibbia) poteva citare la storia di Davide e Gionata (perché nella Bibbia c’è pure questo e nessuno ha mai avuto timore di ammetterlo) ma non il Cantico. E ripeto, qui la morale non c’entra (né tanto meno, per favore, si tirino in ballo omofobia e simili), ma solo il dato oggettivo di quello che è il racconto, la trama del Cantico dei cantici.
Certo, Benigni fa furbescamente il suo mestiere e strizza l’occhio ai suoi ascoltatori, ma quello che mi preoccupa è come sia facile abbindolare le persone sfruttando la loro ignoranza e giocando sui sentimenti e oscurando l’intelligenza (ma come anche facilmente la gente si lascia abbindolare). Questo è pericoloso. Non solo per la fede. Ma anche per la democrazia e il dialogo che si basano sul rispetto della persona e l’onesta intellettuale per rigettare con forza ogni tipo di manipolazione. Per questo temo questi applausi a scena aperta, ma anche il silenzio di chi dovrebbe parlare eppure tace, atei o cristiani o ebrei che siano.
(Fonte: Ignazio La China, Tempi, 9 febbraio 2020)
https://www.tempi.it/benigni-il-furbetto-che-sfrutta-lignoranza-della-gente/


3. Benigni a Sanremo: l’endorsement dei cattolici e una precisazione sull’eternità
Sanremo è Sanremo e Benigni è Benigni. Il suo lungo monologo sul palco dell’Ariston dedicato al Cantico dei Cantici, ha suscitato numerose polemiche a causa della personale rilettura e travisamento del testo sacro. Gli osservatori più acuti (come ad esempio Diego Fusaro e Tommaso Scandroglio su La Nuova Bussola Quotidiana) hanno visto nella desacralizzazione e nella derisione del cristianesimo una delle peculiarità di questa settantesima edizione del Festival. Dal siparietto iniziale di Fiorello travestito da prete che invita gli spettatori a scambiarsi un segno di pace, a Lauro che emula san Francesco, dal “Non sia fatta la tua volontà” di Tiziano Ferro a Zucchero che insegna che “Solo una sana e consapevole libidine salva il giovane dallo stress e dall’azione cattolica”. Per finire col bacio tra Fiorello e Ferro, seguito dalle pubbliche scuse al legittimo marito (sic!) del secondo.
Un attacco al sacro e alla trascendenza che è la cifra dell’intervento di Benigni che spoglia il Cantico dei Cantici di ogni riferimento a Dio e all’anima per convertirlo in un manifesto sessantottino di elogio dell’amore (omo)sessuale, novello Decameron boccaccesco. Una imbarazzante performance che tradisce le intenzioni di un comico di fama internazionale.
Tra le tante voci che si sono elevate in ambito cattolico contro questa vergognosa desacralizzazione della Parola di Dio, sorprende leggere alcuni endorsement d’eccellenza. In effetti che a qualcuno il Cantico di Benigni è piaciuto assai. È piaciuto ad esempio a uno studioso che ha collaborato col comico nella stesura del monologo: si tratta, niente meno, che del Presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura, biblista di fama internazionale e prolifico scrittore, il cardinale Gianfranco Ravasi che con orgoglio ha pubblicato su Twitter il ringraziamento di Benigni alla sua persona per i buoni consigli sul testo. Non si riesce a comprendere come si possa essere orgogliosi per aver contribuito a un tale indecente spettacolo, tra l’altro pieno di inesattezze dal punto di vista storico, biblico e interpretativo.
Un secondo incredibile applauso a Benigni arriva dalla Associazione Papaboys che non risparmia gli elogi: “Grazie Roberto Benigni. Questo è il tuo omaggio a Giovanni Paolo II che ti ha toccato il cuore”. Non sappiamo che film abbiano visto quelli di Papaboys, ma la cosa lascia a dir poco perplessi. Viene da domandarsi a quale “papa” appartengano questi “boys” che a dicembre hanno esplicitato il loro sostegno alle Sardine in vista delle elezioni regionali in Emilia Romagna (Sartoriboys?). Di certo pensare che Benigni, con il suo monologo, abbia voluto omaggiare Giovanni Paolo II è – ad essere buoni – fuorviante: una storpiatura dello storpiatore.
Un endorsement d’eccellenza nei confronti del Cantico Benigni lo si trova invece sulle colonne di Avvenire dove la biblista Rossanna Virgili afferma che: «L’idea di far conoscere e gustare il Cantico è stata davvero stupenda, appropriata, preziosa per un pubblico tanto vasto e popolare come quello del Sanremo in mondovisione». Un’idea che neanche la “licenza interpretativa” di Benigni può inficiare, nonostante abbia «tradotto, tradendolo, l’amore tra amato e amata in altri amori che sono lontani e fuori dal limpido orizzonte biblico». Noi, al contrario, temiamo che l’idea di Benigni non sia stata proprio così felice, l’idea di proporre la propria personalissima idea del mondo, dell’uomo e della sessualità strumentalizzando a questo fine la Sacra Scrittura e approfittando della propria popolarità per politicizzare il testo sacro. Dispiace che a non notarlo sia una nota biblista sul giornale dei vescovi. Giusto però far notare che sullo stesso giornale l’inviata a Sanremo Lucia Bellaspiga sottolinea con dispiacere la sottomissione di Benigni ai diktat del “politicamente corretto”.
Me per amore di verità e per carità cristiana verso il comico e verso i suoi più attenti ascoltatori vorremmo rispettosamente cercare di rispondere su un punto (tralasciando la questione, già largamente affrontata altrove, riguardante il senso, l’origine e l’interpretazione del Cantico dei Cantici). Benigni ha parlato di eternità, affermando che l’amore (concetto che lui identifica e scambia volentieri col “fare l’amore”) offre agli uomini la possibilità di divenire immortali.
Eternità. Sì Benigni, lei ha ragione, nel cuore dell’uomo c’è un profondo anelito, il desiderio di eternità. Nessuno vuole che i propri giorni finiscano; la paura della morte ci stringe, ci lega, al punto che spesso darci alla “pazza gioia” ci sembra una via percorribile per raggiungere l’illusione di allontanare la fine. Anche il sesso è una scappatoia, ci offre l’illusione dell’immortalità, per poi abbandonarci alla nostra pensante, ingombrante e caduca umanità dai giorni contati. Il libro della Sapienza ci mostra in maniera plastica questa dolorosa realtà:
Dicono gli empi sragionando: «La nostra vita è breve e triste; non c’è rimedio, quando l’uomo muore, e non si conosce nessuno che liberi dagli inferi. Siamo nati per caso e dopo saremo come se non fossimo stati. La nostra esistenza è il passare di un’ombra e non c’è ritorno alla nostra morte, poiché il sigillo è posto e nessuno torna indietro. […] Su, godiamoci i beni presenti, facciamo uso delle creature con ardore giovanile! Inebriamoci di vino squisito e di profumi, non lasciamoci sfuggire il fiore della primavera, coroniamoci di boccioli di rose prima che avvizziscano; nessuno di noi manchi alla nostra intemperanza. Lasciamo ovunque i segni della nostra gioia perché questo ci spetta, questa è la nostra parte» (Sap 1, 1-2. 6-9).
Così pensano coloro che non conoscono Dio. E cercano in ogni modo di scappare alla paura della morte. Ma – continua la Sapienza – «Dio ha creato l’uomo per l’immortalità; lo fece a immagine della propria natura. Ma la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo; e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono» (Sap. 2, 23-24).
Siamo stati creati per l’immortalità ma viviamo circondati di morte. Solo l’incontro con Cristo, che è Via, Verità e Vita, può restituirci – a noi che viviamo da schiavi – la nostra dignità di Figli di Dio, coeredi di Cristo, destinati al cielo e non al cimitero. Non è dunque la sfrenatezza dei sensi (la chiami pure amore) e l’ebrezza dell’amore libero a donarci l’immortalità.
L’immortalità è un’altra cosa. Come afferma San Paolo nella lettera ai Romani: «liberati dal peccato e fatti servi di Dio, voi raccogliete il frutto che vi porta alla santificazione e come destino avete la vita eterna. Perché il salario del peccato è la morte; ma il dono di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù nostro Signore».
Ecco in cosa consiste l’immortalità. E questi versi del Cantico dei Cantici, che San Tommaso d’Aquino, sollecitato dai suoi compagni, commentò in punto di morte nella Abazia di Fossanova, la descrivono con densità poetica e profondità spirituale: «Ho cercato l’amato del mio cuore… quando lo trovai lo strinsi fortemente e non lo lascerò mai» (Cdc 3,4).

(Fonte: Miguel Cuartero Samperi, Blog, 9 febbraio 2020)
https://www.sabinopaciolla.com/benigni-a-sanremo-lendorsement-dei-cattolici-e-una-precisazione-sulleternita/



venerdì 7 febbraio 2020

Mons. Nicolas Brouwet: “Il celibato dei preti è segno di libertà”


Il cardinale Sarah e il papa emerito Benedetto XVI hanno pubblicato un libro sul celibato sacerdotale, perché oggi questo argomento è così importante?
Due elementi hanno rilanciato la questione del celibato sacerdotale. Il sinodo sull’Amazzonia, da un lato, poiché i padri del sinodo hanno votato una risoluzione favorevole all’ordinazione sacerdotale dei diaconi sposati. La questione dell’abuso sessuale da parte di chierici, dall’altro lato, visto che alcuni sostengono che il matrimonio tra sacerdoti avrebbe potuto prevenire tale abuso. La mancanza di sacerdoti nelle nostre diocesi è anche un argomento ricorrente a favore dell’ordinazione di uomini sposati. Le risposte che circolano spesso riducono il celibato dei sacerdoti a una “disciplina” che si sarebbe imposta nella Chiesa cattolica latina nel Medioevo e che sarebbe tempo di rivedere perché non corrisponderebbe più allo spirito dei tempi. Ecco perché hanno dovuto scrivere questo libro. Sottolineo anche l’interessantissimo libro del cardinale Marc Ouellet, Friends of the Spouse: per una rinnovata visione del celibato sacerdotale.

Come interpreta la volontà di Benedetto XVI di spiegare il celibato sacerdotale ricorrendo all’Antico Testamento?
Ridurre la decisione del celibato dei sacerdoti alla riforma gregoriana o al Concilio Lateranense II nel 1239 è riduttivo. La scelta di prendere i sacerdoti tra gli uomini che hanno ricevuto il carisma del celibato non è una pura decisione legale tardivamente presa. È profondamente radicata nella vita della Chiesa, ma anche nell’Antico Testamento dove appare già la figura del sacerdote consacrato per l’adorazione di Dio. Come spiegato dal Papa Emerito Benedetto XVI, questa consacrazione si tradusse concretamente in una rinuncia al possesso della terra e nell’assenza di relazioni coniugali nel tempo del servizio liturgico a Gerusalemme. “I sacerdoti devono vivere di Dio e solo per Dio” (p. 53). Se il nostro sacerdozio cattolico viene da Cristo, siamo anche eredi della figura del sacerdote della vecchia Alleanza.

Come vescovo, come interpreti il celibato sacerdotale?
È una grande opportunità per la Chiesa. Il sacerdote celibe testimonia la presenza di Cristo che si è donato interamente alla Chiesa, come il marito alla moglie. E per il suo ministero, per la sua disponibilità, per tutto ciò che fa per l’annuncio del Vangelo, per la sua umile fedeltà, comunica alla comunità dei fedeli tutto l’amore, l’attenzione che ha per lei, alla maniera di Gesù. Non ha vicini, non ha altri rifugi, non ha nessuno da proteggere. Tutta la sua vita è offerta in questo ministero. Benedetto XVI sottolinea inoltre più volte che il celibato, per assumere il suo pieno significato, deve essere vissuto in una certa sobrietà di vita, una forma di rinuncia a tutto il conforto materiale a nostra disposizione. A ciò si aggiunge anche la disponibilità alla missione affidata dal vescovo. È un ottimo esame non scegliere la propria missione, ma riceverla ed essere pronti a cambiare, a partire, a muoversi. Il celibato consente di vivere questa libertà e questa disponibilità. Come vescovo, assisto a questa generosità tra i sacerdoti della mia diocesi e tra quelli che conosco. Quanti sacerdoti offrono un volto sereno e gioioso al ministero sacerdotale! E quanto è fruttuosa la loro missione nello Spirito Santo! Vorrei ringraziarli, incoraggiarli e dire loro quanto noi, come vescovi ma anche come padri, fratelli e amici dei nostri sacerdoti, siamo loro grati per la testimonianza che ci offrono. Possano essere veramente benedetti dal Signore!

(Fonte: Odon de Cacqueray, Il timone, 6 febbraio 2020)
http://www.iltimone.org/news-timone/mons-nicolas-brouwet-celibato-dei-preti-segno-liberta/