martedì 30 dicembre 2014

Omosessuali non si nasce. E nemmeno lo si diventa. Lo sbugiardamento di un mito

All’interno del Diploma di Perfezionamento in Bioetica, lo scorso sabato 29 novembre è stata aperta al pubblico la lezione sul tema "Teoria del Gender: storia e fondamenti". Di seguito presentiamo un’intervista fatta a Giorgia Brambilla, professoressa aggregata della Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum in occasione del suo intervento durante la seconda parte della lezione dedicata agli aspetti scientifici e bioetici dell’omosessualità.

Dalla differenza all’indifferentismo sessuale: quali sono le origini di questo dibattito?
Chi sostiene che non esista una vera differenza tra uomini e donne crede che il corpo è sì sessuato, ma questo non è determinante. Ciò che conta è come la persona si sente. E la differenza maschile/femminile sarebbe una differenza esclusivamente culturale, cioè gli uomini e le donne sono tali perché da bambini siamo stati educati così. Storicamente, vi è stata l’influenza di varie correnti. Per citarne alcune: il permissivismo edonista e il suo slogan “al sesso non si comanda!”; il pansessualismo di Freud che riconduceva le nevrosi e le sofferenze della personalità alle repressioni della sessualità; il rapporto Kinsey, secondo cui il sesso è un mero meccanismo legato a certi stimoli e dunque non ha senso dire in ambito sessuale che una cosa è sbagliata o che non è normale; la rivoluzione sessuale che ha portato a ridurre il sesso alla mera istintualità. Il filo conduttore consiste nell’idea che l’uomo debba essere liberato e che questo si possa fare attraverso la liberalizzazione del sesso.
Il neomarxismo poi, specialmente con Marcuse, ha esteso la liberazione alla sfera della eterosessualità, parlando di “libera scelta del sesso”. Quest’idea, insieme anche alla spinta ideologica di Simone de Beauvoir, è confluita nella costituzione dei cosiddetti “cinque generi”: maschile, femminile, omosessuale maschio, omosessuale femmina, transessuale. Il femminismo ha poi imposto l’idea che fosse proprio la differenza dei sessi a provocare l’inferiorità sociale della donna e che i ruoli dell’uomo e della donna, anche all’interno della famiglia - per nulla naturali ma solo culturalmente indotti - costituirebbero una grave ingiustizia. La vera conquista ideologica e sociale sarebbe il passaggio dal “sex” all’“unisex”. Ne fu emblema anche l’abbigliamento: jeans e maglietta vanno bene per tutti, maschi e femmine. Non ci sono punti fermi, non ci sono dati di natura, validi per l’uomo di ogni tempo e di ogni luogo. Panta rei, tutto scorre: siamo arrivati a capire che il pensiero multigender ha un’eredità gnostica ed è intriso di relativismo.

Si è sessuati per natura o per “cultura”?
Fin dal concepimento siamo maschi o femmine e dal sesso genetico si forma il sesso gonadico, ormonale e morfologici e nel tempo anche il sesso psichico coerentemente con il sesso fisico, se nulla interviene a modificare questo sviluppo naturale. La sessualità, l’essere uomini o donne, è una dimensione costitutiva della persona, è un suo modo di essere, di manifestarsi, di comunicare con gli altri, di sentire, di esprimere e di vivere l’amore umano. Ritenere che la corporeità non abbia un peso nella realizzazione piena della persona, fino ad affermare una sorta di neutralità sessuale dell’individuo, ci fa cadere in una visione dualistica e riduttivista del corpo e della persona. La differenza sessuale è originaria e – sebbene l’ambiente educativo abbia un peso – precede l’educazione stessa e gli influssi culturali e genitoriali. Basta studiare lo sviluppo neurofisiologico del bambino per rendersi conto che le attitudini genere-specifiche sono innate e non derivano dal tentativo di corrispondere ad un genere “pre-impostato”. Chiunque ha figli o lavora con i bambini sa che il bambino si comporta “da maschio” o “da femmina” prima ancora di riconoscersi in un genere. E questo è dovuto a delle differenze a livello biologico innate che segnano una strada preferenziale nello sviluppo. Resettare queste differenze, come si vorrebbe fare nelle scuole attraverso un’educazione sessuale che considera il bambino una specie di “tabula rasa” nei riguardi della propria identità sessuata, non può che andare a discapito del bambino stesso: questa è la vera violazione dei diritti dell’infanzia oltre che una prepotente manipolazione dell’armonico sviluppo del bambino. 

Alla luce di tutto questo, dove e come collocare l’omosessualità all’interno del quadro della sessualità umana?
Le affermazioni “quest’uomo è omosessuale”o “questa donna è lesbica” danno l’idea che la persona in questione appartenga a una variante della specie umana, diversa dalla variante eterosessuale. Le conoscenze di cui disponiamo ci indicano che le persone con inclinazioni omosessuali sono nate con la stessa dotazione fisica e psichica di chiunque altro e che omosessuali non si nasceE neanche lo si diventa. Nelle mie lezioni insisto molto su questo aspetto. Semmai si può parlare di persone, uomini o donne, che hanno – a seconda dell’intensità – sensazioni, tendenze e/o comportamenti omosessuali. Sul piano epistemologico, infatti, non è possibile parlare delle diversità sessuali, ma solo della diversità sessuale, perché la diversità sessuale è una sola ed è irriducibile: quella tra uomo e donna. Sebbene, in maniera ciclica, spuntino sui giornali notizie, come in questi giorni, su basi genetiche dell’omosessualità, andando a fondo si comprende facilmente la realtà dei fatti: l’uomo e la donna con tendenze omosessuali sono un uomo o una donna per determinazione genetica e hanno tendenze omosessuali per acquisizione. Per van den Aardweg il fattore determinante per lo sviluppo dell’omosessualità è rappresentato dal rapporto intessuto con i propri simili all’inizio dell’età adolescenziale, rapporto che rappresenta una componente decisiva nello sviluppo della personalità, e cioè la visione che l’adolescente ha di sé come maschio o come femmina.
Una cattiva integrazione nel gruppo dei coetanei dello stesso sesso e un senso profondo di esclusione farebbero maturare nell’individuo frustrazione e quindi un complesso d’inferiorità quanto alla propria mascolinità o femminilità. Una realtà che, ci tengo a precisarlo, nasce dall’intimo della persona e non dall’esterno quasi fosse causata da esclusione o denigrazione. Gli atti discriminatori – che laddove ci fossero sono da considerare sempre e in ogni luogo deplorevoli – in realtà non causano questo complesso e vanno considerati in quanto tali. Invece, tale è la confusione nel dibattito, che siamo arrivati al punto che chiunque osi mettere in discussione slogan, proposte di legge, o proposte didattiche su questo argomento è messo a tacere a volte in termini ideologici, a volte con mezzi più meno intellettuali (basti pensare a quanto subiscono regolarmente le Sentinelle in Piedi o al linciaggio mediatico di questi giorni di alcuni insegnanti di Liceo), il tutto intriso di inestinguibile vittimismo dei militanti gay. 

Che peso può avere sull’identità sessuata il rapporto con i genitori?
Oltre a quanto spiegato, mi permetto di aggiungere un fattore antecedente, quasi una “preomosessualità” che dipende dai genitori e, in particolare dal genitore dello stesso sesso secondo tre aspetti. Il primo riguarda la presenza della differenza. Ognuno di noi costruisce la propria personalità confrontandosi con identità e differenza. Da un lato il bambino comprende se stesso imitando il genitore dello stesso sesso, dall’altro osservando quello del sesso opposto. E questo avviene non solo a livello cognitivo, ma prima di tutto emotivo e affettivo: vedo e “sento” che mamma mi parla, mi coccola, gioca con me in un modo diverso da come lo fa papà e anche che mamma e papà si relazionano alle stesse persone, per esempio agli amici, in modi diversi. E non solo perché hanno caratteri diversi; perché noto che il modo di fare della mamma è molto più simile a quello della maestra piuttosto che a quello del nonno o dello zio. L’assenza di un genitore o la mancanza della diversità (come nel caso della “omogenitorialità”) ha dunque delle conseguenze, come spiegato da ampia letteratura sull’argomento.
Il secondo punto riguarda le abilità sociali. Saper giocare come giocano i coetanei dello stesso sesso aiuta ad apprendere le modalità relazionali tipiche dei pari e ad essere “riconosciuti” dai bambini dello stesso sesso. E il tutto avviene nella piena spontaneità. È esperienza comune arrivare in una classe della scuola dell’infanzia e trovare i bimbi che giocano divisi tra maschi e femmine. E questo non perché una “maestra omofoba” glielo ha imposto, ma semplicemente perché maschi e femmine hanno attitudini al gioco differenti. Si ricordi il flop dei vari esperimenti delle “Gender theories” di dare il camion alle bambine e le bambole ai bambini. Risultato? Le bambine giocavano con i camion a “mamma-camion” che cambia il pannolino a “baby-camion” e i maschi prendevano a “sbambolettate” i compagni. Dunque, il genitore giocando col bambino lo aiuta ad interagire con disinvoltura con i bambini dello stesso sesso, evitando quel complesso d’inferiorità che si genera in adolescenza che secondo vari studiosi sarebbe proprio alla base della genesi delle sensazioni omosessuali. Quest'ultime partono da una idealizzazione dei tratti riconosciuti come non propri degli individui dello stesso sesso fino all’attrazione erotica verso di essi. 
Il terzo riguarda i genitori come coppia che si ama nel rispetto sereno e gioioso dei ruoli. Ruoli, tutt’altro che artificiali o svilenti – e meno che mai imposti! – che ancora una volta sono manifestazione naturale della propria indole di maschio o femmina nel rapporto con se stessi e con il mondo e mezzo per amarsi profondamente nell’accoglienza reciproca, proprio quella che non si spiega a parole ma che costituisce l’habitat in cui i figli sono immersi – mi passi il linguaggio – come dei pesci in un acquario. Diverse scuole di psicanalisi sottolineano, in merito alle principali cause riscontrabili all’origine dell’omosessualità il tema del padre assente. “Assente” è da intendersi non propriamente nel senso fisico di non presente, quanto piuttosto estromesso, il più delle volte dalla moglie, dalla vita familiare, espropriato del suo ruolo di capo forte e premuroso. Oppure denigrato o umiliato a parole o nei fatti dalla moglie stessa, spesso di fronte ai figli. E la “madre-tipo” che emerge è quella prevaricatrice nei confronti del marito, molto ansiosa e preoccupata, spesso dominatrice ma senz’altro molto insicura, proprio perché priva di qualcuno, un uomo, che la guidi e la sostenga.

* Giorgia Brambilla è professore aggregato della Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum

Fonte: Maria Maset, Il Timone, 28 dicembre 2014)   http://www.iltimone.org/32554,News.html

 

martedì 23 dicembre 2014

Anche a Bose è arrivato il visitatore

Sotto il profilo canonico la comunità di Bose è niente più che una "associazione privata di fedeli", approvata come tale nel 2001 dalla piccola diocesi di Biella, alla quale geograficamente appartiene.
A far da ostacolo a una sua approvazione da Roma come nuovo ordine monastico ci sono infatti almeno due elementi.
Il primo è che si presenta come una comunità mista, maschile e femminile, con momenti di vita comune, novità senza precedenti nel monachesimo.
Il secondo elemento è che è interconfessionale. Il pastore luterano svizzero Daniel Attinger vi fa parte dagli inizi e a lui si sono poi aggiunti altri protestanti, uomini e donne. Il metropolita ortodosso Emilianos Timiadis vi ha trascorso i suoi ultimi anni di vita e oggi fa parte della comunità di Bose, convertita all'ortodossia, la ex greco-cattolica Sophia Senyk, ucraina, già docente al Pontificio Istituto Orientale di Roma.
Dopo un'iniziale pratica dell'intercomunione, cioè dell'eucaristia celebrata e presa insieme da cattolici e non cattolici, vietatissima sia da Roma che dalle Chiese ortodosse, a Bose le liturgie sono celebrate separatamente, anche se i protestanti prendono abitualmente l'eucaristia consacrata dai cattolici.
Tuttavia, l'interconfessionalità di Bose non appare oggi preoccupare più di tanto le autorità vaticane. Tant'è vero che la scorsa estate Bianchi è stato nominato da papa Francesco, che lo ha in grande stima, consultore del pontificio consiglio per l'unità dei cristiani.
I problemi di Bose sembrano essere d'altro tipo e riguardano piuttosto i rapporti interni alla comunità.
Lo stesso Bianchi li ha adombrati già tre anni fa in un passaggio sibillino di un'intervista a "Jesus":
"Negli ultimi anni ho avuto l’esperienza della falsità, qui al nostro interno, non verso di me in particolare, ma verso tutta la comunità. Non pensavo di poter vivere, passati i sessant'anni, una tale destabilizzazione interiore da restare in alcuni momenti profondamente confuso. Non avevo mai provato questa esperienza: la cattiveria sì, la si può capire, ma la falsità non è nel mio orizzonte. È stata la prova più dura che ho sofferto nella mia vita nella Chiesa e nella vita monastica".
In un'altra intervista, in un libro sulla storia di Bose, Bianchi ha inoltre indicato nella convivenza tra uomini e donne nella stessa comunità un nodo "molto faticoso", non tanto per la naturale attrazione tra i sessi quanto piuttosto per quella invincibile "istanza di inimicizia" che a suo dire intercorre tra l'uomo e la donna fin dalle origini del mondo.
Anche il ricambio, a Bose, tra i nuovi ingressi e i non pochi abbandoni ha registrato negli ultimi tempi dei momenti di burrasca, in particolare con la fuoriuscita di due fratelli e di una sorella di primo piano, in forte polemica col priore.
Per non dire dei modi con cui Bianchi esercita la sua leadership, avvertita come troppo autoritaria da diversi membri dei due rami maschile e femminile della comunità.
Per evitare che la situazione degenerasse e sfuggisse al suo controllo, Bianchi ha quindi deciso di agire d'anticipo. Chiamando lui una visita canonica a Bose e scegliendo lui i visitatori: padre Michel Van Parys, già abate del monastero ecumenico belga di Chevetogne e ora egumeno del monastero di rito bizantino di Grottaferrata, e madre Anne-Emmanuelle Devêche, badessa della trappa di Blauvac, in Francia.
L'uno e l'altra sono amici d'antica data di Bianchi, specie l'abate Van Parys, assiduo frequentatore della comunità e relatore principale del convegno internazionale di spiritualità ortodossa tenuto lo scorso settembre a Bose:
> Conclusioni del comitato scientifico
I due visitatori hanno svolto la loro ispezione dal gennaio al maggio di quest'anno, consegnando infine le loro valutazioni a una "Charta visitationis" da loro firmata, di cui Bianchi ha consegnato copia alle autorità vaticane competenti e ai vescovi di Biella e delle altre diocesi in cui si trovano le quattro filiali della comunità: quelle di Ostuni (diocesi di Brindisi), di San Masseo (diocesi di Assisi), di Cellole (diocesi di Volterra) e di Civitella San Paolo (diocesi di Civita Castellana).
Nell'annuale lettera agli amici diffusa da Bose in occasione dell'Avvento, Bianchi ha aggiunto di aver anche fatto "esaminare la situazione economica della comunità da due professionisti revisori dei conti, per valutarne la correttezza e l’adeguatezza".
E ha precisato di aver ordinato la visita "affinché la comunità non viva mai un autocompiacimento, un ripiegarsi su di sé, una auto-referenzialità o, peggio ancora, una deriva narcisistica e settaria".
Nella "Charta visitationis", i visitatori hanno scritto di apprezzare nella comunità di Bose "la qualità di laboratorio di comunione tra le Chiese oggi separate".
Ma hanno anche formulato la richiesta che "l’esercizio delle diverse autorità in comunità non sia autoritario ma trasparente e sinodale".
Evidentemente, la sinodalità così cara a Bianchi nel predicare la riforma della Chiesa e del papato, a Bose è ancora di là da venire, se c'è voluta una visita canonica per rammentarla al suo autoritario priore.
 

(Fonte: estratto da: Sandro Magister, www.chiesa.it, 22 dicembre 2014)
http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1350955

 

giovedì 18 dicembre 2014

Questionario per il Sinodo, conviene rispondere

Il 9 dicembre 2014 la Santa Sede ha inviato alle diocesi di tutto il mondo la relazione finale del Sinodo straordinario sulla famiglia del 2014, che si trasforma così in documento di base per il Sinodo ordinario del 2015, accompagnata da un questionario in 46 domande. La relazione finale è quella già nota, preceduta da una breve introduzione, e si invita chi risponderà al questionario a non  proporre «schemi e prospettive proprie di una pastorale meramente applicativa della dottrina».
Questa affermazione potrebbe suggerire a qualcuno che esista una pastorale indipendente dalla dottrina. Il linguaggio non brilla per precisione, ma per fortuna esistono chiare indicazioni di Papa Francesco secondo cui non è così. In una situazione in continuo mutamento, occorre certo adeguare la pastorale ai tempi nuovi, non limitandosi a ripetere stancamente la dottrina. Ma adeguare la pastorale non deve significare diventare relativisti, cioè trarre pretesto dai tempi mutati per mutare la dottrina. Parlando precisamente di pastorale, in un bellissimo discorso dello scorso 27 novembre ai partecipanti al Congresso mondiale della pastorale delle grandi città, il Papa ha affermato che «abbiamo pertanto bisogno di un cambiamento di mentalità pastorale, ma non di una “pastorale relativista” – no, questo no – che per voler esser presente nella “cucina culturale” perde l’orizzonte evangelico, lasciando l’uomo affidato a sé stesso ed emancipato dalla mano di Dio. No, questo no. Questa è la strada relativista, la più comoda. Questo non si potrebbe chiamare pastorale! Chi fa così non ha vero interesse per l’uomo, ma lo lascia in balìa di due pericoli ugualmente gravi: gli nascondono Gesù e la verità sull’uomo stesso. E nascondere Gesù e la verità sull’uomo sono pericoli gravi! Strada che porta l’uomo alla solitudine della morte».
Il questionario non «nasconde Gesù e la verità sull’uomo» ai fedeli, anche se da sociologo lo trovo un po’ farraginoso, e tale da rendere difficile la risposta se non a quegli addetti ai lavori abituati al gergo «ecclesialese», che Papa Francesco invita spesso a mettere da parte per capire che cosa veramente si muove all’interno del gregge. La critica è legittima, ma se si limita alla lamentela diventa sterile. Il documento vaticano precisa che «le Conferenze Episcopali sono invitate a scegliere le modalità adeguate a questo scopo coinvolgendo tutte le componenti delle chiese particolari ed istituzioni accademiche, organizzazioni, aggregazioni laicali ed altre istanze ecclesiali». Organizzazioni, aggregazioni laicali, «istanze»… Si parla di noi!
Anziché limitarsi a protestare perché questa o quella domanda non è precisa rimbocchiamoci le maniche, chiediamo al Vescovo locale come intende procedere e mandiamogli – certo, non come singoli, ma come parrocchia, associazione, movimento: più o meno chiunque è una «istanza» – le nostre risposte. Di fronte a consultazioni di questo genere capita troppo spesso che i «buoni» non partecipino, e poi si lamentino perché hanno avuto voce solo i «cattivi». Non è vero che «non serve a nulla». Io stesso ho parlato con diversi vescovi, i quali auspicano che le risposte non arrivino tutte dalla stessa, solita parte.
Partiamo da quanto nel questionario – con tutti i suoi limiti – offre di buono e di condivisibile. Si chiedono segnalazioni di iniziative per «politiche sociali ed economiche utili alla famiglia» (n. 1), non disgiunte dalla «denunzia franca dei processi culturali, economici e politici che minano la realtà familiare» (n. 26): il questionario è mondiale, ma l’esperienza sociale dei cattolici pro family italiani qui ha molto da dire. Si chiede come si «reagisce alla diffusione del relativismo culturale nella società secolarizzata e al conseguente rigetto da parte di molti del modello di famiglia formato dall’uomo e dalla donna uniti nel vincolo matrimoniale e aperto alla procreazione» (n. 4). La domanda evidentemente implica che quel modello sia positivo e che al relativismo sia bene «reagire».
Bello è il riferimento al «“desiderio di famiglia” seminato dal Creatore nel cuore di ogni persona» (n. 6) e all’opportunità di coltivarlo e farlo crescere, come pure è precisa la menzione di «dimensioni di peccato» (n. 8), in cui sono coinvolti i giovani e i coniugi, «da evitare e superare». E totalmente condivisibile è la domanda del n. 10: «Che cosa fare per mostrare la grandezza e bellezza del dono dell’indissolubilità, in modo da suscitare il desiderio di viverla e di costruirla sempre di più?». A questa domanda se ne accompagna un’altra (n. 12), che richiede una concreta risposta pastorale – effettivamente, ribadire la dottrina non basta –: «Come si potrebbe far comprendere che il matrimonio cristiano corrisponde alla disposizione originaria di Dio e quindi è un’esperienza di pienezza, tutt’altro che di limite?». La dottrina la conosciamo, ma «come far comprendere»?
I giornali stanno già scrutando le domande relative ai conviventi, ai divorziati, agli omosessuali. Potevano essere più precise? Certamente sì, ma attenzione a non farsele spiegare da «Repubblica» e a leggerle per quello che c’è veramente scritto. Domanda 21: «Come possono i fedeli mostrare nei confronti delle persone non ancora giunte alla piena comprensione del dono di amore di Cristo, una attitudine di accoglienza e accompagnamento fiducioso, senza mai rinunciare all’annuncio delle esigenze del Vangelo?». Stiamo attenti: le persone coinvolte «nelle varie forme di unione» – come precisa la domanda 22 –, in cui pure «si possono riscontrare valori umani», devono essere «aiutate a giungere alla pienezza del matrimonio cristiano».
Il tema dei veri o presunti valori che si potrebbero trovare nelle convivenze era stato molto dibattuto al Sinodo, nella cui relazione c’è un paragrafo che ha raggiunto la prescritta maggioranza per un pelo, ed è passato per soli due voti. È il paragrafo 41, che invita a  «cogliere gli elementi positivi presenti nei matrimoni civili e, fatte le debite differenze, nelle convivenze». Il paragrafo 41 non è scritto in modo precisissimo, ma va letto insieme al paragrafo 27, che invita a «prestare attenzione alla realtà dei matrimoni civili tra uomo e donna, ai matrimoni tradizionali e, fatte le debite differenze, anche alle convivenze. Quando l’unione raggiunge una notevole stabilità attraverso un vincolo pubblico, è connotata da affetto profondo, da responsabilità nei confronti della prole, da capacità di superare le prove, può essere vista come un’occasione da accompagnare nello sviluppo verso il sacramento del matrimonio. Molto spesso invece la convivenza si stabilisce non in vista di un possibile futuro matrimonio, ma senza alcuna intenzione di stabilire un rapporto istituzionale».
Ne risulta con chiarezza – ancorché rimanga il carattere ambiguo del n. 41 – che il fatto che alcuni siano sposati civilmente o convivano da anni con «notevole stabilità» e «vincolo pubblico», educando bene i figli, ha un suo valore rispetto a chi semplicemente passa instabilmente da una relazione all’altra o convive senza alcuna intenzione «istituzionale» di stabilità, ma la Chiesa prende in considerazione questo elemento «come un’occasione da accompagnare nello sviluppo verso il sacramento del matrimonio» e non per lasciare le cose come stanno.
Da sociologo, mi sono pure permesso di spiegare su queste colonne che se c’è un dato che la sociologia della famiglia ha messo in luce negli ultimi anni è che, contrariamente a una superstizione corrente, chi convive prima del matrimonio non fa diminuire i rischi di divorzio ma li aumenta (leggi qui) Il questionario invita a migliorare i corsi prematrimoniali: forse l’adeguata spiegazione di questo dato sociologico potrebbe aiutare.
Quanto ai matrimoni civili, va apprezzato che nella domanda 32 si precisi che la risposta va data «alla luce dell’insegnamento della Chiesa, per cui gli elementi costitutivi del matrimonio sono unità, indissolubilità e apertura alla procreazione», e che i famosi «elementi positivi» delle unioni civili e delle convivenze vanno presentati alle coppie «in maniera da orientarle e sostenerle nel cammino di crescita e di conversione verso il sacramento del matrimonio» (n. 33). Detto in altre parole, «come aiutare chi vive nelle  convivenze a decidersi per il matrimonio?».
Sulla comunione e altre possibilità pastorali per i divorziati risposati, al di là dell’invito a migliorare le procedure relative alle cause di nullità, prudentemente il questionario fa stato di una discussione che il Sinodo non ha risolto: «La pastorale sacramentale nei riguardi dei divorziati risposati necessita di un ulteriore approfondimento, valutando anche la prassi ortodossa e tenendo presente “la distinzione tra situazione oggettiva di peccato e circostanze attenuanti” (n. 52). Quali le prospettive in cui muoversi? Quali i passi possibili? Quali suggerimenti per ovviare a forme di impedimenti non dovute o non necessarie?» (n. 38).
Forse si sarebbe potuto precisare che i paragrafi della relazione finale del Sinodo relativi alla prassi sacramentale per i divorziati risposati, pur pubblicati, non hanno ottenuto la prescritta maggioranza dei due terzi e dunque non costituiscono parte del messaggio del Sinodo alla Chiesa. Ma almeno il questionario trasmette correttamente l’impressione che non c’è stato accordo tra i padri sinodali su queste questioni, e che è necessario riflettere ancora. Anche qui, chi e come risponderà al questionario sarà importante.
Anche il paragrafo sull’omosessualità (n. 55) della relazione finale del Sinodo, come sappiamo, non aveva raggiunto la maggioranza dei due terzi. Rileggiamolo: «Alcune famiglie vivono l’esperienza di avere al loro interno persone con orientamento omosessuale. Al riguardo ci si è interrogati su quale attenzione pastorale sia opportuna di fronte a questa situazione riferendosi a quanto insegna la Chiesa: “Non esiste fondamento alcuno per assimilare o stabilire analogie, neppure remote, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia”. Nondimeno, gli uomini e le donne con tendenze omosessuali devono essere accolti con rispetto e delicatezza. “A loro riguardo si eviterà ogni marchio di ingiusta discriminazione” (Congregazione per la Dottrina della Fede, Considerazioni circa i progetti di riconoscimento legale delle unioni tra persone omosessuali, 4)».
Non c’è nulla di più del «Catechismo» e il riferimento è a un documento della Congregazione per la Dottrina della Fede il cui scopo era parlare male delle unioni civili, DICO, PACS e compagnia cantante. Perché allora alcuni padri, soprattutto africani, non hanno accettato questa formulazione? Perché non c’è scritto chiaramente che gli atti e la stessa tendenza omosessuale sono «disordinati», come pure insegna il «Catechismo». Senza questa precisazione, pensa chi ha votato contro e ha impedito al paragrafo 55 di conseguire la maggioranza dei due terzi, il rispetto e la non discriminazione verso le persone potrebbero essere fraintese come riferite agli atti.
La posizione degli oppositori ha qualche fondamento, tuttavia anche se la si accoglie il testo è criticabile per quello che non dice, non per quello che dice, e trasformarlo come continua a fare qualche giornale in una apologia del riconoscimento giuridico delle unioni omosessuali – al contrario, condanna chi propone analogie «anche remote» con il matrimonio – significa molto semplicemente non avere letto il testo. Che peraltro è completato dal n. 56, il quale invece ha raggiunto la maggioranza prescritta: «È del tutto inaccettabile che i Pastori della Chiesa subiscano delle pressioni in questa materia e che gli organismi internazionali condizionino gli aiuti finanziari ai Paesi poveri all’introduzione di leggi che istituiscano il “matrimonio” fra persone dello stesso sesso» («matrimonio», correttamente, è scritto tra virgolette).
Si poteva scrivere di più e meglio? Si poteva. Il Sinodo insegna – o la maggioranza, sia pure non dei due terzi, dei padri avrebbe voluto che insegnasse – che le unioni civili omosessuali alla Renzi o addirittura il «matrimonio» sono accettabili? Non è vero, e chi lo sostiene è un bugiardo.
Anche sul tema degli omosessuali il questionario, prima di alcune domande finali che hanno tra l’altro il merito di fare positivo riferimento – in tema di anticoncezionali – all’enciclica «Humanae vitae» del beato Paolo VI, si mantiene sulle generali: «Come la comunità cristiana rivolge la sua attenzione pastorale alle famiglie che hanno al loro interno persone con tendenza omosessuale? Evitando ogni ingiusta discriminazione, in che modo prendersi cura delle persone in tali situazioni alla luce del Vangelo? Come proporre loro le esigenze della volontà di Dio sulla loro situazione?» (n. 40).
Come si vede, non si suggerisce che la condizione omosessuale, e tanto meno la relativa pratica, «vanno bene», e l’espressione «ingiusta discriminazione» si trova nel «Catechismo» del 1992. Alle persone omosessuali, si dice, vanno proposte «le esigenze della volontà di Dio». Quali sono? La risposta si trova nel «Catechismo»: riconoscere che gli atti omosessuali sono «intrinsecamente disordinati» e – se non si riesce a superare la propria condizione – astenersene, vivendo in castità. Certamente i padri che si riuniranno per il Sinodo del 2015 conoscono a memoria il «Catechismo». Sembrerebbe persino scortese il ricordarlo, né rispondendo al questionario dovremo – lo chiede la Santa Sede – limitarci a ribadire una dottrina che si suppone nota, mentre siamo sollecitati a condividere «best practices» sul piano pastorale e anche culturale e politico. Facciamolo, dunque. Se poi ci capiterà, mentre rispondiamo, di ricordare qualche punto di dottrina – certo, in vista della pastorale e non di una discettazione teologica – non è detto che questo non possa, a modo suo, far bene.
 

(Fonte: (Massimo Introvigne, Osservatorio Sinodo 2015, 11 dicembre 2014)
http://sinodo2015.lanuovabq.it/questionario-per-il-sinodo-conviene-rispondere/

 

Perché Benigni non mi ha convinto

Limitarsi al solo testo delle Dieci parole di Esodo 20,2-17 o Deuteronomio 5,6-21 è stato riduttivo e fuorviante. Il senso completo e la portata dei comandamenti vanno implementati con tutta la Scrittura, soprattutto con l’esegesi fatta da Gesù nei vangeli.
Così, per esempio, il VI Comandamento, come tu hai “scoperto” prescrive di non commettere adulterio, punto. Ma questo comandamento è ampiamente integrato dalle norme di purità morale del Levitico (che forse tu non conosci); ed è per questa regolamentazione della sfera sessuale, il cui cardine è appunto la proibizione del tradimento coniugale, che questo comandamento è entrato nella catechesi della Chiesa nella formulazione classica che recita: Non commettere atti impuri”, e ciò sulla base di quanto Gesù ha detto: “Avete inteso che fu detto agli antichi: Non commettere adulterio. Ma Io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore.”
Caro Benigni, se studiavi un po’ di più la Scrittura, avresti capito che anche le tue “pip…tine” giovanili rientravano a tutti gli effetti nel sesto comandamento, e quindi non c’è bisogno di alcun risarcimento da parte della Chiesa, per averti “imbalsamato” la mano!
Certo, la ventata di novità e il tuo giullarismo condotto in un’ottima forma, ha giocato ampiamente a tuo favore, soprattutto su quella stragrande percentuale di affezionati spettatori della rete ammiraglia Rai, abituati purtroppo a sorbirsi trasmissioni di una nullità, di una stupidità, di un livello talmente scadente, da superare spesso in cadute di stile tante altre trasmissioni trash dei canali privati.
Il tuo commento, purtroppo ha giocato troppo sulla verbosità, sul tuo simpatico ma assillante ripetere gli stessi concetti, alcuni dei quali forse per alcuni completamente nuovi: però, a mio avviso, il testo sacro merita ben altro approccio, caro Roberto; quindi dovevi capire che la Bibbia non è paragonabile al testo di Dante, al testo della Costituzione o a quant’altro è stato oggetto delle tue “letture” spettacolari. Forse qui dovevi tenere a mente quel detto latino che dice: “sutor, ne supra crepidam”: calzolaio, non andare oltre le scarpe, non imbarcarti in sottilismi e in disquisizioni moralistiche su argomenti che non conosci…
C’è però anche chi ti osanna come grande esegeta, come un eroe sacro, per aver avuto il coraggio di mettere in TV addirittura “le lezioni di don Fabio Rosini”: ho troppa stima del noto biblista romano per poter anche solo pensare che le sue catechesi sui dieci comandamenti si riducessero a tanto qualunquismo.
Vedi, Dio predilige il “deserto”, i luoghi appartati, il silenzio, la solitudine di una cella, per chi vuole entrare in profonda sintonia con le sue Parole divine. Scrive il filosofo e teologo Søren Kierkegaard: “Cristo non cerca ammiratori, cerca seguaci!”
I riflettori, le telecamere, i salti, le contorsioni, lasciamoli per un altro genere di intrattenimento. Se proprio la Rai voleva fare un’opera “straordinaria”, poteva semmai allestire uno “spettacolo” di tutt’altro genere, che ne so, magari con l’aiuto di proiezioni scientifiche sulla Bibbia, ma affidandone il commento a qualche “addetto ai lavori”, magari più umile e sconosciuto, ma in grado forse di seminare meglio e con più profitto, il seme della Parola di Dio.

(M. L., 17 dicembre 2014)

 

Pacifista e dialogante: è il solito Francesco della Cavani

Contare i film su san Francesco è ormai impossibile e, personalmente, non nascondo di averne le tasche piene. Non del santo, ci mancherebbe, ma del suo brand di «più amato dagli italiani» come la cucina scavolini. Non c’è epoca che non ne aggiorni la figura in base al pensiero politicamente corretto del momento. La Cavani, poi, dato il ritmo sempre più parossistico del cambiamento, ogni tot anni sente l’esigenza di rinverdirlo per renderlo “attuale”. Ci aspettiamo dunque, visto l’andazzo corrente, un Francesco gay (in fondo, gli elementi biografici ci sarebbero: amicizia platonica con Chiara, compagnia di soli giovani maschi…).
Per questo è con un certo fastidio –e anche per accontentare mia moglie- che ho guardato la seconda e ultima parte del nuovo Francesco cavaniano su RaiUno. Come volevasi dimostrare, non mi sono affatto pentito di non aver guardato la prima. Infatti, pur di mostrare un Francesco-secondo-me, la storia è stata fatta a coriandoli. Francesco pacifista che quasi si picchia coi crociati perché non vuole che vadano all’assalto, il colloquio col sultano diventato il contrario esatto di quel che fu, la solita solfa del Poverello ribelle contro l’istituzione-Chiesa, la menata della povertà assoluta e dell’ignoranza beata, Chiara che addirittura fa lo sciopero della fame perché non le vogliono far fare la povera come vuole lei… Basta, per pietà, lasciatelo in pace quel santo, non se ne può più.
Leggendo un paio di interviste della regista a Credere (7 dicembre) e A sua immagine (6 dicembre) si nota, tra le altre, questa perla “francescana”: «un'idea di fratellanza diffusa, inedita per i suoi tempi e precorritrice di quello che sarà il secolo dei Lumi e la Rivoluzione francese». E ci mancava giusto il Francesco giacobino, alla collezione. Quanto fosse, poi, «inedita» l’idea lo potrebbero dire i valdesi, che giusto prima di Francesco la ebbero, e pure organizzata. La povertà? Appena morto il fondatore, il suo movimento si scisse e i Fraticelli pretesero di interpretarne il vero pensiero: povertà assoluta e totalizzante (infatti, si autodefinirono Spirituali). La Chiesa li scomunicò. Perché? Perché una cosa è fare il povero, come fece Francesco, altra è voler imporlo a tutti come la sola esatta interpretazione del Vangelo.
L’ignoranza vista come virtuosa e beata? A Francesco interessava solo l’umiltà, tant’è che autorizzò sant’Antonio di Padova ad aprire una scuola per francescani: i laici potevano predicare solo se avevano studiato, altrimenti avrebbero propalato solo eresie e stravaganze. Infatti, i seguaci di Pietro Valdo pretendevano di predicare senza un previo esame da parte della Chiesa.
Francesco sapeva bene che contro i ferratissimi catari ci voleva una solida base dottrinale, perciò contro di loro mandò il suo uomo migliore, Antonio. Già, perché i catari avevano invaso le regioni più ricche e colte d’Europa, il Norditalia e la Provenza, terra della sua adorata mammà (in omaggio alla quale suo padre lo aveva chiamato, appunto, Francesco). Fu contro la dottrina catara antimaterialista che Francesco intonò il celebre Cantico delle creature (che però non elenca alcun animale). Per fronteggiare l’altro grave pericolo che la cristianità correva, l’islam, inviò in Africa cinque missionari. Che però tornarono stecchiti come protomartiri, perché con la semplicità “francescana” si poteva solo finire ammazzati. E allora Francesco decise di provvedere personalmente. Non era affatto uno sconosciuto tra i crociati (come nel film della Cavani viene mostrato), al contrario era già famoso e venerato. Il sultano sapeva bene che quello era un po’ il cappellano dei combattenti cristiani, e che questi sarebbero diventati delle belve se gli avesse torto un capello. Solo per questo Francesco fu trattato con riguardo, ma il suo fu un sonoro flop. Invece, secondo il Cavani-pensiero, nel film «c'è il Francesco antesignano del dialogo tra religioni». Chi, lui? Francesco reclamò l’ordalia per dimostrare la superiorità di Cristo, una medievalissima prova del fuoco che il sultano si guardò bene dall’accettare.
Altro che dialogo interreligioso. Fu proprio un francescano, il beato Raimondo Lullo, a rendersi conto che bisognava cambiare metodo: a crociate finite (e fallite), creò una scuola in cui i francescani imparavano l’arabo e studiavano il Corano, proprio per cercare un “dialogo” coi musulmani. Ma fu un fallimento anche questo, e lo stesso Lullo finì lapidato in Africa. É vero, una fiction non è un documentario e la Cavani o chi per lei ha il diritto di narrare fantastorie fin che vuole. Ma è anche vero che, così, il contribuente è costretto a sorbirsi fantastorie che non formano ma deformano. Quando ero piccolo io -tanto, tanto tempo fa in una galassia lontana lontana- le suore portavano le scolaresche a vedere Marcellino pane e vino. Oggi le porteranno a vedere l’ennesimo film su Francesco, senza avvertire che già il titolo è sbagliato: dovrebbe chiamarsi Cosa Liliana Cavani pensa, oggi, di san Francesco d’Assisi. Il bello è, tra l’altro, che la regista non ha mai cambiato idea su Francesco, fin dal primo dei suoi tre film, quello del 1966. Anzi, non ha mai cambiato idea su niente, basta pensare al suo Galileo. Infatti, ecco un altro brano di intervista su Francesco: «É il cambiamento: la rivoluzione, l'evoluzione spirituale e privata di ognuno di noi. É il rifiuto dell'omologazione, della dittatura». Ma sì, speriamo che prima o poi un regista lo faccia davvero un Francesco che rifiuta l’omologazione e la dittatura. Quelle del politicamente corretto. Mel Gibson, dove sei?
 

(Fonte: di Rino Cammilleri, La nuova bussola quotidiana,12 dicembre 2014)
http://www.lanuovabq.it/it/articoli-pacifista-e-dialogante-e-il-solito-francesco-della-cavani-11199.htm
 

giovedì 11 dicembre 2014

Babele e la neolingua: una Chiesa senza vocabolario da mezzo secolo

Quando la Chiesa rinuncia ad un linguaggio comune, universale e preciso, tale è il linguaggio dogmatico, fisso e senza tempo, giacché suo compito è percorrere i tempi, a quel punto nasce la incomunicabilità e si rinnova il dramma della superbia di Babele. Insomma, urge correre ai ripari e prendere atto del dato drammatico: abbiamo perduto il linguaggio per comunicare i misteri della fede, che richiedono un lessico proprio e preciso, che prescinde dalla società e dai tempi; e questo linguaggio è il linguaggio metafisico […]

 Anni addietro ho dedicato molto tempo alla riflessione ed allo studio di alcune particolari tematiche socio-ecclesiali, fissando poi in alcuni miei libri — in particolare nell’opera E Satana si fece Trino — un concetto sul quale seguito sempre a ribattere: il principio di inversione del bene e del male che muta il male in bene ed il bene in male, sino alla “naturale” distruzione del concetto stesso di bene e di male, in un mondo ecclesiale e secolare dove la coscienza soggettiva è annullata e la coscienza oggettiva — quella che Carl Gustav Jung chiamerebbe a suo modo “inconscio collettivo” o “coscienza collettiva” — risulta spesso totalmente annichilita. Questo processo, di cui è sommo artefice il Demonio, passa inevitabilmente attraverso lo “svuotamento” delle parole, prima private di contenuto poi riempite d’altro, per esempio la carità senza verità, la misericordia senza giustizia …
Quando agli inizi dell’anno 2000 cominciai a percepire certe forme di buonismo filantropico all’epoca in fase di sviluppo ed oggi giunte all’apice della vera e propria perversione, nell’apertura di un mio libro edito poi nel 2007 scrissi: «La Carità senza Verità è zoppa, la Verità senza Carità è cieca. La Carità si compiace della Verità nella misura in cui la Verità si compiace della Carità» (1). Ed è proprio la carità che mi porta a definire il nostro Creatore come un Dio virile in quanto fonte originante del concetto stesso di quella virilità che prende forma fisica visibile e tangibile nel Verbo Incarnato, Cristo Signore, vero Dio e vero Uomo. Il tutto per dire che la carità — perlomeno quella cristiana — non ha nulla da spartire con certe melasse. La carità-amore è un vero e proprio “attributo” di Dio che come tale non è neppure concepibile senza la verità; allo stesso modo in cui la misericordia non è pensabile — perlomeno cristianamente — senza la verità e la giustizia. Se dunque vogliamo ridurre l’uomo alla vera impotenza del non essere per condannarlo al non divenire, prima è necessario svuotare le parole, alterarle e falsificarle, poi privarlo di un vocabolario, quindi di una lingua.
Nel correre dell’ultimo mezzo secolo si è rinnovato all’interno della società ecclesiale ciò che i figli di Dio hanno già vissuto in passato, il tutto tramite le stesse modalità di fondo e con le stesse conseguenze finali. La nostra modernità è difatti racchiusa nel racconto vetero testamentario in cui si narra della costruzione della Torre di Babele, dall’ebraico מגדל בבלmigdol bavel :
Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Emigrando dall’oriente gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Sennaar e vi si stabilirono. Si dissero l’un l’altro: «Venite, facciamoci mattoni e cociamoli al fuoco». Il mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento. Poi dissero: «venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra». Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: «Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro». Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra (2).
Tra le numerose interpretazioni di questo racconto allegorico che oltre l’allegoria racchiude la radice della divina verità, amo da sempre prediligere l’immagine della punizione per un atto di umana superbia dell’uomo che non solo tenta di sfidare Dio, ma di sostituirsi a Dio. D’altronde, il cuore della grande tentazione alla quale Adamo ed Eva cedettero fu l’inganno del Demonio racchiuso in una espressione che percorre dall’alba dei tempi la storia dell’umanità: … se mangerete di questo frutto del quale vi è stato proibito di cibarvi, sarete simili a Dio. A questo modo il Tentatore altera e mette in dubbio la parola di Dio, appunto svuotandola e trasformandola in altro, insinuando il malevolo dubbio che quella proibizione nasce solo dalla gelosia di Dio, desideroso che Adamo ed Eva non fossero simili a lui.
Nelle antiche esegesi fatte quando ancora possedevamo e conservavamo con cura un vocabolario che racchiudeva al proprio interno i significati reali delle parole ed una lingua comune universale, si soleva fare un collegamento tra l’episodio della Torre di Babele e la discesa dello Spirito Santo sul cenacolo degli apostoli a Pentecoste. Attraverso l’azione di grazia dello Spirito Santo gli Apostoli prendono a parlare lingue diverse divenendo così comprensibili agli uomini di tutti i popoli, sanando a questo modo la frattura originata in passato a Babele.
Sono il primo a criticare i limiti della neoscolastica decadente, che della autentica scolastica è solo una parodia. Volendo possiamo anche muovere delle critiche scientifiche e pertinenti ad alcune parti dell’opera o ad alcuni degli stessi pensieri del Doctor Angelicus, che tratta verità dogmatiche — in maniera mirabile e sino ad oggi insuperata — ma il cui pensiero, non esente anch’esso da alcuni errori umani, non è dogma di fede. San Tommaso d’Aquino parla dei dogmi, ed in modo efficace li trasmette attraverso il metro della migliore metafisica, ma la Summa Teologica non è un dogma, lo sanno e lo affermano da sempre i tomisti per primi, alcuni anche in modo ilare affermando che «Dio non è uno, trino e … tomista», pur essendo la speculazione dell’Aquinate comprovata nei secoli per la preziosa efficacia con la quale ci guida a penetrare gli arcani misteri del Dio uno e Trino.
Gli esponenti delle diverse scuole teologiche si sono affrontanti per secoli in profondi e talvolta anche furenti dibattiti teologici, tutti beneficiando del legittimo diritto di cittadinanza all’interno della Chiesa. Ciò avveniva nelle varie epoche di quel lungo spazio che fu il medioevo, definito tutt’oggi da certi irriducibili asini come “epoca dei secoli bui”,  espressione fatta propria anche da certi ecclesiastici e teologi, alcuni dei quali in cattedra nelle nostre università pontificie. La verità, è che in quella “terribile” stagione dei “secoli bui”, che segnò invece delle straordinarie esplosioni dell’umano intelletto attraverso le scienze, le arti, la filosofia e la teologia, non solo il confronto era possibile ma cercato, favorito e auspicato; al contrario di oggi, dove sopra le ceneri del linguaggio metafisico ormai de-costruito è stata originata una crisi del dogma senza precedenti, sino allo sprofondamento nel paradosso inteso nel più stretto senso etimologico della radice greca di παρά [contro] e δόξα [opinione]. Il perverso paradosso odierno è che si può mettere in discussione l’incarnazione del Verbo di Dio, si può leggere in chiave puramente allegorica la risurrezione del Cristo, si può ridurre la Santissima Eucaristia a mera simbologia di un banchetto gioioso, si può scempiare la sacra liturgia secondo gli arbitrî del bohèmienne Kiko Arguello e di Carmen Hernández, si può trascinare dentro la Chiesa l’animismo africano ed il pentecostalismo nordamericano attraverso la devastante opera di certi carismatici invasati, si può spacciare per ecclesiologia il più ambiguo politichese ciellino assiso di prassi sul carrieristico carro del vincitore, ma non si possono porre in discussione le perniciose teorie di Karl Rahner e di tutte le étoiles della Nouvelle Théologie; di tutti gli astri nati dal post concilio erettosi come una autentica Babele sopra le dottrine del Concilio Vaticano II, sulle quali si è celebrato il grande tradimento in un clima di feroce dittatura che non ammette alcuna sana discussione. O come disse in uno studio teologico dell’Italia Meridionale un docente ad un seminarista: «Quel che tu pensi a me non interessa. Ciò che voglio è che parola per parola tu mi porti all’esame la cristologia di Walter Kasper e di Karl Lehmann, se vuoi superare il mio esame, altrimenti …». E questi moderni “teologi” oggi in cattedra, che hanno studiato la patristica non sui testi greci ma su sunti di dispense tradotte, che hanno sostituito il parlare dogmatico col parlare sociologico; questi distruttori della metafisica e di ogni senso comune, spesso sono proprio coloro che ironizzano con stile da illuministi volteriani in odore di massoneria Settecentesca sui cosiddetti “secoli bui”; loro che hanno preso la lampada da sopra il tavolo e l’hanno nascosta sotto al moggio (3) consegnando infine la Sposa di Cristo ad una lunga notte di tenebre.
Una volta, uno dei diversi sacerdoti tirati su dentro i nostri pretifici — quelle odierne fabbriche di deformazione alle quali sono ormai ridotti certi seminari — ed allevato attraverso il meglio del peggio delle esegesi protestanti, baccalaureato, specializzato e infine dottorato presso la “scuola rabbinica” del Pontificio Istituto Biblico senza avere mai sfiorato ciò che in filosofia e in teologia è il pensiero veramente cattolico, sollevò lagnanze su di me, a suo dire colpevole di avere criticato il pensiero del “santissimo padre della Chiesa” Carlo Maria Martini. Il vescovo di questo  prete  mi esortò in modo amabile ad essere meno impetuoso. Risposi al vescovo: «Questo suo presbitero, non solo amoreggia con tutto ciò che non è cattolico, ma strizza gli occhi all’eutanasia, afferma in modo sibilino che il discorso sull’aborto andrebbe valutato “caso per caso”, che un giorno la Chiesa valuterà se non il sacerdozio femminile perlomeno il diaconato alla donne, che il discorso dei cattolici divorziati andrà valutato presto e bene. Preposto a curare un centro di formazione teologica, chiama a tenere conferenze esponenti della sinistra ideologica e sostenitori della cultura del gender … eppure ha persino l’impudenza di lamentare che io avrei proferito una sacrilega “bestemmia contro lo Spirito Santo”, ossia l’avere osato criticare il pensiero di un pensatore che temo abbia reso l’anima a Dio in piena crisi di fede. E badi bene, Venerabile Vescovo, non affermo questo perché oso giudicare la coscienza intima del Cardinale Martini, che solo Dio può scrutare e giudicare, ma perché ho analizzato certi suoi testi; e se pure lei vorrà leggere Conversazioni notturne a Gerusalemme, capirà il dramma interiore di quest’uomo al quale in giro per gli studi teologici italiani sono dedicati cicli di lezioni celebrative intitolate “La parola del Cardinale Martini”, il tutto mentre giorno dietro giorno si dimentica sempre di più la Parola di Dio, sostituita col verbo dei moderni idoli, ivi incluso tra di essi anche il Cardinale Martini. Non è però questo il problema ma altro: lei sa che questo suo presbitero critica in modo subliminale il magistero di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, lanciando su entrambi il martiniano “anatema” che la Chiesa sarebbe indietro di almeno 200 anni? Ebbene mi dica: si può forse mettere in discussione i capisaldi della morale cattolica, criticare il magistero della Chiesa e degli ultimi due Sommi Pontefici con modernistica altezzosità da biblisti filo-protestanti, ed al tempo stesso essere però impediti a porre in discussione, sul piano strettamente scientifico, teologico e pastorale, certe affermazioni infelici e palesemente errate pronunciate dal Cardinale Martini?». Replicò il vescovo: «Figliolo caro, che cosa ci posso fare?». Risposi: «Al posto suo saprei che cosa fare, ma il vescovo è lei, non io. In ogni caso: il primo passo per risolvere dei gravi problemi, è quello di ammettere anzitutto la loro esistenza, non certo negarla». Poi, in maniera molto delicata, ricordai al vescovo qual grave e devastante mancanza costituisce per i presbiteri che esercitano il sacerdozio in comunione con la pienezza del suo sacerdozio e per il Popolo di Dio a lui affidato, il grave peccato di omissione, la impotenza derivante dal non-agire, sport ormai molto praticato nel nostro episcopato ridotto sempre più ad una compagine di funzionari in carriera che non vogliono grane, che non amano discutere e meno che mai sono disposti a richiamare i figli ribelli, pur essendo però capaci a richiamare chi afferma l’ovvio: «Questo agire non è pastorale» e spesso non è neppure cattolico. Il tutto con buona pace del defunto Cardinale Martini, che alla prova dei fatti non passibili di facile smentita ha trascorso la propria vita a piacere e ad essere celebrato in gloria da tutti i circoli intellettuali della sinistra, osannato dalla strampa anti-cattolica e massonica; il tutto mentre Giovanni Paolo II prima, Benedetto XVI dopo, dagli stessi circoli intellettuali e dagli stessi giornali erano fatti letteralmente a pezzi in modo metodico e spesso feroce. Ripeto, questi sono i fatti, con buona pace dei martinitt formatisi sul meglio del peggio delle esegesi protestanti e sulle eresie moderniste oggi al potere; e che in giro per gli studi teologici italiani organizzano seminari su “La parola del Cardinale Martini”, chiamando spesso a pontificare l’altro immacabile falso profeta e cattivo maestro: Enzo Bianchi.
Dopo la de-costruzione del dogma eretto sulla rivelazione e sul deposito della fede sancito dai grandi concili dogmatici della Chiesa, al suo posto si sono sostituite le dogmatizzazioni dei pensieri umani dei vari Rahner, che hanno creato anzitutto il loro nuovo vocabolario. Infatti, affinché il golpe potesse risultare davvero devastante, era necessario creare anzitutto due “miti” intangibili che potessero fungere da neo-dogmi: anzitutto una nuova èra con tutte le implicazioni messianiche del caso, si legga “ermeneutica della rottura e della discontinuità, ossia la Chiesa intesa come entità nata dal post-concilio Vaticano II; quindi un nuovo lessico, ossia tutte le ambigue terminologie del nuovo vocabolario teologico rahneriano.
Nell’opera Vera e falsa teologia il mio confratello anziano Antonio Livi tratta il fenomeno della de-dogmatizzazione spiegando con scientifico rigore in che modo la metafisica è indispensabile per l’interpretazione del dogma, poiché esprime in modo scientifico le certezze del senso comune. Data alle stampe all’apice della sua maturità filosofica e teologica, quest’opera si richiama alla produzione del domenicano francese Réginald Garrigou-Lagrange, in particolare ai suoi studi sur le sens commun ed alla philosophie de l’être et les formules dogmatiques, per seguire con l’enciclica Fides et Ratio di San Giovanni Paolo II, alla stesura della quale non è mancato anche il contributo di Antonio Livi.
Per avvelenare la verità è necessario anzitutto avvelenare la lingua idonea ad esprimerla. Sicché, tutti questi seminatori di veleni e di distruzioni che hanno avvelenato la buona teologia e de-strutturato o distrutto il dogma, hanno finito col creare una lingua infarcita dei loro tipici e specifici neologismi, o come direbbe George Orwell nel suo profetico romanzo “1984″: una neolingua. E chi non parla questa neolingua finisce per essere dichiarato tabù, per dirla con un neologismo di quel Freud tanto caro a certi teologi ed ecclesiologi modernisti.
Quando la Chiesa rinuncia ad un linguaggio comune, universale e preciso, tale è il linguaggio dogmatico, fisso e senza tempo, giacché suo scopo e compito è di percorrere i tempi, a quel punto nasce la incomunicabilità e si rinnova il dramma della superbia di Babele. Insomma, urge correre ai ripari e prendere atto del dato drammatico: abbiamo perduto il linguaggio per comunicare i misteri della fede, che richiedono un lessico proprio e preciso, che prescinde dalla società e dai tempi; e questo linguaggio è il linguaggio metafisico.
Nella Chiesa cambiano – e devono cambiare – gli accidenti del linguaggio, non però le sostanze del linguaggio fondate sull’eterno immutabile. O per dirla con un aulico esempio chiarificatore: “Poscia, pria chi niuno favellasse Iddio fu “. Traducento dal linguaggio aulico a quello corrente la sostanza è: prima che l’uomo parlasse Dio già era. L’ accidente — ossia la lingua espressiva — può invece cambiare e, senza mutare di un solo iota la sostanza, oggi possiamo tranquillamente affermare la stessa cosa dicendo: “Prima che chicchessia parlasse Dio già era”.
Dire: “Hoc est enim corpus meum ” o dire “Ecco questo è il mio corpo ”, è la stessa cosa, con buona pace di certi lefebvriani che “adorano” più l’accidente esterno e mutevole del latinorum anziché la sostanza dell’Eucaristia che è il Cristo eterno e immutabile, presente vivo e vero, a prescindere dagli accidenti esterni che sono per loro stessa natura mutevoli. Dire invece “Ecco, questo rappresenta il mio corpo”, non sarebbe affatto una mutazione dell’accidente formale linguistico ma una mutazione della più delicata sostanza ontologica, legata appunto alla ontologia dell’essere divino increato, immutabile ed eterno. Da qui nasce ad esempio la discussione sul “pro multis” che per mezzo dell’accidente linguistico è invece divenuto “per tutti “, cosa sulla quale si potrebbero aprire profondi dibattiti teologici, che però non hanno motivo di essere perché Benedetto XVI ne dispose la correzione in “per molti ” nei messali tradotti nelle varie lingue, diversi dei quali già corretti e stampati. Per quanto mi riguarda dico da sempre “per molti ” sin dalla prima Messa celebrata; e ciò non per abuso arbitrario ma per aderente fedeltà ai testi originali, a partire naturalmente da quelli del Vangelo.
Sia chiaro: il Sacrificio del Cristo distrugge il peccato per l’uomo chiamato a suo modo a concorrere a questa distruzione per riedificare il Nuovo Adamo. L’Apostolo Paolo afferma con coerenza teologica che Cristo «è morto per tutti» e che la sua morte ha distrutto il peccato (4). In un diverso ma simile contesto l’Autore della Lettera agli Ebrei non fa riferimento a “tutti”, pro omnibus, ma a pro multis, a “molti”: «[…] i peccati di molti» (5). Esattamente quel pro vobis et pro multis effundetur che risuona nel testo originale latino della più antica Preghiera Eucaristica, tradotta poi nella gran parte delle lingue nazionali col termine “per tutti”. Nel testo originale greco viene usato oι πολλοι, che alla lettera significa “i più” ma non significa “tutti”, termine usato nei vangeli di San Marco e di San Matteo e proprio nella narrazione della istituzione dell’Eucaristia, nella quale gli Evangelisti non usano πάντες νθρωποι [per tutti gli uomini]. Siamo allora dinanzi a una palese incoerenza? Come mai l’uso del termine “per tutti” e “per molti” in altri contesti pressoché analoghi? Non è un sofisma semantico se rapportiamo sul piano escalotologico e teologico “per molti” e “per tutti” al mistero del Sacerdozio regale di Cristo, che non nasce col carattere sacerdotale ma che lo assume; e siccome non lo assume per se stesso ma per noi, il quesito suona a dir poco legittimo: il Cristo si fa Sommo Sacerdote “per molti” o “per tutti”?
Nessuna contraddizione sussiste tra le diverse righe testé citate: la morte di Cristo, sebbene sia sufficiente per tutti e benché sia avvenuta per tutti non ha efficacia se non per coloro che devono essere salvati poiché vogliono essere salvati; altrettanto vale per il Sacerdozio Regale del Cristo che assume efficacia per i molti che vogliono parteciparvi per beneficiarne. Non tutti infatti si sottomettono a Lui nella fede e nelle opere attraverso quel piano di salvezza che viene offerto nell’amore e nella grazia dalla potenza divina; offerto a tutti ma non imposto. Dunque è l’uomo dotato di libertà e di libero arbitrio a rendere efficace o del tutto inefficace il Sacerdozio Regale del Cristo. Pertanto, la trascrizione di “pro multis” derivante dal greco oι πολλοι con la dicitura “per tutti”, non è affatto — come spiegò  Benedetto XVI in una sua lettera del 2012 al presidente della irrequieta Conferenza episcopale tedesca — una fedele traduzione «ma piuttosto una interpretazione» che potrebbe suonare, mi permetto di aggiungere io, anche non po’ arbitraria. Benedetto XVI, in sua veste di raffinato teologo, ci insegna a tutti che in teologia, prestare molta attenzione al significato delle parole ed al loro uso appropriato — in modo particolare nel delicato ambito della teologia dogmatica o nel caso specifico della dogmatica sacramentaria — non vuol dire muoversi sui sofismi giocati su questioni di lana caprina, ma tutelare la verità dal pericolo dell’errore facendo anzitutto uso della corretta parola, che è la Parola di Dio e soltanto la Parola di Dio.
La verità è annunciata attraverso le parole, perché il Verbo di Dio stesso si fece parola vivente; e la verità divina, per essere annunciata e trasmessa, non necessita di semplici parole appropriate, ma di sue parole specifiche. Chi si è preso cura di studiare bene ed a fondo i primi grandi concili dogmatici celebrati nel corso dei primi otto secoli di vita della Chiesa, sa bene che il primo problema che si pose ai Padri fu anzitutto quello di trovare parole idonee per esprimere il mistero, che non essendo però presenti nel vocabolario, furono modulate dal lessico filosofico greco. A partire dagli anni Sessanta del Novecento, questo “apparato” linguistico filosofico e teologico nato dai concili, dalla letteratura dei Padri e dalla speculazione dei più grandi dottori della Chiesa, è stato d’improvviso smantellato per correre dietro alle “parole nuove”, alla neolingua del Grande Apprendista Stregone, come ama indicare Karl Rahner il domenicano Giovanni Cavalcoli, anch’esso autore di un’opera che costituisce una pietra miliare nella critica al pensiero rahneriano [vedere qui], data alle stampe dopo tre decenni di ricerche e raccogliendo in essa anche molti preziosi spunti critici del Servo di Dio Tomas Tyn, già autore a suo tempo di uno studio nel quale confutava le ambiguità e gli errori insiti nel pensiero di questo celebre teologo tedesco.
Presi quindi dall’euforia del grande “aggiornamento” e da una “nuova Pentecoste” mal compresa, abbiamo perduto la parola eterna ed immutabile di Dio ed il linguaggio idoneo e preciso attraverso il quale trasmetterla, ed oggi arranchiamo tentando di esprimerci con una neolingua infarcita di romanticismo tedesco decadente, scopo della quale è solo quello di falsificare la verità, in cattiva o in buonafede, dispersi ed a tratti impazziti sotto la torre di Babele all’ombra della quale risuonano le vuote o pericolose parole di mille filosofismi e sociologismi pseudo teologici.
Il primo che di esternazione pubblico-privata in esternazione pubblico-privata pare che si stia mostrando privo di questo linguaggio metafisico e immutabile che si regge sul dogma, sembrerebbe proprio il Regnante Pontefice, mentre attorno a lui un nugulo di cortigiani si circonda sempre più di maestri «secondo i propri capricci, rifiutando di dare ascolto alla verità per perdersi dietro alle favole» (6).
All’ultimo Sinodo dei Vescovi, quanti erano i Padri Sinodali in grado di capire e di ascoltare, o solo di leggere — non dico nemmeno di tradurre, ma solo di leggere — un testo in lingua latina? È mai possibile che a Roma, quando presso molte case sacerdotali capita che trenta sacerdoti che parlano dieci lingue diverse debbano concelebrare l’Eucaristia, usino come lingua l’inglese, anziché il latino? Molti dovrebbero porsi delle domande, mentre Pietro, dal canto suo, dovrebbe affrettarsi a dare risposte ed a prendere seri provvedimenti, anziché giocare a compiacere i mass media giocando egli stesso con la neolingua [vedere qui]. A cosa serve infatti, mentre la casa in fiamme cade a pezzi, innaffiare le margherite del giardino affinché non appassiscano col calore sviluppato dal fuoco, vale a dire annunciare una riforma sempre più improbabile della curia romana? Forse allo scopo di piacere a quanti nutrono da sempre non desideri di riforma, bensì solo il grande e insopprimibile desiderio di distruggere Roma sede perenne della Cattedra di Pietro?
 

(Fonte: Ariel S. Levi di Gualdo, L’Isola di Patmos, 11 dicembre 2014)
http://isoladipatmos.com/babele-e-la-neolingua-una-chiesa-senza-vocabolario-da-mezzo-secolo/

Il “male minore”. In risposta a un articolo di Marco Mancini sul sito Campari e De Maistre

Il dott. Marco Mancini, su “Campari e De Maistre”, mi chiama in causa sul tema del male minore, in seguito ad alcuni articoli di Fabrizio Cannone e ad un mio articolo ripubblicato da “Riscossa Cristiana“, con un cappello introduttivo del suo direttore Paolo Deotto, che condivido pienamente. Riservandomi di tornare in maniera approfondita sull’argomento, sottopongo intanto alla riflessione ampi stralci di due articoli dell’avv. Caudio Vitelli, apparsi, sulla rivista  “Lepanto” n. 162 (dicembre 2002) e  163 (giugno 2003), in polemica con la tesi della “riduzione del danno” sostenuta da don Angelo Rodriguez Luño in un articolo apparso sull’”Osservatore Romano” del  4 settembre 2002

La proposta di leggi che “riducano i danni
E’ proprio vero che è moralmente lecito approvare una nuova legge per il semplice fatto ch’essa “riduce i danni” della legislazione vigente? Questo criterio di giudizio non commette l’errore di basarsi, non sulla oggettiva bontà del fine voluto, ma sul calcolo dei risultati previsti, cadendo nell’ errore del proporzionalismo? Questo, infatti, valuta la moralità in base alla “proporzione tra beni e mali che effettivamente seguono all’azione“, allo scopo di “massimizzare i beni e minimizzare i mali“.
Giovanni Paolo II però insegna che “la considerazione di queste conseguenze – nonché delle intenzioni - non è sufficiente a valutare la qualità morale di una scelta concreta. La ponderazione dei beni e dei mali, prevedibili in conseguenza di un’azione, non è un metodo adeguato per determinare se la scelta di quel comportamento concreto sia in se stessa buona o cattiva, lecita o illecita” (Giovanni Paolo II, Enciclica Veritatis Splendor, §§ 65, 74 e 77).
Il retto criterio del giudizio morale, infatti, è quello assoluto-oggettivo, che valuta un atto come “buono” o “cattivo” secondo che rispetti o violi la Legge naturale e divina, considerandolo innanzitutto in sé e per sé, ossia nell’oggetto, nelle circostanze e nelle conseguenze sue proprie. Invece il criterio proporzionalista è relativistico, perché valuta un atto come “migliore” o “peggiore” secondo che migliori o peggiori una situazione data. Se così fosse, una qualunque scelta iniqua potrebbe essere giustificata per il solo fatto di attenuare una iniquità del passato.
Ad esempio, una legge abortista “moderata” potrebbe essere giustificata da una precedente legge abortista radicale, purché ne comporti una “riduzione del danno“. Ma così si finisce con lo scegliere in base alla falsa alternativa tra possibilità solo e comunque cattive (“caso perplesso “), illudendosi di poter fare lecitamente un male “minore” per evitare un male “maggiore” (Cfr. Ludwig Bender O.P., voce Minor male, in: cardd. F. Roberti e P. Palazzini, Dizionario di teologia morale, Studium, Roma 1967. Ciò accade perché si è sostituita la questione di principio (la scelta è conforme alla Legge naturale e divina? realizza un vero bene?) con una questione utilitaristica (la scelta è efficace? “riduce i danni“?).
Per giustificare la propria proposta, don Rodriguez Luño fa appello ad una prospettiva accennata da Giovanni Paolo II, secondo la quale “potrebbe essere lecito offrire il proprio sostegno a proposte mirate a limitare i danni di una tale legge (abortista) diminuendone gli effetti negativi”( Giovanni Paolo II, Enciclica Evangelium vitae, § 73). Tuttavia, qui il Papa propone di correggere in senso migliorativo una legge cattiva già esistente, ma non di varare e applicare una nuova legge “meno cattiva”. Se interpretassimo tale passo in quest’ultimo senso, contraddiremmo le evidenti intenzioni del Magistero. Questo infatti stabilisce che, “se la pubblica autorità può talvolta rinunciare a reprimere quanto provocherebbe, se proibito, un danno più grave, essa non può mai accettare però di legittimare (..) l’offesa inferta ad altre persone attraverso il misconoscimento di un loro diritto così fondamentale come quello della vita” (Evangelium Vitae § 71).
Per gravi ragioni, dunque, si può rinunciare ad un bene teoricamente necessario ma concretamente inattuabile o controproducente; si può tollerare un male, rinunciando a reprimerlo; si può perfino regolare un male, nel senso di ridurne la libertà e il campo di azione; ma non si può permettere o regolare un male autorizzandolo, perché questo significherebbe approvarlo rendendosene complici (Cfr. Ramòn Garcìa de Haro, La vita cristiana, Ares, Milano 1995, pp. 382-383). Ebbene, una nuova legge “meno permissiva” comporterebbe proprio questa complicità.
Qui non si tratta di eliminare un comma od un articolo da una legge ingiusta diminuendone così la malvagità, ma si tratta di varare una legge che le Camere voteranno non solo articolo per articolo, ma anche nella sua totalità, approvandola quindi non solo nelle sue giuste disposizioni restrittive, ma anche nelle sue ingiuste disposizioni permissive. Votare una legge del genere significa rendersi complici di un male che non viene certo compensato né tantomeno cancellato dalla prevista “riduzione del danno“. Le buone intenzioni soggettive o il risultato “restrittivo” della proposta di legge non bastano per sanare l’oggettiva iniquità.
Se così non fosse, ogni legge che migliorasse la situazione precedente sarebbe per ciò stesso buona, in quanto andrebbe giudicata solo per il cambiamento prodotto, senza valutare il risultato complessivo. Non è ad esempio quindi lecito negare il diritto alla vita di alcuni col pretesto di salvare quello di altri; ad esempio permettere l’aborto “terapeutico” con la scusa di vietare gli altri tipi di aborto, oppure permettere l’eutanasia dei pazzi con la scusa di vietare quella degli handicappati.
Per essere moralmente valida, e dunque proponibile da un parlamentare cattolico, una legge deve avere una sua propria integritas: dev’essere cioè totalmente giusta, almeno nel senso che nessuna delle sue disposizioni contraddica formalmente la Legge naturale e divina; in tal caso proporla e votarla è lecito. Ma se una legge contiene anche una sola disposizione intrinsecamente e oggettivamente immorale, essa manca dell’adeguato bene dovuto; è una “non-legge” in quanto contrasta con la Legge divina e col bene comune; votarla è quindi illecito. “Bonum ex integra causa, malum ex quocumque defectu” (san Dionigi Areopagita). “Se una legge è in qualche cosa in contrasto con la Legge naturale, allora non sarà legge bensì corruzione della legge”, dice san Tommaso d’Aquino (S. Tommaso d’Aquino, Summa theologica, I-II, q. 95, a. 2.).
Commentando questo passo, Giovanni Paolo II afferma: “Le leggi che legittimano la soppressione diretta di esseri umani innocenti, sono in totale e insanabile contraddizione con il diritto inviolabile alla vita. (..) Le leggi che autorizzano e favoriscono l’aborto e l’eutanasia (..) sono del tutto prive di autentica validità giuridica” (Evangelium vitae, § 72). “Una legalizzazione dell’aborto che significasse un riconoscimento, da parte dello Stato, di un diritto all’aborto, sia in casi determinati e a certe condizioni, è contraria alla retta ragione” (Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione sull’aborto procurato, del 18-11-1974, § 22). Dunque, una qualsiasi legge che attenti alla vita di una categoria di esseri umani (innocenti) – anche se, rispetto ad una normativa precedente, riduce il numero delle categorie colpite – va ritenuta “in totale e insanabile contraddizione” con la Legge divina e con la retta ragione e quindi è “del tutto priva” di validità giuridica. Altrimenti se ne rende complice, per quanto lo riguarda, diventando responsabile di una formale cooperazione al male.

Obiezioni di carattere strategico
A nostro avviso, la proposta di don Rodriguez Luño suscita comunque anche serie obiezioni di carattere strategico. Egli si premura di precisare ch’essa va attuata solo quando non costituisce una prospettiva compromissoria, optando per un “male minore” (§5b).
Ci poniamo però un problema: la scelta di varare leggi “restrittive”  non è figlia legittima di questa prospettiva, non solo per il criterio morale applicato, ma anche per la tendenza prospettata? Non finisce col deviare la battaglia pro-vita verso una linea compromissoria che renderà impossibile la vittoria e sicura la sconfitta? Orbene, a nostro avviso prospettiva del teologo è del tutto illusoria e fuorviante.
Essa non tiene conto dell’abile strategia della forze “libertarie” e anticristiane, che mirano anche a sopprimere ogni coerenza di azione negli ambienti cristiani cercando di coinvolgerli in una spirale di complicità. Innanzitutto, se si punterà alla falsa terapia palliativa di “ridurre il danno” prodotto dal male, l’opinione pubblica (anche cristiana) finirà col pensare che l’importante non è guarire dalla malattia ma curarne i sintomi, e che la lotta contro il male in quanto tale è inutile o addirittura controproducente.
Così, la battaglia per abolire le leggi ingiuste verrà delegittimata sostituendola con le manovre per limitarne le conseguenze. Inoltre, una volta innescato il meccanismo della complicità, si scatenerà senza dubbio un “gioco al ribasso“: le forze “libertarie” proporranno leggi sempre peggiori affinché i parlamentari cattolici le seguano a rimorchio, votandone le versioni “restrittive“.
Anzi, alcuni ambienti cattolici già propongono di prevenire il temuto varo di proposte di legge estremistiche, votando leggi “moderate” che ne riducano in anticipo i danni previsti; è quanto sta avvenendo ad esempio in Italia, per quanto riguarda la questione della fecondazione artificiale. Questa soluzione viene timidamente rifiutata dal nostro teologo (§ 5 c), ma essa risponde alla sua esigenza di “stare al gioco” per “ridurre i danni” previsti. Quale sarà il risultato finale di questo processo compromissorio? Forse si arriverà a varare una legislazione meno ingiusta del previsto, ma con la terribile aggravante che sarà stata votata e applicata con la determinante complicità del voto cattolico.
Una volta che fosse approvata (ad esempio) una legge abortista “restrittiva” o una legge eugenetica “minimale“, con che credibilità e coerenza i cristiani potranno poi proporre di correggerle per “ridurne i danni“? E soprattutto, con che credibilità e coerenza potranno continuare a proclamare il diritto alla vita, ormai diventato una mera teoria progressivamente smentita dalla prassi? Compromesse nella proposta, approvazione, applicazione e magari anche difesa di leggi “meno inique“, coinvolte in una strategia tanto umiliante quanto fallimentare, le forze pro-vita finirebbero col perdere non solo la loro combattività ma anche la loro credibilità; e non c’è ipotetica “riduzione del danno” che possa compensare l’onore perduto.
Senza contare poi l’effetto formatore (ed in questo caso deformatore) che hanno le leggi sulle coscienze dei destinatari delle loro disposizioni, sulla base del principio socialmente diffuso che è giusto quello che è legale. Tale degrado è inoltre inevitabile poiché, se non si agisce più in coerenza col proprio pensiero, si finisce col pensare in coerenza con la propria azione. C’è però un altro aspetto della questione.
La proposta di don Rodriguez Luño, specialmente se indica una strategia, sembra sottintendere una grave valutazione di fondo. Essa presuppone che, nella moderna società secolarizzata, non sia più possibile ottenere una legislazione conforme al diritto naturale ed ai Dieci Comandamenti; l’integrale rispetto dell’etica e la coerente difesa della vita sarebbero una teoria bella e generosa, ma concretamente irrealizzabile nell’odierna vita pubblica e quindi improponibile allo Stato moderno.
L’unica possibilità realistica sarebbe quella di adeguarsi all’irriformabile sistema “pluralistico “, ripiegando nella scelta fra le alternative proposte dalla dialettica “democratica“. Gli stessi politici non potrebbero fare altro che “mediare” tra una giustizia irrealizzabile e una iniquità inevitabile, ripiegando su soluzioni di compromesso.
Ma com’è possibile che, sia pure in certi casi concreti, sia inevitabile e dunque lecito adeguarsi al male votando una legge cattiva? Forse che Dio ha abbandonato il mondo riducendo gli uomini all’insolubile dilemma di optare tra alternative inique? Forse che la regalità sociale di Cristo è diventata una utopia rinviata alla fine dei tempi? Inoltre, la prospettiva dell’inevitabilità del compromesso fornisce un pericoloso pretesto per tradire il dovere morale professionale.
Infatti “è colpa più grave quella di chi induce ad uccidere che non quella di chi uccide” (Sant’Agostino, Contra litteras Petiliani, § 202); se quindi la difficile situazione giustificasse le cattive scelte dei politici, a maggior ragione essa potrebbe giustificare anche quelle degli amministratori e degli operatori sanitari, che si trovano a subire leggi e norme volute dai politici. Ad esempio, medici ed infermieri potrebbero anch’essi ripiegare nella comoda prospettiva di adeguarsi alla prassi “meno cattiva“, limitandosi a “ridurre i danni” delle norme sanitarie vigenti e rinunciando quindi alla difesa della vita e perfino all’obiezione di coscienza.
Perché mai pretendere da loro quella credibilità e quella coerenza – spesso a scapito della loro professione – dalle quali i politici, ben più responsabili di loro, vengono dispensati? In realtà, se in certe situazioni può essere effettivamente momentaneamente impossibile fare il bene, tuttavia la Provvidenza garantisce sempre al cristiano la possibilità di evitare il male, magari a prezzo di una resistenza eroica, respingendo la tentazione di scegliere fra alternative inaccettabili.
Il cristiano che ha responsabilità legislative ha del resto come missione, – anche nella società “pluralistica” – quella di promuovere e difendere i diritti di Dio e della Chiesa ed in ultima analisi del diritto naturale nel campo politico: “E’ la promulgazione delle leggi che attesta se i sovrani servono veramente il Signore nel timore” (Sant’Agostino, Contra litteras Petiliani, § 202). Certo, il politico coerente verrà accusato di essere incontentabile o fanatico e di perdere utili occasioni lasciando il campo agli altri. Ma in realtà rifiutare la complicità col male, evitando le trappole del compromesso, non equivale a fuggire nell’inazione ma anzi equivale a fare il bene concretamente possibile, ponendo le premesse della futura riscossa.

La correzione di leggi ingiuste
In un ordinamento giuridico si possono presentare, in relazione alle possibili azioni umane, due fattispecie: la presenza di una norma che già regolamenti le suddette azioni; oppure l’assenza di ogni normativa al riguardo.
Nel primo caso, secondo la giurisprudenza “laica“, la regolamentazione è esclusivamente un fatto di diritto positivo, e cioè prescinde da ogni valutazione etica: la legge generalmente dovrebbe seguire il costume “fotografandone” anche la “moralità” vigente. Pertanto qualsiasi norma, purché approvata secondo le procedure costituzionalmente definite, sarebbe da ritenersi giusta, indipendentemente dalla sua rispondenza o meno al diritto “naturale“. Questa posizione, ovviamente, non può essere condivisa dal politico cattolico. Si pone dunque il problema di quale condotta tenere per cercare di eliminare le conseguenze di una legge del genere. Poniamo in concreto il classico esempio della legislazione sull’aborto. Ebbene, per modificare la nefanda normativa in vigore in Italia (la c. d. legge n. 194/78), si aprono diverse possibilità teoriche:
1.    presentazione di un disegno di legge che, correggendo la normativa vigente, ripristini il totale divieto di aborto;
2.    promozione di un referendum totalmente abrogativo delle norme che legalizzano l’aborto;
3.    promozione di un referendum parzialmente abrogativo della citata legge (ad esempio, consentendo solo l’aborto c.d. terapeutico).
4.    presentazione di una nuova legge che, regolamentando ex novo la materia, restringa significativamente le possibilità di interruzione di gravidanza;
Ovviamente la prima e la seconda possibilità sono senza dubbio moralmente legittime ed anzi doverose. La terza e la quarta invece presentano gravi problemi morali.
La terza possibilità, quella del referendum parzialmente abrogativo, pur abolendo alcuni casi di aborto, conferma però la legittimità di abortire in altri casi. Si tratta di una scelta notevolmente problematica. La legge risultante dall’eventuale vittoria del nel referendum conserverebbe infatti profili gravemente immorali. Ci si deve allora chiedere se tali profili immorali sarebbero riferibili in qualche modo anche all’autore dell’atto referendario. Tale atto avrebbe infatti in sé una duplice natura, negativa e positiva: negativa in quanto agisce tecnicamente nel processo di formazione delle leggi mediante abrogazione parziale; ma anche positiva, cioè di approvazione sostanziale della legge così come modificata.
E’ un problema delicatissimo che non è facile risolvere. Da parte nostra, ma è solo la nostra opinione aperta ad ogni possibile confronto, riteniamo che la deliberazione popolare, con la vittoria di un voto parzialmente abrogativo referendario in materia di aborto, porrebbe in essere una diversa e nuova normativa deliberata non dal Parlamento ma dallo stesso popolo che, quale suprema fonte della sovranità, avrebbe legiferato direttamente nella materia oggetto di referendum, divenendo così diretto responsabile dell’intera legge sull’aborto risultante dall’abrogazione (che nel caso in questione, viene a costituire esclusivamente una tecnica costituzionale per adattare il testo licenziato dalle Camere alla effettiva volontà popolare).
Ben diversa è la quarta possibilità: quella che si esercita su una nuova legge, in via di elaborazione parlamentare, modificabile mediante emendamenti meramente abrogativi o restrittivi di disposizioni permissive ed immorali. Siamo in questo caso in presenza di emendamenti correttivi che impediscono che alcune ipotesi normative, proposte per l’approvazione, ottengano forza di legge, oppure, nel caso di emendamenti restrittivi, impediscono che condotte immorali diventino lecite.
Va però precisato che, nel nostro ordinamento giuridico, la legge va votata non solo articolo per articolo, ma, alla fine, anche nel suo complesso, in segno di approvazione globale. Pertanto, al parlamentare cattolico non sarebbe comunque mai consentito di dare il proprio voto finale positivo ad una legge che autorizzi azioni immorali, anche se tale legge risulti anche dall’ approvazione dei suoi emendamenti. Egli infatti non può assumersi, in nessun caso ed in nessun modo, la responsabilità globale di un testo finale che autorizzi, ad esempio, pratiche abortive, anche solo in casi rari ed estremi. Ciò significa che egli potrà correggere la proposta di legge mediante emendamenti meramente restrittivi o abrogativi; ma non potrà approvarne il testo finale, se vi permangono disposizioni illecite.

Legge di riforma e vuoto legislativo
Nel caso infine di una legge abortista già esistente, il parlamentare cattolico può e deve presentare esclusivamente disegni di legge, sostitutivi della normativa vigente, conformi al diritto naturale e cristiano. Se poi, nel corso del dibattito parlamentare, tale proposta di legge venisse modificata (ad esempio inserendo casi di legalizzazione dell’aborto), l’atteggiamento del parlamentare cattolico non può che essere che quello già delineato relativamente all’esempio precedente. Pertanto, fermo restando il suo voto positivo sui singoli articoli conformi alla morale cattolica, il parlamentare non potrà in nessun caso votare la legge nel suo complesso, pena l’assunzione della responsabilità morale e giuridica dell’intero testo.
Resta da affrontare la seconda fattispecie: quella cioè in cui vi sia una totale assenza di regolamentazione giuridica. Si tratta in genere di campi dell’agire umano che si sviluppano per il continuo progresso di tecnologie che aprono all’uomo possibilità d’azione prima neppure immaginabili. Si vengono così a costituire fattispecie relativamente o assolutamente nuove da regolamentare, essendo totalmente assente una normativa che abbia ad oggetto situazioni ricollegabili in qualche modo a quella in causa. E’ questo il caso di alcuni settori della bioetica. Si pensi ad esempio alla fecondazione artificiale, o alla clonazione terapeutica o riproduttiva. Quest’ultimo è il caso forse oggi più eclatante di assoluta assenza di regolamentazione, tanto che al riguardo si parla di “Far West legale“, intendendo con tale espressione una sorta di anarchia di condotta che trova limite solo nell’eventuale autoregolamentazione dei singoli responsabili.
Per quanto attiene ad esempio alla clonazione, a fronte di tale lacuna legislativa e di una conseguente liceità di ogni condotta anche la più aberrante, molti ambienti, anche cattolici, propongono che il nostro paese si doti, come già hanno fatto altre nazioni, di una legislazione che stabilisca quali azioni siano lecite e quali vietate.
Ovviamente anche in questo caso si è aperta una disputa tra i fautori di una soluzione “pragmatica” e coloro che invece intendono difendere con intransigenza la dottrina naturale e cristiana della Chiesa cattolica. I primi sostengono che, nel caso in questione, una qualsiasi legge sarebbe comunque più restrittiva della situazione esistente; pertanto il legislatore cattolico dovrà cercare in ogni modo di ottenere il massimo possibile di regolamentazione in subiecta materia.. Ma, per ottenere questo risultato, stanti i concreti rapporti di forza parlamentari, sarebbe necessario cercare una “terza via” tra quella ottimale e quella pessima, trovando un minimo comun denominatore tra le posizioni contrapposte. Ad esempio, bisognerebbe escludere la liceità della clonazione riproduttiva (quella tesa ad ottenere un soggetto fotocopia di quello originario) ma a ritenere lecita, entro certi ambiti, la clonazione terapeutica (che in sostanza mira non a creare un nuovo essere autonomo, ma a riprodurre, partendo da embrioni umani clonati, cellule organi o parti di essi a scopo curati vi). Insomma, occorrerebbe “cedere per non perdere“.
I fautori della posizione intransigente, tra i quali ci schieriamo, obiettano che applicare quella nota norma compromissoria anche a questo settore condurrà inevitabilmente, come finora è sempre avvenuto, alla sconfitta totale. Una volta ceduto sui principi, non vi è ragione – se non contingente – perché la liceità della donazione debba essere limitata ad alcuni settori della ricerca e non estesa ad altri. Il problema può risolversi solo applicando il sopra delineato principio di responsabilità del legislatore per le proprie azioni.
Ripetiamo per l’ennesima volta che, secondo l’insegnamento costante della Chiesa, non è lecito per un cattolico cooperare formalmente al male, neppure per ottenere un bene maggiore; dunque la cooperazione ad una legge che approvi un qualsiasi tipo di donazione è un atto gravemente immorale. Ci si potrebbe obiettare che una legge sulla materia è comunque necessaria e che, se i parlamentari cattolici si astenessero, la discussione di tale legge porterebbe comunque, per i rapporti di forza parlamentari, ad un risultato peggiore di quella altrimenti ottenibile col contributo cattolico.
Questo può essere vero a breve scadenza; ma alla lunga il cedimento fatto sui princìpi comprometterà l’affermazione e la difesa della sacralità della vita umana e degli inalienabili diritti di Dio. Né regge l’accusa di astensionismo disfattista. I parlamentari cattolici possono sempre presentare disegni di legge che, pur non regolamentando tutta la materia, tuttavia vietino alcune azioni oggi non previste come reati dal codice penale. Ad esempio, basterebbe approvare una norma che reciti: “chiunque a qualsiasi fine e con qualsiasi mezzo pratichi o renda possibile o solo più agevole la clonazione riproduttiva, è punito con la pena di…”. In questo modo, si otterrebbe una regolamentazione immediatamente operativa che eliminerebbe ogni possibilità di compiere legalmente un tale tipo di donazione, evitando l’inconveniente di coinvolgere colui che votasse tale legge in una qualche responsabilità circa altri aspetti della materia che in concreto, nella situazione attuale, non era possibile regolamentare secondo coscienza. Su un tale aspetto, inoltre, si potrebbe coinvolgere tutti coloro che sono contrari alla donazione riproduttiva (vale a dire la stragrande maggioranza dei parlamentari italiani), riservando a momenti futuri la regolamentazione degli altri aspetti della materia.
Quanto abbiamo detto facendo l’esempio estremo e paradigmatico della donazione, lo possiamo ripetere per altri casi meno eclatanti, ma ugualmente gravi, come quello della fecondazione artificiale, che oggi molti cattolici vorrebbero regolamentare a qualunque costo (morale), pur di ottenere il maggior consenso politico possibile. A questa prospettiva obiettiamo che, se è grave che un Parlamento non abbia finora legiferato al riguardo, è però ben più grave che legiferi male legalizzando la fecondazione. L’assenza di legge non comporterà mai responsabilità così gravi come quelle che comporta il varo di una legge cattiva.
In sostanza, in assenza di una legge che regoli una serie di attività umane, e nella (momentanea) impossibilità di ottenere una regolamentazione globale conforme alla morale naturale e cristiana, il parlamentare cattolico deve a nostro avviso innanzi tutto operare affinché siano vietate per legge tutte quelle azioni che sono contrarie alla morale, cercando progressivamente di ridurre le attività legittime a quelle moralmente accettabili. Non ci stancheremo infatti di ricordare che chiunque, a qualsiasi titolo, intervenga attivamente nel processo di approvazione (voto positivo in Parlamento) o promulgazione (sottoscrizione della legge per renderla operativa) di norme contrarie alla morale cattolica, si prende una grave responsabilità personale, rendendosi complice delle nefandezze che verranno autorizzate e promosse dalla legge che egli ha contribuito a porre in vigore.
 

(Fonte: Roberto de Mattei, Riscossa cristiana, 8 dicembre 2014)
http://www.riscossacristiana.it/il-male-minore-risposta-articolo-di-marco-mancini-sul-sito-campari-de-maistre-di-roberto-de-mattei/