mercoledì 28 dicembre 2011

Rassegna stampa di fine anno: alcune cosette da puntualizzare

«Non abbiate paura!». La celebre esortazione di Giovanni Paolo II nell’omelia per l’inizio del suo pontificato, nel 1978, è stata ripetuta in piazza San Pietro da Benedetto XVI, anch’egli nel giorno di quella che si chiamava un tempo “incoronazione”.
Sfoglio il magazine di Repubblica e mi viene in mente che tanti credenti dovrebbero liberarsi anche da paure del tutto infondate: ad esempio, quella per una cultura anticristiana che, con la sua critica corrosiva, metterebbe in crisi la fede. Ci penso, vedendo su quel giornale la rubrica di dialogo con i lettori dell’ultraottuagenario Eugenio Scalfari, per decenni direttore de l’Espresso e poi di Repubblica, di cui è stato fondatore. I due media, cioè, che hanno rappresentato il punto di raccolta e la cassa di risonanza del laicismo e dell’anticlericalismo italiani. Scalfari, da anni si atteggia anche a filosofo, talvolta addirittura a teologo: in questa veste ha scritto pure qualche libro, oltre ad innumerevoli articoli. Un leader insomma del pensiero diciamo a-cristiano. Ebbene, sul settimanale di Repubblica, un lettore gli scrive: «Credo che ogni uomo senta nell’intimo la propensione verso una forma di spiritualità.
È, questo sentire, una componente essenziale della natura umana?».
Sorriso di compatimento un po’ ironico di Scalfari che, testuale, risponde: «La differenza tra credenti e non credenti sta in questo punto fondamentale. I primi si affidano alla rivelazione della loro fede e non vedono quale è la spinta della natura che li porta ad immaginare il cosiddetto “aldilà”. I non credenti, invece, analizzano i moti della propria mente e della propria natura e ne traggono le razionali conseguenze». Punto e basta. In otto righe di giornale, il Professore ha liquidato il Problema, quello con la maiuscola, quello che ha impegnato, impegna e impegnerà le menti migliori. Una semplice “analisi” di se stessi, la deduzione di “razionali conseguenze” ed ecco fatto: ogni religione è un’illusione, nessun “aldilà” esiste.
E voi, voi vorreste “avere paura” di simili critiche alla fede? Voi continuate a temere che simili “pensatori” possano mettere in crisi la prospettiva religiosa in generale e cristiana in particolare? Cose del genere, invece che inquietudine, dovrebbero generare compassione. Per i più cattivi, ilarità.

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La melassa buonista di certo cattolicesimo continua, purtroppo, a colpire. E a fare danni. Vedo nella rubrica tenuta da una giornalista e scrittrice ben nota nel mondo ecclesiale la solita tirata moralistica contro la “indifferenza”, la mancanza di “solidarietà” che contrassegnerebbe la “società opulenta” dell’Occidente. E questo, perché? Ma perché la pubblicista in questione, in un vagone della metropolitana di Milano, ha visto aggirarsi invano un “povero ragazzino” con un cartello al collo che, in un italiano approssimativo, elencava le miserie sue e della sua famiglia. Eppure, nessuno ha fatto cadere neanche un cent nella scatola di plastica che il piccolo sventurato tendeva.
Da rallegrarsene, signora mia, altro che da rammaricarsene! Come ogni persona di buon senso, mi faccio un dovere di non dare nulla a nessuno degli accattoni che hanno invaso i nostri marciapiedi o che si aggirano ai semafori. Il rifiuto di questo tipo di elemosine è ormai da tempo un obbligo sociale. In effetti, come tutti dovrebbero sapere, dietro ad ogni mendicante ci sono organizzazioni, spesso criminali, che schiavizzano donne, bambini, sciancati (veri o finti) come strumenti per muovere a compassione gli ingenui e raccogliere grandi fondi. Nei Balcani e, in genere, nell’Europa Orientale, ci sono addirittura medici criminali che provvedono ad amputare ai bambini un braccio o una gamba: un piccolo invalido è una miniera d’oro e, anche quando sarà divenuto adulto, mostrando il moncherino raccoglierà molte più offerte. Fateci caso: vedrete sempre mozzato l’arto sinistro, così da permettere all’amputato di utilizzare il braccio o la gamba destra. A meno che, ovviamente, non sia mancino.
Ha tagliato la gamba sinistra anche lo slavo che è ormai una presenza fissa sulle strade e piazze della città dove abito e che se ne sta appoggiato alla sua stampella (grossolana, fatta in casa, per accrescere l’impressione di miseria) fumando di continuo sigarette americane, mentre un cartello davanti alla scatola per le offerte annuncia «Ho fame». È quello stesso che, alla sera, vedo spesso mentre consegna l’importo della giornata a un “signore” con giacca e cravatta. Allo storpio, il minimo per sopravvivere, all’uomo elegante il grosso del malloppo. Ma, allora: niente elemosine, niente guadagni ai tanti “signori” come quello. Ci vuole tanto a capirlo?
Che ce ne facciamo di un cattolicesimo che, nel suo moralismo sentimentale, pubblica sui suoi giornali lagne come quella della rubricista che dicevo? La carità cristiana è una cosa seria, la nobiltà dell’elemosina non va impiegata per aumentare, ma per alleviare il male del mondo.
E questo, mi fa venire in mente una delle notizie recenti che più mi hanno divertito, pensando allo sconcerto dei buonisti. Periferia di Torino, uno dei tanti campi nomadi allestiti – a spese, ovviamente, di ogni contribuente – da un Comune che, avendo al governo da trent’anni le sinistre, ha assessorati e uffici che pullulano di predicatori di “solidarietà”, di “attenzione agli emarginati”, di “rifiuto dell’indifferenza” . Avendo, è chiaro, molti preti dalla loro. Comunque sia, in un paio delle baracche – quasi civettuole villette, quando furono consegnate agli zingari, pardon, ai rom, e subito ridotte a tuguri verminosi – l’inverno scorso scoppia un incendio.
Immediato intervento dei vigili del fuoco i quali, spente le fiamme, scoprono che, mentre loro faticavano e rischiavano, le saracinesche delle autopompe sono state scardinate e tutto ciò che era asportabile è stato rubato. Inutili le richieste di restituire il maltolto.
Alla fine, i pompieri chiamano la polizia che, tra gli scherni e le risate dei nomadi, deve frugare per ore per trovare finalmente i gruppi elettrogeni, le motoseghe, le bombole di ossigeno, le asce e quant’altro era stato rubato. Dopo ore, il congedo di vigili del fuoco e poliziotti, ringraziati da pernacchie, gestacci, minacce, insulti. Nessuna denuncia, è ovvio: a che servirebbe?
Il più che comprensibile “disagio degli ultimi”, direbbe qualche frate impegnato, magari anche sociologo, che inviterebbe ad “andare a monte, alle fonti dell’emarginazione” A me, invece, piacerebbe sentire il commento di quei cristiani veri, senza retoriche e senza illusioni (e proprio per questo così benefici) che furono i grandi santi sociali proprio in quella Torino dove l’episodio si è svolto.
Penso tra tutti, a quel realista pragmatico, a quell’ ex-ufficiale di Stato Maggiore che era il “mio” beato Francesco Faà di Bruno, il quale ai bisognosi veri spalancava le porte dei suoi rifugi, dando loro tutto ciò che poteva ed aveva. Se il beneficato cadeva in qualche mancanza grave, veniva ammonito. Ma se ne combinava un’altra, le porte si aprivano per farlo uscire e si richiudevano alle sue spalle, per non aprirsi più. Regole non dissimili valevano per don Bosco, a Valdocco. Spietati? Al contrario, credenti veri, dunque rispettosi della verità, della giustizia, della serietà del Vangelo.


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A proposito di Dio e della Sua esistenza. Trovo un ritaglio di giornale dopo la morte di un attore italiano famoso ed amato, Nino Manfredi. Si dichiarava ateo e cercava di spiegarsi, con la sua sintassi romanesca: «Se un Creatore c’era, il mondo non lo faceva girare così».
Buona, mi sembra, la replica di un settimanale religioso: «Caro Nino, se Dio non ci fosse, il mondo che gira così sarebbe regolare, avrebbe tutte le ragioni, perché sarebbe l’unica realtà e nessuno potrebbe lamentarsene. E, invece, tu senti che non è “regolare”.
Che cosa te lo fa sentire? Non sarà proprio Dio in noi, cioè un criterio di verità, un punto d’appoggio esterno della leva con la quale giudichiamo “non regolare”, non troppo buono il girare così del mondo? Dio, non sarà proprio questo bisogno che avvertiamo in noi, ma che non viene da noi?».


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Un lettore mi rimanda ad un articolo apparso su Il Messaggero di Roma del 30 ottobre 1973 (!). È la cronaca di un congresso internazionale di scienziati svoltosi a Chamonix, e che aveva per tema “l’avanzata inarrestabile dei ghiacciai alpini”. Scriveva quel giornale, facendo eco alle preoccupazioni dei convegnisti: «Il ghiaccio aumenta in modo spaventoso: quello del Monte Bianco è avanzato in pochi anni di mezzo chilometro. La banchisa polare sta per raggiungere le coste dell’Islanda. La temperatura media dell’Europa del Nord si è abbassata di due gradi in cento anni». Per quei prestigiosi scienziati non c’erano dubbi: l’espansione dei ghiacciai era dovuta principalmente all’inquinamento atmosferico che, formando una barriera alle radiazioni del Sole, ne tratteneva sempre più il calore. Dunque, diceva il drammatico appello finale: «Se si continuerà con l’attuale ritmo di sviluppo, dietro l’angolo c’è una nuova era glaciale».
Non occorrono commenti per chi segue, anche solo distrattamente, i media di oggi. Questi, da anni, danno la cronaca di altri convegni, cui partecipano magari gli stessi scienziati del ’73. La tesi sostenuta ora è esattamente il contrario: la temperatura aumenta di continuo, i ghiacciai arretrano, la desertificazione minaccia l’Europa, nei Paesi a clima temperato si va verso un regime tropicale.
La causa? Ma è evidente: l’inquinamento atmosferico dovuto all’attività dell’uomo che distrugge le protezioni atmosferiche e ci fa piovere addosso i raggi ardenti del sole senza più filtri.
Ci sarebbe da ridere e da confermarsi nel giudizio di Karl von Clausewitz, il celebre teorico prussiano di strategia, che già ai suoi tempi (i primi decenni dell’Ottocento) ammoniva che chi vuol perdere le guerre deve fare un paio di cose: 1° impegnarsi contemporaneamente su due fronti; 2° ascoltare e, peggio, prendere sul serio i pareri e i consigli degli “esperti”.
In realtà, non c’è da ridere ma da preoccuparsi. Innanzitutto, su un piano sociale, perché le scelte dei governi sono fatte sempre più spesso sotto la pressioni degli ecologisti che, in molti Paesi, sono al governo. Ma, poi, non c’è da dimenticare anche il piano religioso. È noto che molti vedovi del catto-comunismo sono passati dal rosso al verde, dalla rivoluzione all’ambientalismo. Caso esemplare, quello di Leonardo Boff, il leader della teologia della liberazione che vive ora in una bella fattoria non lontano da Rio de Janeiro con una donna che ha molti figli (pare da un matrimonio precedente) e che si è convertito a una sorta di panteismo verde, il culto che ha al suo centro Gaia, il mitico nome della Terra. Ma anche nel cristianesimo “moderato”, l’ambientalismo è centrale, spesso ossessivo. Il movimento ecumenico, ad esempio, da anni propone uno slogan che dovrebbe diventare la sintesi della fede: «Pace, giustizia, salvaguardia del Creato». Dunque, ecologismo Ma che ci combineranno questi credenti negli dèi verdi, se i contenuti della nuova fede sono attendibili come la questione del clima (si raffredda o si riscalda?) o come molte altre questioni sulle quali l’ambientalismo è passato da un dogma a quello opposto?


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In uno dei suoi ultimi interventi come cardinale, Joseph Ratzinger ha denunciato quello che ha definito «uno strano odio che l’Occidente prova per sé». Il masochismo, la diffamazione della propria storia, il dichiararsi colpevole di ogni male sembra caratterizzare l’Europa e almeno una certa intellighenzia degli Stati Uniti.
È un atteggiamento di colpevolezza che spunta anche là dove, per una persona normale, sarebbe imprevedibile. Ad esempio, a proposito dello “tsunami”, l’onda assassina che ha devastato le coste di alcune zone dell’Asia come conseguenza di un grande terremoto sottomarino. Su alcuni giornali europei ed americani sono apparsi interventi di alcuni “esperti” (ancora loro!) secondo i quali sulla coscienza dell’Occidente gravano anche le decine di migliaia di morti di quel fenomeno naturale. E perché? Ma è evidente, secondo quei signori. Gli occidentali, cioè, dispongono della maggiore rete di rilevamento dei terremoti che avvengono su tutta la Terra. Rilevato il sisma in Asia, dovevano allertare immediatamente i gestori di telefonia mobile dei loro Paesi che, essendo in grado di localizzare in ogni momento la posizione degli abbonati, avrebbero dovuto inviare messaggi perché i turisti si mettessero in salvo e avvertissero le popolazioni locali. Insomma, anche le conseguenze mortifere dello tsunami sono colpa dei cattivi occidentali, di europei ed americani (aggiungendovi gli australiani) che, nel loro egoismo, non hanno fatto nulla. Ratzinger ha ragione: questa autoflagellazione è davvero “strana”.


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Per chi è affascinato dalle coincidenze di date. Già ricordai, una volta, che la bandiera d’Europa con le sue dodici stelle in campo azzurro è ispirata direttamente alla Medaglia Miracolosa rivelata a santa Caterina Labouré, nelle apparizioni del 1830 a Parigi. E ricordai che, senza che i politici se ne rendessero conto, quel vessillo occultamente mariano fu approvato ufficialmente e sventolò per la prima volta un 8 dicembre, Festa della Immacolata. Adesso, alcuni richiamano la mia attenzione sul fatto che la cosiddetta “Costituzione d’Europa” è stata firmata con una solenne cerimonia in Campidoglio il 29 ottobre del 2004, cioè in un giorno che richiama un evento accaduto 1692 anni prima e che ha anch’esso per scenario il Campidoglio.
In effetti, il 28 ottobre del 312, nella strettoia tra la via Flaminia e il Tevere, l’esercito di Costantino sconfisse in un’aspra battaglia quello di Massenzio. Il sangue scorso fu tanto che da allora il luogo fu detto Saxa Rubra, le rocce rosse. Costantino aveva dato alle sue truppe i gonfaloni con il monogramma del Cristo. Quelle stesse insegne salirono il giorno dopo, dunque il 29 di ottobre, sul colle del Campidoglio dove l’imperatore – il primo tra quelli cristiani – celebrò il suo trionfo. Cominciava da allora l’era nuova per i discepoli del vangelo.

Gli eurocrati del 2004 non se ne sono accorti: ma quella Costituzione che hanno voluto senza il richiamo alle “radici cristiane” del Continente (una delle ultime amarezze per Giovanni Paolo II) è stata firmata lo stesso giorno e nello stesso luogo dell’inizio della vittoria cristiana sulle persecuzioni pagane.

(Fonte: Vittorio Messori, Il Timone, n. 44, Anno VII, pag. 64)


Provocazioni natalizie: preti politicizzati e cristiani buddisti

Per Natale propongo due brevi riflessioni, rubate a due amici. Il primo è un sacerdote, di quelli che non chiudono gli occhi dinnanzi alla attuale crisi della chiesa. Notava, il don in questione, un fatto storico significativo. Alla nascita di Gesù, i pastori, uomini di fatica, semplici, senza cultura, si mettono alla ricerca del Bambino, sinché, trovatolo, gli cadono ginocchioni davanti, e lo adorano.
Gli uomini della Sinagoga, invece, i dotti, i sapienti, i sacerdoti, non si muovono da Gerusalemme. Loro, che conoscono le profezie, che hanno studiato le scritture (“E tu Betlemme…”), dovrebbero essere in attesa; dovrebbero aver compreso, più di altri, che è giunto il tempo. Invece non si muovono. Quei sacerdoti sono il simbolo della fede che diventa abitudine, mestiere, gestione burocratica, e che ha perso ogni entusiasmo, ogni slancio soprannaturale.
Un rischio di tutti i cattolici, e del clero in particolare: chi sta sempre con le cose sacre rischia talora di non percepirne più la santità, la grandezza, di vivere la propria vocazione come un mestiere qualsiasi. Qui viene alla mente un pensiero: quanti increduli, oggi, a causa dei pastori negligenti, sonnolenti, la cui stessa vita denuncia una scarsa tensione verso la verità e il bene? Il comando di Gesù (“cercate il regno di Dio, tutto il resto vi verrà dato in sovrappiù”) viene spesso capovolto: si dimentica la prima parte del comando, e ci si dedica, anima e corpo, al sovrappiù (se non, addirittura, al regno di quaggiù).
Cattolici che parlano solo di politica e che credono più al loro partito che al magistero della chiesa; che fidano più nel loro leader politico o nel loro quotidiano di riferimento, che nelle verità rivelate; fedeli e sacerdoti che credono di poter lottare per la giustizia sociale, o per qualche altro valore terreno, indipendentemente dalla ricerca, appunto, del regno di Dio.
Uomini di chiesa che cercano con scarsa dignità il favore dei potenti; che ragionano come politici, attenti al qui ed ora, alla vita tranquilla, a non turbare nessuno, frenati dal rispetto umano, dal rispetto delle convenzioni, incapaci di liberarsi dalla gabbia della mentalità e del linguaggio del mondo. Uomini di chiesa, non tutti certo, ma non pochi, che sembrano sempre più burocrati del culto, tecnici della religione, più che, come dovrebbero essere, uomini santi di Dio; che, forse, se Gesù nascesse un’altra volta, la darebbero buca per una cena con Ferruccio de Bortoli, per un convegno in una sala comunale o per un referendum sulle tubature dell’acqua.
Lasciando fare, a Erode, ieri come oggi, il suo maledetto lavoro (ogni riferimento alla assoluta volontà di non combattere lo sterminio degli innocenti odierno è del tutto voluto). La seconda riflessione è di un amico professore universitario, buon lettore di testi buddisti. Notava, questo amico, che senza Gesù Cristo non ci resterebbe che farci, tutti, seguaci del Budda. Perché? Perché se Dio non fosse venuto sulla terra; se non avesse conficcato la sua croce in mezzo alla storia degli uomini; se non avesse trasformato la carne mortale e peritura in uno strumento di salvezza; se l’eternità non fosse scesa nel tempo, a dare al tempo un significato di eternità, tutta la nostra esistenza, preludio rumoroso al nulla nirvanico, non avrebbe valore.
Cos’è, infatti, questa “vita mortal che in una o due brevi e notturne ore trapassa”, se non c’è un Dio che la redime e che la rende immensamente preziosa? Pensiamoci: tutto finisce in un lampo, tutto svanisce come il fumo che si innalza verso il cielo. All’uomo, senza una prospettiva di salvezza ultraterrena, non resterebbe che liberarsi da questa scena irredenta, astraendosi dalla realtà sfuggendola, disprezzandola, additandola come “illusione”.
Tutta un’altra storia Invece Cristo si è fatto uomo: “Et Verbum caro factum est, et habitavit in nobis”. Così ha reso significativo ogni atto della nostra vita terrena. Non più illusione, ma trait d’union tra la vita e la Vita. Il cristianesimo ha insegnato la grandezza del lavoro, la libertà degli uomini, le opere di carità spirituali e corporali. Ha messo in moto il mondo, generando scuole, università, ospedali e scienza proprio perché ha insegnato all’uomo che la sua vita ha valore. Nonostante tutto.
Se Cristo non fosse, invece, avrebbe ragione Budda, a starsene lì, seduto, con gli occhi persi in un altrove che non esiste. Fuori, nella realtà, potremmo vedere quasi solo il dolore, la noia, l’ingiustizia, il male, il vuoto, magari pure un fratello che muore, ma uno in più, o uno in meno, che cambia? Che cambia, se il dolore rimane, senza croce di Cristo e Resurrezione, senza senso? Con Cristo che si fa fanciullo, col Creatore che si fa creatura e figlio di creatura, cielo e terra si incontrano; l’aldiquà viene vivificato dall’aldilà; il tempo dall’eternità. E’ tutta un’altra storia.

(Fonte: Francesco Agnoli, Corrispondenza Romana, 22 dicembre 2011)


Il poster blasfemo sfregiato dai cattolici

Il reverendo anglicano Glynn Cardy, di Auckland (Nuova Zelanda) deve aver frequentato la scuola del nostro Oliviero Toscani, il fotografo che ha inventato i poster «che fanno discutere». Dice il Corsera.it del 20 dicembre 2011 che ci aveva già provato due anni fa, appendendo in bella vista fuori della sua chiesa un’immagine di San Giuseppe a letto con Maria e la scritta «Povero Giuseppe, è duro seguire Dio». Visto che la «provocazione» non aveva sortito alcun aumento dei frequentatori della sua chiesa, ora ci ha riprovato con un poster in cui la Madonna legge il test di gravidanza e scopre con stupore di essere incinta (foto).
Ma sono arrivati i cattolici tradizionalisti e l’hanno strappato. L’autore materiale del gesto ha dichiarato che lo farà di nuovo, se il reverendo oserà riprovarci. Poi, correttamente, il gruppo (ben cento persone) si è inginocchiato davanti alla chiesa di Cardy e ha intonato preghiere di riparazione. A seguire, il solito copione: distinguo e presa di distanze dall’insano gesto da parte dei cattolici neozelandesi non tradizionalisti, rammarico del reverendo anglicano che, poverino, non sa più cosa inventare per tamponare l’emorragia di fedeli, silenzio dei vescovi. Tutto déjà vu. Il portavoce degli iconoclasti ha detto che la chiesa del reverendo Cardy, St. Matthew's in the City, «è gestita da un gay e da una lobby femminista. Il che non ci stupisce, visti gli indirizzi generali dell’anglicanesimo nel mondo. Cardy, da parte sua, ha detto ai giornalisti di aver voluto solo, con quel cartellone, «stimolare la riflessione dei fedeli». Ma è riuscito soltanto a moltiplicare esponenzialmente i contatti su Facebook e far fare il giro del mondo alla sua trovata.
Se avesse consultato il suo maestro Toscani, questi gli avrebbe rivelato che con tali sistemi lui non è mai riuscito a far vendere un maglione Benetton in più. Infatti, certe cose fanno aumentare le parole dette e scritte, ma non le vendite né i fedeli. Per quanto riguarda i cattolici tradizionalisti neozelandesi, poi, ci sentiamo di suggerire loro, per il futuro, di lasciar correre: gli anglicani hanno già di suo una fortissima propensione al suicidio etnico e conviene augurar loro, come dicono i siciliani, «acqua davanti e ventu darrè» (acqua davanti e vento dietro, così la barca a vela va più veloce verso le lontananze).
Gli anglicani, con le loro alzate d’ingegno, si stanno provocando un’apocalittica emorragia verso il papismo, tant’è che Benedetto XVI, che non sa più dove mettere i convertiti, ha dovuto escogitare l’Anglicanorum coetus per disciplinarne l’ingresso. Il reverendo Cardy deve essere anche un fan di un altro italiano, il film-maker Nanni Moretti. Di lui è infatti la celebre frase: «Orsù, continuiamo a farci del male».

(Fonte: Rino Cammilleri, La bussola quotidiana, 22 dicembre 2011)


Chiesa Cattolica: docente sospesa per aver citato l’Apocalisse

Se il prof. Joseph Ratzinger, anziché svolgere il ministero petrino come Papa Benedetto XVI, fosse stato docente di religione, probabilmente avrebbe rischiato d’esser sospeso dall’insegnamento della materia. Il motivo, per certi soloni, sarebbe sin troppo chiaro: avrebbe commesso la “colpa” di aver citato, niente meno, l’Apocalisse.
Lo ha fatto pubblicamente infatti, lo scorso 8 dicembre, durante il tradizionale Atto di Venerazione all’Immacolata in piazza di Spagna, a Roma. Non solo: ha avuto altresì l’“ardire” di spiegare come tale Libro descriva la Madonna ed il drago rosso, ovvero il demonio. E questo la scuola laicista, superlaicista, iperlaicista, no, non se lo può proprio permettere. Tant’è vero che ha punito la maestra Cristina Vai, sospesa dall’insegnamento della religione cattolica perché “colpevole” d’aver tenuto a novembre, presso la scuola elementare Bombicci di Bologna, una lezione sulla caduta degli angeli, proprio utilizzando l’Apocalisse.
Pare che tale approccio abbia “turbato” la solita alunna molto sensibile ed i soliti genitori molto premurosi, anziché aiutare la figlia semmai a ben inquadrare la questione, han preferito protestare coi diretti superiori della docente, molto solerti poi nell’intervenire. A modo loro.
Il solito modo… La notizia non ha avuto l’eco mediatica che avrebbe meritato e di cui in altri casi avrebbe sicuramente goduto, stante anche la raccolta-firme immediatamente attivata a livello provinciale «contro l’ideologizzazione della scuola», nonché la decisione di tanti genitori di quella classe di chiedere in blocco, per protesta contro la sospensione, l’esonero dei propri figli dalle ore di religione.
Alcuni organi di stampa locali ne hanno comunque parlato, perforando per lo meno quel muro d’omertà, in cui diversamente a qualcuno sarebbe piaciuto confinarla. Nulla di cui stupirsi in una società, in cui – come ha scritto Luca Doninelli su “il Giornale” dello scorso 18 dicembre – è «vietato dire Natale» e ciò «dalle scuole alle affissioni agli auguri»; in una società in cui, sempre in nome di una spocchiosa “sensibilità”, l’insegnante di Lettere di una scuola media palermitana a febbraio venne condannata dal giudice ad un mese per aver punito il bulletto di turno della sua classe.
Stavolta, però, la piega presa della questione pare essere un’altra: della faccenda si è fatto carico un parlamentare del Pdl, Fabio Garagnani, che ha presentato un’interpellanza per il ripristino della «legalità scolastica», ha chiesto che vengano posti dei paletti al dirigente scolastico responsabile della sospensione ed ha prospettato un esposto-denuncia per abuso d’ufficio ai danni dell’insegnante colpita dal provvedimento.
La quale, in una missiva inviata al Santo Padre, ha raccontato l’accaduto e lo ha ringraziato per la sua battaglia eroica contro lo spirito nichilista contemporaneo. Ed ora, a dar manforte alla maestra, è giunta la risposta, scritta lo scorso 2 dicembre dalla Segreteria di Stato vaticana a firma di mons. Peter B. Wells, assessore per gli Affari Generali: dalla missiva si evince come Benedetto XVI la incoraggi sostanzialmente a proseguire nella professione, «svolta con impegno e dedizione», ad infondere «un sempre più generoso impegno educativo volto alla formazione umana e cristiana delle giovani generazioni» ed impartisca la Benedizione apostolica non solo a lei, ma anche – e «con particolare pensiero» – ai «piccoli alunni».
«Ora sento che non può accadermi niente di male», ha commentato la docente. La cui ortodossia, ha evidenziato l’on. Garagnani, è dimostrata dalla lettera giunta dal Vaticano: nei confronti di quest’insegnante, quindi, può dirsi consumato un «arbitrio vero e proprio» da parte dell’autorità scolastica, attuato «per pure ragioni politiche». Insomma, è il caso di dirlo: cose dell’altro mondo, un’autentica apocalisse! Ma la docente, ch’è persona di fede, sa che, al termine dell’Apocalisse, c’è il “lieto fine”…

(Fonte: Mauro Faverzani, Corrispondenza Romana, 21 dicembre 2011)


Don Verzé e un "Corriere della Sera" completamente smemorato

Oggi, sul San Raffaele di don Verzé maramaldeggiano tutti. Sino a ieri, invece, ci si scappellava, alla grande. Con un’unica eccezione importante: Il Foglio di Giuliano Ferrara.
Sul Corriere della Sera del 18 dicembre, Aldo Grasso, scrive che delle porcherie di don Verzé sapevano tutti, dagli anni Ottanta. Sapevano Berlusconi (lui sa sempre a prescindere, per alcuni…), amico del prete manager; sapeva la regione Lombardia (una frecciatina a Formigoni sul Corriere è sempre buona, troppo ciellino); sapevano i “professori dell’Università san Raffaele” (nessun nome viene però fatto)…
Sapevano tutto tutti, dunque. Però Aldo Grasso dimentica di inserire nella sua lista di coloro che sapevano, il Corriere della Sera. No, lì, dove scrive lui, sembra al Grasso, non sapevano nulla.
Pur avendo la sua sede, il Corrierone, proprio a Milano, nella patria di Verzé. Dove tutti sapevano, tranne il più importante organo di informazione della città. Pur essendo molti collaboratori del Corriere, da Emanuele Severino ad Edoardo Boncinelli, sul libro paga dell’Università Vita-Salute San Raffaele di don Verzé.
Anzi, ricordiamolo: il Corriere era uno dei grandi sponsor di don Verzé, nella sua veste improbabile di riformatore ultra-modernista della Chiesa cattolica. L’alter ego del cardinal Martini, tanto amato da Ferruccio de Bortoli. Qualcuno ricorda la pubblicità offerta dal quotidiano di via Solferino, al libro ereticale del cardinal Martini e dello stesso Verzé: “Siamo sulla stessa barca” (edizioni san Raffaele)?
Il libro piaceva, perché metteva in dubbio molte verità dogmatiche della fede cattolica.
Allora don Verzé tornava utile, come il sempre verde cardinal Martini. A proposito, costui sapeva? Il cardinale di Milano per tanti anni, non aveva mai avuto sentore dei comportamenti del prete manager fissato con la vita eterna, ma sulla terra? Eppure, anche senza conoscerne gli intrallazzi economici, si potevano conoscere le sue eresie propalate a piene mani.
Prendiamo il successore di Martini, il cardinal Tettamanzi: un tempo sponsor dei pro life, poi cominciò a prediligere altre posizioni. Era lui il cardinale, dopo Martini, nella cui città don Verzé aveva organizzato la famosa università, in cui insegnavano personaggi come il prete spretato Vito Mancuso, oggi idolo di Repubblica (lui, sapeva?); come Roberta de Monticelli, avversa alla Chiesa su molte posizioni etiche, in particolare sul tema dell’eutanasia; come Massimo Cacciari; come Edoardo Boncinelli, lo scienziato che difende la clonazione e che sostiene che la vita umana non ha alcun senso perché Dio non esiste; come padre Enzo Bianchi, firma de La Stampa, anch’egli su posizioni ultra moderniste; come mons. Bruno Forte, il teologo “innovatore”, o come Luca Cavalli Sforza, che un giorno ebbe a dichiarare di sopportare tutte le religioni, tranne quella cattolica…
Martini, Tettamanzi, sapevano? Certamente conoscevano almeno le idee eterodosse di don Verzé, le sue eresie, le persone fieramente anti-cattoliche di cui si circondava.
E al Corriere? Quantomeno si conoscevano, e si apprezzavano, le idee dell’imbarazzante soggetto in questione. Potremmo, a dimostrazione, rispolverare un paginone intero del Corrierone: don Verzé che spiegava cosa avrebbe fatto lui se fosse stato fatto papa. Nientemeno. Sì perché il don sospeso a divinis ma poi lasciato fare senza disturbo, credeva di essere lui, il più adatto a ricoprire quel ruolo. Rileggete quell’articolodel 3 settembre 2010: il maniaco di grandezza, che comperava jet personali, cupole galattiche e altro ancora, mescolava dichiarazioni pauperistiche ridicole, con eresie evidenti.
Scriveva per esempio: “Se io fossi papa? Scenderei da solo, senza bardarture a star con la gente. Scenderei non da sacri palazzi, ma da un semplice appartamento, come un buon parroco… Eliminerei il cardinalato e tutte le disparità di sapore feudalesco…”. Tutta una critica, insomma, alla Chiesa, al papa vero, mescolando eresie, sciocchezze e finta umiltà. Ma al Corriere Verzé piaceva assai.
Come piaceva, per fare un altro nome, a Nichi Vendola, che nel 2010 ha sottoscritto un accordo con il Verzé per la nascita in Puglia della Fondazione san Raffaele del Mediterraneo.
Sì, perché al san Raffaele, oltre ai professori citati, si faceva ricerca contro le regole della Chiesa. Si difendeva e praticava la fecondazione artificiale, con il bollino del dottor Alfredo Anzani, responsabile della Segreteria del Comitato (per nulla) Etico del san Raffaele, e fratello di quel Giuseppe Anzani che ricopre la carica di vice presidente nazionale del Movimento per la Vita (pur sostenendo anche lui posizioni molto ambigue in campo bioetico sempre riguardo alla fecondazione extracorporea).
L’unico che non andava bene, al San Raffaele, era Angelo Vescovi, lo scienziato italiano, pioniere nello studio delle staminali, che però nel referendum del 2005 si schierò per la difesa dell’embrione. Vescovi non è cattolico, ma è serio: non poteva non dire la verità sull’embrione umano, e la disse più volte, soprattutto grazie al Foglio di Ferrara. Per lui si chiusero le porte dell’ospedale di Verzé. Così, tanto per rinfrescare la memoria a Grasso e al Corrierone.

(Fonte: Francesco Agnoli, La bussola quotidiana, 20 dicembre 2011)


mercoledì 21 dicembre 2011

È Natale: Dio insiste a volerci incontrare

É che Dio arriva quando meno ce l’aspettiamo.
Magari lo cerchiamo tutta la vita, o crediamo di cercarlo, o siamo convinti di averlo trovato e quindi dormiamo sugli allori e, intanto, la vita ci passa addosso.
È che Dio è evidente e misterioso, accessibile e nascosto, già e non ancora.
È che la nostra vita passa, con i suoi desideri e le sue delusioni, le sue scoperte e le sue pause, le sue paure e le sue ironie, i suoi entusiasmi e i suoi fallimenti. Passa e fatichiamo a tenerla ferma in un punto, un punto qualsiasi, attorno a cui far girare tutto il resto.
Mancano 3 giorni a Natale.
E abbiamo urgente bisogno di capire come possiamo trovare il Dio diventato accessibile, fatto volto, divenuto incontrabile. Vogliamo poterlo vedere questo Dio consegnato, arreso, palese, nascosto in mezzo agli sguardi e ai volti di tanti neonati.
Sono pochi 3 giorni, lo so. Ma vogliamo provarci ancora.
Perché possiamo celebrare cento natali senza che mai una volta Dio nasca nei nostri cuori.
Come dice splendidamente Bonhoeffer: «Nessuno possiede Dio in modo tale da non doverlo più attendere. Eppure non può attendere Dio chi non sapesse che Dio ha già atteso lungamente lui.»

Dio è discreto, modesto, quasi timido, non impone la sua presenza, la sua venuta è come la brezza della sera. A noi è chiesto di spalancare il cuore, di aprire gli occhi, di lasciar emergere il desiderio di Lui, il desiderio di trovarlo.
In questo Natale.  Ma ci tocca combattere contro la secolarizzazione del Natale, contro il suo svilimento, contro quel Natale finto che tanti vivono.
Non capisco perché una festa splendida, la festa che celebra la notizia dell'inaudito di Dio che irrompe nel mondo, sia stata travolta dalla frenesia di un buonismo natalizio falso.
È un dramma, il Natale, è la storia di un Dio presente e di un uomo assente.
Non c'è proprio nulla da festeggiare, non abbiamo fatto una gran bella figura, la prima volta.
Natale è un pugno nello stomaco, una provocazione, un evento che obbliga a schierarsi.
Natale è l'arrendevolezza di Dio che ci obbliga a conversione.
Quindi: viva i regali, viva la festa. Ma che sia autentico ciò che facciamo, che sia presente il festeggiato, Dio, alle nostre ipercaloriche cene; che i bimbi capiscano che è il suo compleanno: e che a lui spetterebbero i regali, non a noi!
C’è anche il Natale per i poveri veri, per chi ha subito un abbandono, un trauma, un lutto, un Natale che diventa ricordo e sofferenza insostenibile. Di fronte alle immagini stereotipate della famiglia felice intorno all'albero e armonia e canti di angeli che ci propinano i media, chi vive affettività fragili e solitudini, è travolto da un insostenibile dolore.
E questo deve farci pensare.

Il Dio dei poveri, il Dio che viene per i pastori, emarginati del tempo, il Dio che non nasce nel Tempio di Gerusalemme, ma nella grotta di Betlemme, viene purtroppo sostituto dal Dio piccino del nostro buonismo posticcio. Se i nonni soli, se le persone abbandonate, se i feriti dalla vita non hanno un sussulto di speranza nella notte di Natale, significa che il nostro annuncio è ambiguo, travolto e sostituito da un inutile messaggio di generica pace.
Dio si pone ancora in cammino verso di noi, è Lui che viene, è Lui che prende l'iniziativa verso di noi, è una nuova occasione di salvezza, è un nuovo evento straordinario.
Egli sta alla porta e bussa, attende che qualcuno gli apra. Motivo della sua visita? Offrirci la possibilità di rinnovare e consolidare il nostro rapporto di amicizia e di comunione con lui, con il Padre, con i nostri fratelli.
Credo in un Dio che non si nasconde dietro ad un mistero, che non seduce con un miracolo, che non mi opprime con la sua autorità. Credo in un Dio che non mi chiede di rinunciare alla mia libertà, ma che mi pone di fronte alla scelta del bene o del male; che non accetta compromessi, ma che benedice la follia di chi Lo segue. Credo in un Dio che non fa della sua potenza persuasione, che non rimette le cose a posto dall'alto, che non esercita la giustizia degli uomini. Credo in un Dio che si lascia tradire, che al mio 'no' risponde con un bacio silenzioso e credo in un Dio sconfitto, crocifisso e poi Risorto.
Credo in un Dio che non ho inventato io, che non soddisfa i miei bisogni, che non dice e non fa quello che voglio io: un Dio scomodo che non si può né vendere, né comperare. Credo in un Dio vero, che si fa uomo, amico, fratello della mia umanità, che si fa piccolo, debole, indifeso, perché non debba salire troppo in alto per poterLo incontrare.
Credo in un Dio che a volte gioca a nascondino, perché possa scoprirlo nel cuore di ogni uomo.
Credo in un Dio che si fa vicino, che mi viene incontro e mi dice: "Ti amo", un Dio che si può solo amare.
Ecco: auguro a tutti di poterlo incontrare veramente questo Dio. Auguri! 

(Mario, Natale 2011)



martedì 20 dicembre 2011

Vietato dire Natale: ultima follia del politicamente corretto

La storia è vecchia, e a poco servirebbe lamentarsi della cattiveria dei tempi. Già lo diceva Charles Péguy: i tempi sono sempre stati cattivi. Il nostro, semplicemente, non fa eccezione.
Sembra che espressioni come «Vacanze di Natale», «panettone natalizio» o perfino «Buon Natale» non si debbano più usare. Unica deroga: i film con Boldi, De Sica & co., ultimo baluardo, verrebbe da dire, del cattolicesimo (!?) in questa società senza dio.
Ma provate a dirlo in una scuola elementare italiana - e non di quelle di periferia, piene di figli di immigrati di altre religioni, no: parlo delle belle scuole ricche del centro. Provate a proporre di allestire una bella «recita di Natale». Subito spunta questa cosa che non si trova mai da nessun’altra parte: la «sensibilità» di chi appartiene ad altre religioni.
Non si può offendere la sensibilità di chi non la pensa come noi. Il bello è che della sensibilità di norma non importa niente a nessuno, mai, in nessuna occasione. Tranne questa. Ma queste cose succedono in realtà da ben prima del primo flusso migratorio, da ben prima che l’espressione «politically correct» facesse la sua comparsa.
A nessuno, s’intende, viene impedito di credere in ciò che vuole. L’anima non si nega nemmeno ai cani. Il problema è il corpo, non l’anima. Finché l’anima non ha anche un corpo, non può minacciare nessuno.
Gesù Cristo, però, venne nel mondo per mettere in pericolo il mondo, «questo» mondo, e la prima cosa che fece - prima di tutti i miracoli e di tutte le parabole, prima della predicazione e della Passione - fu di avere un corpo, anzi: di «essere» un corpo, quel corpo lì, che fu dapprima allattato da sua madre come tutti i bambini, e che poi tornò, cadavere, tra le braccia della stessa madre, dopo essere stato crocefisso.
Fu quel corpo a mettere in crisi un mondo che di predicatori e divinità ne aveva fin troppi, un mondo tollerante, al quale un dio in più non avrebbe fatto né caldo né freddo, e che anzi per difendere la «sensibilità» dei cristiani sarebbe forse stato anche disposto a difenderli dalla furia un po’ rozza del popolo al quale il Nazareno apparteneva. Con un po’ di diplomazia, forse, Pilato (che non era granché come politico) avrebbe assunto un’altra posizione, i margini c’erano.
Ma questo nuovo dio, com’era diverso dagli altri! Non solo aveva un corpo, ma voleva che la nuova fede avesse anch’essa un corpo: una comunità di persone in carne e ossa, con una propria identità, una propria antropologia, una propria idea del rapporto con il potere, una propria idea dell’educazione dei figli, e così via.
A questo nemmeno i Romani erano preparati. Professare una fede è una cosa, edificare una chiesa su suolo pubblico è un’altra. Ora, il moderno Stato europeo non è molto diverso. Tollera tutti (anche perché non ama nessuno) ma il corpo è soltanto il suo. Sopporta le religioni unicamente in virtù della loro forza, ma appena queste s’indeboliscono comincia a mostrare i muscoli.
Una mia amica, anni fa, faceva catechismo ai bambini di una parrocchia del centro di Milano. In una delle prime lezioni chiese a questi ragazzini sui dieci anni cosa fosse la Pasqua. Nessuno rispose. Chiese allora se sapevano cos’è il Natale. Ci fu un paio di risposte vaghe, timide. Chiese infine che cos’è Halloween, e tutti seppero rispondere con precisione.
Da questo piccolo episodio ho tratto una mia morale, che forse può essere utile al lettore. Alla gente bisogna dare qualcosa. Una vincita alla lotteria, o a un concorso canoro, oppure al gratta-e-vinci. E poi vacanze al mare, ai Tropici, oppure sulla neve. E poi le tradizioni un po’ favolose, qualcosa su cui fantasticare, le fate, gli elfi, Babbo Natale, il Principe Azzurro. Un sano divertimento senza corpo, tutto anima, tutto innocenza allegra e piena di tenerezza («dolcetto o scherzetto!»).
Questo è ciò che piace all’Impero. E non tiratemi in ballo i musulmani o i buddisti, che non c’entrano, anche se c’è sempre qualche babbeo che, fraintendendo il problema, se la prende con la parte sbagliata.
Chiamatelo stato, chiamatelo impero, chiamatelo mercato: è sempre una forma di controllo, di uniformazione, una livella che, a differenza di quella di Totò, interviene prima della morte, affinché siamo tutti cadaveri felici e contenti.
Certo, chi è venuto al mondo per affermare la dignità assoluta di ogni persona, che consiste nel rapporto unico non con la società, lo stato o il mercato, ma con Dio. Dio, che trascende stato e mercato.
E questo è ciò che stato e mercato, molto spesso, non sopportano.
Una verifica facile facile? Cercate “Natale” sul motore di ricerca di Google: tra le centinaia di immagini proposte non ce n’è una che rappresenti la nascita di Gesù!
E allora noi vi diciamo a gran voce e con tutto il cuore:

BUON NATALE

 (Fonte: Luca Doninelli, 18 dicembre 2011)


Su Chiesa e Ici non si dice la verità

La campagna di disinformazione a tutto campo che è partita dalla solita stampa a cultura anticattolica (La Repubblica prima di tutti) sulla questione di Chiesa e pagamento dell’ICI è una vera schifezza proprio perché fa leva sulla “pancia” della gente, senza che la verità possa essere conosciuta. Alla stampa di cui si sopra, si aggiungono comici e personaggi televisivi evidentemente a corto di idee per i loro monologhi (vedi Crozza), che non hanno perso l’occasione per un intervento demagogico e pieno di falsità.
Il problema, dunque, non è se la Chiesa debba o no pagare l’ICI per gli stabili di sua proprietà dove si svolgono attività commerciali. Non è questo il problema perché la Chiesa già paga l’ICI per quegli stabili e sulla base della legge vigente (introdotta nel 2006 dal governo di sinistra guidato da Prodi). Il vero problema è che si fa disinformazione, si mette il popolo (in questo momento di grave sofferenza) contro la Chiesa e, tra l’altro, si coglie l’occasione proprio per un attacco frontale di vecchio stampo anticlericale massonico. In più si fa una grave ingiustizia, perché si dà l’immagine di una Chiesa che in qualche modo “ruba” i soldi allo Stato italiano, mentre la realtà è tutta un’altra: la Chiesa, con le sue opere caritative e con le sue molte attività, aiuta ogni giorno lo Stato italiano, sostenendo i cittadini più poveri e intervenendo laddove lo Stato non riesce ad intervenire.
Perché parlo di “attacco frontale”? Perché l’ultima iniziativa legislativa in materia di ICI è un emendamento radicale presentato invano la scorsa estate alla cosiddetta manovra-bis, che puntava a colpire esclusivamente “gli enti religiosi cattolici” negando, appunto, soltanto a essi i benefici stabiliti dalla legge a motivo della rilevanza sociale della loro opera senza finì di lucro. Insomma, secondo l’emendamento, solo i cattolici dovrebbero pagare l’ICI a tutto campo. Mentre potrebbero continuare a non pagarla (come già accade) tutte le altre confessioni religiose presenti sul territorio italiano, i partiti politici nelle loro sedi, i sindacati, addirittura tutti i fabbricati di proprietà degli Stati esteri e, ovviamente, regioni, province, comuni, comunità montane, unità sanitarie locali, camere di commercio.
Ditemi voi se questa non è discriminazione! Tant’è vero che il cardinal Bagnasco si è detto disponibile a rivedere la questione, purché nella “revisione” siano coinvolte tutte le realtà non profit che in Italia sono esenti da ICI, non solo la Chiesa. I cattolici non sono cittadini di serie B, anzi. Chiedetevi, onestamente, se abbia più diritto ad un’esenzione dall’ICI totale o parziale una struttura caritativa della Chiesa cattolica o la sede di un partito politico o di un sindacato.
Allora, diciamo un po’ le cose come stanno, perché, prima di parlare e di giudicare e di reclamare, bisogna conoscere la verità. Che è l’unica cosa da difendere. Posto che il governo Monti reintrodurrà l’ICI, o Imu, continueranno ad essere esentati gli immobili nei quali gli enti non commerciali svolgono alcune specifiche e ben definite attività di rilevante valore sociale, cioè quelli “destinati esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive” nonché quelle dedicate al culto (ad ogni tipo di culto riconosciuto, naturalmente, non solo quello cattolico). I requisiti per essere esenti sono dunque due: l’immobile deve essere utilizzato da enti non commerciali e deve essere destinato all’esercizio esclusivo di certe attività di rilevante interesse sociale. Se non ci sono tali requisiti, l’ICI o come diavolo si chiamerà la tassa, si deve pagare. E infatti la Chiesa cattolica la paga già per tutti quei suoi immobili che non possiedono i requisiti suddetti. Ad esempio, solo nel comune di Bologna ha versato l’anno scorso, se non sbaglio, un milione di euro. Allora? Dov’è il problema? Di cosa stiamo parlando?
E, lo ripeto, la legge di cui sopra non esenta soltanto immobili di proprietà dei cattolici, ma tantissimi altri immobili dove si svolgono attività laiche. Pensate, solo nella rossa Emilia, alle centinaia di circoli ARCI (la famosa Associazione Ricreativa Comunista Italiana). Non pagano un euro di ICI, ma tengono aperti bar, locali pubblici, librerie, attività ricreative e sportive. Proprio perché usufruiscono delle agevolazioni previste dalla legge.
Allora, non ci facciamo fregare dalla disinformazione e continuiamo ad approfondire il fenomeno. Un bell’aiuto viene da Avvenire, il giornale cattolico che conosce bene la situazione e che quotidianamente ormai interviene su questo tema. Sentire l’altra campana è un dovere per chi ama la verità.

(Fonte: Gianluca Zappa, La Cittadella, 11 dicembre 2011)


Un “Anno della Fede” a cinquant’anni dal Concilio. Tra ermeneutiche in conflitto

 Il S. Padre ha indetto, con l’anniversario della solenne apertura del Vaticano II, l’11 ottobre 2012, un Anno della fede, collegandolo idealmente all’ultima assise conciliare. Il discorso ormai famoso di Benedetto XVI alla Curia Romana, del 22 dicembre 2005, segnò, in verità, una vera svolta nell’analisi del Concilio. Avviò una nuova disputa intorno al Concilio; un confronto non più a senso unico col monopolio di una certa ermeneutica, ma un dialogo a più voci, molte delle quali nuove e scevre di risentimenti o rancori di sorta.
L’ermeneutica giusta, al dire di Benedetto XVI in quel discorso, è la «riforma», o «l’ermeneutica del rinnovamento nella continuità». Una tale riforma comporta continuità e discontinuità secondo livelli diversi: «È proprio in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi che consiste la natura della vera riforma», scrive il Pontefice. Continuità nei principi dottrinali e discontinuità delle forme storico-contingenti, che facevano da supporto a tali principi.
Guardando però più da vicino il Vaticano II e in modo globale, si nota una riforma non solo delle forme storiche e sociali, come poteva essere ad esempio la nuova concezione dello Stato moderno, tale da indurre la Chiesa a ripensare la dottrina della libertà religiosa, rinunciando ad una religione di Stato, ma anche una certa riforma della stessa dottrina: la stessa libertà religiosa, ad esempio, da aspetto soggettivo come incoercibilità della coscienza nella sua apertura alla verità, diventa invocazione oggettiva della medesima plausibilità di tutte le religioni all’interno di uno Stato, in ragione del diritto alla libertà religiosa, che deve diventare libertà di culto (cf. DH 1 in relazione a DH 3 e 4): il livello soggettivo della libertà di coscienza diventa anche e soprattutto oggettiva egualità sociale di tutte le religioni.
Libertà religiosa e libertà di culto sono, in verità, due elementi distinti. Se non le si distingue, argomentandone la reciproca fondatezza nella verità, accade facilmente che la prima venga negata e assorbita dalla seconda. La natura è negata a favore del diritto. Si pensi all’Islam. E la risposta cattolica non può essere semplicemente l’assicurazione di entrambe, ma solo la subordinazione della libertà di culto alla libertà religiosa, radicando quest’ultima nella coscienza morale in quanto aperta alla verità.
Una riforma, perciò, ha interessato anche le dottrine e questo principiando non dalle dottrine ma dal modo di insegnarle, dalle forme storiche contingenti, in primis, dalla forma espositiva e linguistica, ovvero da una nuova metodologia, più pastorale ed ecumenica. Di fatto la dottrina – alcune dottrine – è così “nuova”. L’accavallamento di soggettivo e oggettivo nella libertà religiosa è un paradigma. Ma gli esempi riguardano anche altri ambiti come l’ispirazione dei libri sacri, il rapporto Scrittura e Tradizione, la Collegialità episcopale, il concetto di ecumenismo, che fa leva quasi esclusivamente sul sacramento del Battesimo.
Si è indubitabilmente di fronte ad un insegnamento nuovo, che poi possa essere o meno in pieno collegamento con l’insegnamento precedente è un altro problema, un secondo dato da analizzare. Nel Vaticano II ciò che è da appurare anzitutto è che la continuità e la discontinuità, secondo livelli diversi, si collocano sul piano del soggetto docente e della dottrina insegnata, altrimenti si rischia solo di declamare la continuità delle dottrine ma senza mai verificarla. Si rischia di voler conservare col Vaticano II uno status quo nella Chiesa. Se così non fosse, se la difficoltà ermeneutica cioè non ascendesse fino al rango degli asserti magisteriali, del loro essere semplice sviluppo o piuttosto una nuova forma, una ri-forma della dottrina cattolica, sarebbe già risolta tutta la difficoltà ermeneutica, che invece è il vero rompicapo per valutare correttamente il Vaticano II. Se la difficoltà ermeneutica non riguarda la dottrina di prima e quella di dopo, cade la stessa necessità di un’ermeneutica giusta per appurarne la continuità: questa sarebbe semplicemente evidente.
A nostro giudizio, c’è una nuova forma della dottrina cattolica, che nasce da un binomio tipico del Concilio, non sempre così chiaro – di qui la difficoltà – di dottrinarietà e pastoralità: queste due facce a volte si sovrappongono, a volte si interscambiano. Un solo esempio lampante: in nome del dialogo ecumenico si volle una dottrina sulla Divina Rivelazione che lasciasse insoluto il problema dell’insufficienza materiale delle Scritture; al dire di Florit né lo si affermava né lo si negava, anche se il magistero ordinario nei catechismi aveva appurato definitivamente che non tutte le verità, oltre al canone sacro, sono contenute nella Scrittura.
Il problema ermeneutico del Vaticano II implica 3 aspetti distinti:
1) nel concilio ci sono delle dottrine nuove;
2) queste sono uno sviluppo e/o ri-forma delle dottrine classiche;
3) il grado dell’asserto magisteriale delle dottrine conciliari.
A questo punto come coordinare continuità e discontinuità? La domanda, in modo frettoloso, viene anche formulata così: il Vaticano II è o non è in continuità con il magistero precedente? La domanda però va oltre la mera e scontata asserzione dell’autenticità del 21° concilio della Chiesa rispetto ai 20 precedenti. Se ciò non fosse presupposto sarebbe inutile anche la domanda. La si deve perciò collocare in un substrato teologico molto più sottile, lì dove si nasconde il vero problema: in che modo il magistero del Vaticano II si colloca in continuità con quello precedente? Dove si coglie la continuità?
Fino ad oggi, a cinquant’anni dal Vaticano II, una delle soluzioni che trova più favore, perché forse mai preso di vista in modo scientifico il vero problema, se non grazie al grido d’allarme di Gherardini, è quella secondo cui la continuità è garantita dal magistero stesso: per il fatto che siamo dinanzi ad un’asserzione del Vaticano II, dunque del magistero solenne, abbiamo la continuità. Fondamentalmente questa è la posizione di P. Giovanni Cavalcoli e, di recente, di don Pietro Cantoni. Il magistero diventa così ragione di se stesso.
Ma in questo modo non si dà ragione delle effettive “riforme” del Vaticano II, che si leggono per la libertà religiosa, confrontando la visione ecclesiologica di Pio XII e quella del Vaticano II, per la collegialità del Vaticano II quale “perfezionamento” del primato petrino nel Vaticano I. Come intendere questo perfezionamento? Basta esporre una nuova dottrina o invece è necessario radicarla nella Tradizione della Chiesa?
Il problema “cuore”, dunque, è coordinare continuità e discontinuità secondo livelli differenti, in modo da leggere una nuova dottrina insegnata dal medesimo soggetto. È proprio qui il nodo: la continuità è assicurata dall’unico soggetto che insegna, il magistero, che però non si identifica con la Chiesa e con l’infallibilità totale di essa, rimanendo questa più ampia e includendo ad esempio il sensus fidei del Popolo credente, dunque un’infallibilità in credendo che precede e fonda quella in docendo.
È necessario radicare in modo assoluto, oggi più che mai, l’infallibilità del magistero, nelle Verità credute infallibilmente per mezzo della fede, per evitare di scadere in una visione meramente “burocratica”, in cui il soggetto docente diventerebbe l’ultima ragione del porsi della verità stessa. Ci sarà sempre un Küng che potrà inveire contro il monopolio del “potere romano”, dimenticando che la gerarchia è un’origine sacra, scende dall’alto quale munus, ministero, servizio alla Verità.
La discontinuità invece riguarda fondamentalmente due cose:
1) la nuova forma che assume il magistero nell’ultimo Concilio: un magistero fontalmente pastorale. Infallibile quando? Sempre, o non piuttosto solo quando reitera il dato di fede definitivo? Un magistero solenne/straordinario quanto alla forma ma ordinario autentico quanto all’effettivo esercizio;
2) i nuovi contenuti, le nuove dottrine. Negare infatti che ci siano delle dottrine nuove e che siano una ri-forma rispetto a quelle di prima, significa non vedere il Vaticano II. Il magistero può insegnare delle dottrine nuove, ma non per il fatto che le insegna sono (automaticamente) infallibili. Non infallibili poi non significa per sé erronee, ma solo non definitive. La non-infallibilità è un giudizio di valore sul grado magisteriale di cui è rivestita (dal magistero) la dottrina insegnata. L’errore è un giudizio logico che si dà ad una proposizione quanto alla sua conformità o meno al vero. Confondere errore (molto spesso tradotto con fallibilità) con non-infallibilità è un’operazione contraria alla logica e alla teologia.
Il problema c’è, ed è soprattutto di ermeneutica del magistero conciliare in quanto tale, e quindi delle dottrine. Così si presenta, a nostro giudizio, nell’insieme del quadro ermeneutico, un altro aspetto da non trascurare: quale ermeneutica teologica è necessaria per il magistero del Vaticano II? Purtroppo, non abbiamo una categoria per un’ermeneutica dell’aggiornamento magisteriale. Il Concilio volle essere un aggiornamento, ma come capire l’aggiornamento? Basta rispondere: con il magistero?
Alle tesi di Gherardini ha risposto in modo infuocato e con un fare quasi comminatorio di scomunica Don Pietro Cantoni. L’analisi di Cantoni, a nostro giudizio, sorvola il vero problema, e ci lascia amareggiati per il modo in cui tutto il libro viene organizzato: una stroncatura di una persona, mentre avrebbe potuto offrire, mostrando anche le reticenze, un valido contributo alla ricerca ermeneutica sul Vaticano II. Si condanna con la persona non solo una soluzione ma lo stesso problema. Di seguito ci concentreremo sui passaggi salienti di Cantoni in obiezione a Gherardini, onde scorgere i punti più delicati di questo proficuo dibattito.
Tutto l’impianto di Cantoni è fondamentalmente basato su questo concetto: Gherardini scredita il magistero conciliare; invece di mostrarne la continuità con quello precedente, assume un atteggiamento lefebvriano mostrandone la rottura, atteggiamento in antitesi con la Scuola Romana, del resto, sua eredità teologica. Gherardini sarebbe caduto in un sorta di “manualismo”, e il vero argomento per scongiurare ciò è l’accettazione del magistero, visto come soggetto docente più che come dottrina insegnata. Scrive Cantoni:
«Se il concilio ecumenico Vaticano II appare a qualcuno problematico, erroneo, perlomeno confuso, è proprio perché è letto in un’ottica sbagliata. Si tratta di quella “teologia manualistica” che – a contatto con il concilio – non ha retto, ma è andata in frantumi. Non è il concilio che è poco chiaro, è la teologia con cui è interpretato che è tale».
Ma sarà proprio con i grandi manuali dei teologi romani che Cantoni cerca di far vedere le contraddizioni di Gherardini nella sua critica al magistero del Concilio. E sono gli stessi teologi romani, con i loro manuali, ai quali si appella Gherardini quando spiega il concetto di Tradizione: quel quod ubique quod semper quod ab omnibus creditum est, che, quale regola aurea, è principio di ogni sviluppo omogeneo della dottrina cattolica, quanto alla sua accresciuta comprensione, dove Scrittura e Tradizione sono la norma remota della fede, mentre il Magistero è la norma prossima.
Il problema dei manuali che non reggono al confronto col Vaticano II viene corretto da Cantoni col fare appello all’autorità magisteriale, che a suo modo di vedere, «è di carattere carismatico, non “epistemico”, è la sua stessa proposizione che garantisce della sua continuità con la Tradizione, perché è essa stessa componente e componente costitutiva e formale di questa stessa Tradizione, e costituisce quindi per il teologo un fatto a partire dal quale condurre la sua indagine».
Questa affermazione è del tutto nuova. Significa scindere nell’organo magisteriale il soggetto docente dall’oggetto dell’insegnamento, sia materiale che formale. Se la si esaspera si potrà arrivare a trarre dal magistero ogni possibile conclusione. Il magistero stesso non sarà più vincolato da res fidei et morum e potrebbe diventare fautore anche di una nuova Rivelazione. Il che è impossibile. Nel magistero ecclesiastico bisogna considerare unitamente e distintamente: il soggetto attivo che insegna (il Papa e il Collegio dei vescovi), l’oggetto materiale (la verità rivelata) e l’oggetto formale (l’autorità del magistero, che ammette diversi gradi). Dei Verbum al n. 9 precisa i confini del magistero, che non sono dati da se stesso, ma dalla Scrittura e dalla Tradizione:
«Il … magistero però non è superiore alla parola di Dio ma la serve, insegnando soltanto ciò che è stato trasmesso, in quanto, per divino mandato e con l’assistenza dello Spirito Santo, piamente ascolta, santamente custodisce e fedelmente espone quella parola, e da questo unico deposito della fede attinge tutto ciò che propone a credere come rivelato da Dio».
Questa visione “carismatica” del magistero favorisce in Cantoni anche il tentativo di dedurre dal Vaticano II, come teologi privati o come fedeli, delle conclusioni irrinunciabili (infallibili), o almeno una dottrina «davanti alla quale non si può assolutamente escludere a priori che qualcosa sia infallibile». Cosa sia infallibile Cantoni non lo dice. Dice però, col sostegno del p. U. Betti, che, «mentre a Trento e al Vaticano I i capitoli trovavano per lo più (ma non sempre…) nei canoni la conclusione perentoria del loro discorso, qui questa formulazione – che sarebbe infallibile in se stessa nella sua propria formulazione – manca per dichiarata scelta dell’autorità. Nulla però impedisce che una tale conclusione venga tirata dal teologo e dal fedele».
Tralasciamo l’allusione ai fedeli, sovraccaricati di un lavoro veramente immane. Spetta al teologo trarre le conclusione dogmatiche dai documenti del Vaticano II? E così appurarne l’infallibilità, almeno in qualche sua parte? Qui Cantoni scambia ciò che spetta propriamente al magistero, e cioè dichiarare una dottrina come definitiva, con l’opera della teologia, per quanto riguarda invece le “note teologiche”. Cosa può fare il teologo, o meglio, cosa possono fare i teologi? Non fa testo il singolo, ma è necessaria l’unanimità, analogicamente ai Padri.
È bene rivisitare a questo proposito il Commentarius al cap. VII “De Ecclesiae Magisterio”, dello schema preparatorio De Ecclesia, che a sua volta tiene conto del Votum Universitatis Lateranensis de necessitudine inter Magisterium Ecclesiae et sacram theologiam. Qui si distingueva due classi, ovvero due categorie dottrinali teologiche: la «doctrina certa» e le «sententiae theologicae», dove è richiesta, per entrambe, la partecipazione dei teologi e l’antichità e la reiterazione della dottrina: un «communi costanti consensu» e le «venerandae theologicae traditioni». Tutto questo si riscontra tra i teologi per quanto riguarda le dottrine (nuove) del Vaticano II? A tutt’oggi non sembra.
Cantoni giustifica il lavoro del teologo in ragione dell’infallibilità del magistero ordinario e universale, secondo quanto dice il Vaticano I.
Circa il magistero ordinario universale, sembra che Cantoni alluda ad un’universalità solamente de facto, la quale basterebbe a rendere infallibile l’asserto magisteriale del Vaticano II o almeno intoccabile e da accettare indiscutibilmente. Gherardini violenterebbe questa infallibilità/indiscutibilità di dottrine, a cui Cantoni con Scheeben dà la qualifica di “doctrina catholica”.
Qui rileviamo due elementi. La qualifica di “doctrina catholica”, genericamente intesa, ci sembra alquanto sovrabbondante per il Vaticano II. La si attribuisce al Concilio come unicum magisteriale o alle singole dottrine? A tutti i documenti o solo alle Costituzioni dogmatiche? Cantoni tiene veramente conto dell’intenzione dei Padri nel redigere i documenti, in ragione della quale appurare la qualificazione della dottrina di ogni singolo documento? Se al Concilio come unicum risulta deficitaria perché il Vaticano II insegna in alcuni contesti in modo solenne e definitivo, ad esempio quando il Concilio utilizza l’espressione «docet Sacra Synodus» (LG 20), o «docet autem Sancta Synodus» (LG 21), o in altri insegnamenti introdotti dalla parola «credimus» o anche «creditur» (cf. LG 39; UR 3 e 4).
Se invece alle singole nuove dottrine, qui sì che si vede ampiamente la sovrabbondanza: come si può attribuire sic et simpliciter una tale qualifica teologica a delle dottrine, in buona parte, ancora discusse dai teologi (si pensi particolarmente alla collegialità episcopale: il Papa e il Collegio sono due soggetti inadequatae distinctum?), e talvolta richiedenti un ulteriore intervento chiarificatore del Magistero stesso (si pensi alla questione del subsistit in)?; a dottrine cioè insegnate dal magistero ordinario ed universale (impropriamente “ordinario universale” perché qui si tratta di un raduno in un concilio, quindi di un magistero straordinario o solenne), senza che però venga dichiarata la loro definitività? Non è sufficiente, infatti, che ci sia un magistero ordinario ed universale (il collegio dei Vescovi sparso nel mondo che concorda con il suo Capo) perché la dottrina sia doctrina catholica (certa), ovvero definitivamente insegnata dalla Chiesa, muovendo verso il proximae fidei (è in questa direzione che va la qualificazione di Scheeben): è invece indispensabile che sia altresì insegnata tamquam definitive tenendam.
Il testo della Costituzione dogmatica Dei Filius, del Vaticano I, a cui Cantoni si appella, recita così:
«Si devono credere con fede cattolica e divina tutte quelle cose che sono contenute nella Parola di Dio, scritta o trasmessa, e tramite un giudizio solenne, o il suo magistero ordinario universale, vengono proposte alla chiesa come divinamente rivelate e, in quanto tali, da credersi» (cfr. DH 3011, a cui faceva già riferimento il b. Pio IX nella Tuas libenter, del 21.12.1863).
Qui è detto che il magistero ordinario universale è infallibile per sé? Certamente non espressamente, ma vien detto che è necessario proporre alla Chiesa le verità come divinamente rivelate. Per rispondere a questa domanda, comunque, è necessario leggere il testo del Vaticano I alla luce di Lumen gentium 25, che recita:
«Quantunque i vescovi, presi a uno a uno, non godano della prerogativa dell’infallibilità, quando tuttavia, anche dispersi per il mondo, ma conservando il vincolo della comunione tra di loro e col successore di Pietro, si accordano per insegnare autenticamente che una dottrina concernente la fede e i costumi si impone in maniera assoluta, allora esprimono infallibilmente la dottrina di Cristo».
Quel «si impone in maniera assoluta», che suona teologicamente molto povero nel nostro italiano, in latino invece esprime la giusta qualificazione teologica della dottrina ordinaria universale ed irreformabile: «[…] in unam sententiam tamquam definitive tenendam conveniunt, doctrinam Christi infallibiliter enuntiant».
Una tale spiegazione era già offerta da uno dei manuali più importanti nell’immediata preparazione al Vaticano II, quello del gesuita J. Salaverri, il quale spiegava la definitività del magistero ordinario universale in questo modo:
«I vescovi insegnano una dottrina da ritenersi come definitiva quando, con il sommo grado della loro autorità, obbligano i fedeli a dare ad essa un assenso irrevocabile».
Crediamo che qui il vero problema dell’analisi di Cantoni consista nell’appoggiarsi a Scheeben che, quantunque autore sicurissimo e validissimo, non ha conosciuto il Vaticano II, concilio con una natura e un fine diversi da Trento e dal Vaticano I, e al p. Betti, sostanzialmente isolato nella sua visione massimalista dei documenti (della Costituzione Lumen gentium) del Vaticano II.
La tesi del “magistero carismatico” non risolve il problema di un magistero a più livelli all’interno dello stesso corpo conciliare, di una nuova forma dell’insegnamento conciliare, di nuove dottrine il cui grado di autorità non è una ricetta fissa, ma va scorto in un lavoro di ricerca della mens conciliare nelle intenzioni dei Padri.
Della complessità del problema se ne era accorto anche l’acuto K. Barth, il quale, tra le varie domande poste a Roma, analizzate egregiamente da Gherardini, chiedeva:
«Il Vaticano II è stato un Concilio di riforma (la cosa è discussa!)? Che cosa significa aggiornamento? Aggiornamento in base ed in vista di che? Si è trattato: a) del rinnovamento, teoretico pratico, dell’autocoscienza della Chiesa alla luce della Rivelazione che ne costituisce il fondamento? oppure b) del rinnovamento del suo pensiero della sua predicazione, del suo operare oggi alla luce del mondo moderno?».
È ancora difficile rispondere a queste domande. Un Anno della fede però potrebbe essere l’occasione propizia.

(Fonte: Serafino M. Lanzetta, Corrispondenza Romana, 14 dicembre 2011)


Dobbiamo stare attenti all’internazionale dei Fratelli musulmani

Un impero da 250 milioni di persone. I Fratelli musulmani creano per la prima volta una rete solidale che parte dall’Egitto per dominare l’area da Tunisi a Istanbul.
Tutti i giorni le primavere arabe ci propongono delle sciarade: perché per esempio il più importante comandante islamista delle nuove forze militari libiche invece di lavorare a casa sua è stato mandato in Turchia per aiutare il gruppo armato, ormai un esercito, in lotta contro Assad di Siria?
Per quale motivo Abdullah Gül, presidente turco, diserta una conferenza mondiale a Vienna solo perchè il ministro israeliano della difesa Ehud Barak è presente, e dichiara Hamas e il suoi capo Khaled Mashal «sostenitori della democrazia»? Perché il premier Erdogan ha esortato i Paesi occidentali a riconoscere Hamas come «il governo legittimo» dei palestinesi e ha dichiarato Abu Mazen capo di «un governo illegittimo»?
La risposta, come spiega lo storico Barry Rubin, è nella nascita della «Internazionale della Fratellanza Islamica», seconda al traguardo nel 2011 dopo la terza Internazionale Comunista nata nel 1919. Come ai tempi del comunismo, un gruppo ideologico formato da Stati si estende oggi a circa 250 milioni di persone, gli abitanti dell’Egitto, della Striscia di Gaza, del Libano oppresso dagli Hezbollah, della Libia, della Tunisia, probabilmente della Siria, e ormai anche di buona parte della Turchia: questi popoli con estrema probabilità sono o saranno governati da governi che stabiliranno la sharia;
che avranno verso le altre religioni un atteggiamento di dominazione (i cristiani e gli ebrei sono per loro "dhimmi", ovvero soggetti a tutela e a leggi speciali che includono il pagamento di decime) o, al peggio, di aggressivo assedio; che avranno come dogma lo stabilimento del califfato mondiale; che terranno verso le donne, gli omosessuali, i dissidenti, un atteggiamento duro e pericoloso.
Fra i Fratelli Musulmani, nati nel 1928 e riemersi adesso dalla clandestinità imposta da dittatori gelosi, vige oggi un atteggiamento di reciproco sostegno economico e morale. Per esempio, Hamas dopo aver visto che Assad uccide e aggredisce i suoi «Fratelli» in Siria (Hamas è parte della Fratellanza che lotta contro il raìs) sta lasciando Damasco e dividerà la sua leadership fra l’Egitto e il Qatar.
In Egitto, l’Internazionale della Fratellanza ha il suo centro, come dire la Mosca dei bei tempi, e gli amici sono lieti di aiutare (ci sarebbero ormai fabbriche d’armi di Hamas nel Sinai, Gaza è molto più aperta a ogni traffico che ai tempi di Mubarak). Il Qatar invece è l’inopinato master delle rivoluzioni, un giocatore d’azzardo dell’estremismo, amico dell’Iran. Ma centrale è nell’Internazionale il rilievo di Istanbul che aiuta l’opposizione siriana, e che si è fatta sponsor di Hamas.
L’Internazionale per ora non ha il suo inno che canta «Futura umanità!», ma non dovremo aspettare molto. Lo si canterà anche in Europa, dove ha centri di diffusione presso alcuni gruppi di immigrati. I gesti a carattere politico-religioso si moltiplicano: ad Amsterdam una folla ha aggredito il dibattito di due musulmani laici, la scrittrice canadese Irshad Manji e il verde olandese-marocchino Tofik Dibi.
Il gruppo in causa si chiama Sharia4Belgium. In Belgio il gruppo ha impedito il dibattito dell’autore Benno Barnard che presentava un suo libro. Ad Anversa il gruppo ha stabilito una corte islamica per creare un sistema legale parallelo. Un buon inizio di califfato, fra tanti altri segnali.

(Fonte: Fiamma Nirenstein, Il Giornale, 14 dicembre 2011)


Unione Europea: l’Europa degli ipocriti

Viviamo nell’epoca dei diritti e delle iniziative di solidarietà: non passa giorno che non venga attivato qualche numero verde affinché chi lo desideri possa donare qualche euro a favore di associazioni con scopi benefici. Gli obiettivi di tali iniziative tendono generalmente alla difesa o al sostentamento delle fasce più deboli della popolazione mondiale, come i bambini, gli anziani, i poveri ed i malati.
Tutto bene allora, verrebbe da dire. Eppure, oltre a risultare sospetta più d’una di queste campagne di solidarietà che ad esempio mirano a combattere la fame e la povertà attraverso la promozione della contraccezione e dell’aborto, c’è da rilevare lo stridente contrasto tra tale attitudine generalizzata a fare leva sui buoni sentimenti e le stragi silenziose perpetrate dagli stati nazionali e sovranazionali ai danni proprio dei più deboli ed indifesi.
Negli ultimi quarant’anni le legislazioni abortiste di tutto il mondo hanno mietuto miliardi di vittime innocenti, assassinate nel ventre materno nella sostanziale indifferenza generale mentre la pratica diffusa dell’eutanasia attiva e passiva ha colpito non solamente i malati e gli incoscienti ma addirittura i bambini, secondo una logica perversa che tende a far passare la pietosa eliminazione di coloro i quali vengono considerati un peso per loro stessi e per gli altri come una conquista di civiltà.
L’ennesima ipocrita iniziativa benefica giunge dal Parlamento Europeo che ha patrocinato la campagna L’Europa per un sorriso, una parata di big della musica italiana che si sono esibiti per una raccolta fondi a favore di Telefono Azzurro, organizzazione no profit che si batte per la tutela dei minori vittime dell’adescamento sessuale e della violenza. L’iniziativa è stata presentata a Reggio Emilia alla presenza di importanti personalità del mondo politico dal Presidente del Parlamento Europeo che ha inviato un proprio testo in cui ne ha esaltato l’importanza e le finalità.
Proprio qualche giorno prima dell’evento euro solidale lo stesso Parlamento Europeo varava a schiacciante maggioranza una risoluzione che definisce l’aborto uno degli obiettivi necessari da perseguire al fine di combattere la diffusione dell’Aids.
La risoluzione B7-0615/2011, Sulla lotta all’Aids nell’Unione Europea e nei Paesi limitrofi, è una disposizione che di fatto impone ai Paesi membri di garantire il diritto all’aborto in ragione dello stretto legame tra salute e “diritti riproduttivi e sessuali” da un lato e virus dell’HIV dall’altro. In altre parole, i programmi di prevenzione contro la malattia del secolo diventano parte integrante dell’assistenza sanitaria riproduttiva e sessuale che include l’aborto libero, legale e gratuito.
Ancora una volta viene a galla la strategia perversa e diabolica delle lobby europeiste che guardano con favore alle cosiddette gare di solidarietà e se ne fanno essi stessi promotori o enti patrocinanti al fine di distogliere con maggiore facilità l’attenzione dalle loro continue malefatte; a facilitargli il compito il clima avvelenato dal relativismo etico e morale imperante per cui le persone tendono ad assegnare pari peso e importanza a valori che in realtà non dovrebbero essere posti sullo stesso livello.
A beneficiarne sono i piani criminali di chi invece conosce bene il diritto naturale tanto da volerne attuare il completo sovvertimento.

(Fonte: Alfredo De Matteo, Corrispondenza Romana, 13 dicembre 2010)