martedì 30 maggio 2023

IL PROBLEMA DELLA CHIESA? LA LEADERSHIP DEI VECCHI DELUSI

 


Mentre Francesco si reca nei salotti della televisione italiana, all’interno della Chiesa vi sono diversi problemi, i quali sembrano non importare al Papa dell’innovazione.

In questi anni abbiamo sentito numerose persone che hanno lanciato l’allarme: “Non ci sono più vocazioni. I giovani non vogliono seguire Cristo”. Ma è davvero così? Se tentiamo di abbandonare il mantra tipicamente italiano che è volto a demonizzare i giovani, ci renderemmo conto che il problema non è questo. Sì, il risultato è che nei seminari e nei monasteri non ci sono più giovani, ma il motivo non è perché questi non vogliono seguire Cristo.

La Chiesa ha una crisi d’identità 
La società è certamente cambiata e il mondo offre molte possibilità ai giovani ma il Signore non ha mai fatto mancare “operai nella Sua messe”. Anzi, se oggi un giovane sceglie di abbandonare tutto ciò che gli viene proposto e bussare alla porta di un monastero o un seminario, questo dovrebbe far comprendere come questa scelta è ancor più encomiabile. L’errore che la Chiesa compie, da cinquant’anni a questa parte, è quello di guardare con sospetto a chiunque bussa alla propria porta. Il problema è essa stessa che si è convinta di “non essere abbastanza” e, di conseguenza, diviene sempre meno attraente. L’atteggiamento è lo stesso che assumono quelle persone, ferite dalla vita, che non si sentono “degne di essere amate”. “Perchè viene in seminario?”, “Perchè non va altrove?”, “Cosa cerca qui?”, sono le tante domande che abitano la testa di molti preti e di molte suore sessantottini.

Oggi, soprattutto nei luoghi di potere, vi sono dei soggetti che sono vecchi, stantii, piagnucolanti. Queste persone sono convinte di avere un tesoretto da custodire. Pensiamo alla parabola che Gesù racconta in merito ai talenti (Mt 25,14-30). Il comportamento di queste persone è simile a quello del servo che ricevette un solo denaro. Ricevo un monastero con 10 monaci? Lo riconsegno con dieci monaci, se va bene. Ho un seminario con 4 seminaristi? Ne porto all’ordinazione due e gli altri li mando a casa. Poi?

Non c’è lungimiranza, non c’è quel senso di appartenenza, non c’è l’amore del padre di famiglia che lavora per consegnare qualcosa ai suoi figli. Si tratta di uomini e donne che sono entrati in seminario, in convento, durante gli anni fruttuosissimi del Concilio ed hanno ricevuto realtà floride. Quello che hanno ricevuto non sono stati capaci di curarlo, implementarlo. Tutto gli era dovuto, tutto gli è dovuto, ma loro nulla debbono alla Chiesa di Dio. Sono le stesse persone, ormai ridicole, che rilasciano interviste, appaiono in televisione e infangano ogni giorno la Chiesa sostenendo che è una realtà abusante, che tutto è perduto e quant’altro.

 Le vocazioni: un problema non una ricchezza 
 Nella maggior parte di questi casi, ci si imbatte in vescovi, rettori dei seminari o abati che guardano alle vocazioni con sospetto. La porta della Chiesa è aperta a tutti, proprio a tutti, ma per il tempo necessario per poter ballare e cantare insieme. Poi? Poi ognuno a casa propria. Oggi, le vocazioni sono un problema per le comunità. Pensiamo, ad esempio, a quelle comunità piene di uomini “maturi” che ormai non hanno più voglia di far nulla. Durante la ricreazione scappano in camera, per la liturgia delle ore hanno molti impegni pastorali, il capitolo diviene un adempimento burocratico da risolvere in 5 minuti. Ecco, pensiamo ad una realtà del genere. Se un giovane bussasse a quel monastero, sarebbe il panico. Significherebbe dover trovare qualcuno capace di fare il “maestro dei novizi”; significherebbe ristabilire una regola di vita, ormai perduta; significherebbe stravolgere la propria comoda e insignificante vita. In sostanza, oggi, molte comunità hanno paura dei giovani. Ecco, quindi, che il racconto prende un’altra piega. Non è il Signore che non manda vocazioni, siamo noi a non accettarle perché sono uno specchio nel quale non vogliamo guardare.

Il giovane che viene definito “rigido”, infatti, è semplicemente colui che, giungendo alle porte di un seminario, cerca una realtà strutturata. Se arriva e trova persone che cantano, ballano, escono a bere lo spritz e gli unici momenti che passano insieme sono il pranzo e la cena, è chiaro che sbatterà la porta e se ne andrà. La risposta di molti formatori, oggi, però, è quella di demonizzare il giovane e non fare un esame di coscienza. Lo stesso Papa continua a puntare il dito contro coloro che vivono seriamente la loro vita religiosa, la loro vita sacerdotale. Ricevendo i seminari li invita sempre a “ripensare alla loro scelta” o chiede loro: “perché siete qui? Potete andare e trovarvi una ragazza”. Bisogna iniziare a leggere queste affermazioni alla luce della vita, delle esperienze di vita, di coloro che le pronunciano. Forse sono loro stessi che non vivono serenamente la loro scelta e, di conseguenza, la rendono meno appetibile anche agli altri. 

Dove vogliamo andare? 
Se un sacerdote non vive la propria vita di preghiera, se un monastero non segue la propria regola di vita, dobbiamo chiederci: cosa stiamo facendo? Si tratta di una casa di cura, una casa di riposo dove ognuno conduce la propria vita? Si tratta di persone che stanno insieme per poter pagare un inserviente solo?

La Chiesa, la quale avrebbe il compito di riaccendere questo fuoco nel cuore dei suoi membri, è oggi guidata da persone che non hanno addosso la “voglia di vivere”. Oggi sono numerosi i monasteri che vengono commissariati ma per quale motivo? Problemi economici, problemi interni di lotte di potere oppure perché sono “troppo tridentini”. Quella che era uno strumento volto a vagliare lo stato di salute di una comunità, la visita apostolica, è divenuta uno strumento repressivo/ punitivo. Difatti, oggi le visite apostoliche non vengono commissionate perché in un monastero o in un seminario, non si prega, le monache non portano il velo oppure perché la vita fraterna non esiste. Oggi, le realtà vengono commissariate per punire, non per curare. Ci sono monasteri che non vivono affatto la loro regola ma se non creano problemi e a Roma non schiacciano i piedi, possono continuare in questo modo senza alcun problema. Nessuno se ne preoccupa, anzi. Se un monastero segue la propria regola, allora si interviene perché sono rigidi. Questi uomini e queste donne, che si sono formati alla scuola di un Concilio che non è mai stato celebrato, oggi sarebbero in grado di etichettare come “rigidi” anche san Benedetto o san Bruno.

Se in una comunità discutono fra loro, allora si interviene a gamba tesa. Ma quando mai ci sono stati monasteri, comunità, nei quali non si è discusso? Il problema è che oggi qualcuno ha fatto credere che la soluzione è rivolgersi a Roma, così l’abate o il superiore non contano più nulla. Ciò che importa, infatti, è avere le giuste amicizie oltre Tevere.

Oggi sono sufficienti due o tre monaci che si rivolgono a Roma sparlando del proprio abate per farlo dimettere. Se si indaga un po’, poi, si viene a scoprire che quei monaci erano stati richiamati perché non vivevano fedelmente la loro regola. È sufficiente che vi sia qualche laico incattivito contro l’abate, per farlo spedire in un altro Paese e far commissariare tutta la sua comunità. Scavando un po’, però, si scoprirà che quei laici avevano sete di denaro e di potere.

Sono numerose le comunità che oggi si trovano in queste situazioni spiacevoli e non vi è alcuna via d’uscita se non un chiaro cambiamento. Anche quelle comunità che hanno giovani sacerdoti alla loro guida rischiano di non portare alcun frutto perché vi è sempre qualche zavorra che funziona da àncora. Perché il problema di questa generazione di vecchi è anche che non ammettono di aver fallito. Se c’è il giovane rettore del seminario che ha il seminario pieno, beh “chissà che cosa ci sarà dietro”. Se l’abate di un monastero ha il noviziato pieno, beh “quell’abate avrà sicuramente qualche scheletro nell’armadio”.

E così, a forza di gelosie e invidie, la Chiesa continua a restare sotto scacco di uomini e donne repressi perché le loro ambizioni sono svanite nel nulla e, quindi, la Chiesa di Cristo deve terminare con la loro insignificante vita. Fra un tweet ed un post di Facebook, questi boomers, stanno demotivando anche chi ha ottime capacità e aspettative.

 

“Silere non possum”, 28 maggio 2023
https://silerenonpossum.it/il-problema-della-chiesa-la-leadership-dei-vecchi-delusi/

 

PECCATO O FRAGILITÀ? LA RIVOLUZIONE LINGUISTICA NELLA CHIESA


“Peccato”, termine ormai in panchina, evoca un plesso dottrinale di principi, nonché un’offesa a Dio, quindi rimanda ad un piano trascendente. “Fragilità” invece abbassa la temperatura morale rispetto al concetto di “peccato”. E così vale per dottrina/pastorale, Creato/ambiente, Giustizia/misericordia. Viaggio nella rivoluzione linguistica della Chiesa. 

Ogni rivoluzione porta con sé anche una rivoluzione linguistica perché cancellare una certa realtà per sostituirla con una nuova comporta, in parallelo, cancellare tutti quei termini che definiscono la realtà presente per far posto ad un nuovo vocabolario capace di descrivere il mondo nuovo che, per definizione, è sempre migliore di quello vecchio. Anche le rivoluzioni in casa cattolica che investono fede e morale non sfuggono a questa regola lessicale. Qualche esempio.

Prendiamo innanzitutto la parola “peccato” che ha subìto un severo ostracismo a favore del termine “fragilità”.  “Peccato”, termine ormai in panchina, evoca un plesso dottrinale di principi, nonché un’offesa a Dio, quindi rimanda ad un piano trascendente, una volontarietà espressa dalla persona e dunque una sua responsabilità. Ne consegue che, nell’immaginario collettivo, associato a “peccato” abbiamo concetti come comandamento, errore, ingiustizia, colpa, riparazione, pena. “Fragilità” abbassa la temperatura morale rispetto al concetto di “peccato”. Infatti tale lemma fa più riferimento all’essere –. “E’ persona fragile” – che all’azione, alle condotte. Ma la morale riguarda soprattutto l’agire e dunque le regole di comportamento. Ne consegue che la fragilità è abile a liberarsi dalle strettoie della morale.

E poi la fragilità, sempre nella coscienza collettiva e sotto la prospettiva psicologica, può essere connaturata alla persona, dunque inevitabile e quindi priva di colpa. Inoltre – ed ora invece ci muoviamo sotto il profilo teologico – questo termine pare evocare, in senso protestante, quella condizione di intrinseca e irricuperabile debolezza della nostra natura umana ferita dal peccato originale. Ma anche in questo caso la fragilità è insopprimibile, non debellabile. Dunque non può suscitare nessuna condanna e, all’opposto, muove subito alla giustificazione della stessa e perciò alla solidarietà.

Va da sé poi che il concetto di fragilità esclude dal proprio orizzonte Dio, perché la fragilità non offende nessuno, tantomeno il Creatore, il quale entrerà in gioco semmai per sanare il fragile nella confessione, luogo che è diventato solo un’infermeria e non anche un tribunale dove ammettere le proprie colpe. La fragilità invece elimina questo aspetto e presenta il peccatore solo come un ferito che è tale senza sua colpa. Doveroso dunque assassinare il peccato per legittima difesa del quieto vivere.

Un altro termine che è andato in pensione è “dottrina”. Al suo posto troviamo “pastorale”. Non esiste più un plesso di norme e principi di fede e morale che guida il credente nella prassi, che dovrebbe essere declinato dai pastori nell’azione evangelizzatrice. Questo rapporto gerarchico in cui la dottrina è al vertice e la pastorale è alla base è stato invertito.. Anzi, ad essere più corretti, potremmo dire che la pastorale coincide con la dottrina. E’ il contingente, il particolare che rivela la norma altrettanto contingente e particolare. Non c’è posto per la dottrina in questa idea di Chiesa, ma solo per un ponderoso manuale delle esperienze. Regole universali non esistono più: è la casistica a dettar legge. Le uniche regole universali sono principi generalissimi, buoni per tutte le stagioni, che con millanteria vengono desunti da un volutamente imprecisato spirito del Vangelo: l’apertura agli altri in specie agli ultimi, meglio se poveri; il dialogo; la non discriminazione, l’inclusività; il rispetto dell’ambiente; la solidarietà; etc.

Fermiamoci proprio sul sostantivo “ambiente” che ha mandato in soffitta “creato”. Segno, ancora una volta, che il braccio orizzontale della croce, orizzontale come la terra, deve vincere su quello verticale, che indica il Cielo. Dunque deve prevalere un visione immanentistica e non trascendente perché l’ambiente non ha bisogno di Dio per esistere, invece il creato sì. C’è da aggiungere che l’ambiente, in seno ad un ambiente religioso, diventa presto culto, seppur mascherato, di Gea, dea della Terra. La gerarchia dell’ordine naturale voluto da Dio viene rivoluzionato e così la persona diventa solo un animale umano, ma sempre animale è, il quale è subordinato, per conquistarsi il Cielo, ad onorare la Terra, ossia piante, animali e pure ghiacciai.

Colpita da oblio anche la parola “giustizia”, che è stata licenziata dal vocabolario cattolico a favore del termine “misericordia”. O meglio, il termine “giustizia” trova ancora una sua dignità solo se declinata come “giustizia sociale”, ossia solo se spesa in riferimento ai poveri, agli emarginati, ai malati, agli immigrati, etc. Ma quando spiccheremo il volo verso il Cielo, la giustizia rimarrà a terra e nell’Aldilà ci troveremo faccia a faccia solo con una misericordia divina che, nelle intenzioni di alcuni teologi, è così generosa che non guarda in faccia a nessuno e a niente, nemmeno ai peccati. E dunque dopo la fiducia cieca in Dio, ora dobbiamo predicare anche una misericordia cieca, cieca di fronte a meriti e a demeriti. Riguardo a questi ultimi, regnerà sovrana la forza del perdono che, dopo così tante e insistenti operazioni di chirurgia plastica teologica, sarà irriconoscibile tanto che verrà chiamato “condono”.   

Sbianchettata anche la parola “gerarchia” perché il nuovo che avanza si chiama sinodo (che tanto nuovo non è). Il camminare insieme senza meta, inseguendo con tenacia come unico scopo lo stesso camminare insieme, è il sinodo, l’inedito organo di governo della Chiesa che, privo idealmente di gerarchia, produce una marcia dei fedeli inevitabilmente in ordine sparso. Il caso tedesco è in tal senso paradigmatico. In realtà è tutta una voluta finzione: storicamente chi ha sempre parlato di collegialità, di democrazia,  di condivisione, lo ha fatto perché strumentalmente utile al proprio autoritarismo. Dietro lo scudo della sinodalità si nascondono i soliti quattro che non vogliono mollare il potere. La massa è facilmente pilotabile, soprattutto se nella dinamica sinodale si fa partecipe solo chi la pensa come chi sta nella stanza dei bottoni: il consenso viene costruito ad arte e così irrobustisce la forza di pochi. Se poi il popolo di Dio non si orienta come vogliono lor signori i controllori, basterà non ascoltarlo. Questo processo che vede la sinodalità usata surrettiziamente per consolidare il potere è antitetico al principio gerarchico, così come inteso in senso cattolico. Sia perché la gerarchia non prevede l’annientamento dei poteri intermedi a favore del potere di uno solo, sia perché la gerarchia cattolica significa servizio, sia perché la gerarchia degli uomini di Chiesa è sempre subordinata alla gerarchia celeste e dunque alla verità.

Un’ultima coppia di lemmi, tra gli infiniti che si possono citare: fede e dubbio. La fede è stata rottamata perché nel Catechismo della Chiesa Cattolica si legge la seguente "bestemmia": “la fede è certa, più certa di ogni conoscenza umana, perché si fonda sulla Parola stessa di Dio, il quale non può mentire” (n. 157. Notare il corsivo, che non è nostro). Oggi invece viene insegnata la fede nel dubbio: non risposte ma domande, non punti esclamativi ma interrogativi, non luce ma oscurità. Dio non si è rivelato, ma lo possiamo vedere solo dal buco della serratura della nostra personalissima coscienza e si muove pure in una stanza immersa nel buio. La verità appare rigida, non malleabile, così scomoda perché non ergonomica per le delicate anime dei contemporanei tanto versate al compromesso. Ecco allora il dialogo fine a se stesso, la celebrazione delle crisi di fede, la dottrina liquida, anzi gassosa, la priorità dei processi sul risultato, del cammino sulla meta, della ricerca sugli esiti. L’unica liturgia ammessa è quella che celebra l’ambiguo – e ci stupiamo della benedizione ecclesiale dell’omosessualità? – a danno dell’inequivocabile, che incensa il problema e non la soluzione, il relativo e non l’assoluto, come gli assoluti morali. Questa è l’unica certezza da coltivare: che non si hanno più certezze.

  

Fonte: Tommaso Scandroglio, LNBQ, 29 maggio 2023 
https://lanuovabq.it/it/peccato-o-fragilita-la-rivoluzione-linguistica-nella-chiesa