Quando
la Chiesa rinuncia ad un linguaggio comune, universale e preciso, tale è il
linguaggio dogmatico, fisso e senza tempo, giacché suo compito è percorrere i
tempi, a quel punto nasce la incomunicabilità e si rinnova il dramma della
superbia di Babele. Insomma, urge correre ai ripari e prendere atto del dato
drammatico: abbiamo perduto il linguaggio per comunicare i misteri della fede,
che richiedono un lessico proprio e preciso, che prescinde dalla società e dai
tempi; e questo linguaggio è il linguaggio metafisico […]
Anni addietro
ho dedicato molto tempo alla riflessione ed allo studio di alcune particolari
tematiche socio-ecclesiali, fissando poi in alcuni miei libri — in particolare
nell’opera E Satana si fece Trino — un concetto sul quale seguito sempre
a ribattere: il principio di inversione del bene e del male che muta il male in
bene ed il bene in male, sino alla “naturale” distruzione del concetto stesso
di bene e di male, in un mondo ecclesiale e secolare dove la coscienza
soggettiva è annullata e la coscienza oggettiva — quella che Carl Gustav Jung
chiamerebbe a suo modo “inconscio collettivo” o “coscienza collettiva” —
risulta spesso totalmente annichilita. Questo processo, di cui è sommo artefice
il Demonio, passa inevitabilmente attraverso lo “svuotamento” delle parole, prima
private di contenuto poi riempite d’altro, per esempio la carità senza verità,
la misericordia senza giustizia …
Quando agli inizi dell’anno 2000 cominciai a
percepire certe forme di buonismo filantropico all’epoca in fase di sviluppo ed oggi giunte
all’apice della vera e propria perversione, nell’apertura di un mio libro edito
poi nel 2007 scrissi: «La Carità senza Verità è zoppa, la Verità senza Carità è
cieca. La Carità si compiace della Verità nella misura in cui la Verità si
compiace della Carità» (1). Ed è proprio la carità che mi porta a definire il
nostro Creatore come un Dio virile in quanto fonte originante del concetto
stesso di quella virilità che prende forma fisica visibile e tangibile nel
Verbo Incarnato, Cristo Signore, vero Dio e vero Uomo. Il tutto per dire che la
carità — perlomeno quella cristiana — non ha nulla da spartire con certe
melasse. La carità-amore è un vero e proprio “attributo” di Dio che come tale
non è neppure concepibile senza la verità; allo stesso modo in cui la
misericordia non è pensabile — perlomeno cristianamente — senza la verità e la
giustizia. Se dunque vogliamo ridurre l’uomo alla vera impotenza del non
essere per condannarlo al non divenire, prima è necessario svuotare
le parole, alterarle e falsificarle, poi privarlo di un vocabolario, quindi di
una lingua.
Nel correre dell’ultimo mezzo secolo si è rinnovato
all’interno della società ecclesiale
ciò che i figli di Dio hanno già vissuto in passato, il tutto tramite le stesse
modalità di fondo e con le stesse conseguenze finali. La nostra modernità è
difatti racchiusa nel racconto vetero testamentario in cui si narra della costruzione
della Torre di Babele, dall’ebraico מגדל בבל
– migdol bavel :
Tutta
la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Emigrando dall’oriente gli
uomini capitarono in una pianura nel paese di Sennaar e vi si stabilirono. Si
dissero l’un l’altro: «Venite, facciamoci mattoni e cociamoli al fuoco». Il
mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento. Poi dissero: «venite,
costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un
nome, per non disperderci su tutta la terra». Ma il Signore scese a vedere la
città e la torre che gli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: «Ecco,
essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della
loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile.
Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno
la lingua dell’altro». Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi
cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il
Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su
tutta la terra
(2).
Tra le numerose interpretazioni di questo racconto
allegorico che
oltre l’allegoria racchiude la radice della divina verità, amo da sempre
prediligere l’immagine della punizione per un atto di umana superbia dell’uomo
che non solo tenta di sfidare Dio, ma di sostituirsi a Dio. D’altronde, il
cuore della grande tentazione alla quale Adamo ed Eva cedettero fu l’inganno
del Demonio racchiuso in una espressione che percorre dall’alba dei tempi la
storia dell’umanità: … se mangerete di questo frutto del quale vi è stato
proibito di cibarvi, sarete simili a Dio. A questo modo il Tentatore altera e
mette in dubbio la parola di Dio, appunto svuotandola e trasformandola in
altro, insinuando il malevolo dubbio che quella proibizione nasce solo dalla
gelosia di Dio, desideroso che Adamo ed Eva non fossero simili a lui.
Nelle antiche esegesi fatte quando ancora possedevamo e conservavamo
con cura un vocabolario che racchiudeva al proprio interno i significati reali
delle parole ed una lingua comune universale, si soleva fare un collegamento
tra l’episodio della Torre di Babele e la discesa dello Spirito Santo sul
cenacolo degli apostoli a Pentecoste. Attraverso l’azione di grazia dello
Spirito Santo gli Apostoli prendono a parlare lingue diverse divenendo così
comprensibili agli uomini di tutti i popoli, sanando a questo modo la frattura
originata in passato a Babele.
Sono il primo a criticare i limiti della
neoscolastica decadente,
che della autentica scolastica è solo una parodia. Volendo possiamo anche
muovere delle critiche scientifiche e pertinenti ad alcune parti dell’opera o
ad alcuni degli stessi pensieri del Doctor Angelicus, che tratta verità
dogmatiche — in maniera mirabile e sino ad oggi insuperata — ma il cui
pensiero, non esente anch’esso da alcuni errori umani, non è dogma di fede. San
Tommaso d’Aquino parla dei dogmi, ed in modo efficace li trasmette attraverso
il metro della migliore metafisica, ma la Summa Teologica non è un dogma, lo
sanno e lo affermano da sempre i tomisti per primi, alcuni anche in modo ilare
affermando che «Dio non è uno, trino e … tomista», pur essendo la speculazione
dell’Aquinate comprovata nei secoli per la preziosa efficacia con la quale ci guida
a penetrare gli arcani misteri del Dio uno e Trino.
Gli esponenti delle diverse scuole teologiche si
sono affrontanti per secoli
in profondi e talvolta anche furenti dibattiti teologici, tutti beneficiando
del legittimo diritto di cittadinanza all’interno della Chiesa. Ciò avveniva
nelle varie epoche di quel lungo spazio che fu il medioevo, definito tutt’oggi
da certi irriducibili asini come “epoca dei secoli bui”, espressione
fatta propria anche da certi ecclesiastici e teologi, alcuni dei quali in
cattedra nelle nostre università pontificie. La verità, è che in quella
“terribile” stagione dei “secoli bui”, che segnò invece delle straordinarie
esplosioni dell’umano intelletto attraverso le scienze, le arti, la filosofia e
la teologia, non solo il confronto era possibile ma cercato, favorito e
auspicato; al contrario di oggi, dove sopra le ceneri del linguaggio metafisico
ormai de-costruito è stata originata una crisi del dogma senza precedenti, sino
allo sprofondamento nel paradosso inteso nel più stretto senso etimologico
della radice greca di παρά [contro] e δόξα [opinione]. Il perverso paradosso
odierno è che si può mettere in discussione l’incarnazione del Verbo di Dio, si
può leggere in chiave puramente allegorica la risurrezione del Cristo, si può
ridurre la Santissima Eucaristia a mera simbologia di un banchetto gioioso, si
può scempiare la sacra liturgia secondo gli arbitrî del bohèmienne Kiko
Arguello e di Carmen Hernández, si può trascinare dentro la Chiesa l’animismo
africano ed il pentecostalismo nordamericano attraverso la devastante opera di
certi carismatici invasati, si può spacciare per ecclesiologia il più ambiguo
politichese ciellino assiso di prassi sul carrieristico carro del vincitore, ma
non si possono porre in discussione le perniciose teorie di Karl Rahner e di
tutte le étoiles della Nouvelle Théologie; di tutti gli astri
nati dal post concilio erettosi come una autentica Babele sopra le dottrine del
Concilio Vaticano II, sulle quali si è celebrato il grande tradimento in un
clima di feroce dittatura che non ammette alcuna sana discussione. O come disse
in uno studio teologico dell’Italia Meridionale un docente ad un seminarista:
«Quel che tu pensi a me non interessa. Ciò che voglio è che parola per parola
tu mi porti all’esame la cristologia di Walter Kasper e di Karl Lehmann, se
vuoi superare il mio esame, altrimenti …». E questi moderni “teologi” oggi in
cattedra, che hanno studiato la patristica non sui testi greci ma su sunti di
dispense tradotte, che hanno sostituito il parlare dogmatico col parlare
sociologico; questi distruttori della metafisica e di ogni senso comune, spesso
sono proprio coloro che ironizzano con stile da illuministi volteriani in odore
di massoneria Settecentesca sui cosiddetti “secoli bui”; loro che hanno preso
la lampada da sopra il tavolo e l’hanno nascosta sotto al moggio (3)
consegnando infine la Sposa di Cristo ad una lunga notte di tenebre.
Una volta, uno dei diversi sacerdoti tirati su
dentro i nostri pretifici —
quelle odierne fabbriche di deformazione alle quali sono ormai ridotti certi
seminari — ed allevato attraverso il meglio del peggio delle esegesi
protestanti, baccalaureato, specializzato e infine dottorato presso la “scuola
rabbinica” del Pontificio Istituto Biblico senza avere mai sfiorato ciò che
in filosofia e in teologia è il pensiero veramente cattolico, sollevò lagnanze
su di me, a suo dire colpevole di avere criticato il pensiero del “santissimo
padre della Chiesa” Carlo Maria Martini. Il vescovo di questo prete
mi esortò in modo amabile ad essere meno impetuoso. Risposi al vescovo: «Questo
suo presbitero, non solo amoreggia con tutto ciò che non è cattolico, ma
strizza gli occhi all’eutanasia, afferma in modo sibilino che il discorso
sull’aborto andrebbe valutato “caso per caso”, che un giorno la Chiesa valuterà
se non il sacerdozio femminile perlomeno il diaconato alla donne, che il
discorso dei cattolici divorziati andrà valutato presto e bene. Preposto a
curare un centro di formazione teologica, chiama a tenere conferenze esponenti
della sinistra ideologica e sostenitori della cultura del gender …
eppure ha persino l’impudenza di lamentare che io avrei proferito una sacrilega
“bestemmia contro lo Spirito Santo”, ossia l’avere osato criticare il pensiero
di un pensatore che temo abbia reso l’anima a Dio in piena crisi di fede. E
badi bene, Venerabile Vescovo, non affermo questo perché oso giudicare la
coscienza intima del Cardinale Martini, che solo Dio può scrutare e giudicare,
ma perché ho analizzato certi suoi testi; e se pure lei vorrà leggere Conversazioni
notturne a Gerusalemme, capirà il dramma interiore di quest’uomo al quale
in giro per gli studi teologici italiani sono dedicati cicli di lezioni
celebrative intitolate “La parola del Cardinale Martini”, il tutto mentre
giorno dietro giorno si dimentica sempre di più la Parola di Dio, sostituita
col verbo dei moderni idoli, ivi incluso tra di essi anche il Cardinale
Martini. Non è però questo il problema ma altro: lei sa che questo suo
presbitero critica in modo subliminale il magistero di Giovanni Paolo II e di
Benedetto XVI, lanciando su entrambi il martiniano “anatema” che la Chiesa
sarebbe indietro di almeno 200 anni? Ebbene mi dica: si può forse mettere in
discussione i capisaldi della morale cattolica, criticare il magistero della
Chiesa e degli ultimi due Sommi Pontefici con modernistica altezzosità da biblisti
filo-protestanti, ed al tempo stesso essere però impediti a porre in
discussione, sul piano strettamente scientifico, teologico e pastorale, certe
affermazioni infelici e palesemente errate pronunciate dal Cardinale Martini?».
Replicò il vescovo: «Figliolo caro, che cosa ci posso fare?». Risposi: «Al
posto suo saprei che cosa fare, ma il vescovo è lei, non io. In ogni caso: il
primo passo per risolvere dei gravi problemi, è quello di ammettere anzitutto
la loro esistenza, non certo negarla». Poi, in maniera molto delicata, ricordai
al vescovo qual grave e devastante mancanza costituisce per i presbiteri che
esercitano il sacerdozio in comunione con la pienezza del suo sacerdozio e per
il Popolo di Dio a lui affidato, il grave peccato di omissione, la impotenza
derivante dal non-agire, sport ormai molto praticato nel nostro episcopato
ridotto sempre più ad una compagine di funzionari in carriera che non vogliono
grane, che non amano discutere e meno che mai sono disposti a richiamare i
figli ribelli, pur essendo però capaci a richiamare chi afferma
l’ovvio: «Questo agire non è pastorale» e spesso non è neppure cattolico.
Il tutto con buona pace del defunto Cardinale Martini, che alla prova dei fatti
non passibili di facile smentita ha trascorso la propria vita a piacere e ad
essere celebrato in gloria da tutti i circoli intellettuali della sinistra,
osannato dalla strampa anti-cattolica e massonica; il tutto mentre Giovanni
Paolo II prima, Benedetto XVI dopo, dagli stessi circoli intellettuali e dagli
stessi giornali erano fatti letteralmente a pezzi in modo metodico e spesso feroce.
Ripeto, questi sono i fatti, con buona pace dei martinitt formatisi sul
meglio del peggio delle esegesi protestanti e sulle eresie moderniste oggi al
potere; e che in giro per gli studi teologici italiani organizzano seminari su
“La parola del Cardinale Martini”, chiamando spesso a pontificare l’altro
immacabile falso profeta e cattivo maestro: Enzo Bianchi.
Dopo la de-costruzione del dogma eretto sulla rivelazione e sul
deposito della fede sancito dai grandi concili dogmatici della Chiesa, al suo posto
si sono sostituite le dogmatizzazioni dei pensieri umani dei vari
Rahner, che hanno creato anzitutto il loro nuovo vocabolario. Infatti, affinché
il golpe potesse risultare davvero devastante, era necessario creare anzitutto
due “miti” intangibili che potessero fungere da neo-dogmi: anzitutto una nuova
èra con tutte le implicazioni messianiche del caso, si legga “ermeneutica della
rottura e della discontinuità, ossia la Chiesa intesa come entità nata dal
post-concilio Vaticano II; quindi un nuovo lessico, ossia tutte le ambigue
terminologie del nuovo vocabolario teologico rahneriano.
Nell’opera Vera e falsa teologia il mio confratello anziano
Antonio Livi tratta il fenomeno della de-dogmatizzazione spiegando con scientifico
rigore in che modo la metafisica è indispensabile per l’interpretazione del
dogma, poiché esprime in modo scientifico le certezze del senso comune. Data
alle stampe all’apice della sua maturità filosofica e teologica, quest’opera si
richiama alla produzione del domenicano francese Réginald Garrigou-Lagrange, in
particolare ai suoi studi sur le sens commun ed alla
philosophie de l’être et les formules dogmatiques, per seguire con
l’enciclica Fides et Ratio di San Giovanni Paolo II, alla stesura della
quale non è mancato anche il contributo di Antonio Livi.
Per avvelenare la verità è necessario anzitutto
avvelenare la lingua idonea ad esprimerla.
Sicché, tutti questi seminatori di veleni e di distruzioni che hanno avvelenato
la buona teologia e de-strutturato o distrutto il dogma, hanno finito col
creare una lingua infarcita dei loro tipici e specifici neologismi, o come
direbbe George Orwell nel suo profetico romanzo “1984″: una neolingua. E chi
non parla questa neolingua finisce per essere dichiarato tabù, per dirla con un
neologismo di quel Freud tanto caro a certi teologi ed ecclesiologi modernisti.
Quando la Chiesa rinuncia ad un linguaggio comune,
universale e preciso,
tale è il linguaggio dogmatico, fisso e senza tempo, giacché suo scopo e
compito è di percorrere i tempi, a quel punto nasce la incomunicabilità e si
rinnova il dramma della superbia di Babele. Insomma, urge correre ai ripari e
prendere atto del dato drammatico: abbiamo perduto il linguaggio per comunicare
i misteri della fede, che richiedono un lessico proprio e preciso, che
prescinde dalla società e dai tempi; e questo linguaggio è il linguaggio
metafisico.
Nella Chiesa cambiano – e devono cambiare – gli
accidenti del linguaggio, non però le sostanze del linguaggio fondate
sull’eterno immutabile.
O per dirla con un aulico esempio chiarificatore: “Poscia, pria chi niuno
favellasse Iddio fu “. Traducento dal linguaggio aulico a quello corrente
la sostanza è: prima che l’uomo parlasse Dio già era. L’ accidente —
ossia la lingua espressiva — può invece cambiare e, senza mutare di un solo
iota la sostanza, oggi possiamo tranquillamente affermare la stessa cosa
dicendo: “Prima che chicchessia parlasse Dio già era”.
Dire: “Hoc est enim corpus meum ” o dire “Ecco
questo è il mio corpo ”,
è la stessa cosa, con buona pace di certi lefebvriani che “adorano” più
l’accidente esterno e mutevole del latinorum anziché la sostanza
dell’Eucaristia che è il Cristo eterno e immutabile, presente vivo e vero, a
prescindere dagli accidenti esterni che sono per loro stessa natura mutevoli.
Dire invece “Ecco, questo rappresenta il mio corpo”, non sarebbe affatto
una mutazione dell’accidente formale linguistico ma una mutazione della più
delicata sostanza ontologica, legata appunto alla ontologia dell’essere divino
increato, immutabile ed eterno. Da qui nasce ad esempio la discussione sul “pro
multis” che per mezzo dell’accidente linguistico è invece divenuto “per
tutti “, cosa sulla quale si potrebbero aprire profondi dibattiti teologici,
che però non hanno motivo di essere perché Benedetto XVI ne dispose la
correzione in “per molti ” nei messali tradotti nelle varie lingue,
diversi dei quali già corretti e stampati. Per quanto mi riguarda dico da
sempre “per molti ” sin dalla prima Messa celebrata; e ciò non per abuso
arbitrario ma per aderente fedeltà ai testi originali, a partire naturalmente
da quelli del Vangelo.
Sia chiaro: il Sacrificio del Cristo distrugge il
peccato per l’uomo
chiamato a suo modo a concorrere a questa distruzione per riedificare il Nuovo
Adamo. L’Apostolo Paolo afferma con coerenza teologica che Cristo «è morto per
tutti» e che la sua morte ha distrutto il peccato (4). In un diverso ma simile
contesto l’Autore della Lettera agli Ebrei non fa riferimento a “tutti”, pro
omnibus, ma a pro multis, a “molti”: «[…] i peccati di molti» (5).
Esattamente quel pro vobis et pro multis effundetur che risuona
nel testo originale latino della più antica Preghiera Eucaristica, tradotta poi
nella gran parte delle lingue nazionali col termine “per tutti”. Nel testo
originale greco viene usato oι πολλοι, che alla lettera significa “i più” ma
non significa “tutti”, termine usato nei vangeli di San Marco e di San Matteo e
proprio nella narrazione della istituzione dell’Eucaristia, nella quale gli
Evangelisti non usano πάντες ἄνθρωποι [per tutti gli uomini].
Siamo allora dinanzi a una palese incoerenza? Come mai l’uso del termine “per
tutti” e “per molti” in altri contesti pressoché analoghi? Non è un sofisma
semantico se rapportiamo sul piano escalotologico e teologico “per molti” e
“per tutti” al mistero del Sacerdozio regale di Cristo, che non nasce col
carattere sacerdotale ma che lo assume; e siccome non lo assume per se stesso
ma per noi, il quesito suona a dir poco legittimo: il Cristo si fa Sommo
Sacerdote “per molti” o “per tutti”?
Nessuna contraddizione sussiste tra le diverse righe
testé citate: la
morte di Cristo, sebbene sia sufficiente per tutti e benché sia avvenuta per
tutti non ha efficacia se non per coloro che devono essere salvati poiché
vogliono essere salvati; altrettanto vale per il Sacerdozio Regale del Cristo
che assume efficacia per i molti che vogliono parteciparvi per beneficiarne.
Non tutti infatti si sottomettono a Lui nella fede e nelle opere attraverso
quel piano di salvezza che viene offerto nell’amore e nella grazia dalla
potenza divina; offerto a tutti ma non imposto. Dunque è l’uomo dotato di
libertà e di libero arbitrio a rendere efficace o del tutto inefficace il
Sacerdozio Regale del Cristo. Pertanto, la trascrizione di “pro multis”
derivante dal greco oι πολλοι con la dicitura “per tutti”, non è affatto — come
spiegò Benedetto XVI in una sua lettera del 2012 al presidente della
irrequieta Conferenza episcopale tedesca — una fedele traduzione «ma piuttosto
una interpretazione» che potrebbe suonare, mi permetto di aggiungere io, anche
non po’ arbitraria. Benedetto XVI, in sua veste di raffinato teologo, ci
insegna a tutti che in teologia, prestare molta attenzione al significato delle
parole ed al loro uso appropriato — in modo particolare nel delicato
ambito della teologia dogmatica o nel caso specifico della dogmatica sacramentaria
— non vuol dire muoversi sui sofismi giocati su questioni di lana caprina, ma
tutelare la verità dal pericolo dell’errore facendo anzitutto uso della
corretta parola, che è la Parola di Dio e soltanto la Parola di Dio.
La verità è annunciata attraverso le parole, perché
il Verbo di Dio stesso si fece parola vivente; e la verità divina, per essere annunciata e
trasmessa, non necessita di semplici parole appropriate, ma di sue parole
specifiche. Chi si è preso cura di studiare bene ed a fondo i primi grandi
concili dogmatici celebrati nel corso dei primi otto secoli di vita della
Chiesa, sa bene che il primo problema che si pose ai Padri fu anzitutto quello
di trovare parole idonee per esprimere il mistero, che non essendo però
presenti nel vocabolario, furono modulate dal lessico filosofico greco. A
partire dagli anni Sessanta del Novecento, questo “apparato” linguistico
filosofico e teologico nato dai concili, dalla letteratura dei Padri e dalla
speculazione dei più grandi dottori della Chiesa, è stato d’improvviso
smantellato per correre dietro alle “parole nuove”, alla neolingua del Grande
Apprendista Stregone, come ama indicare Karl Rahner il domenicano Giovanni
Cavalcoli, anch’esso autore di un’opera che costituisce una pietra miliare
nella critica al pensiero rahneriano [vedere qui], data alle
stampe dopo tre decenni di ricerche e raccogliendo in essa anche molti preziosi
spunti critici del Servo di Dio Tomas Tyn, già autore a suo tempo di uno studio
nel quale confutava le ambiguità e gli errori insiti nel pensiero di questo
celebre teologo tedesco.
Presi quindi dall’euforia del grande “aggiornamento”
e da una “nuova Pentecoste” mal compresa,
abbiamo perduto la parola eterna ed immutabile di Dio ed il linguaggio idoneo e
preciso attraverso il quale trasmetterla, ed oggi arranchiamo tentando di
esprimerci con una neolingua infarcita di romanticismo tedesco decadente, scopo
della quale è solo quello di falsificare la verità, in cattiva o in buonafede,
dispersi ed a tratti impazziti sotto la torre di Babele all’ombra della quale
risuonano le vuote o pericolose parole di mille filosofismi e sociologismi
pseudo teologici.
Il primo che di esternazione pubblico-privata
in esternazione pubblico-privata
pare che si stia mostrando privo di questo linguaggio metafisico e immutabile
che si regge sul dogma, sembrerebbe proprio il Regnante Pontefice, mentre
attorno a lui un nugulo di cortigiani si circonda sempre più di maestri
«secondo i propri capricci, rifiutando di dare ascolto alla verità per perdersi
dietro alle favole» (6).
All’ultimo Sinodo dei Vescovi, quanti erano i Padri
Sinodali in grado
di capire e di ascoltare, o solo di leggere — non dico nemmeno di
tradurre, ma solo di leggere — un testo in lingua latina? È mai possibile
che a Roma, quando presso molte case sacerdotali capita che trenta sacerdoti
che parlano dieci lingue diverse debbano concelebrare l’Eucaristia, usino come
lingua l’inglese, anziché il latino? Molti dovrebbero porsi delle domande,
mentre Pietro, dal canto suo, dovrebbe affrettarsi a dare risposte ed a
prendere seri provvedimenti, anziché giocare a compiacere i mass media giocando
egli stesso con la neolingua [vedere qui].
A cosa serve infatti, mentre la casa in fiamme cade a pezzi, innaffiare le
margherite del giardino affinché non appassiscano col calore sviluppato dal
fuoco, vale a dire annunciare una riforma sempre più improbabile della curia
romana? Forse allo scopo di piacere a quanti nutrono da sempre non desideri di
riforma, bensì solo il grande e insopprimibile desiderio di distruggere Roma
sede perenne della Cattedra di Pietro?
(Fonte:
Ariel S. Levi di Gualdo, L’Isola di
Patmos, 11 dicembre 2014)
http://isoladipatmos.com/babele-e-la-neolingua-una-chiesa-senza-vocabolario-da-mezzo-secolo/