La pesantezza di questo attacco è
stata avvertita con molta preoccupazione in tanti monasteri, ai quali ha dato
voce il vaticanista Aldo Maria Valli in queste tre analisi concatenate,
pubblicate pochi giorni fa:
1. Qualcuno
vuole liquidare il monachesimo?
L’esortazione apostolica “Vultum Dei quaerere” e la sua Istruzione Applicativa “Cor orans”: ovvero come colpire
l’autonomia dei monasteri
Nell’esortazione
apostolica di Papa Francesco “Gaudete et exsultate” sulla
chiamata alla santità nel mondo contemporaneo (19 marzo 2018) a un certo punto,
nella sezione dedicata a L’attività che santifica, si legge: “Non è sano
amare il silenzio ed evitare l’incontro con l’altro, desiderare il riposo e
respingere l’attività, ricercare la preghiera e sottovalutare il servizio.
Tutto può essere accettato e integrato come parte della propria esistenza in
questo mondo, ed entra a far parte del cammino di santificazione. Siamo
chiamati a vivere la contemplazione anche in mezzo all’azione, e ci
santifichiamo nell’esercizio responsabile e generoso della nostra missione” (n.
26).
Come mi
succede spesso con Francesco, ho letto e riletto più volte il passaggio, con
crescente sconcerto. Il mio collega Marco Tosatti, di fronte a quelle parole,
ha commentato: “Saranno felici le suore di clausura e i religiosi
contemplativi. In cinque righe il Pontefice regnante liquida un paio di
millenni di monachesimo contemplativo, maschile e femminile”.
Ciò che
colpisce è la confusione unita alla superficialità, il tutto condito con il
livore. Come sarebbe a dire che “non è sano amare il silenzio”? E come si può
pensare che amare il silenzio voglia dire “desiderare il riposo”? E come si può
pensare che “ricercare la preghiera” sia qualcosa da contrapporre al servizio?
E perché mettere “l’incontro con l’altro” in cima a tutto quando, semmai, ciò
che conta è l’incontro con Dio?
Tutto in
quelle parole mi sembra sbagliato, frutto di una visione difficilmente
comprensibile. In ogni caso non ci ho più pensato.
Poi,
pochi giorni dopo l’uscita di Gaudete et exsultate (documento che non mi
convince sotto molti altri aspetti), il Vaticano rende nota Cor orans,
istruzione applicativa sulla vita contemplativa femminile, che porta la data
del 1° aprile 2018 e le firme del cardinale João Braz de Aviz e di monsignor
José Rodríguez Carballo, rispettivamente prefetto e segretario della
Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica.
Testo
prolisso (108 pagine nell’edizione della Libreria Editrice Vaticana), Cor
orans è una sorta di manuale di applicazione di Vultum Dei quaerere,
la costituzione apostolica sulla vita contemplativa femminile firmata da
Francesco il 29 giugno 2016.
La cosa
curiosa è che Vultum Dei quaerere (sempre nell’edizione della Libreria
Editrice Vaticana) conta 62 paginette, contro le 108 del manuale che serve per
applicarla. Perché tanto puntiglio? Che cosa c’è in gioco?
Colpito
negativamente dalle parole di Gaudete et exsultate riportate all’inizio,
ho riletto Vultum Dei quaerere sotto una nuova luce e mi sono accostato
a Cor orans con un certo sospetto. Mi sono chiesto: dove sta l’inganno?
Vuoi vedere che davvero qualcuno è al lavoro, per usare il termine di Tosatti,
per liquidare il monachesimo (in questo caso femminile)?
Vultum
Dei quaerere
all’apparenza è un documento che elogia coloro che compiono la scelta della
vita contemplativa all’interno di comunità “poste come città sul monte e
lampade sul lucerniere” (n. 2), ma, in concreto, come ha osservato Hilary White
su The Remnant
(https://remnantnewspaper.com/web/index.php/fetzen-fliegen/item/3906-pope-francis-vs-contemplative-orders) se lo si
legge con gli occhiali messi a disposizione da Cor orans si scopre che
la costituzione è una sorta di “palla da demolizione” del monachesimo, almeno
così come la Chiesa l’ha conosciuto fino a oggi.
Stiamo
per entrare in un campo eminentemente giuridico e quindi complicato. In questi
casi sembra che l’autorità cerchi di prendere i destinatari per sfinimento,
così che a un certo punto dicano: va bene, avete ragione voi. Ma non bisogna
arrendersi tanto facilmente.
Con Vultum
Dei quaerere si fa piazza pulita di ciò che la Chiesa ha prodotto in
precedenza in materia: articoli del Codice di diritto canonico,
costituzione apostolica Sponsa Christi di Pio XII (1950), istruzione Inter
praeclara della Sacra congregazione per i religiosi (1950), istruzione Verbi
sponsa sulla vita contemplativa e la vita delle monache (1999). Nelle disposizioni
finali il tono è perentorio: superare tutto. Ma perché? Con quale scopo?
Leggendo
con attenzione si scopre che la questione è l’autonomia (a tutti i livelli) dei
monasteri. È questa autonomia che si vuole colpire. È questa autonomia, antica
e radicata, che si vuole superare. E di nuovo torna la domanda: perché?
Prima di
rispondere occorre ricordare che cos’è un monastero e quale valore ha la sua
autonomia.
All’interno
di un ordine religioso (San Benedetto, San Domenico, Santa Chiara eccetera),
ogni monastero nasce come piccola isola di un arcipelago, nel quale i
collegamenti con gli altri monasteri sono spontanei e comunque blandi.
Contrariamente alle case delle congregazioni religiose femminili, i monasteri
di monache sono sui iuris: significa che, in relazione al regime
interno, sono autonomi e indipendenti. Hanno quindi il diritto di governarsi da
soli senza essere soggetti ad altri superiori oltre a quello interno, eletto
dal capitolo. L’abbadessa, o priora, governa la comunità senza che i suoi atti
siano verificati, moderati o confermati da un altro superiore maggiore. I
monasteri non hanno tra loro relazione o subordinazione alcuna in quanto al
regime, ma sono assolutamente e perfettamente indipendenti. Tra loro e con
l’ordine religioso sono uniti da vincoli morali e spirituali, in quanto
riconoscono tutti il medesimo fondatore o la medesima fondatrice, professano la
stessa regola, godono degli stessi privilegi, si aiutano con suffragi e con la
fratellanza di orazioni e comunicazioni spirituali. In base all’autonomia, i
sudditi si aggregano per tutta la vita alla comunità e con la professione
s’incorporano direttamente ad essa, prima ancora che all’ordine. Ecco perché
ogni monastero ha il suo noviziato e lo spirito comune dell’ordine offre
in ciascuno di essi modalità particolari, con uno spiccato carattere familiare,
così che i membri formino una famiglia permanente sotto il governo
dell’abbadessa o priora.
Per ciò
che riguarda l’esterno, i monasteri dipendono dal papa come loro superiore
supremo, ma sono anche sottoposti alla vigilanza (non all’autorità)
dell’ordinario del luogo o dei superiori dell’ordine maschile corrispondente,
se sono ad esso collegati. L’autonomia e la mutua indipendenza dei monasteri,
“ottenuta piuttosto di fatto che di diritto” (art. VII, par.2 degli Statuti
generali delle monache di Pio XII, 1950), derivano dall’organizzazione e dal
carattere particolare che la regola di San Benedetto diede all’istituzione
monastica e in particolare, per i monasteri femminili, è la diretta conseguenza
della stretta clausura e della vita contemplativa, alla quale le monache si
dedicavano totalmente ed esclusivamente.
Le norme
applicative della regola, ossia le costituzioni e gli eventuali altri codici,
dopo aver ricevuto l’approvazione della Santa Sede, possono variare da un
singolo monastero a un altro. Le differenze tra monasteri dello stesso ordine,
pur poggiati sulla stessa regola, possono quindi essere notevoli. Ogni
monastero, di solito radicato nella realtà locale, declina la propria
spiritualità in modo originale, dando vita a tradizioni che attraverso i secoli
rendono i monasteri stessi altrettanti universi completamente unici e diversi
tra loro.
Ma ecco
che a un certo punto entra in campo un nuovo soggetto: si tratta delle
federazioni. Previste dalla costituzione apostolica di Pio XII Sponsa
Christi (21 novembre 1950), che le incoraggia e raccomanda, ma non le
impone, le federazioni vogliono essere uno strumento per l’aiuto reciproco.
Siamo nel dopoguerra e moltissimi monasteri versano in condizioni critiche,
anche per quanto riguarda i beni materiali. Le federazioni di monasteri nascono
quindi come organizzazioni di supporto. Di fatto però, nel corso degli anni,
finiscono col mettere a repentaglio l’autonomia attraverso continue intrusioni
nella vita comunitaria e pressioni psicologiche perché tutte le comunità si
uniformino alla linea dettata dalla maggioranza. Spesso ci sono conseguenze negative
sulla vita spirituale delle singole monache. Inoltre l’alternanza tra due
autorità (da una parte l’abbadessa, dall’altra la presidente della federazione)
crea conflitti e confusione, esponendo le monache, almeno quelle più fragili e
meno preparate a fronteggiare i drammi di coscienza, alla paura di mancare
all’obbedienza e ai voti, senza contare le spaccature all’interno delle
comunità e i continui disturbi alla vita di contemplazione.
Insomma,
in base a questa esperienza devastante, un provvedimento sensato sarebbe stata
l’abolizione delle federazioni, o per lo meno un loro deciso ridimensionamento,
così da consentire il rispetto delle tradizioni religiose sotto ogni profilo
(spirituale, liturgico) e il ritorno alla piena autonomia. Invece avviene esattamente
il contrario. Con Vultum Dei quaerere, infatti, le federazioni sono rese
obbligatorie e Cor orans, attraverso i suoi 289 punti, lo ribadisce nel
dettaglio, inserendo i monasteri all’interno di una struttura burocratica che
non ha nulla a che fare con la loro indipendenza ma, anzi, sembra fatta apposta
per svilirla. Infatti oltre alle federazioni abbiamo le associazioni dei
monasteri, le conferenze dei monasteri, le confederazioni, le commissioni
internazionali e le congregazioni monastiche. Tutti organismi dotati di loro
organi di governo, secondo una logica che sembra mutuata da quella dei partiti
politici e dei sindacati.
Questa
ossessione per l’organizzazione piramidale e il controllo oscura completamente
il senso più profondo della vita monastica. Orazione e adorazione diventano
quasi un dettaglio. In primo piano c’è invece la struttura, pensata per
mortificare l’autonomia e “normalizzare” le comunità.
Ma è
tutta l’impostazione ad apparire distorta. In Cor orans un campanello
d’allarme suona subito, al punto 19, dove leggiamo: “Un monastero di monache,
come ogni casa religiosa, viene eretto tenuta presente l’utilità della Chiesa e
dell’Istituto”. Come sarebbe a dire “tenuta presente l’utilità”? Da quando in
qua per una comunità di contemplative si pone come fondamentale il criterio
dell’utilità? E in che modo, poi, si può determinare l’utilità di un monastero
nel quale le suore, magari di stretta clausura, trascorrono la vita in
preghiera? In che modo un monastero, per giustificare la propria esistenza, può
dimostrare di essere “utile”?
Il
criterio dell’utilità si collega a quello dell’azione. Sei utile se accogli il
migrante, se curi il malato, se educhi il bambino, se aiuti il povero. Ma se
sei un monastero di vita contemplativa, la tua “utilità” è di altro tipo.
Al
documento però non sembra interessare più di tanto la qualità della vita di
preghiera, che in fin dei conti corrisponde all’identità stessa di un
monastero. Ciò che Cor orans fa con grande impegno è invece sottolineare
la necessità della “continuità” con il Concilio Vaticano II e la sua teologia,
alla luce delle mutate condizioni sociali. Dunque, se una comunità monastica,
in virtù della sua spiritualità e di una tradizione secolare, volesse per
esempio pregare e rendere gloria a Dio mediante il rito antico, sarebbe fuori
legge?
Continueremo
in un prossimo articolo l’esame dei nodi critici dell’istruzione applicativa Cor
orans, che mettendo a rischio autonomia e indipendenza dei monasteri
costituisce un attacco a un secolare e prezioso patrimonio di fede.
2. Se
nel nome del rinnovamento si distrugge la vita contemplativa.
Vultum Dei quaerere e Cor Orans: tra
ambiguità e incongruenze
Nel
precedente paragrafo ci siamo occupati del rischio che i monasteri femminili
stanno correndo, sotto il profilo della loro autonomia e quindi della loro
stessa vita, a causa dei contenuti di Vultum Dei quaerere, la
costituzione apostolica sulla vita contemplativa del 29 giugno 2016, e di Cor
orans, l’istruzione applicativa sulla vita contemplativa femminile,
documenti che rendono obbligatoria l’affiliazione dei monasteri alle
federazioni.
Proprio
in Cor orans, balza agli occhi la richiesta che i monasteri, tramite le
federazioni, “superino l’isolamento” (n. 7). Ma il fatto che un monastero si
isoli, vista la sua natura, dovrebbe essere un valore da promuovere, non un
limite da superare.
Troviamo
poi la richiesta che i monasteri, tramite le federazioni, “promuovano
l’osservanza regolare e la vita contemplativa” (n. 7), ma l’esperienza ha
dimostrato che le federazioni non hanno fatto questo. In realtà esse hanno
imposto uscite continue e confronti, hanno introdotto disturbi e squilibri, e
in tal modo non hanno favorito la vita contemplativa, ma l’hanno piuttosto
minata, perché uscite, riunioni, discussioni e corsi sono fattori che nulla
hanno a che fare con la spiritualità di chi decide di ritirarsi dal mondo per
vivere nella preghiera.
Ma il
documento, soprattutto, mette a repentaglio l’autonomia giuridica del
monastero. Leggiamo infatti che “l’autonomia giuridica deve essere
costantemente verificata dalla Presidente [della federazione], a suo giudizio”
(n. 43). Inoltre (n. 45) se le monache sono meno di cinque perdono il diritto di
eleggere la propria superiora e “in tal caso la Presidente federale è tenuta a
informare la Santa Sede” in vista della nomina di una “Commissione ad hoc”.
Proseguiamo.
Al n. 54 leggiamo che l’affiliazione alla federazione “è una particolare forma
di aiuto che la Santa Sede viene a stabilire in particolari situazioni in
favore della comunità di un monastero sui iuris che presenta
un’autonomia solo asserita, ma in realtà assai precaria o, di fatto,
inesistente”. Ma quali sarebbero queste “particolari situazioni”? Chi le
stabilisce? Secondo quali criteri? E chi può dire che un’autonomia è “solo
asserita”? Se la presidente di una federazione stabilisce che una comunità ha
un’autonomia “solo asserita” chi può assicurare che il suo sia un giudizio
imparziale?
In realtà
la preoccupazione principale sembra non quella di fare di tutto per garantire
la vita delle comunità, ma di arrivare, attraverso lo strumento della
federazione, alla loro soppressione. Leggiamo al n. 55: “L’affiliazione si
configura come un sostegno di carattere giuridico che deve valutare se
l’incapacità di gestire la vita del monastero autonomo in tutte le sue
dimensioni sia solo temporanea o irreversibile, aiutando la comunità del
monastero affiliato a superare le difficoltà o a disporre quanto è necessario
per addivenire alla soppressione di detto monastero”. Capolavoro di ipocrisia:
quello che è detto un “sostegno” per il “monastero autonomo” è invece, in
pratica, l’organismo che ha su di esso il potere di vita o di morte.
E il
potere della federazione è confermato al n. 56, dove si stabilisce che nella
“Commissione ad hoc”, in parole povere un tribunale, dovrà entrare la
“Presidente della Federazione”.
Un’espressione
ambigua si trova al n. 70, dove scopriamo che “fra i criteri che possono
concorrere a determinare un giudizio riguardo alla soppressione di un
monastero” c’è la “fedeltà dinamica” nel vivere e trasmettere il carisma. Che
significa “fedeltà dinamica”? La fedeltà è fedeltà. Se non c’è la fedeltà c’è
l’infedeltà, il tradimento. Essere “dinamici”, nell’ottica di Cor orans,
vuol dire forse adeguarsi al mondo? Cedere al modernismo? O piegarsi ai diktat
della federazione?
Altra
ambiguità al n. 72, dove, a proposito dei beni di un monastero soppresso,
scopriamo che la Santa Sede può disporre di attribuirli “alla carità” oltre che
alla federazione o alla “Chiesa locale”. Che significa “carità”? A chi andranno
i beni? E in base a quali criteri?
Al n. 74
viene detto che la vigilanza “necessaria e giusta” sui monasteri deve essere
“esercitata principalmente – se non esclusivamente – mediante la visita
regolare di un’autorità esterna ai monasteri stessi”, e al n. 75 si precisa che
tale compito spetta alla “Presidente della Congregazione monastica femminile”,
“al superiore maggiore dell’Istituto maschile consociante” e “al vescovo
diocesano”, ma al successivo n. 111 scopriamo che “la Presidente della
Federazione, nel tempo stabilito, accompagna il Visitatore regolare nella
visita canonica ai monasteri federati come convisitatrice”. In pratica, una supervisione
che, ancora una volta, assegna un grande potere alla federazione.
Vediamola
un po’ più di vicino, allora, questa federazione di monasteri. La sezione di Cor
orans ad essa dedicata è la seconda, dove in primo piano viene messa (n.
86) l’esigenza che i monasteri “non rimangano isolati”, perché “valore
irrinunciabile” è quello della “comunione”. Ma chi l’ha detto? La parola
stessa, monastero, dal latino monastērĭum e dal greco antico μοναστήριον
(monastḗrion), deriva da μόνος (mónos:
solo, unico), e μονακός (monakós) vuol dire solitario, eremita.
Il vero valore irrinunciabile del monastero non sta certamente nella comunione,
né con altri monasteri né con altre realtà religiose, ma nella sua unicità e
anche nel suo isolamento.
Ma le
contraddizioni non finiscono qui. Al successivo n. 87 si dice che “la
federazione è costituita da più monasteri autonomi che hanno affinità di
spirito e di tradizione e, anche se non sono configurate necessariamente
secondo un criterio geografico, per quanto possibile, non devono essere
geograficamente distanti”. Di nuovo viene da chiedersi: perché? Che importanza
può avere tutto questo? L’unico disegno che si vede dietro tali indicazioni,
ancora, è di affermare il ruolo e la funzione della federazione. Un ruolo che
arriva fino a garantire “l’aiuto nella formazione iniziale permanente” e
promuovere “lo scambio di monache e di beni materiali”, con tanti saluti
all’autonomia del monastero!
E a
proposito di autonomia, enunciata a parole ma nei fatti negata, ecco che al n.
93 il documento svela le carte: “A norma di quanto disposto nella Costituzione
apostolica Vultum Dei quaerere, tutti i monasteri inizialmente devono
entrare in una Federazione”. Quell’”inizialmente” dice tutto: di fatto si
tratta di un obbligo inderogabile. E l’affiliazione ha un significato precipuo:
amministrare i beni dei monasteri.
Al n. 98
leggiamo: “Per tenere viva e rafforzare l’unione di monasteri (di nuovo: come
se fosse questo lo scopo decisivo del monastero, ndr), attuando una delle
finalità della Federazione, viene favorita tra i monasteri una certa
comunicazione di beni, coordinata dalla Presidente federale”.
“Una
certa comunicazione di beni”? Che significa? L’unica cosa chiara è che se ne
deve occupare la federazione, nella persona della sua presidente.
E che
dire del successivo n. 99? Eccolo: “La comunicazione dei beni in una
federazione si attua mediante contributi, doni, prestiti che i monasteri
offrono per altri monasteri che si trovano in difficoltà economica e per le
esigenze comuni della Federazione”. Contributi, doni, prestiti? E chi decide
chi dona a chi, chi presta a chi? E in quale misura? E per quali motivi?
Ovviamente decide la federazione, che così acquisisce un ulteriore potere. Con
tanti saluti, di nuovo, all’autonomia dei singoli monasteri.
Con gli
esempi si potrebbe continuare a lungo. A un certo punto, sempre a proposito di
beni (argomento principe), si stabilisce che presso la federazione dovrà essere
costituito “un fondo economico (cassa federale)” il cui scopo è quello di “realizzare
le finalità federative”. Quali? Non è chiaro. Molto chiaro è invece che il
fondo sarà amministrato dalla presidente della federazione, specie per quanto
riguarda (n. 109) “l’alienazione dei beni dei monasteri totalmente estinti”.
La
presidente della federazione ha un potere enorme. Ma chi la controlla? Chi ha
autorità su di lei? Al n. 110 scopriamo che sarà eletta “dall’Assemblea
federale” e che “non è una Superiora maggiore”. Di fatto, la presidente della
federazione sta al di sopra anche delle superiori maggiori, il che determina,
di nuovo, un vulnus per l’autonomia e l’indipendenza del monastero,
tanto è vero che (n. 141) ci saranno norme che le suddite saranno tenute ad
osservare anche contro la volontà della propria abbadessa, e la presidente della
federazione potrà addirittura decidere in merito al passaggio di una monaca da
un monastero all’altro, anche a fronte di un rifiuto da parte della superiora
maggiore (n. 122).
Pure a
proposito delle visite (di ogni tipo: canoniche, materne, sororali) la
discrezionalità della presidente della federazione (“ogni volta che la
necessità lo richiede”) è totale. In più, al termine delle visite la presidente
“indica per iscritto alla Superiora maggiore del monastero le soluzioni più
adatte ai casi e alle situazioni emerse durante la visita e ne informa la Santa
Sede” (n. 115). Insomma, la presidente comanda e la superiora esegue. E
l’autorità del vescovo che fine ha fatto?
Nel
successivo punto (n. 116) scopriamo poi che la presidente della federazione,
durante la visita canonica, verifica che siano osservate “le norme applicative”
stabilite da Vultum Dei quaerere. Ecco che cosa interessa. Non la vita
di preghiera, non la penitenza, non il digiuno, non la qualità della vita
fraterna, non le relazioni tra sorelle, non la fedeltà al carisma, ma
l’aderenza alle nuove norme.
Circa,
in particolare, la formazione iniziale, se la presidente scopre che, a suo
insindacabile giudizio, qualcosa non va, come procede? Informa la superiora? Ne
parla con le monache? No, “informerà la Santa Sede” (n. 117).
Che si
tratti di un intervento dal significato punitivo lo si desume dall’uso ripetuto
del verbo “deferire”. Se il monastero non si mostra disponibile e pronto ad
accogliere tutti i comandi nel campo della formazione, la presidente “deferisce
la cosa alla Santa Sede”, e lo stesso avviene “per coloro che sono chiamate a
esercitare il servizio dell’autorità”. Insomma, controllo e dominio totali.
Interessante
è poi scoprire che il potere della presidente della federazione arriva fino al
punto di scegliere “i luoghi più adeguati” nei quali tenere i corsi di
formazione (i monasteri non vanno bene? Pare di no. Infatti attualmente le
federazioni scelgono luoghi “adeguati” quali alberghi e resort) e
stabilire la durata dei corsi stessi. Quanto deve durare un corso? Una
settimana? Un mese? Un anno? Non si sa. Ma niente paura: ci pensa la presidente
della federazione.
Un’altra
conseguenza chiara è che le monache dovranno uscire piuttosto spesso dal
monastero. Stabilito (n. 133) che l’assemblea federale ha il compito di
“promuovere un adeguato rinnovamento” (ma perché? Chi lo dice che il
rinnovamento sia un valore?), il documento prevede ben tre tipi di assemblea:
ordinaria, intermedia e straordinaria. In una logica che sembra appartenere più
a un partito politico o a un sindacato che alla vita contemplativa, le monache
sono coinvolte in un tourbillon di incontri assembleari che si aggiungono a
tutte le altre uscite, per i corsi, le riunioni, le visite eccetera. Uno strano
modo di tutelare e promuovere la vita di preghiera e contemplazione.
Molti
altri sono i punti che negano nei fatti l’autonomia dei monasteri e ne mettono
a rischio la vita religiosa. Si pensi alla figura della segretaria della
federazione (che, come la presidente, dura in carica sei anni, contro i tre
della maggior parte delle superiore dei monasteri), la quale può risiedere in
un monastero di sua scelta, circostanza che ha determinato danni immensi:
intrusioni, sotterfugi, confronti, conflitti tra segretaria e abbadessa.
In Cor
orans la sezione dedicata alla separazione dal mondo (l’aspetto più
significativo nella vita delle monache) è la terza, dove vediamo che la Santa
Sede ha rimaneggiato l’istruzione Verbi sponsa del 1999.
Per i
mass media è questa la parte che più delle altre ha fatto notizia, perché vi si
trovano le norme sull’uso dei mezzi di comunicazione nei monasteri, ma dal
punto di vista sostanziale ciò che conta è quanto si prevede a proposito di
clausura papale, ovvero quella conforme alle norme stabilite dalla Sede
apostolica.
Qui ciò
che più colpisce è l’abolizione dell’aggettivo “grave” che in Verbi sponsa
era ripetutamente usato a proposito di obbligatorietà della clausura, uscite e
ingressi. Per esempio, se in precedenza si diceva che “la concessione
della licenza di entrare e di uscire richiede sempre una causa giusta e grave”
(VS n. 15), ora si parla soltanto di “giusta causa” (CO, n.
194).
Anche in
questa sezione non mancano le contraddizioni (per esempio si dice che la
vigilanza sull’osservanza della clausura spetta al vescovo diocesano o
all’ordinario religioso, ma subito dopo si dice che in deroga a quanto disposto
dal Codice di diritto canonico il vescovo e l’ordinario non intervengono nella
concessione delle dispense) e le ambiguità, ma forse il vertice dello sconcerto
lo si raggiunge nella sezione dedicata alla “formazione permanente” (altra
definizione tratta dal mondo, come se fare la monaca fosse una professione)
dove non si parla mai, ripeto mai, di preghiera. Si dice invece (n. 237) che
“ogni monaca è incoraggiata ad assumere la responsabilità della propria
crescita umana, cristiana e carismatica, attraverso il progetto di vita
personale, il dialogo con le sorelle della comunità monastica, e in particolare
con la Superiora maggiore, così come attraverso la direzione spirituale e gli
appositi studi contemplati negli Orientamenti per la vita monastica
contemplativa”. Ora, a parte la forma (gli studi contemplati per la vita
contemplativa), provate a sostituire alla parola “monaca” la parola “manager”: vedrete
che non cambierà gran che. La dimensione è tutta orizzontale, di tipo tecnico e
funzionalistico. Non si parla di Dio, di adorazione, di vita di preghiera.
Sembra che per fare la monaca l’importante sia frequentare “gli appositi
studi”.
Il testo
poi sembra non rendersi conto dei problemi pratici quando afferma (n. 263) che
“compete alla Superiora maggiore con il suo Consiglio, tenendo conto di ogni
singola candidata, stabilire i tempi e le modalità che l’aspirante trascorrerà
in comunità e fuori dal monastero”. Si può immaginare il disturbo arrecato alla
comunità monastica dal dentro-fuori, ma, soprattutto, viene da chiedersi: come
può essere possibile questo doppio regime? Dove va a vivere una giovane quando
è fuori se non è tanto ricca da permettersi un appartamento? E se poi viene
chiamata a trascorrere alcuni mesi in monastero che cosa fa? Mantiene comunque
un appartamento che non usa? Va in albergo? Va dai genitori? E se arriva
dall’estero?
Il
documento sembra scritto da chi non conosce, o non vuole conoscere, le reali
condizioni di vita nei monasteri.
3.
Con lo sguardo rivolto al mondo, non a Dio. Ovvero come snaturare la vita
contemplativa.
Fine
dell’autonomia, burocratizzazione, abbandono della tradizione. La strada
sbagliata di Cor orans e Vultum Dei quaerere
Proseguiamo
l’analisi di Cor orans, l’istruzione applicativa sulla vita
contemplativa femminile, il documento che rende operativi i principi contenuti
in Vultum Dei quaerere, la nuova costituzione apostolica sulla vita
contemplativa femminile.
Quelle
che Cor orans definisce “disposizioni finali” assomigliano molto a
minacce.
Prima di
tutto è scritto nero su bianco che entrare in una federazione è un “obbligo”,
il che di per sé mette fine all’autonomia dei monasteri stessi. Poi si specifica
che “tale obbligo vale anche per i monasteri associati ad un Istituto maschile
o riuniti in Congregazione monastica autonoma”. E infine ecco il diktat: “I
singoli monasteri devono ottemperare a questo entro un anno dalla pubblicazione
della presente Istruzione, a meno che non siano stati legittimamente
dispensati. Compiuto il tempo, questo Dicastero (la Congregazione per gli
istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, ndr) provvederà ad
assegnare i monasteri a Federazioni o ad altre strutture di comunione già
esistenti”.
Insomma,
non si scappa. Ma colpisce anche il fatto che nell’intero documento troviamo
ben undici deroghe ad altrettanti articoli del Codice di diritto canonico. Una
vera rivoluzione. Domanda: tali deroghe, tutte specificamente approvate dal
papa, non sono forse un po’ troppe per un’istruzione, ovvero per un documento
che, in fin dei conti, dovrebbe solo avere una funzione applicativa della
legge?
L’impressione,
più che legittima, è di trovarsi di fronte a un diritto speciale per le
monache, un modo di procedere che di fatto è la morte del diritto perché salta
tutti i passaggi necessari per la tutela della giustizia e impedisce il ricorso
contro i provvedimenti.
La
parola “obbligo” compare ripetutamente, coronando così un documento il cui tono
è in molte parti minaccioso e senza precedenti nei confronti di quella che un
tempo era considerata la parte eletta della Chiesa, alla quale ci si rivolgeva
con particolare delicatezza, e ora invece sembra, al più, una frangia tollerata.
Cor
orans ha un
contenuto ispirato a doppiezza. Da un lato si ribadisce l’autonomia dei
monasteri, ma dall’altro l’autonomia è scardinata attraverso l’obbligo di
affiliarsi alle federazioni.
Bisogna
poi notare che i cambiamenti introdotti sono sostanziali rispetto alla
vocazione monastica. Non si tratta solo di sfumature. Di fronte a Cor orans
una monaca può avvertire che i nuovi contenuti non sono consoni ai voti già
emessi. Si pensi alla nuova fisionomia dei monasteri, che vanno a perdere la
propria autonomia, e anche all’obbligo di partecipare a corsi esterni.
L’esperienza
degli ultimi decenni insegna che le federazioni hanno causato danni
notevolissimi alla vita dei monasteri e alle singole monache. Eppure si insiste
su questa strada e anzi la si fa diventare l’unica opzione possibile,
all’insegna di un generico “rinnovamento” che di certo non è un valore per la
vita di preghiera e di contemplazione.
Tra le
righe ciò che viene detto, e anzi imposto, è che le contemplative devono
cambiare il loro stile di vita, ma a supporto di una tale pretesa non vengono
fornite spiegazioni che abbiano realmente a che fare con questioni spirituali e
religiose. Tutto il documento si occupa invece di organizzazione, strutture,
assemblee, corsi.
L’ispirazione
di fondo è una sola: ri-orientarsi. Ma verso dove? Certamente non verso Dio,
bensì verso il mondo e verso l’azione. Che si parli di clausura, formazione o
ascesi, ciò che conta sembra essere introdurre cambiamenti. Controllo
centralizzato, fine dell’autonomia e burocratizzazione sono gli strumenti, il
che è quanto meno singolare se si pensa all’insistenza di Francesco a favore
dei processi di decentralizzazione nella Chiesa.
Nella
conferenza stampa di presentazione di Cor orans (15 maggio 2018),
monsignor José Rodríguez Carballo, giustificando i nuovi provvedimenti, ha
sostenuto: “Di fatto, il Dicastero ha dovuto più volte constatare con rammarico
l’esistenza di monasteri non più in grado di portare avanti una vita dignitosa,
senza che ci fosse una legislazione che dicesse quando e come intervenire al
riguardo: l’aver colmato questa lacuna legislativa è sicuramente uno dei punti
più importanti e più attesi dell’istruzione”. Ora, ammesso che le norme
introdotte da Cor orans siano le più efficaci per intervenire nei confronti
dei monasteri che non conducono una vita “dignitosa” (ma che significa
dignitosa?), non si vede perché, in concreto, tali norme debbano condizionare
la vita di tutti i monasteri, anche di quelli ben vivi e desiderosi di
mantenere la propria identità e le proprie tradizioni.
L’affiliazione
alla federazione diviene un obbligo, salvo dispensa che può essere concessa
dalla Santa Sede “per ragioni speciali, oggettive e motivate”. Ma dovrebbe
essere il contrario: l’autonomia dovrebbe essere la condizione normale, salvo
la necessità di affiliarsi alla federazione per motivi speciali.
Nella
conferenza stampa monsignor Carballo ha sostenuto inoltre che “l’Istruzione,
come già prima la Costituzione, riflette molto bene quanto le stesse monache
hanno chiesto nelle risposte al questionario che alcuni anni fa era stato
inviato a tutti i monasteri del mondo”, ma sulla base di testimonianze possiamo
dire che questa circostanza risponde al vero solo in minima parte. Molti
monasteri non sono nemmeno stati interpellati. Se davvero tutti i monasteri
avessero ricevuto un questionario e avessero risposto, il dicastero avrebbe
avuto bisogno di anni e anni per elaborare il tutto.
Il nuovo
assetto ha insomma il sapore di una normalizzazione. Come spiega, per esempio,
Marian T. Horvat
(https://www.traditioninaction.org/HotTopics/P043_Contempl_1.htm), ciò che si
vuole è che le monache cambino il proprio stile di vita, con l’aggiornamento
come stella polare e senza la possibilità di fare ricorso al diritto per
rivendicare la propria autonomia e libertà, perché proprio il diritto è stato
usato per imporre la rivoluzione.
Il
cardinale Braz de Aviz è stato chiaro quando ha detto
(https://www.ncronline.org/news/world/cardinal-religious-those-who-abandon-vatican-ii-are-killing-themselves)
che i religiosi che non seguono il Concilio Vaticano II stanno uccidendo loro
stessi. Essere inseriti nel mondo, non chiudersi ai cambiamenti della vita
moderna: queste le indicazioni date dal prefetto, perché i contesti sono
cambiati e “Dio non è statico”.
Se
questa è l’ispirazione di fondo, si capisce meglio lo spirito delle nuove
norme. Anche nella vita contemplativa il collegamento con il mondo e con le
“povertà” deve avere il sopravvento. “Pregate e intercedete per tanti fratelli
e sorelle che sono carcerati, migranti, rifugiati e perseguitati”, chiede Cor
orans (n. 6). Siamo sicuri che le monache già lo fanno, perché
pregano per tutti.
Aggiornarsi,
non guardare al passato e alla tradizione, cambiare: la richiesta che arriva
dai vertici vaticani è pressante e sembra ignorare del tutto il fatto che,
nella generale crisi delle vocazioni, gli unici ordini che attirano davvero le
nuove generazioni sono quelli che, ben radicati nella tradizione, conservano la
loro identità a tutti i livelli, anche dal punto di vista liturgico. Perché i
giovani, oggi più che mai, non sono attirati dalle analisi sociologiche
applicate alla vita della Chiesa, non dai corsi di aggiornamento e dalla
“formazione continua”, ma dall’incontro autentico con Cristo nel silenzio orante.
Chi
sembra guardare al passato in realtà è proprio chi continua a indicare il
Vaticano II come punto di riferimento obbligatorio, ignorando la richiesta di
autenticità e di amore per la tradizione che sta emergendo sempre più
chiaramente, in controtendenza rispetto a certi dogmi modernisti che hanno
ampiamente fatto il loro tempo.
Del
resto i risultati dei processi di “liberazione” di religiosi e religiose sono
sotto gli occhi di tutti. Non chi si è radicato nella tradizione, ma chi l’ha
abbandonata per abbracciare il mondo ha prosciugato il proprio patrimonio
spirituale, a forza di aggiornamenti e aggiustamenti.
No, non
saranno i corsi di formazione, le federazioni, la centralizzazione e
l’uniformazione a rinvigorire la vita contemplativa. La strada è tutt’altra ed
è indicata da quei religiosi e quelle religiose che nel silenzio e
nell’isolamento coltivano la relazione di preghiera con Dio secondo tradizioni
originali e radicate e offrono le loro vite per la conversione di tutte le
anime.
Un
grande mistico, don Divo Barsotti, che decise di vivere la propria vita di
preghiera nell’isolamento, diceva che la Chiesa oggi cade in un grande equivoco
quando pensa di dover liberare dalla povertà e non dal peccato.
L’assistenza sociale non sostituisce l’amore cristiano e nessun processo di
“rinnovamento” potrà rafforzare la fede, la speranza e la carità. In un mondo
pienamente secolarizzato la strada dei religiosi non è quella di secolarizzarsi
a loro volta. “Non incontri l’uomo, se prima non hai incontrato Dio… La vera
comunione col mondo si ha quando si è separati dal mondo, perché se noi non
entriamo in rapporto col Signore, si perde di vista il Tutto” (Divo Barsotti, I
cristiani vogliono essere cristiani).
Lasciamo
che religiosi e religiose incontrino Dio senza essere disturbati.
(Fonte:
Aldo Maria Valli, 8-9-10 settembre 2018)
https://www.aldomariavalli.it/