lunedì 25 gennaio 2021

«Censura» per Sgreccia? «Ecco perché è sempre più attuale. E laico»

Perché le polemiche sul celebre Manuale del padre della bioetica cattolica? Cosa si impara oggi nelle sue pagine? E qual è il vero messaggio del cardinale scomparso nel 2019?

 Non sarà certo una sgradevole polemica mediatica a ridimensionare la statura del cardinale Elio Sgreccia e il valore del suo Manuale di bioetica, denso di verità sull’uomo e, dunque, inevitabilmente contestato proprio per la sua chiarezza. Monsignor Andrea Manto è presidente della Fondazione «Ut Vitam Habeant» che lo stesso Sgreccia volle istituire e che custodisce la sua eredità. Oggi, semmai, più attuale di prima.


Qual è il principale lascito intellettuale del cardinale Sgreccia sulla bioetica?
Gli enormi sviluppi delle scienze biomediche pongono sfide etiche e chiedono una visione antropologica capace di reggere il confronto. Sgreccia è stato il primo studioso cattolico che con un metodo rigoroso ha coniugato le evidenze scientifiche della medicina e il pensiero filosofico-teologico cristiano. A lui si deve l’idea del personalismo ontologicamente fondato, di derivazione tomista, che afferma il valore oggettivo di ogni persona. L’essere umano è inscindibile totalità di corpo e spirito, ed è perciò dotato della dignità intrinseca propria della natura umana. Attraverso questa intuizione ha fatto alleare, con saggezza, scienza e fede a difesa della vita.

Si è messa in dubbio la capacità del suo pensiero di poter dialogare con la bioetica laica. La sua radice cattolica lo rende valido solo per chi ha fede?
Assolutamente no. Sgreccia è “scomodo” non per una visione fideistica ma perché, con argomentazioni fondate razionalmente, mette a nudo criteri e contenuti della bioetica laica che producono esiti talora disumani. Il suo pensiero, se letto con onestà intellettuale, nasce proprio dall’esigenza di aprire un dialogo con tutti sul significato e sul valore della vita umana. Il punto d’incontro possibile sta nel definire insieme la natura dell’uomo.

Alla scuola di Sgreccia, che contributo porta oggi l’antropologia cristiana al dibattito sui grandi nodi bioetici?
La consapevolezza che il valore della vita non può essere subordinato alle logiche del profitto o dell’efficienza e che non possono esistere esseri umani di serie A e di serie B. Una visione antropologica globale, la cui ricchezza ci aiuta a orientarci sempre nelle scelte etiche sui temi della vita: dal triage nella pandemia alla custodia dell’ambiente, dalla questione dei migranti alla manipolazione genetica, dall’enhancement umano all’intelligenza artificiale.

Cos’ha da insegnare oggi la figura di Sgreccia a chi si occupa di bioetica nella Chiesa?
L’impegno nell’affrontare i problemi etici e il coraggio di confrontarsi anche con visioni opposte per giungere a sintesi alte. Nella sua autobiografia Controvento scrive: «Quando sorge un ostacolo, un problema per il cammino dell’uomo, non ci si deve arrestare né nascondersi (...) ma dispiegare la vela alla ricerca di un approdo più valido, per una soluzione più piena e più alta di valore: non la fuga, non il compromesso, neppure l’opposizione per principio, ma la spinta verso il meglio».

Qual è il servizio della Fondazione cui diede avvio, e a cosa lavora?
La Fondazione si occupa di promuovere ricerca e formazione a livello scientifico e divulgativo in tutti gli ambiti della bioetica, principalmente la sanità, la disabilità, l’ambiente. Stiamo sviluppando progetti di intervento e sostegno alle famiglie e alle fragilità e abbiamo in programma di procedere alla nuova edizione del Manuale di Bioetica, che andrà aggiornato ma che rimane un testo fondamentale per lo studio della bioetica e per comprendere la profondità del pensiero di Sgreccia.

La polemica
Un contenitore di «pericolose e inquietanti affermazioni», che propugnerebbe una «educazione vetero-cattolica paternalistica» e «dittatoriale»: così è stato definito tra l’altro il Manuale di Bioetica del cardinale Elio Sgreccia da alcuni articoli apparsi tra fine 2020 e l’inizio del nuovo anno su quotidiani nazionali nei quali si esprimeva con strepito di aggettivi il più vivo scandalo per le posizioni espresse su temi come l’omosessualità e aborto dal padre della bioetica cattolica (e non solo), scomparso il 5 giugno 2019 a 91 anni. Il manuale – in due tomi, usciti nel 2007 e nel 2012 – è il riferimento in Italia e all’estero nella formazione di studenti di numerose università, anche se il dito accusatore si è puntato solo su Claudia Navarini, filosofa e bioeticista, docente all’Università europea di Roma, che l’ha adottato per il suo corso, come decine di colleghi in tutto il mondo. L’ateneo romano non ha esitato a replicare alle rumorose polemiche: «Respingiamo ogni tentativo di conculcare la libertà di insegnamento, specie di carattere morale, di ciascuno dei nostri docenti, a cominciare da chi voglia fare riferimento al modello cattolico-personalista».
Di «autentica censura» agitata con «volgarità» e «gratuità di toni» parla una nota di Scienza & Vita, di cui Claudia Navarini è tra i soci fondatori: «La vera dittatura – aggiunge l’associazione – è quella rappresentata dal mainstream» che si vorrebbe «imporre a tutti, Chiesa cattolica compresa». È una manifestazione di vera «ignoranza» quella di chi disprezza un pensiero bioetico «maturato proprio nei luoghi di dialettico confronto pluralista» per opera di un uomo dipinto come «un prete retrivo e bigotto» mentre «è nota la sua attitudine al confronto con le altre visioni bioetiche» che «andava di pari passo con la sua passione per tutte le persone che incontrava». Non meno vibrante il dissenso sulle critiche al Manuale e a Sgreccia espresso dal Movimento per la Vita che ricorda «don Elio» come «un uomo sinceramente innamorato della persona umana», «grande promotore dell’accoglienza incondizionata e senza giudizio, attivo difensore del rispetto della dignità di ogni vita attraverso la sua riflessione bioetica che contrapponeva il personalismo ontologico all’individualismo dilagante». Ferma anche la reazione del Centro Studi Livatino che, smontate le accuse, ironizza amaramente: «Si dica, in definitiva, che la libertà di educazione, di insegnamento e di manifestazione del pensiero sono bandite».

 (Fonte: Francesco Ognibene, Avvenire, 22 gennaio 2021)

«Censura» per Sgreccia? «Ecco perché è sempre più attuale. E laico» (avvenire.it)

  

giovedì 21 gennaio 2021

Il Motu proprio "Spiritus Domini" nel contesto dell’avversione al “clericalismo” di papa Francesco

Con il Motu proprio Spiritus Domini papa Francesco ha modificato il primo paragrafo del canone 230 del Codice di diritto canonico, aprendo l’accesso alle donne ai ministeri di lettorato e accolitato, finora istituzionalmente riservati agli uomini. In realtà, a titolo di deroga, le donne sono arrivate massicciamente all’altare molti decenni fa.

Alcune femministe cattoliche hanno deplorato il fatto come un sotterfugio per non dover accettare le loro richieste di diaconato femminile, come Lucetta Scaraffia, ex direttrice del supplemento mensile femminile dell’Osservatore Romano, secondo la quale “nessuna donna può essere felice con questo motu proprio, è una vera delusione”. Oppure Paola Cavallari, membro del Coordinamento teologhe italiane, per la quale il motu proprio sembra “una iniziativa ispirata al detto del Principe di Salina nel romanzo Il Gattopardo: cambiare qualcosa perché tutto rimanga uguale”.

Altre femministe cattoliche, al contrario, hanno visto nel documento “un piccolo cambiamento, con grandi conseguenze ecclesiali”, come Silvia Martínez Cano, professoressa alla Pontificia Università di Comillas, in un articolo sul portale spagnolo Religión Digital: “Questo cambiamento è importante, soprattutto per quello che non è detto nel motu proprio, ma vi è implicito, perché riguarda il terzo comma del canone [n. 230]: che le donne possano aiutare il ministro nelle sue funzioni, come ad es. esercitare il ministero della parola, presiedere alcune liturgie, amministrare il battesimo e la comunione senza che qualche fedele cambi fila per evitare di riceverla da una donna”. Lo stesso entusiasmo troviamo da parte di Isabelle Roy, membro delle Comunità di vita cristiana, legate ai gesuiti: “La decisione del papa apre una breccia, pone una pietra miliare per altre possibilità. Negli ospedali, ai funerali, insomma, dove non c’è sacerdote, già i laici commentano il Vangelo. Perché non riconoscerlo in modo istituzionale?”.

Dal canto suo, il teologo Andrea Grillo, professore di teologia sacramentale presso l’Ateneo Pontificio Sant’Anselmo a Roma, ritiene “storica” la decisione papale. Andando oltre la mera questione del diaconato femminile, messa a fuoco dalla stampa, Grillo sottolinea che l’ultimo Concilio ha permesso di “ripensare ‘l’Ordine sacro’”, in modo che “la corresponsabilità dei ‘non chierici’ nella vita della Chiesa appare ora chiaramente delineata” e “assunta con decisione”. “Se la categoria di ‘chierico’ rimane legata, per ora integralmente, al sesso maschile – non escludendo un ulteriore approfondimento sul diaconato – d’ora in poi i corresponsabili non chierici sono concepiti senza differenza di genere” e la Chiesa si mostra come “comunità sacerdotale”.

Il fatto che Francesco abbia scelto la festa del Battesimo del Signore per firmare Spiritus Domini e il motu proprio non può essere visto come una semplice coincidenza. Da un lato, si legge nel documento, “si è giunti in questi ultimi anni ad uno sviluppo dottrinale che ha messo in luce come determinati ministeri istituiti dalla Chiesa hanno per fondamento la comune condizione di battezzato e il sacerdozio regale ricevuto nel Sacramento del Battesimo; essi sono essenzialmente distinti dal ministero ordinato che si riceve con il Sacramento dell’Ordine”. Dall’altro lato il documento afferma: “Questi carismi, chiamati ministeri in quanto sono pubblicamente riconosciuti e istituiti dalla Chiesa, sono messi a disposizione della comunità e della sua missione in forma stabile”.

“Nell’orizzonte di rinnovamento tracciato dal Concilio Vaticano II, si sente sempre più l’urgenza oggi di riscoprire la corresponsabilità di tutti i battezzati nella Chiesa, e in particolar modo la missione del laicato”, spiega il sommo pontefice nella lettera di accompagnamento a Spiritus Domini, indirizzata al prefetto della Congregazione per la dottrina della fede.

Un’interpretazione benigna di questo “sviluppo dottrinale” porterebbe a ripetere il commento del cardinale Giovanni Colombo sulla Gaudium et spes: “Questo testo ha tutte le parole giuste; sono gli accenti che sono sbagliati”. Infatti, si omette che la struttura della Chiesa, in quanto società visibile, si basa principalmente sul sacramento dell’Ordine, che trasmette la missione e il potere di santificare, insegnare e governare dato da Gesù agli apostoli.

Un’interpretazione più realistica di tale “sviluppo” porta alla conclusione che è stato compiuto un passo significativo verso la totale eclissi del sacerdozio cattolico e del carattere gerarchico della Chiesa, avvicinandolo ancora di più alla falsa ecclesiologia protestante. Questo vero trasbordo dottrinale che rischia di sbocciare nell’eresia ecclesiologica è iniziato diversi decenni fa e si basava su una manipolazione semantica del concetto di “ministero”.

Prima del Vaticano II, la Chiesa riservava questa parola esclusivamente al cosiddetto “sacro ministero”, cioè a quella “funzione di istituzione divina mediante la quale si coopera con il sacerdozio di Cristo nella mediazione tra il mondo e Dio”, come spiega padre J. A. Fuentes nella rispettiva voce del Diccionario General de Derecho Canónico. Ad esempio, nel Codice di diritto canonico del 1917, le parole “ministro” e “ministero” erano usate esclusivamente in relazione ai sacramenti o alle sacre funzioni della liturgia.

È vero che, nella sua origine latina, la parola “ministro” significa “servitore”, come in Mt 20,28: “Filius hominis non venit ministrari sed ministrare et dare anima suam redemptionem pro multis” (“il Figlio dell’uomo, non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti”). Ma la Chiesa ha voluto riservarla al suo servizio fondamentale, la divina liturgia, e a coloro che, ricevuto il sacramento dell’Ordine, salgono all’altare e offrono il sacrificio eucaristico a Dio, oltre a “ministrare” ordinariamente gli altri sacramenti ai fedeli.

Infatti, Nostro Signore Gesù Cristo ha redento l’umanità attraverso un triplice ministero – sacerdotale, dottrinale e pastorale – e, al fine di prolungare la sua opera redentrice nel tempo, ha dotato la società soprannaturale e visibile da Lui fondata – la Chiesa – di una gerarchia, alla quale ha trasmesso, nella persona degli apostoli e dei loro successori, il suo triplice ministero e i rispettivi poteri.

Quindi, nella Chiesa, c’è una chiara distinzione tra i suoi membri, come spiegato dal canone 207 dell’attuale Codice di diritto canonico: “§ l. Per istituzione divina vi sono nella Chiesa tra i fedeli i ministri sacri, che nel diritto sono chiamati anche chierici; gli altri fedeli poi sono chiamati anche laici” (e nel paragrafo seguente si spiega che i religiosi possono appartenere all’uno o all’altro di questi due gruppi di fedeli).

Il noto professore milanese Vincenzo del Giudice riassume così la differenza tra clero e laici: “In essa [la Chiesa] ci sono i superiori gerarchici e i soggetti; c’è un elemento attivo e uno passivo [riguardo all’amministrazione e alla ricezione dei sacramenti], persone che governano (ecclesia dominans) e persone che obbediscono (ecclesia obediens), persone che insegnano (ecclesia docens) e altre che imparano (ecclesia discens). Insomma, c’è una classe ‘eletta’ (clerus) che ha il compito di insegnare e governare spiritualmente i fideles, e di amministrare i sacramenti, e d’altra parte, la classe dei fideles, considerata indistintamente (cioè entrambi i laici come quelli che appartengono al clero, cioè tutti coloro che formano il ‘Popolo di Dio’), i quali vengono istruiti, governati e santificati grazie all’attività sopra spiegata (c.107 e 948 e Lumen gentium, n. 2829)”.

Fu contro questa struttura gerarchica dell’istituzione divina che si levò la pseudo-riforma protestante, in nome del triplice slogan “sola fides, sola Scriptura, sola gratia” e dell’affermazione che Cristo è l’unico sommo sacerdote del Nuovo Testamento, per cui i frutti della Redenzione vengono applicati direttamente al credente senza l’intermediazione della Chiesa e dei suoi ministri.

La confutazione dell’eresia protestante fu l’oggetto principale del Concilio di Trento, che dichiarò solennemente: “Se qualcuno dirà che nel nuovo Testamento non vi è un sacerdozio visibile ed esteriore, o che non vi è alcun potere di consacrare e di offrire il vero corpo e sangue del Signore, di rimettere o di ritenere i peccati, ma il solo ufficio e il nudo ministero di predicare il vangelo, o che quelli che non predicano non sono sacerdoti, sia anatema”.

“Se qualcuno dirà che oltre al sacerdozio non vi sono nella Chiesa cattolica altri ordini, maggiori e minori, attraverso i quali, come per gradi si tenda al sacerdozio, sia anatema.”

Qualche secolo dopo, con il Concilio Vaticano II, secondo padre Tomás Rincón-Pérez, ci sarebbe stata una “svolta ecclesiologica”: “Il passaggio da un’ecclesiologia a predominanza gerarchica e stratificata, a un’ecclesiologia di comunione”, che “non dà posto a una classe di cristiani distinti, di rango superiore”.

Questa capitis diminutio della dignità del clero è stata accompagnata da un’accentuazione del carattere “sacramentale” della Chiesa, come “icona” della Santissima Trinità, a scapito della sua natura di società visibile e perfetta. Lo squilibrio è stato ulteriormente accentuato dall’idea che la Chiesa è soprattutto un’opera dello Spirito Santo, a scapito del fatto che fu fondata da Gesù Cristo, che la dotò di una gerarchia con poteri. Questa nuova ecclesiologia pneumatica insiste su due fatti: 1. che l’insieme dei doni dello Spirito Santo si distribuisce nell’insieme del Corpo di Cristo e 2. che tali carismi, in quanto non derivanti da un dono primordiale, sono complementari e interdipendenti. “Questa prospettiva della diversità dei carismi”, commentano il canonista belga Alphonse Borras e il teologo canadese Gilles Routhier, “ci permette di uscire dalla accoppiata gerarchia-laici per privilegiare l’accoppiata carismi-comunità”.

Fu nel contesto di un’escalation di questa ecclesiologia non stratificata e di comunione che il decreto conciliare Ad gentes, sull’attività missionaria della Chiesa, usò per la prima volta la parola “ministero” in un documento magisteriale per riferirsi indistintamente alle funzioni del clero e delle attività di collaborazione dei laici nell’apostolato.

Nel 1972, con la promulgazione del motu proprio Ministeria quaedam, sopprimendo gli ordini minori e sostituendoli con due nuovi ministeri liturgici riservati agli uomini – lettorato e accolitato – Paolo VI confermò questo abbandono dell’esclusività del termine “ministero” alle funzioni dei chierici. “Nell’antica disciplina, commenta padre Rincón-Pérez, questi ministeri erano riservati all’Ordo clericorum, tenendo presente che il concetto di chierico era più ampio di quello di ministro sacro [infatti, lo stato clericale iniziava con la tonsura, prima di qualsiasi ordinazione]. Restringendo il concetto di chierico – equivalente ora a ministro sacro [quindi, dal diaconato] – e affidando questi ministeri [lettore e accolito] ai laici, è ovvio che si produce una “declericalizzazione” di tali ministeri; ma allo stesso tempo un’aggiunta del laico all’organizzazione ecclesiastica”.

Paolo VI tornò sul tema nella costituzione apostolica Evangelii nuntiandi, testo prediletto di Francesco, dedicando un’intera sezione ai “diversi ministeri” dei laici”, in cui afferma che “la Chiesa riconosce il ruolo di ministeri non ordinati ma adatti ad assicurare speciali servizi della Chiesa stessa”.

Successivamente, il nuovo Codice di diritto canonico ha dato una base giuridica a questo statu quo postconciliare, sancendo il concetto di “ministeri istituiti” (chiamati anche “ministeri laicali”) nel suo canone 230, che Papa Bergoglio ha appena riformato per includere le donne.

Il Sinodo dei vescovi del 1987, dedicato all’apostolato dei laici, culminò con l’esortazione post-sinodale Christifideles laici. In essa papa Giovanni Paolo II riconobbe che nell’assemblea “non sono mancati (…) giudizi critici circa l’uso troppo indiscriminato del termine ‘ministero’, la confusione e talvolta il livellamento tra il sacerdozio comune e il sacerdozio ministeriale (…) e la tendenza alla ‘clericalizzazione’ dei fedeli laici e il rischio di creare di fatto una struttura ecclesiale di servizio parallela a quella fondata sul sacramento dell’Ordine”.

Dieci anni dopo, di fronte al fiorire disordinato e abusivo di tutti i tipi di “ministeri laicali”, la Santa Sede pubblicò una Istruzione su alcune questioni circa la collaborazione dei fedeli laici al ministero dei sacerdoti, firmata dai cardinali responsabili di otto dicasteri romani. Questa Istruzione ribadì l’insegnamento tradizionale che “l’esercizio da parte del ministro ordinato del munus docendi, sanctificandi et regendi costituisce la sostanza del ministero pastorale” e che “non è il compito a costituire il ministero, bensì l’ordinazione sacramentale”.

Questi avvertimenti furono di scarsa utilità; solo due anni dopo la Conferenza episcopale del Brasile pubblicò il documento Missione e ministeri dei laici cristiani, approvato nella sua annuale assemblea generale. Dopo aver diluito il sacro ministero in una lista crescente di ministeri “riconosciuti”, “affidati”, “istituiti” e, infine, “ordinati”, aggiungeva che “il ministero ordinato, in un’ecclesiologia di totalità e in una Chiesa tutta ministeriale, non ha il monopolio della ministerialità” e che “il suo carisma specifico è quello della presidenza della comunità e, quindi, dell’animazione, del coordinamento e – con l’indispensabile partecipazione attiva e adulta dell’intera comunità – del discernimento finale dei carismi”.

È difficile immaginare una formula più riduttiva dell’autorità di un pastore presso il gregge. Essa corrisponde al modello delle comunità di base della Teologia della liberazione, in cui, secondo Leonardo Boff, il potere è una “funzione della comunità e non di una persona”, e perciò rifiuta il monopolio del potere “che implica l’espropriazione a beneficio di un’élite”, affermando, al contrario, che “l’intera comunità è ministeriale, non solo alcuni suoi membri”. In queste comunità di base, il sacerdote gode solo del “ministero dell’unità”, cioè di “un carisma specifico per la funzione di essere principio di unità tra tutti i carismi”.

Non molto diverso è il linguaggio di papa Francesco nella sua lettera di accompagnamento al motu proprio Spiritus Domini, indirizzata al cardinal Ladaria. Secondo Bergoglio, in una migliore configurazione dei ministeri laicali e nella riscoperta del “senso della comunione” che caratterizza la Chiesa, “la feconda sinergia che nasce dalla reciproca ordinazione di sacerdozio ordinato e sacerdozio battesimale può trovare una migliore traduzione”. Una “reciprocità” che è chiamata a confluire nel servizio del mondo e che “allarga gli orizzonti della missione ecclesiale, impedendole di rinchiudersi in sterili logiche rivolte soprattutto a rivendicare spazi di potere e aiutandole a sperimentarsi come comunità spirituale che ‘cammina insieme con l’umanità tutta e sperimenta assieme al mondo la medesima sorte terrena’ (GS, n. 40)”.

Questa nuova ecclesiologia comunitaria e antigerarchica è ciò che spiega, da un lato, l’insistenza di papa Francesco sulla “sinodalità” e, dall’altro, i suoi continui attacchi a ciò che chiama “clericalismo” del clero formato secondo la dottrina tradizionale, che altro non è che consapevolezza della propria dignità e superiorità ontologica nei confronti dei laici, per la conformità a Cristo sacerdote e per l’inserimento nella gerarchia della Chiesa.

L’apertura alle donne dei ministeri istituiti di lettore e accolito, codificati da Spiritus Domini, non è solo una risposta “alle sfide di ogni epoca, in obbedienza alla Rivelazione”, come intende Francesco nella sua lettera al cardinale Ladaria, ma implica un vero e proprio “superamento della dottrina precedente”, cioè una rottura con essa. Anche se lo negherà.

 (Fonte: José Antonio Ureta, Duc in altum, 21 gennaio 2021)

L’apertura alle donne dei ministeri istituiti di lettore e accolito: un altro colpo al sacerdozio cattolico – Aldo Maria Valli

  

mercoledì 13 gennaio 2021

Il Papa e i vaccini

Nell'intervista al TG5 il Papa ritiene un imperativo morale vaccinarsi contro il Covid-19. Ma nel documento della Congregazione per la Dottrina della Fede, pubblicato il 21 dicembre scorso e approvato dal Papa, si dice esattamente il contrario. Ormai è consueto in questo pontificato osservare tali contraddizioni, che si direbbero una vera e propria strategia.

 «Eticamente tutti devono prendere il vaccino, non è una opzione - mi sembra non mi sembra… -, è una opzione etica. (…) Oggi si deve prendere il vaccino». Non sorprende che queste parole forti di papa Francesco, riferite al vaccino anti-Covid e contenute in una lunga intervista trasmessa dal TG5 domenica 10 gennaio, abbiano fatto il giro del mondo. Parole senza appello e tanto per non lasciare spazio ad ambiguità il Papa si è riferito a quanti avanzano dubbi sulla vaccinazione anti-Covid accusandoli di «negazionismo suicida».

Eppure non può non stupire che a pronunciare queste parole sia lo stesso papa Francesco che appena il 17 dicembre scorso ha «esaminato e approvato la pubblicazione» della “Nota della Congregazione per la Dottrina della Fede sulla moralità dell’uso di alcuni vaccini anti-Covid-19” (poi pubblicata il 21 dicembre) in cui si afferma altrettanto chiaramente che «appare evidente alla ragione pratica che la vaccinazione non è, di norma, un obbligo morale e che, perciò, deve essere volontaria».

In pratica, tutto il contrario. A quale papa Francesco si deve dunque dare retta? Da un punto di vista puramente magisteriale l’unica cosa che conta è il documento della Congregazione per la Dottrina della Fede (CDF); quello che il Papa dice in una intervista alla fin fine sono sue opinioni, che possono piacere o meno, su cui si può essere d’accordo o meno, ma appunto sono opinioni e valgono come tali. In realtà però, mentre nessuno ricorda già più la Nota della CDF, tutto il mondo ora sa che il capo della Chiesa cattolica considera moralmente obbligatoria per tutti la vaccinazione anti-Covid. E a fare scuola, a fare mentalità, è l’intervista, non il magistero. Anche perché anche una semplice opinione, se detta dal Papa a tutto il mondo, acquista necessariamente una forza tutta sua.

Resta il fatto, per chi voglia confrontarsi con la realtà, che il Papa oggi dice una cosa e domani il suo contrario. Chi voglia prenderlo sul serio non può non sentirsi disorientato e perfino frustrato. Anche perché non si tratta certamente di un episodio isolato. La storia delle indicazioni opposte date in questi anni è lunghissima, e non per niente molto spesso i cattolici si dividono fra di loro citando Papa Francesco chi per un giudizio e chi per il giudizio opposto. Pensiamo, tanto per fare l’esempio più noto, come si è combattuto attorno all’interpretazione da dare ad Amoris Laetitia senza che mai venisse da lui una parola chiarificatrice, pure di fronte a domande precise.

Ma senza neanche scomodare il passato, basta rimanere nella stessa intervista al TG5: ancora una volta ha pronunciato parole dure contro l’aborto, ha spiegato come non sia una questione religiosa ma umana; parole forti, senza appello, anche coraggiose dette in tv in prima serata. A onor del vero lo ha fatto diverse volte in questi anni, poi però quando il dibattito si accende, diventa di stretta attualità – vedi la recente approvazione dell’aborto nella sua Argentina – si eclissa, evita di entrare in argomento. Oppure appoggia apertamente politici ultra-abortisti, come Hillary Clinton e Joe Biden, e definisce Emma Bonino, il simbolo della legalizzazione dell’aborto in Italia, «tra i grandi dell’Italia di oggi». O anche si circonda in Vaticano di consiglieri che della promozione dell’aborto hanno fatto una bandiera, vedi Jeffrey Sachs.

Cosa deve dunque pensare un semplice fedele davanti a queste evidenti contraddizioni? Difficile rifuggire dalla sensazione di trovarsi davanti a una vera e propria "strategia della confusione”. Sensazione avvalorata dal fatto che la confusione non riguarda soltanto la sistematica violazione del principio di non contraddizione. C’è anche confusione di argomenti, si confonde spesso la scienza con la fede.

Torniamo ancora ai vaccini: ha detto il Papa, che «se i medici dicono che è una cosa che può andare bene perché non prenderla?». Già, ma le cose non sono così pacifiche: ci sono molti medici e scienziati convinti della necessità di vaccinarsi, ma ci sono anche molti medici e scienziati che invece nutrono perplessità, ci sono domande importanti ancora senza risposta. Pur tralasciando le questioni morali legate all’origine dei vaccini, di certo non sappiamo ancora il livello di efficacia e sicurezza dei vaccini autorizzati; chi si inocula ora il vaccino deve essere consapevole che è parte di un esperimento. C’è chi giudica più che accettabile il rischio a fronte del beneficio promesso, ma c’è chi ritiene esattamente il contrario o ha comunque dei dubbi, altrettanto legittimamente. Chi stabilisce che è etico dare credito a certi medici e negazionista ad altri medici? Non si può parlare del vaccino come della Terra promessa, non può essere materia di fede; non è il vaccino che ci libererà, neanche dalla malattia in questo caso.

È la stessa confusione creata sul tema dei cambiamenti climatici: una ipotesi scientifica, quella del riscaldamento globale antropico (cioè causato dall’uomo) è stata trasformata in magistero, nell’enciclica Laudato Si’. «La scienza dice…», e scatta il dogma, è indiscutibile. Invece gli scienziati sono divisi e comunque una ipotesi scientifica che oggi appare confermata, domani potrebbe essere superata da altre scoperte e altri studi. Non si possono trasformare ipotesi scientifiche in articoli di fede. Si pensava che la questione fosse superata dal caso Galileo e invece la confusione si ripropone.

In ogni caso nel cattolicesimo la fede presuppone e valorizza la ragione: un conto è richiamare alla necessità di tutelare la propria vita e quella degli altri, altra cosa è identificare questo principio in un particolare vaccino o in una scelta di per sé opinabile. Nessuna demonizzazione dei vaccini, ma la decisione deve essere consapevole e libera. Come riteneva papa Francesco appena due settimane fa.


(Fonte: Riccardo Cascioli, LNBQ, 12 gennaio 2021)

Il Papa e i vaccini - La Nuova Bussola Quotidiana (lanuovabq.it)

  

Sì a “lettrici e accolite”, ora il Diaconato è in pericolo

La decisione del Papa, attraverso il motu proprio Spiritus Domini, di modificare il canone 230, apre anche alle donne Lettorato e Accolitato. Ministeri che nei secoli sono stati sempre conferiti solo a maschi perché, come gli altri antichi ordini minori, emanano dal Diaconato. Così anche quest’ultimo, rotto il legame con la tradizione, potrà essere attaccato.

 Un osso gettato per placare momentaneamente la fame di sacerdozio femminile dei “pastori tedeschi” e sudamericani? Oppure, al contrario, un ulteriore passo - secondo i principi della finestra di Overton - per arrivare al diaconato femminile e poi spiccare il salto verso ciò che è proibito?

La decisione di papa Francesco di modificare, con il motu proprio Spiritus Domini, il canone 230 § 1 del Codice di Diritto Canonico, deve far pensare. La versione precedente, ormai decaduta, limitava ai soli uomini la possibilità di essere istituiti lettori o accoliti; la nuova versione indica invece in tutti i fedeli «laici che abbiano l’età e le doti determinate con decreto dalla Conferenza Episcopale», senza esclusione delle donne, di poter assumere stabilmente questi ministeri.

La demolizione degli Ordini minori era iniziata nel 1972, allorché Paolo VI, con il motu proprio Ministeria quaedam, aveva stabilito che, «poiché gli ordini minori non sono rimasti sempre gli stessi e numerosi uffici ad essi connessi, come accade anche oggi, sono stati esercitati anche da laici, sembra opportuno rivedere tale prassi ed adattarla alle odierne esigenze, in modo che gli elementi che son caduti in disuso in quei ministeri, siano eliminati; quelli che si rivelano utili, siano mantenuti; quelli che sono necessari, vengano definiti». E così, ad essere sacrificati a questo strano criterio delle «odierne esigenze» sono stati l’Ostiariato, l’Esorcistato e, non senza ancor maggiori perplessità, il Suddiaconato. Il Lettorato e l’Accolitato sono stati invece mantenuti, sebbene non più come Ordini minori, ossia ministeri “ordinati” propedeutici all’Ordinazione diaconale e poi presbiterale, ma come ministeri istituiti, che ogni fedele laico maschio debitamente disposto ha la possibilità di ricevere.

L’apertura di questi ministeri anche a fedeli laici sembra in effetti più attinente alla loro origine storica: nell’Alto Medioevo lo status di chierico, e dunque l’accesso a questi ministeri, non era riservato a quanti avevano intrapreso il cammino verso il sacerdozio. Fu invece il Concilio di Trento, nella sua XXIII Sessione, a disporre che questi ministeri divenissero “Ordini minori”. Il Concilio ricordava che «fin dall’inizio della Chiesa erano in uso i nomi degli ordini seguenti e i ministeri propri a ciascuno di essi: suddiacono, accolito, esorcista, lettore, ostiario, quantunque non con pari grado. Il suddiaconato, inoltre, dai padri e dai sacri concili è considerato tra gli ordini maggiori; e leggiamo in essi, frequentissimamente, anche quanto riguarda gli ordini minori». Per tale ragione, il XVII canone di questa sessione si premurava di ripristinare i suddetti ordini: «Perché le funzioni dei santi ordini, dal diaconato all’ostiariato, lodevolmente accolte nella Chiesa fin dai tempi degli apostoli, e in molti luoghi per lungo tempo interrotte, siano rimesse in uso secondo i sacri canoni, e non siano criticate dagli eretici come inutili, il santo sinodo, desiderando vivamente di rimettere in uso quell’antica usanza, stabilisce che in futuro tali ministeri non siano esercitati se non da quelli che sono costituiti in questi ordini». E richiedeva che i primi quattro (Ostiariato, Lettorato, Esorcistato e Accolitato) fossero conferiti di preferenza ai chierici celibatari, in assenza dei quali potevano essere scelti anche uomini «sposati di onesta vita, adatti a questi uffici, purché non bigami e a condizione che in chiesa portino la tonsura e l’abito clericale».

Passano gli anni e, chissà per quale ragione, alcune di queste funzioni «lodevolmente accolte nella Chiesa fin dai tempi degli apostoli» non trovano più spazio nella Chiesa del XX secolo, nemmeno all’interno del percorso dei seminari (eccettuati gli istituti “tradizionali”)…

Quello che preme sottolineare è che tali ministeri sono sempre stati conferiti ai soli uomini: il motu proprio appare pertanto come un unicum nella storia di tali ordini. Nessuna misoginia nella prassi tradizionale; la motivazione di questa elezione viene spiegata da san Tommaso d’Aquino: «nella Chiesa primitiva, a causa della scarsità di ministri, ai diaconi erano affidati tutti i ministeri inferiori [...]. In seguito però, il culto divino venne ampliato; e quanto la Chiesa aveva implicitamente in un solo ordine, fu affidato esplicitamente a diversi altri ordini» (Super Sent., lib. 4 d. 24 q. 2 a. 1 qc. 2 ad 2). Dunque, gli Ordini minori emanano dall’Ordine diaconale, come rivoli d’acqua dalla loro fonte, sebbene distinti da esso. Era dunque naturale che i candidati a tali “ordini” dovessero essere di sesso maschile e, di preferenza, candidati celibi.

La ratio di questi ordini minori e la loro origine storica, inclusi il Lettorato e l’Accolitatosta dunque nel fatto di essere in qualche modo connessi al Diaconato ordinato. Aprendo dunque questi ministeri al sesso femminile, o si è fatta un’operazione superficiale, che ha dimenticato questa connessione (o l’ha ritenuta grossolanamente superflua), oppure la si conosceva molto bene e si è portata avanti l’operazione come delle torri pronte ad assediare la cittadella del Diaconato. In entrambi i casi, i segni della decadenza, o meglio, della decomposizione del cattolicesimo avanzano.

Di certo si fa veramente fatica a comprendere come il Papa possa affermare che «una consolidata prassi nella Chiesa latina ha confermato, infatti, come tali ministeri laicali, essendo basati sul sacramento del Battesimo, possono essere affidati a tutti i fedeli, che risultino idonei, di sesso maschile o femminile, secondo quanto già implicitamente previsto dal can. 230 § 2». Quest’affermazione è di una palese scorrettezza: il canone menzionato era infatti preceduto dal § 1, il quale esplicitava che i candidati al ministero stabile dovevano essere i soli «laici di sesso maschile (viri laici)», ultima reliquia - evidentemente considerata un obsoleto relitto - di quel legame con il Diaconato. La verità è che non esiste alcuna prassi nella Chiesa del conferimento di tali ministeri istituiti a donne: il Papa ha usato la discutibile usanza delle chierichette e delle lettrici temporanee per abbattere un altro bastione posto a difesa del Diaconato maschile.

  

(Fonte: Luisella Scrosati, LNBQ, 12 gennaio 2021)

Sì a “lettrici e accolite”, ora il Diaconato è in pericolo - La Nuova Bussola Quotidiana (lanuovabq.it)