Da tutta la vicenda Avvenire, anche ad un occhio inesperto, è apparsa evidente l’esistenza conflittuale di due fronti editoriali ben contrapposti: da un lato la CEI, proprietaria di Avvenire, fautrice della linea Ruini-Boffo-Bagnasco; dall’altra la Segreteria di Stato facente capo a Bertone, con il suo organo di stampa l’Osservatore Romano e il suo direttore Giovanni Maria Vian.
Motivo del contendere? Le linee programmatiche e le valutazioni ufficiali dei rapporti tra Santa Sede e Governo italiano: una volta di pertinenza CEI (con Ruini) ed ora avocati ufficialmente alla Segreteria di Stato (con Bertone).
Da dove si ricava l’ “ubi consistam” di questi retroscena? Gli indizi sono molteplici. Cominciamo da lontano.
Ricorderete che, nel bel mezzo della vicenda Boffo-Avvenire, il Direttore dell’Osservatore Romano, Gian Maria Vian, aveva rilasciato un’intervista al Corriere della Sera, (31 agosto) nella quale metteva in discussione le scelte editoriali di Avvenire nei confronti del governo Berlusconi. L’intervento poteva sembrare di non molto buon gusto per la tempistica adottata; ma, tutto sommato, si poteva pure condividere.
Quando però Dino Boffo scrisse la sua lettera di dimissioni al Card. Bagnasco (3 settembre), si capì che c’era sotto qualcosa: «Se qualche vanesio irresponsabile ha parlato a vanvera [un riferimento esplicito a Vian?], questo non può gettare alcun dubbio sulle intenzioni dei Superiori, che mi si sono rivelate sempre esplicite e, dunque, indubitabili».
Parole che, a giudizio degli osservatori, hanno ottenuto risposte indirette e in qualche modo criptate. Il 15 settembre, come è noto, c’è stata a Roma (Palazzo Borromeo, sede dell’ambasciata italiana presso la Santa Sede), la presentazione del libro del vaticanista Andrea Tornielli, “Paolo VI”, alla presenza di cardinali, ben nove, di arcivescovi, di vescovi, di nunzi, di prelati del Vaticano, e dello stesso direttore dell’Osservatore Romano Giovanni Maria Vian e dell’editorialista di punta Lucetta Scaraffia..
Dopo qualche giorno Sandro Magister, sul suo blog Settimo Cielo, pubblica un post dal titolo “Al montiniano Vian c’è un Paolo VI che va di traverso”, nel quale fa giustamente notare come il giornale del Vaticano fino ad allora (17 settembre) non abbia ancora speso neppure una riga sul libro “Paolo VI” di Tornielli; e ciò pur essendo Vian un appassionato studioso e ammiratore di papa Montini (è lui che ha redatto la voce “Paolo VI” per l’Enciclopedia dei Papi edita dall’Istituto dell’Enciclopedia Italiana e da direttore del giornale della Santa Sede ha sempre dato forte e frequente rilievo a testi editi e inediti di Montini, a commenti e recensioni su questo grande papa) e pur avendo il volume ricevuto altrove recensioni favorevoli ed autorevoli. Domanda: Forse perché Tornielli è ritenuto reo di essersi schierato con la linea Cei? A questo punto la cosa incomincia a farsi seria, dando da pensare.
L’11 settembre dalle colonne di Libero, Antonio Socci riprende la tesi della faida tra testate cattoliche: «C’è un antefatto. Quando Bertone è diventato segretario di Stato vaticano ha reclamato il diritto di gestire in prima persona, dal Vaticano, il rapporto della Chiesa con la politica italiana, fino ad allora tenuto in esclusiva dal cardinale Ruini. Si è creato un certo conflitto con la Cei e alla fine ha vinto Bertone grazie al pensionamento di Ruini.
Ma il colpo di grazia è venuto con il “pensionamento” traumatico di Dino Boffo dalla direzione di “Avvenire”, perché Boffo era molto di più del direttore del giornale della Cei. Era lo stratega del ruinismo che puntava a fare dell’Italia il modello del cattolicesimo europeo.
Allora diventa significativo che ad assestare il colpo del ko a Boffo sia stato il direttore dell’Osservatore romano, Gian Maria Vian, parlando quasi come portavoce ufficioso di Bertone, proprio nelle ore successive all’attacco del “Giornale”. Con una intervista al Corriere della sera – pur esprimendo solidarietà umana per l’attacco di Feltri – ha sparato a zero sulla linea di Avvenire».
Il 19 settembre, sul Giornale compare un articolo di una certa Diana Alfieri dal titolo “Quella falsa congiura laicista per coprire la verità su Boffo”. Diana Alfieri! E chi è costei? Mah, forse sarà una redattrice del quotidiano di Feltri, certamente una fervente cattolica, visto il linguaggio che usa, e molto bene informata, viste le cose che rivela. Praticamente si tratta di una risposta all’articolo di Socci per smentire la ricostruzione ivi proposta e invitare a non divagare, ma a concentrarsi di nuovo sulla sostanza del caso Boffo, vale a dire sulla sua non idoneità a dirigere il quotidiano cattolico italiano, affermando tra l’altro: «L’inconsistenza dello scenario di congiura prospettato da chi tenta di buttare lo scandalo in politica nella speranza di salvare la faccia a Boffo e ai suoi santi protettori fa il paio con la strategia diversiva applicata da chi a suo tempo volle mantenere il direttore di “Avvenire” alla direzione dell’intera galassia dei media cattolici nonostante fosse a conoscenza delle molestie a sfondo sessuale sanzionate dal giudice di Terni: se è tutto un gioco politico, nessuno si chiederà se la denuncia del “Giornale” [di Feltri] è vera e se le gerarchie della Cei hanno peccato di poca prudenza, o di eccessiva indulgenza, mettendo a repentaglio l’immagine della Chiesa agli occhi degli stessi fedeli.
Anche se tale conclusione rispecchia in qualche modo il mio pensiero – espresso già in queste pagine a suo tempo – debbo riconoscere che l’articolo nel suo complesso rimane alquanto misterioso. Fra l’altro, in esso si tira in ballo anche Sandro Magister, «vaticanista dell’Espresso ... notoriamente molto vicino al cardinale Camillo Ruini». Mah.
Lo stesso giorno Magister, sempre sul suo blog, rivela però un retroscena: «Diana Alfieri non è una persona in carne ed ossa. È un “nom de plume”, una firma fittizia d’uso corrente al “Giornale” ...
Il “nom de plume” serve a coprire l’autore vero, la persona reale che è in definitiva l’ispiratore ultimo dell’articolo. Cioè, in questo caso, Giovanni Maria Vian».
Questi i fatti riportati in sequenza. Fantapolitica? Può darsi, ma qualcuno sa dirmi che cosa sta esattamente succedendo?
L’impressione che se ne ha dall’esterno è che siamo ormai arrivati ad una resa dei conti (sono in ballo le nuove cariche direttive in Avvenire, Sat 2000, In Blu).
Qualunque siano i motivi, non mi sembra comunque che offrano uno spettacolo molto edificante.
Non sarà forse il caso che qualcuno prenda in mano la situazione, prima che essa degeneri e si arrivi a un altro scandalo, di cui non si sente, al momento, proprio alcun bisogno?
(Mario, 24 settembre 2009)
giovedì 24 settembre 2009
mercoledì 23 settembre 2009
Santoro dittatore del video. Sempre in tv ma grida al bavaglio
La sola curiosità che ci resta da soddisfare è quella della coloritura dei capelli che adotterà quest’anno Michele Santoro per Annozero. Da indiscrezioni sarà ancora una gradazione del biondo, dopo l’ossigenato del 2007 e lo stoppa del 2008. Stavolta pare abbia optato per una giallo-oro alla Paris Hilton. Sul resto, nessun dubbio: avremo il solito Santorescu unico depositario della verità e solo custode della libertà di stampa.
Deve ancora comparire - lo farà domani sulla seconda rete - ma già protesta che la patria è in pericolo perché lui non può fare esattamente come vuole. Lo ostacolano, non gli danno carta bianca, gli lesinano i mezzi. Adesso c’è il problema della sua spalla, Marco Travaglio, al quale la Rai non ha ancora rinnovato il contratto. Marco è un po’ il poeta della trasmissione. Faccia e tono da menestrello, recita filastrocche di mezz’ora nelle quali augura la galera a questo o a quello. Senza Travaglio - ha detto ieri Santoro - Annozero non si fa. E giù una serie di improperi al Cav considerato la causa dei tentennamenti, degli ostacoli, di ogni male.
Niente di nuovo. Sono lustri che Michele denuncia complotti per cacciarlo dal video. Però ricompare ogni autunno, puntuale come le piogge. È inamovibile come Bruno Vespa e guadagna quanto lui: una barca di soldi. Però si lamenta, protesta e fa la vittima. Probabilmente è un nevrotico, certamente un caratteriale.
Il biondino, chiamiamolo così anche se si tratta di tintura, si considera il campione della libertà di stampa. Ieri ha detto che Annozero è «la punta del servizio pubblico e ne incarna lo spirito». Immodesto ma, dato il suo ego, perfino morigerato. In passato è stato capace di dire: «Quanto più Santoro c’è sui canali Rai, tanto è più libero il Paese» e ha aggiunto: «Nella storia della Rai io sono quello che ha spostato sempre più avanti il confine della libertà». Poi però si indigna se il Cav si autoproclama migliore premier degli ultimi 150 anni.
In realtà, Santorescu è un giornalista schierato come un hooligan del pallone con l’immobiliarista Di Pietro. Ha meno case di Tonino ma l’identica visione capestro e manette. In venti anni di tv è l’unico, a mia scienza, che abbia messo in moto il meccanismo di un suicidio. Molti ricorderanno quella sera del 23 febbraio 1995 a Tempo reale. Era suo ospite Leoluca Orlando, oggi anche lui con Di Pietro, ma allora sindaco di Palermo e caudillo della Rete, movimento che fiutava mafiosi anche nei buchi del formaggio. In diretta, Orlando accusò di mafiosità il maresciallo dei carabinieri di Terrasini, Antonino Lombardo. Santoro lo lasciò sdottorare a ruota libera senza dirgli, come avrebbe dovuto da giornalista, per di più del servizio pubblico, che l’altro non poteva difendersi perché era assente. Un classico linciaggio. Lombardo, lasciato solo, si uccise qualche ora dopo. Era, come già si sapeva e meglio si seppe dalle indagini successive, totalmente estraneo alle accuse. Un errore del genere, così contiguo alla canagliata, sarebbe costato a chiunque il posto. Michele invece è ancora lì e continua imperterrito nel suo giornalismo sfottente.
Le trasmissioni di Santoro, senza eccezione, sono truccate da capo a piedi. Nel 2002, il Garante delle comunicazioni lo inchiodò.
Analizzando una dozzina di puntate di Sciuscià - uno dei tanti nomi del suo programma sempre eguale - l’Autorità rilevò «gravi violazioni del principio del pluralismo». Lo rimproverò di favorire i politici della sinistra invitati in studio in numero preponderante, circondati da una platea favorevole, liberi di sentenziare a capocchia. Di danneggiare, all’opposto, i politici della destra tagliando loro la parola e sbeffeggiandoli con ammiccamenti al pubblico di parte. Il Garante concluse dicendo che lui, purtroppo, non aveva mezzi legali per fermare Santoro. Chiedeva però alla Rai di condannare il sottogiornalismo del suo dipendente e comminò una multa. Be’, credete che Santorescu si sia contrito e abbia fatto un esame di coscienza? Nemmeno a pensarci. Il biondino, anzi, trasformò la bocciatura nell’aureola del martire. Della serie, parlate male di me, ma parlatene.
Michele è insopportabile a milioni di abbonati ma guai a prendere provvedimenti. Quando il Cav, esprimendo l’opinione di molti, disse che Santoro (con Enzo Biagi e Daniele Luttazzi) faceva «un uso criminoso» della tv pubblica, scoppiò un casino. Era il 2002 e l’esternazione di Berlusconi, allora premier, avvenne a Sofia dov’era in viaggio ufficiale. Subito gli amici di Michele, che nella stampa - e solo lì - sono legione, parlarono di «editto bulgaro». Santoro cavalcò la faccenda con un misto di aggressività e autocommiserazione. «Berlusconi è un vigliacco perché abusa dei suoi poteri per attaccare persone più deboli di lui», disse e aggiunse, privo com’è di senso del ridicolo: «Qui c’è un’analogia col delitto Matteotti», il deputato socialdemocratico assassinato dai fascisti al tempo di Mussolini. Quale fosse l’analogia non lo capì nessuno. Ma tutto fa brodo per autoincensarsi.
Dopo questa serie di sfacciataggini, la Rai cercò di raffreddare le polemiche allontanando per qualche tempo il biondino dai teleschermi. Fossero capitati a me i suoi incidenti, mi avrebbero cacciato per sempre con ludibrio. Michele invece cominciò una piagnucolata che durò tre anni. Urlò: «La mia esautorazione è un crimine politico». Evocò il nazismo: «Eliminare Santoro dalla tv è come bruciare i libri in piazza». Vaneggiò nei modi più vari chiedendo la solidarietà dell’universo mondo e, per andare sul sicuro, chiese «giustizia» al giudice del lavoro.
Fu un colpo da maestro, vista la magistratura che ci ritroviamo. La toga gli dette ragione su tutta la linea, stabilendo il principio che la Rai non poteva scegliere a chi dare o a chi togliere i suoi spazi. Condannò l’ente a riprendersi Michele, a ridargli il posto in prima serata e versargli un milione e passa di euro di risarcimento. L’unico a tenere i piedi per terra fu il presidente dei giornalisti, Lorenzo Del Boca, che commentò: «Con un Santoro emarginato a un miliardo e mezzo di vecchie lire, ci sono in Rai un migliaio di precari che non arrivano a prendere il suo stipendio tutti quanti insieme». Ma c’è un altro risvolto. In attesa della sentenza di reintegrazione Santoro si era fatto eleggere deputato dell’Ulivo a Strasburgo nel 2004. Erano sempre 25mila euro e passa mensili. Perché rinunciarci? Intascò infatti la prebenda per 18 mesi. Ma appena il giudice ne ordinò la riassunzione piantò baracca e burattini per tornare in tv. Settecentocinquantamila elettori che lo avevano spedito in Parlamento per cinque anni restarono con un palmo di naso. E noi ce lo siamo ritrovato in casa, ossigenato come un vecchio play boy, a strologare di libertà di stampa.
Anche qui va fatta chiarezza. Questo campione dell’informazione che si arroga il diritto di denunciare «senza guardare in faccia nessuno» e frugare nei cassetti di chiunque, non tollera però di essere toccato a sua volta. Michele un produttore industriale di querele. Se non passa alle querele, sono comunque minacce.
Quando il settimanale Panorama chiese di seguirlo nella campagna elettorale europea, uno delle sue spalle, il cronista Sandro Ruotolo, sibilò all’inviata: «Solo a patto che ci facciate leggere prima le cose che scrivete. Se, secondo noi, l’articolo non va bene, lo cambiamo. Se non accettate, niente articolo». Mentre dettava le condizioni, campeggiava dietro di lui lo slogan elettorale scelto dall'araldo della libera stampa: «Per un’espressione libera: vota Santoro». Tra i concetti espressi durante i comizi: «Il berlusconismo mi fa schifo»; Oriana Fallaci «mi fa vomitare».
Due anni fa, la Voce di Romagna scrisse che il biondino si stava costruendo una megavilla sul Colle di Cavignano in quel di Rimini. Santoro è legato alla zona per via matrimoniale. Sua moglie, Sania Annibaldi, è infatti figlia di uno ricco sanmarinese. Michele querelò il giornale dicendo che la villa era del suocero e che lui a Rimini alloggiava invece al Grand Hotel. La smentita non convinse. Il giornalista Gigi Moncalvo che all’epoca conduceva Confronti su Rai 2, volle vederci chiaro e mandò una troupe a Cavignano. Appena lo seppe, Santorescu andò sulle furie e fece il diavolo a quattro per bloccare l’inchiesta. Telefonò con arroganza al direttore di Rete, Marano, agli autori, agli ospiti fissi. Non cavò un ragno dal buco e passò alle diffide. La trasmissione poi si fece egualmente. Vi sembra comunque il modo di comportarsi di uno che per sé pretende carta bianca? Ricordatevene quando giovedì lo sentirete sproloquiare di libera stampa.
Altro episodio nel novembre dell’anno scorso. Un anchorman di Radio Dimensione Suono, Joe Violanti, imitava in trasmissione la voce di Santoro. Telefonava a personaggi famosi e li invitava ad Annozero. Talmente credibile che quelli ci cadevano. Ovviamente, i radioascoltatori si divertivano un mondo. Il biondino invece si incappiò di brutto. Disse che il gioco lo metteva in difficoltà. Gli fu replicato che era uno scherzo e che alla fine gli ignari erano avvertiti. Ma Santoro non volle sentire ragioni e diffidò Violanti accusandolo, per vie legali, di «furto d’identità». Un’imperdonabile dissacrazione dell’intoccabile.
Ce ne sarebbero delle altre, ma lo spazio stringe. Prima di finire devo comunque spiegarvi perché ho spesso usato il nomignolo di Santorescu. Gli fu affibbiato dalla redazione di Samarcanda, quella in cui debuttò da conduttore negli anni Ottanta.
Ex di Servire il Popolo, ex dell’Unità, Santoro entrò stabilmente in Viale Mazzini imposto da Beppe Vacca, futuro deputato del Pci e allora consigliere della Rai. Gli fu affidata per Samarcanda la guida di un manipolo di giornalisti abbastanza nutrito. Con questi sottoposti, Michele era esigentissimo. Al limite del fanatismo. Alcuni li ripudiò, molti fuggirono. Di qui venne spontaneo chiamarlo con un nome da dittatore romeno. Il più consono per questo campione di tutte le libertà.
(Fonte: Giancarlo Perna, Il Giornale, 23 settembre 2009)
Deve ancora comparire - lo farà domani sulla seconda rete - ma già protesta che la patria è in pericolo perché lui non può fare esattamente come vuole. Lo ostacolano, non gli danno carta bianca, gli lesinano i mezzi. Adesso c’è il problema della sua spalla, Marco Travaglio, al quale la Rai non ha ancora rinnovato il contratto. Marco è un po’ il poeta della trasmissione. Faccia e tono da menestrello, recita filastrocche di mezz’ora nelle quali augura la galera a questo o a quello. Senza Travaglio - ha detto ieri Santoro - Annozero non si fa. E giù una serie di improperi al Cav considerato la causa dei tentennamenti, degli ostacoli, di ogni male.
Niente di nuovo. Sono lustri che Michele denuncia complotti per cacciarlo dal video. Però ricompare ogni autunno, puntuale come le piogge. È inamovibile come Bruno Vespa e guadagna quanto lui: una barca di soldi. Però si lamenta, protesta e fa la vittima. Probabilmente è un nevrotico, certamente un caratteriale.
Il biondino, chiamiamolo così anche se si tratta di tintura, si considera il campione della libertà di stampa. Ieri ha detto che Annozero è «la punta del servizio pubblico e ne incarna lo spirito». Immodesto ma, dato il suo ego, perfino morigerato. In passato è stato capace di dire: «Quanto più Santoro c’è sui canali Rai, tanto è più libero il Paese» e ha aggiunto: «Nella storia della Rai io sono quello che ha spostato sempre più avanti il confine della libertà». Poi però si indigna se il Cav si autoproclama migliore premier degli ultimi 150 anni.
In realtà, Santorescu è un giornalista schierato come un hooligan del pallone con l’immobiliarista Di Pietro. Ha meno case di Tonino ma l’identica visione capestro e manette. In venti anni di tv è l’unico, a mia scienza, che abbia messo in moto il meccanismo di un suicidio. Molti ricorderanno quella sera del 23 febbraio 1995 a Tempo reale. Era suo ospite Leoluca Orlando, oggi anche lui con Di Pietro, ma allora sindaco di Palermo e caudillo della Rete, movimento che fiutava mafiosi anche nei buchi del formaggio. In diretta, Orlando accusò di mafiosità il maresciallo dei carabinieri di Terrasini, Antonino Lombardo. Santoro lo lasciò sdottorare a ruota libera senza dirgli, come avrebbe dovuto da giornalista, per di più del servizio pubblico, che l’altro non poteva difendersi perché era assente. Un classico linciaggio. Lombardo, lasciato solo, si uccise qualche ora dopo. Era, come già si sapeva e meglio si seppe dalle indagini successive, totalmente estraneo alle accuse. Un errore del genere, così contiguo alla canagliata, sarebbe costato a chiunque il posto. Michele invece è ancora lì e continua imperterrito nel suo giornalismo sfottente.
Le trasmissioni di Santoro, senza eccezione, sono truccate da capo a piedi. Nel 2002, il Garante delle comunicazioni lo inchiodò.
Analizzando una dozzina di puntate di Sciuscià - uno dei tanti nomi del suo programma sempre eguale - l’Autorità rilevò «gravi violazioni del principio del pluralismo». Lo rimproverò di favorire i politici della sinistra invitati in studio in numero preponderante, circondati da una platea favorevole, liberi di sentenziare a capocchia. Di danneggiare, all’opposto, i politici della destra tagliando loro la parola e sbeffeggiandoli con ammiccamenti al pubblico di parte. Il Garante concluse dicendo che lui, purtroppo, non aveva mezzi legali per fermare Santoro. Chiedeva però alla Rai di condannare il sottogiornalismo del suo dipendente e comminò una multa. Be’, credete che Santorescu si sia contrito e abbia fatto un esame di coscienza? Nemmeno a pensarci. Il biondino, anzi, trasformò la bocciatura nell’aureola del martire. Della serie, parlate male di me, ma parlatene.
Michele è insopportabile a milioni di abbonati ma guai a prendere provvedimenti. Quando il Cav, esprimendo l’opinione di molti, disse che Santoro (con Enzo Biagi e Daniele Luttazzi) faceva «un uso criminoso» della tv pubblica, scoppiò un casino. Era il 2002 e l’esternazione di Berlusconi, allora premier, avvenne a Sofia dov’era in viaggio ufficiale. Subito gli amici di Michele, che nella stampa - e solo lì - sono legione, parlarono di «editto bulgaro». Santoro cavalcò la faccenda con un misto di aggressività e autocommiserazione. «Berlusconi è un vigliacco perché abusa dei suoi poteri per attaccare persone più deboli di lui», disse e aggiunse, privo com’è di senso del ridicolo: «Qui c’è un’analogia col delitto Matteotti», il deputato socialdemocratico assassinato dai fascisti al tempo di Mussolini. Quale fosse l’analogia non lo capì nessuno. Ma tutto fa brodo per autoincensarsi.
Dopo questa serie di sfacciataggini, la Rai cercò di raffreddare le polemiche allontanando per qualche tempo il biondino dai teleschermi. Fossero capitati a me i suoi incidenti, mi avrebbero cacciato per sempre con ludibrio. Michele invece cominciò una piagnucolata che durò tre anni. Urlò: «La mia esautorazione è un crimine politico». Evocò il nazismo: «Eliminare Santoro dalla tv è come bruciare i libri in piazza». Vaneggiò nei modi più vari chiedendo la solidarietà dell’universo mondo e, per andare sul sicuro, chiese «giustizia» al giudice del lavoro.
Fu un colpo da maestro, vista la magistratura che ci ritroviamo. La toga gli dette ragione su tutta la linea, stabilendo il principio che la Rai non poteva scegliere a chi dare o a chi togliere i suoi spazi. Condannò l’ente a riprendersi Michele, a ridargli il posto in prima serata e versargli un milione e passa di euro di risarcimento. L’unico a tenere i piedi per terra fu il presidente dei giornalisti, Lorenzo Del Boca, che commentò: «Con un Santoro emarginato a un miliardo e mezzo di vecchie lire, ci sono in Rai un migliaio di precari che non arrivano a prendere il suo stipendio tutti quanti insieme». Ma c’è un altro risvolto. In attesa della sentenza di reintegrazione Santoro si era fatto eleggere deputato dell’Ulivo a Strasburgo nel 2004. Erano sempre 25mila euro e passa mensili. Perché rinunciarci? Intascò infatti la prebenda per 18 mesi. Ma appena il giudice ne ordinò la riassunzione piantò baracca e burattini per tornare in tv. Settecentocinquantamila elettori che lo avevano spedito in Parlamento per cinque anni restarono con un palmo di naso. E noi ce lo siamo ritrovato in casa, ossigenato come un vecchio play boy, a strologare di libertà di stampa.
Anche qui va fatta chiarezza. Questo campione dell’informazione che si arroga il diritto di denunciare «senza guardare in faccia nessuno» e frugare nei cassetti di chiunque, non tollera però di essere toccato a sua volta. Michele un produttore industriale di querele. Se non passa alle querele, sono comunque minacce.
Quando il settimanale Panorama chiese di seguirlo nella campagna elettorale europea, uno delle sue spalle, il cronista Sandro Ruotolo, sibilò all’inviata: «Solo a patto che ci facciate leggere prima le cose che scrivete. Se, secondo noi, l’articolo non va bene, lo cambiamo. Se non accettate, niente articolo». Mentre dettava le condizioni, campeggiava dietro di lui lo slogan elettorale scelto dall'araldo della libera stampa: «Per un’espressione libera: vota Santoro». Tra i concetti espressi durante i comizi: «Il berlusconismo mi fa schifo»; Oriana Fallaci «mi fa vomitare».
Due anni fa, la Voce di Romagna scrisse che il biondino si stava costruendo una megavilla sul Colle di Cavignano in quel di Rimini. Santoro è legato alla zona per via matrimoniale. Sua moglie, Sania Annibaldi, è infatti figlia di uno ricco sanmarinese. Michele querelò il giornale dicendo che la villa era del suocero e che lui a Rimini alloggiava invece al Grand Hotel. La smentita non convinse. Il giornalista Gigi Moncalvo che all’epoca conduceva Confronti su Rai 2, volle vederci chiaro e mandò una troupe a Cavignano. Appena lo seppe, Santorescu andò sulle furie e fece il diavolo a quattro per bloccare l’inchiesta. Telefonò con arroganza al direttore di Rete, Marano, agli autori, agli ospiti fissi. Non cavò un ragno dal buco e passò alle diffide. La trasmissione poi si fece egualmente. Vi sembra comunque il modo di comportarsi di uno che per sé pretende carta bianca? Ricordatevene quando giovedì lo sentirete sproloquiare di libera stampa.
Altro episodio nel novembre dell’anno scorso. Un anchorman di Radio Dimensione Suono, Joe Violanti, imitava in trasmissione la voce di Santoro. Telefonava a personaggi famosi e li invitava ad Annozero. Talmente credibile che quelli ci cadevano. Ovviamente, i radioascoltatori si divertivano un mondo. Il biondino invece si incappiò di brutto. Disse che il gioco lo metteva in difficoltà. Gli fu replicato che era uno scherzo e che alla fine gli ignari erano avvertiti. Ma Santoro non volle sentire ragioni e diffidò Violanti accusandolo, per vie legali, di «furto d’identità». Un’imperdonabile dissacrazione dell’intoccabile.
Ce ne sarebbero delle altre, ma lo spazio stringe. Prima di finire devo comunque spiegarvi perché ho spesso usato il nomignolo di Santorescu. Gli fu affibbiato dalla redazione di Samarcanda, quella in cui debuttò da conduttore negli anni Ottanta.
Ex di Servire il Popolo, ex dell’Unità, Santoro entrò stabilmente in Viale Mazzini imposto da Beppe Vacca, futuro deputato del Pci e allora consigliere della Rai. Gli fu affidata per Samarcanda la guida di un manipolo di giornalisti abbastanza nutrito. Con questi sottoposti, Michele era esigentissimo. Al limite del fanatismo. Alcuni li ripudiò, molti fuggirono. Di qui venne spontaneo chiamarlo con un nome da dittatore romeno. Il più consono per questo campione di tutte le libertà.
(Fonte: Giancarlo Perna, Il Giornale, 23 settembre 2009)
martedì 22 settembre 2009
Quando si dice “parlare a vanvera”
Vi assicuro che lo faccio controvoglia - sono sempre restio in genere a dare spazio alla politica - ma talvolta fatti e persone mi tirano per i pochi capelli rimastimi: oggi in particolare mi riesce impossibile non intervenire nella farsa sulla libertà di stampa, artatamente imbastita, cui stiamo assistendo in questi giorni nostro malgrado. E mi chiedo: possibile mai che - al di là dell'accusatore principe - cervelli onusti di scienza, adottando le sue tesi farneticanti, possano improvvisamente deflettere dall’evidenza e rivelare pervicacemente un totale obnubilamento razionale? Ebbene: A vedere e sentire i media, sembra proprio così.
Una situazione del resto molto bene inquadrata e analizzata nel pezzo che segue: «Il parlamento Ue processa Berlusconi. Sarà messa ai voti l'accusa di Di Pietro». E spiega:
«Il Neuroparlamento di Bruxelles e Strasburgo discuterà e addirittura voterà una risoluzione proposta dal partito di Di Pietro sulla libertà di stampa in pericolo in Italia perchè Berlusconi ha querelato la Repubblica e l'Unità. Ditemi che sto sbagliando, che ho frainteso. Arrivo a capire che Di Pietro nel suo furore rustico-giudiziario paragoni Berlusconi a Saddam e auspichi la stessa fine; arrivo a capire che per fare ammuina il suo partito italo-talebano investa il Parlamento europeo di una tesi del genere e arrivo persino a capire che un'opposizione di sinistra ormai alla frutta, anzi all'ammazzacaffè, si possa accodare a questa disperata trovata.
Ma non posso pensare che nel Parlamento europeo - e su iniziativa del gruppo che si dice liberale - si prenda in seria considerazione, si discuta e addirittura si metta ai voti una mozione del genere. È una triplice pazzia da ricovero immediato o da interdizione dai pubblici uffici. Dico una triplice pazzia non a caso. La prima follìa è quella di prendere sul serio la tesi che la querela di un presidente del Consiglio dopo una serie di attacchi violentissimi sulla sua vita privata, da cui non è emerso neanche uno straccio di reato da contestargli, possa configurarsi come una minaccia alla libertà di stampa. Non conosco un regime totalitario, autoritario, dispotico, ma anche vagamente paternalistico e poco liberale, che abbia fatto ricorso alla querela per zittire o perseguitare chi si oppone al governo. Che razza di tiranno è uno che ricorre all'arbitrato della magistratura, cioè di un soggetto terzo e di un potere giudiziario, per giunta tutt'altro che compiacente verso di lui, per dirimere una controversia con la stampa?
Mi fa ridere, e poi piangere, solo immaginare Stalin che querela Trotzky anziché farlo massacrare. Ma anche le democrazie più furbe e malcavate usano mezzi più efficaci e meno vistosi per mettere a tacere la stampa d'opposizione: subdoli ricatti agli editori, viveri tagliati, sordina, pressioni di altro tipo. Accadeva anche nella prima Repubblica nostrana e accade in tante democrazie occidentali... La querela è la più ingenua, disarmata e plateale reazione che un potere possa usare contro la stampa. La seconda pazzia è quella di ritenere la querela di Berlusconi un'anomalìa senza precedenti. La nostra Repubblica, dai tempi di De Gasperi a quelli di De Mita, fino al tempo di D'Alema e Prodi, ha visto premier che querelavano giornali e giornalisti.
E in alcuni casi li ha fatti sbattere in galera: pensate al povero Guareschi che aveva dato una robusta mano alla Dc nel '48 e poi finì in galera con l'accusa di aver diffamato il premier Alcide De Gasperi. E nonostante ciò, chi dubita che De Gasperi fosse democratico e liberale? Di azioni legali di politici contro giornalisti è pieno il carnet europeo. Da noi c'è stato persino l'abuso di querele da parte di politici contro la stampa: Di Pietro ne sa qualcosa. Non parliamo poi delle querele dei magistrati alla stampa, quasi sempre vinte dai medesimi, con risarcimento immediato e congruo, avendo il coltello dalla parte del manico.
La terza follìa è l'ingerenza dell'Europarlamento nella vita e nella sovranità di una nazione libera, adulta e democratica, che ha il suo Parlamento, i suoi organi giudiziari, la sua opposizione e la sua stampa d'opposizione. E che ha un tasso di risse e campagne violente contro il governo come nessuno in Europa. È un'offesa a tutti gli italiani, a noi popolo sovrano, alla nostra credibilità nel mondo, ad un paese che ha votato a maggioranza, con votazioni limpide e dall'esito assai netto, per il governo Berlusconi, mandandolo per la terza volta alla guida del paese. È come considerarci immaturi, degni di eurotutela, minorenni e minorati. Una ferita gravissima; verrebbe voglia di rimettere in discussione la nostra permanenza in quel tetro cimitero della democrazia che è il Neuroparlamento. E in questa vigliacca Unione Europea che si vergogna di ricordare la propria carta d'identità e di riconoscere che è nata dalla civiltà cristiana, greca e romana; ma non si vergogna di diffamare un suo socio fondatore, il popolo italiano, accusandolo di aver voluto alla guida del paese un dittatore. Il tutto per un paio di querele con richiesta di risarcimento danni.
Leggevo ieri, con divertito stupore, un libro-intervista del professore comunista Asor Rosa che a costo di passare per un revisionista, riabilita il fascismo in rapporto al berlusconismo: «Da tutti i punti di vista il berlusconismo è peggio del fascismo». E leggevo che un giurista letterato come Franco Cordero, sosteneva la stessa cosa su la Repubblica giorni fa. Tutto ciò mentre pubblicano liberamente i loro testi, tutti ne parlano e nessuno osa neanche pensare di scalfire la loro libertà di diffamare con quelle gravi accuse il capo del governo. Ma la cosa che più disgusta è l'oltraggio che questi intellettuali e questi europarlamentari compiono verso coloro che hanno davvero perso la vita e la libertà per difendere le loro idee. Vittime di regimi totalitari, a cominciare e a finire dal comunismo (perchè il comunismo precede l'esperienza del fascismo e del nazismo e sopravvive per svariati decenni alla loro morte); ma più vastamente a tutti coloro che nel corso dei secoli hanno patito davvero la mancanza di libertà di espressione e sono stati perseguitati. È un'offesa far passare per martiri questi giornalisti che proseguono indisturbati il loro lavoro, compresi gli insulti. Non confondete vere e tragiche vittime con questo libero e gratuito tiro al bersaglio.
Questa gente che denuncia un'inesistente perdita della libertà in Italia è divisa tra rozzi giacobini aglio-olio-e-ghigliottina che ignorano la storia e non sanno cosa voglia davvero dire perdere la libertà; e rancidi intellettuali, magari comunisti e teorici non pentiti della violenza, in preda a deliri maniaco-depressivi. Gente che ha perso il senso della misura e della realtà, della storia e della verità. Sarà poi divertente spiegare all'Europarlamento che una querela fatta a un giornale dal presidente Berlusconi è una minaccia alla libertà mentre una querela fatta a un giornale dal presidente Fini è una difesa della libertà. Si dovrà ricorrere ad Orwell e alla neolingua per spiegare la differenza abissale tra due cose identiche. Chiamate un'ambulanza; questa non è un'Europa normale. L'ideologia è morta ma i suoi fetidi miasmi ammorbano teste, testate e partiti».
(Fonte: Marcello Veneziani, 22 settembre 2009)
Una situazione del resto molto bene inquadrata e analizzata nel pezzo che segue: «Il parlamento Ue processa Berlusconi. Sarà messa ai voti l'accusa di Di Pietro». E spiega:
«Il Neuroparlamento di Bruxelles e Strasburgo discuterà e addirittura voterà una risoluzione proposta dal partito di Di Pietro sulla libertà di stampa in pericolo in Italia perchè Berlusconi ha querelato la Repubblica e l'Unità. Ditemi che sto sbagliando, che ho frainteso. Arrivo a capire che Di Pietro nel suo furore rustico-giudiziario paragoni Berlusconi a Saddam e auspichi la stessa fine; arrivo a capire che per fare ammuina il suo partito italo-talebano investa il Parlamento europeo di una tesi del genere e arrivo persino a capire che un'opposizione di sinistra ormai alla frutta, anzi all'ammazzacaffè, si possa accodare a questa disperata trovata.
Ma non posso pensare che nel Parlamento europeo - e su iniziativa del gruppo che si dice liberale - si prenda in seria considerazione, si discuta e addirittura si metta ai voti una mozione del genere. È una triplice pazzia da ricovero immediato o da interdizione dai pubblici uffici. Dico una triplice pazzia non a caso. La prima follìa è quella di prendere sul serio la tesi che la querela di un presidente del Consiglio dopo una serie di attacchi violentissimi sulla sua vita privata, da cui non è emerso neanche uno straccio di reato da contestargli, possa configurarsi come una minaccia alla libertà di stampa. Non conosco un regime totalitario, autoritario, dispotico, ma anche vagamente paternalistico e poco liberale, che abbia fatto ricorso alla querela per zittire o perseguitare chi si oppone al governo. Che razza di tiranno è uno che ricorre all'arbitrato della magistratura, cioè di un soggetto terzo e di un potere giudiziario, per giunta tutt'altro che compiacente verso di lui, per dirimere una controversia con la stampa?
Mi fa ridere, e poi piangere, solo immaginare Stalin che querela Trotzky anziché farlo massacrare. Ma anche le democrazie più furbe e malcavate usano mezzi più efficaci e meno vistosi per mettere a tacere la stampa d'opposizione: subdoli ricatti agli editori, viveri tagliati, sordina, pressioni di altro tipo. Accadeva anche nella prima Repubblica nostrana e accade in tante democrazie occidentali... La querela è la più ingenua, disarmata e plateale reazione che un potere possa usare contro la stampa. La seconda pazzia è quella di ritenere la querela di Berlusconi un'anomalìa senza precedenti. La nostra Repubblica, dai tempi di De Gasperi a quelli di De Mita, fino al tempo di D'Alema e Prodi, ha visto premier che querelavano giornali e giornalisti.
E in alcuni casi li ha fatti sbattere in galera: pensate al povero Guareschi che aveva dato una robusta mano alla Dc nel '48 e poi finì in galera con l'accusa di aver diffamato il premier Alcide De Gasperi. E nonostante ciò, chi dubita che De Gasperi fosse democratico e liberale? Di azioni legali di politici contro giornalisti è pieno il carnet europeo. Da noi c'è stato persino l'abuso di querele da parte di politici contro la stampa: Di Pietro ne sa qualcosa. Non parliamo poi delle querele dei magistrati alla stampa, quasi sempre vinte dai medesimi, con risarcimento immediato e congruo, avendo il coltello dalla parte del manico.
La terza follìa è l'ingerenza dell'Europarlamento nella vita e nella sovranità di una nazione libera, adulta e democratica, che ha il suo Parlamento, i suoi organi giudiziari, la sua opposizione e la sua stampa d'opposizione. E che ha un tasso di risse e campagne violente contro il governo come nessuno in Europa. È un'offesa a tutti gli italiani, a noi popolo sovrano, alla nostra credibilità nel mondo, ad un paese che ha votato a maggioranza, con votazioni limpide e dall'esito assai netto, per il governo Berlusconi, mandandolo per la terza volta alla guida del paese. È come considerarci immaturi, degni di eurotutela, minorenni e minorati. Una ferita gravissima; verrebbe voglia di rimettere in discussione la nostra permanenza in quel tetro cimitero della democrazia che è il Neuroparlamento. E in questa vigliacca Unione Europea che si vergogna di ricordare la propria carta d'identità e di riconoscere che è nata dalla civiltà cristiana, greca e romana; ma non si vergogna di diffamare un suo socio fondatore, il popolo italiano, accusandolo di aver voluto alla guida del paese un dittatore. Il tutto per un paio di querele con richiesta di risarcimento danni.
Leggevo ieri, con divertito stupore, un libro-intervista del professore comunista Asor Rosa che a costo di passare per un revisionista, riabilita il fascismo in rapporto al berlusconismo: «Da tutti i punti di vista il berlusconismo è peggio del fascismo». E leggevo che un giurista letterato come Franco Cordero, sosteneva la stessa cosa su la Repubblica giorni fa. Tutto ciò mentre pubblicano liberamente i loro testi, tutti ne parlano e nessuno osa neanche pensare di scalfire la loro libertà di diffamare con quelle gravi accuse il capo del governo. Ma la cosa che più disgusta è l'oltraggio che questi intellettuali e questi europarlamentari compiono verso coloro che hanno davvero perso la vita e la libertà per difendere le loro idee. Vittime di regimi totalitari, a cominciare e a finire dal comunismo (perchè il comunismo precede l'esperienza del fascismo e del nazismo e sopravvive per svariati decenni alla loro morte); ma più vastamente a tutti coloro che nel corso dei secoli hanno patito davvero la mancanza di libertà di espressione e sono stati perseguitati. È un'offesa far passare per martiri questi giornalisti che proseguono indisturbati il loro lavoro, compresi gli insulti. Non confondete vere e tragiche vittime con questo libero e gratuito tiro al bersaglio.
Questa gente che denuncia un'inesistente perdita della libertà in Italia è divisa tra rozzi giacobini aglio-olio-e-ghigliottina che ignorano la storia e non sanno cosa voglia davvero dire perdere la libertà; e rancidi intellettuali, magari comunisti e teorici non pentiti della violenza, in preda a deliri maniaco-depressivi. Gente che ha perso il senso della misura e della realtà, della storia e della verità. Sarà poi divertente spiegare all'Europarlamento che una querela fatta a un giornale dal presidente Berlusconi è una minaccia alla libertà mentre una querela fatta a un giornale dal presidente Fini è una difesa della libertà. Si dovrà ricorrere ad Orwell e alla neolingua per spiegare la differenza abissale tra due cose identiche. Chiamate un'ambulanza; questa non è un'Europa normale. L'ideologia è morta ma i suoi fetidi miasmi ammorbano teste, testate e partiti».
(Fonte: Marcello Veneziani, 22 settembre 2009)
domenica 20 settembre 2009
A proposito del divieto ai giovani di consumare alcolici
Che follia dire ai giovani: niente regole!
Fa tanto fico schierarsi contro i divieti. Si sta dalla parte dei liberali, degli illuminati che hanno fiducia nell’uomo e nella sua capacità di auto-regolamentazione quando non addirittura di auto-redenzione. Chi invece ritiene che almeno ogni tanto vada messo qualche paletto, segnato qualche stop, minacciata qualche sanzione, viene arruolato fra i dinosauri del proibizionismo, della reazione, del clerico-fascismo. Banalmente, si dice che i primi sono di sinistra e i secondi di destra. Un teologo osservava che in fondo quel che divide sinistra e destra è la fede nel peccato originale, cioè nella libertà dell’uomo di fare il bene o il male. La sinistra non ci crede per nulla, e ritiene che l’umanità sia destinata a migliorare progressivamente, fino al giorno in cui diventeremo tutti buoni e non ci sarà più bisogno di leggi e prigioni. La destra ci crede troppo, ed è convinta che, al contrario, più si va avanti più ci si allontana da una mitica età dell’oro; l’umanità insomma procederebbe su un piano inclinato, e per imporre la virtù serviranno sempre i gendarmi. Senza scomodare la teologia, credo sia sufficiente l’osservazione della realtà per evitare entrambi gli estremismi destra-sinistra, e valutare caso per caso. Nella fattispecie: il divieto di consumare alcolici per gli under 16 è sensato oppure no? A mio parere fra tanti diktat ridicoli che stanno facendo tornare di moda lo Stato etico - c’è perfino chi vieta di fumare all’aperto o nella propria automobile; oppure di consumare chewing-gum - questo deciso dal Comune di Milano è più che comprensibile: è opportuno. Francamente non capisco le obiezioni. L’unico argomento che viene portato avanti dai «contrari» è: non servono i divieti, occorre l’educazione. Con tutta la buona volontà, non vedo alcun contrasto fra le due cose. Se si vieta il consumo di alcolici a ragazzini di quindici anni (poco più che bambini) viene automaticamente esclusa ogni opera di persuasione da parte delle famiglie, delle scuole, dei mass media? Una cosa esclude l’altra? Credo di no, anzi credo che a volte i divieti siano parte integrante dell’educazione. A scuola guida si «educa» a circolare e a parcheggiare correttamente: ciò non toglie che le manovre e i parcheggi scorretti siano poi sanzionati dai vigili. I genitori poi educano (o dovrebbero educare) i figli ad avere rispetto degli insegnanti e dei compagni di classe: ciò non toglie che l’alunno che si comporta male possa (anzi debba) essere punito con una nota, o con una sospensione, o con un’insufficienza in condotta. Potremmo andare avanti con esempi infiniti.Da che esiste il diritto (ed esiste da un pezzo) la legge - qualsiasi legge - non ha solo il compito di punire i rei. Ha anche e soprattutto quello di fissare dei principi, di stabilire che cosa è giusto e che cosa non lo è. Quando una legge liberalizza un comportamento sbagliato, si diffonde via via il convincimento che quel comportamento non sia poi così sbagliato. Se lo dice perfino la legge che posso fare una certa cosa, perché non dovrei farla?Anche lo stabilire divieti, quindi, fa parte dell’educazione. Di quella vera. L’indefinita «educazione» con la quale si vorrebbe ora fermare la piaga dell’alcol fra i ragazzini (perché è una piaga: chi ha figli di quell’età lo sa bene) fa invece parte dei totem progressisti, del sessantottino vietato-vietare, dell’idea che con il mitico «dialogo» si possa risolvere ogni problema. Curioso che tanto blablabla pseudo-liberal torni di moda ora che, da un pezzo, è stata archiviata come una fallimentare utopia la bibbia del permessivismo del celeberrimo pediatra Benjamin Spock, di gran moda negli anni Sessanta. Qualche anno fa la teoria del dottor Spock (anch’egli poi ampiamente pentitosi di quel che aveva scritto) venne smontata dal libro di un’altra studiosa, la psicoterapeuta Asha Phillips. Il titolo era «I no che aiutano a crescere».Ecco, il «no» del Comune di Milano può servire a far capire, a chi non è ancora in grado di capire, che bere alcol a quindici o quattordici o addirittura tredici anni è dannoso per sé e per gli altri. Oltre che a evitare, magari, qualcuna delle tante bravate, o delle tante morti in motorino, sulle quali poi tutti sono pronti a piangere.
(Fonte: Michele Brambilla, Il Giornale, 22 luglio 2009)
Fa tanto fico schierarsi contro i divieti. Si sta dalla parte dei liberali, degli illuminati che hanno fiducia nell’uomo e nella sua capacità di auto-regolamentazione quando non addirittura di auto-redenzione. Chi invece ritiene che almeno ogni tanto vada messo qualche paletto, segnato qualche stop, minacciata qualche sanzione, viene arruolato fra i dinosauri del proibizionismo, della reazione, del clerico-fascismo. Banalmente, si dice che i primi sono di sinistra e i secondi di destra. Un teologo osservava che in fondo quel che divide sinistra e destra è la fede nel peccato originale, cioè nella libertà dell’uomo di fare il bene o il male. La sinistra non ci crede per nulla, e ritiene che l’umanità sia destinata a migliorare progressivamente, fino al giorno in cui diventeremo tutti buoni e non ci sarà più bisogno di leggi e prigioni. La destra ci crede troppo, ed è convinta che, al contrario, più si va avanti più ci si allontana da una mitica età dell’oro; l’umanità insomma procederebbe su un piano inclinato, e per imporre la virtù serviranno sempre i gendarmi. Senza scomodare la teologia, credo sia sufficiente l’osservazione della realtà per evitare entrambi gli estremismi destra-sinistra, e valutare caso per caso. Nella fattispecie: il divieto di consumare alcolici per gli under 16 è sensato oppure no? A mio parere fra tanti diktat ridicoli che stanno facendo tornare di moda lo Stato etico - c’è perfino chi vieta di fumare all’aperto o nella propria automobile; oppure di consumare chewing-gum - questo deciso dal Comune di Milano è più che comprensibile: è opportuno. Francamente non capisco le obiezioni. L’unico argomento che viene portato avanti dai «contrari» è: non servono i divieti, occorre l’educazione. Con tutta la buona volontà, non vedo alcun contrasto fra le due cose. Se si vieta il consumo di alcolici a ragazzini di quindici anni (poco più che bambini) viene automaticamente esclusa ogni opera di persuasione da parte delle famiglie, delle scuole, dei mass media? Una cosa esclude l’altra? Credo di no, anzi credo che a volte i divieti siano parte integrante dell’educazione. A scuola guida si «educa» a circolare e a parcheggiare correttamente: ciò non toglie che le manovre e i parcheggi scorretti siano poi sanzionati dai vigili. I genitori poi educano (o dovrebbero educare) i figli ad avere rispetto degli insegnanti e dei compagni di classe: ciò non toglie che l’alunno che si comporta male possa (anzi debba) essere punito con una nota, o con una sospensione, o con un’insufficienza in condotta. Potremmo andare avanti con esempi infiniti.Da che esiste il diritto (ed esiste da un pezzo) la legge - qualsiasi legge - non ha solo il compito di punire i rei. Ha anche e soprattutto quello di fissare dei principi, di stabilire che cosa è giusto e che cosa non lo è. Quando una legge liberalizza un comportamento sbagliato, si diffonde via via il convincimento che quel comportamento non sia poi così sbagliato. Se lo dice perfino la legge che posso fare una certa cosa, perché non dovrei farla?Anche lo stabilire divieti, quindi, fa parte dell’educazione. Di quella vera. L’indefinita «educazione» con la quale si vorrebbe ora fermare la piaga dell’alcol fra i ragazzini (perché è una piaga: chi ha figli di quell’età lo sa bene) fa invece parte dei totem progressisti, del sessantottino vietato-vietare, dell’idea che con il mitico «dialogo» si possa risolvere ogni problema. Curioso che tanto blablabla pseudo-liberal torni di moda ora che, da un pezzo, è stata archiviata come una fallimentare utopia la bibbia del permessivismo del celeberrimo pediatra Benjamin Spock, di gran moda negli anni Sessanta. Qualche anno fa la teoria del dottor Spock (anch’egli poi ampiamente pentitosi di quel che aveva scritto) venne smontata dal libro di un’altra studiosa, la psicoterapeuta Asha Phillips. Il titolo era «I no che aiutano a crescere».Ecco, il «no» del Comune di Milano può servire a far capire, a chi non è ancora in grado di capire, che bere alcol a quindici o quattordici o addirittura tredici anni è dannoso per sé e per gli altri. Oltre che a evitare, magari, qualcuna delle tante bravate, o delle tante morti in motorino, sulle quali poi tutti sono pronti a piangere.
(Fonte: Michele Brambilla, Il Giornale, 22 luglio 2009)
La Cei: "Degrado politico deriva da carenze etiche"
I vescovi contro il degrado della politica. "Taluni fenomeni di degrado politico rivelano mancanza di progettualità e di etica" afferma il presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco. Fenomeni, spiega il porporato, che rivelano la "resa a interessi di corto respiro e confermano che l’etica sociale si regge soltanto sulla base della qualità delle singole persone". Per Bagnasco, che ha tenuto una Lectio magistralis sull'Enciclica del Papa Caritatis in veritate "sbagliano quanti si sono contrapposti tra difensori dell’etica individuale e propugnatori dell’etica sociale perché in realtà le due cose stanno insieme".
"Aver sottovalutato l’impatto della famiglia sul piano sociale ed economico riconducendola a una questione privata, quando non addirittura a un retaggio culturale del passato, è stata una miopia di cui oggi pagano le conseguenze soprattutto le generazioni più giovani, sempre meno numerose e sempre meno importanti" prosegue il presidente della Conferenza episcopale italiana. "Lo sviluppo vero - ha detto il porporato riecheggiando le tematiche dell’enciclica di Ratzinger - non può tenere separati i temi della giustizia sociale da quelli del rispetto della vita e della famiglia e che sbagliano quanti in questi anni, anche nel nostro Paese, si sono contrapposti tra difensori dell’etica individuale e propugnatori dell’etica sociale. In realtà le due cose stanno insieme. Un esempio eloquente - ha proseguito Bagnasco - è dato dalla crescente consapevolezza che la questione demografica, che attiene certamente alla dinamica affettiva e familiare, rappresenti pure uno snodo decisivo delle politiche economiche e perfino del Welfare. Aver sottovalutato l’impatto della famiglia sul piano sociale ed economico riconducendola a una questione privata, quando non addirittura a un retaggio culturale del passato, è stata una miopia di cui oggi pagano le conseguenze soprattutto le generazioni più giovani, sempre meno numerose e sempre meno importanti".
(Fonte: Il Giornale, 20 settembre 2009)
"Aver sottovalutato l’impatto della famiglia sul piano sociale ed economico riconducendola a una questione privata, quando non addirittura a un retaggio culturale del passato, è stata una miopia di cui oggi pagano le conseguenze soprattutto le generazioni più giovani, sempre meno numerose e sempre meno importanti" prosegue il presidente della Conferenza episcopale italiana. "Lo sviluppo vero - ha detto il porporato riecheggiando le tematiche dell’enciclica di Ratzinger - non può tenere separati i temi della giustizia sociale da quelli del rispetto della vita e della famiglia e che sbagliano quanti in questi anni, anche nel nostro Paese, si sono contrapposti tra difensori dell’etica individuale e propugnatori dell’etica sociale. In realtà le due cose stanno insieme. Un esempio eloquente - ha proseguito Bagnasco - è dato dalla crescente consapevolezza che la questione demografica, che attiene certamente alla dinamica affettiva e familiare, rappresenti pure uno snodo decisivo delle politiche economiche e perfino del Welfare. Aver sottovalutato l’impatto della famiglia sul piano sociale ed economico riconducendola a una questione privata, quando non addirittura a un retaggio culturale del passato, è stata una miopia di cui oggi pagano le conseguenze soprattutto le generazioni più giovani, sempre meno numerose e sempre meno importanti".
(Fonte: Il Giornale, 20 settembre 2009)
I caduti di Kabul: Il prete sciacallo e il silenzio del Cardinale
Ci sono parole e fatti che indignano i professionisti della protesta. Altri no. Basta che Berlusconi, Brunetta, la Gelmini, Bossi e suo figlio aprano bocca che subito le agenzie battono reazioni allarmate dei vari esponenti dell'opposizione e dell'intellettuale di turno. Di Pietro insegna. Non avendo un lavoro né nulla di interessante da fare, il leader dell'Idv passa le giornate a sfornare pareri non richiesti su tutto e tutti. Ma, dicevamo, a volte non è così. Per esempio ieri non abbiamo sentito o letto condanne e prese di distanza da quegli imbecilli che stanno imbrattando i muri delle nostre città con la scritta «-6» in segno di esultanza per il successo dei talebani nell'attentato di Kabul contro i nostri soldati. Mani anonime, si dirà. Certo, ma la matrice politica è chiara, ed è da cercare nell'area dell'antiberlusconismo radicale alla quale non pochi signori che vediamo ogni sera nei talk-show televisivi strizzano l'occhio. Sono curioso di vedere se oggi la democratica Concita De Gregorio scriverà qualche cosa contro questi mascalzoni sulla sua "Unità" sempre pronta a dare lezioni di morale. O se Ballarò e Santoro dedicheranno qualche minuto delle loro trasmissioni per smascherare e denunciare questi sciacalli.
Ma soprattutto mi colpisce il silenzio del cardinale di Milano, Dionigi Tettamanzi, nei confronti di un suo prete, don Giorgio de Capitani, parroco a Lecco, diocesi ambrosiana. Questo prete, già noto per le sue violente omelie contro Berlusconi, ieri ha detto e scritto sul suo sito che i parà uccisi a Kabul «sono solo dei mercenari» che non meritano tanta commozione. Oggi, interpellato dal nostro inviato Luca Fazzo, rincara la dose e confida che «su tante cose anche il cardinale Tettamanzi la pensa come me, solo che non può dirlo». Ora, noi non ci permettiamo di mettere becco in casa altrui, sappiamo che nella Chiesa c'è posto per tutti, anche per gli svitati, ma è chiaro che delle due l'una: o oggi, subito, vengono presi provvedimenti tali da impedire a don Giorgio di offendere i nostri morti a nome e per conto di Dio, oppure ha ragione lui e il silenzio del cardinale diventa benedizione e complicità. Anche perché ieri il Tettamanzi ha ricevuto parole di encomio importanti. Cito testualmente: «Il capo della diocesi milanese è l'unico che ci difende, appoggiando la nostra richiesta di costruire delle moschee. Fino ad ora è stato l'unico ad avere espresso nei nostri confronti parole cristiane e rispettose della costituzione che garantisce a tutte le religioni di avere propri luoghi di culto». A sbilanciarsi in tanto ringraziamento è stato Abdel Hamid Shaari, presidente del centro islamico milanese. Vorremo poter dire altrettanto, e cioè ringraziare il nostro cardinale per aver difeso senza indugio, oltre che i diritti degli islamici, anche quelli dei nostri soldati che non sono mercenari ma che erano a Kabul mandati dal nostro Parlamento, cioè da tutti noi, in pieno rispetto del dettato costituzionale. Si potrebbe obiettare: don Giorgio è don Giorgio, Tettamanzi è altro. Giusto. Ma senza entrare in questioni ecclesiali, mi sembra ovvio che un fedele quando ascolta il suo parroco sia convinto che questi non parli a titolo personale ma che le sue parole siano ispirate ai sacri testi. E allora non vorremmo che qualche buon cristiano sia convinto che il buon Dio o il suo vicario in terra considerino i nostri soldati gente indegna. Senza contare che tutti i cristiani, e i preti in particolare, debbono obbedienza al proprio vescovo. Speriamo che quest'ultimo abbia tempo e voglia di farsi obbedire.
(Fonte: Alessandro Sallusti, Il Giornale, 20 settembre 2009)
(Fonte: Alessandro Sallusti, Il Giornale, 20 settembre 2009)
sabato 19 settembre 2009
Sulla nuova storiografia conciliare soffia l’ispirazione di Benedetto XVI
Due riletture del Vaticano II riscoprono “l’ininterrotta tradizione ecclesiale” e il peso non dogmatico del concilio
Il Concilio Vaticano II, fino a ieri appaltato alla lettura storiografica della “scuola di Bologna”, inizia a essere oggetto di una nuova fase di riflessione storico-critica, che prende le mosse dall’ormai celebre discorso alla Curia romana di Benedetto XVI del 22 dicembre 2005. Lo stesso Papa Ratzinger è ritornato più volte sull’argomento: l’ultima volta nel discorso ai partecipanti alla Plenaria della Congregazione per il Clero del 16 marzo 2009, in cui il Papa ha ribadito la necessità di rifarsi “all’ininterrotta Tradizione ecclesiale” e di “favorire nei sacerdoti, soprattutto nelle giovani generazioni, una corretta ricezione dei testi del Concilio Ecumenico Vaticano II, interpretati alla luce di tutto il bagaglio dottrinale della chiesa”.
L’unica maniera di rendere credibile il Vaticano II - ha sempre sostenuto il cardinale Ratzinger e sostiene oggi Benedetto XVI - è presentarlo come una parte dell’intera e unica Tradizione della chiesa e della sua Fede. In questo solco si è inserito il recente libro “Vatican II. Renewal within Tradition” (Oxford University Press 2008) di Matthew Lamb e Matthew Levering, due docenti dell’Università Ave Maria in Florida. Al discorso di Benedetto XVI, che apre il volume, seguono una serie di densi contributi, rispettivamente dedicati alle quattro costituzioni conciliari, ai nove decreti e alle tre dichiarazioni del Vaticano II. I nomi degli autori sono di prestigio: tra essi, due cardinali americani (Avery Dulles e Francis George), noti teologi, come il domenicano dell’Angelicum padre Charles Morerod, studiosi di peso come il filosofo del diritto Russell Hittinger. La tesi di fondo è che il Vaticano II può essere inteso solo in continuità con la tradizione bimillenaria della chiesa, secondo la formula di Leone XIII “vetera novis augere et perficere”. La dimostrazione si svolge sul piano di un’analisi testuale dei documenti, considerata naturalmente riduttiva da chi sostiene la priorità qualitativa dell’”evento” conciliare rispetto alle sue decisioni dottrinali che, come ha scritto Giuseppe Alberigo, “non possono essere lette come astratti dettati normativi, ma come espressione e prolungamento dell’evento stesso”. E’ in questo dibattito che si inserisce ora il recente libro di monsignor Brunero Gherardini, “Concilio ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare”, edito dalla Casa Mariana Editrice di Frigento dei Francescani dell’Immacolata. Un’opera la cui importanza deriva, oltre che dal suo contenuto, dalla figura stessa dell’autore, decano della Pontificia Università Lateranense, postulatore della causa di canonizzazione di Pio IX, direttore della rivista “Divinitas” ed ultimo esponente della grande “scuola teologica romana”. L’autorità del volume è accresciuta dalla prefazione di monsignor Mario Oliveri, vescovo di Albenga e dalla premessa di monsignor Albert Malcolm Ranjith, segretario della Congregazione del Culto Divino e arcivescovo di Colombo (Sri Lanka). Tema centrale del volume di monsignor Gherardini è quello della natura pastorale del Concilio, un punto su cui i fautori delle pur diverse tesi sostanzialmente concordano. Il Vaticano II fu un concilio pastorale: tale lo dissero sempre Giovanni XXIII, Paolo VI e i suoi successori, fino all’attuale Pontefice. Ma quali sono le conseguenze di questa “pastoralità”, che è, in ultima analisi, la relazione della chiesa con il mondo? Il Vaticano II, chiarisce Gherardini, in quanto “pastorale”, fu privo di un carattere dottrinale “definitorio”. L’assenza di intenti definitori sembra contraddetta dall’aggettivo “dogmatica”, con cui il Concilio qualifica due sue importanti costituzioni: la Lumen Gentium e la Dei Verbum. In realtà, come spiega l’autore, di esse si parla come di “costituzioni dogmatiche” solo perché esse recepirono e riproposero come verità di fede dogmi definiti in precedenti Concili (pp. 50-51). Il fatto che solo due documenti conciliari furono definiti dogmatici, rende comunque evidente che tale carattere non ebbero gli altri documenti. Il Concilio Vaticano II ha certamente un suo specifico insegnamento, non privo di autorevolezza, ma come spiega Gherardini, “le sue dottrine, non riconducibili a precedenti definizioni, non sono né infallibili né irreformabili, e dunque nemmeno vincolanti; chi le negasse non per questo sarebbe formalmente eretico. Chi poi le imponesse come infallibili ed irreformabili andrebbe contro il Concilio stesso” (p. 51). Ne consegue che è lecito riconoscere al Vaticano II un’indole dogmatica solamente là dove esso ripropone come verità di fede dogmi definiti in precedenti concili. “Le dottrine, invece, che gli son proprie non potranno assolutamente considerarsi dogmatiche, per la ragione che son prive dell’ineludibile formalità definitoria e quindi della relativa voluntas definiendi” (p. 51). Non si tratta di mettere in soffitta l’ultimo concilio, o di liquidarlo, “si tratta solamente di rispettare la natura, il dettato, le finalità e la pastoralità che esso stesso rivendica” (p. 24). Benedetto XVI afferma che il Concilio Vaticano II deve essere letto alla luce della Tradizione, rivendicando un “ritorno alla verità del testo”, al di là delle intenzioni o delle conseguenze dell’”evento”. Tuttavia, secondo monsignor Gherardini, i testi presentano una loro ambiguità e possono essere oggetto di critica, storica e teologica. Un tipico esempio è la costituzione che fu detta “pastorale”, Gaudium et Spes, del 7 dicembre 1965, sulla chiesa nel mondo contemporaneo. La parola “pastorale” qualifica il suo approccio “umanistico” di simpatia, di apertura, di comprensione verso l’uomo, la sua storia e “gli aspetti della vita odierna e della società umana”, con particolare attenzione ai “problemi che sembrano oggi più urgenti”. Il mito ottocentesco e novecentesco del Progresso permea il documento: progresso della cultura e delle istituzioni (n. 53); progresso economico e sociale (n. 66); progresso tecnico (n. 23); e più in generale “progresso umano” (nn. 37, 39, 53, 72). Si tratta di un cristianesimo di nuovo conio che allarga i propri confini “ai cristiani anonimi di Karl Rahner e a quelli impliciti di E. Schillebeeckx, oltre che ai cristiani finalmente maturi dell’assise conciliare” (p. 72). La Gaudium et Spes, pur contenendo un’implicita dottrina, è tuttavia un documento privo di valore vincolante, nei punti in cui si discosta dalla Tradizione della chiesa. Quando infatti un Concilio presenta sé stesso, il contenuto e la ragione dei suoi documenti sotto la categoria della pastoralità, autoqualificandosi come pastorale, esclude in tal modo ogni intento definitorio: “E perciò non può pretender la qualifica di dogmatico, né altri posson conferirgliela” (p. 23). A differenza di tutti gli altri Concili Ecumenici della storia, il Vaticano II non è caratterizzato da una sua incidenza dottrinale - e ancor meno dogmatica - ma dalle novità di atteggiamento, di valutazione, di movimento e di azione introdotte nei gangli vitali della chiesa (p. 65). Il paradosso è consistito in questo: si è voluto elevare a dogma un Concilio che aveva apertamente chiarito di non voler affermare nessun principio assoluto. Ciò che è pastorale va giudicato non tanto nei principi quanto nei risultati concreti. Monsignor Gherardini, riecheggiando quanto già nel 1985 il cardinale Ratzinger affermava nel suo “Rapporto sulla fede”, rileva che il disastro ecclesiale, dal Vaticano II a oggi, ha assunto, con progressione crescente, proporzioni gigantesche. “A un osservatore attento e soprattutto a un cattolico coerente non dovrebbe esser difficile prender atto del disastro e riconoscerlo fra le pieghe di quel relativismo, che paragonerei al montare di uno tsunami limaccioso e travolgente” (p. 93). Nella supplica al Santo Padre che conclude il suo libro, monsignor Gherardini suggerisce come necessaria un’attenta e scientifica analisi dei singoli documenti del Concilio, del loro insieme e d’ogni loro argomento, nonché delle loro fonti immediate e remote: un’analisi che dovrebbe essere comparativa con quella degli altri venti concili, allo scopo di provare se il Vaticano II sia nel solco della continuità più o meno evolutiva, o sia invece con essa in parziale o totale rottura. Il Concilio Vaticano II, infatti, non è più grande della chiesa né della sua Tradizione.
(Roberto de Mattei, © Copyright Il Foglio, 15 settembre 2009)
Il Concilio Vaticano II, fino a ieri appaltato alla lettura storiografica della “scuola di Bologna”, inizia a essere oggetto di una nuova fase di riflessione storico-critica, che prende le mosse dall’ormai celebre discorso alla Curia romana di Benedetto XVI del 22 dicembre 2005. Lo stesso Papa Ratzinger è ritornato più volte sull’argomento: l’ultima volta nel discorso ai partecipanti alla Plenaria della Congregazione per il Clero del 16 marzo 2009, in cui il Papa ha ribadito la necessità di rifarsi “all’ininterrotta Tradizione ecclesiale” e di “favorire nei sacerdoti, soprattutto nelle giovani generazioni, una corretta ricezione dei testi del Concilio Ecumenico Vaticano II, interpretati alla luce di tutto il bagaglio dottrinale della chiesa”.
L’unica maniera di rendere credibile il Vaticano II - ha sempre sostenuto il cardinale Ratzinger e sostiene oggi Benedetto XVI - è presentarlo come una parte dell’intera e unica Tradizione della chiesa e della sua Fede. In questo solco si è inserito il recente libro “Vatican II. Renewal within Tradition” (Oxford University Press 2008) di Matthew Lamb e Matthew Levering, due docenti dell’Università Ave Maria in Florida. Al discorso di Benedetto XVI, che apre il volume, seguono una serie di densi contributi, rispettivamente dedicati alle quattro costituzioni conciliari, ai nove decreti e alle tre dichiarazioni del Vaticano II. I nomi degli autori sono di prestigio: tra essi, due cardinali americani (Avery Dulles e Francis George), noti teologi, come il domenicano dell’Angelicum padre Charles Morerod, studiosi di peso come il filosofo del diritto Russell Hittinger. La tesi di fondo è che il Vaticano II può essere inteso solo in continuità con la tradizione bimillenaria della chiesa, secondo la formula di Leone XIII “vetera novis augere et perficere”. La dimostrazione si svolge sul piano di un’analisi testuale dei documenti, considerata naturalmente riduttiva da chi sostiene la priorità qualitativa dell’”evento” conciliare rispetto alle sue decisioni dottrinali che, come ha scritto Giuseppe Alberigo, “non possono essere lette come astratti dettati normativi, ma come espressione e prolungamento dell’evento stesso”. E’ in questo dibattito che si inserisce ora il recente libro di monsignor Brunero Gherardini, “Concilio ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare”, edito dalla Casa Mariana Editrice di Frigento dei Francescani dell’Immacolata. Un’opera la cui importanza deriva, oltre che dal suo contenuto, dalla figura stessa dell’autore, decano della Pontificia Università Lateranense, postulatore della causa di canonizzazione di Pio IX, direttore della rivista “Divinitas” ed ultimo esponente della grande “scuola teologica romana”. L’autorità del volume è accresciuta dalla prefazione di monsignor Mario Oliveri, vescovo di Albenga e dalla premessa di monsignor Albert Malcolm Ranjith, segretario della Congregazione del Culto Divino e arcivescovo di Colombo (Sri Lanka). Tema centrale del volume di monsignor Gherardini è quello della natura pastorale del Concilio, un punto su cui i fautori delle pur diverse tesi sostanzialmente concordano. Il Vaticano II fu un concilio pastorale: tale lo dissero sempre Giovanni XXIII, Paolo VI e i suoi successori, fino all’attuale Pontefice. Ma quali sono le conseguenze di questa “pastoralità”, che è, in ultima analisi, la relazione della chiesa con il mondo? Il Vaticano II, chiarisce Gherardini, in quanto “pastorale”, fu privo di un carattere dottrinale “definitorio”. L’assenza di intenti definitori sembra contraddetta dall’aggettivo “dogmatica”, con cui il Concilio qualifica due sue importanti costituzioni: la Lumen Gentium e la Dei Verbum. In realtà, come spiega l’autore, di esse si parla come di “costituzioni dogmatiche” solo perché esse recepirono e riproposero come verità di fede dogmi definiti in precedenti Concili (pp. 50-51). Il fatto che solo due documenti conciliari furono definiti dogmatici, rende comunque evidente che tale carattere non ebbero gli altri documenti. Il Concilio Vaticano II ha certamente un suo specifico insegnamento, non privo di autorevolezza, ma come spiega Gherardini, “le sue dottrine, non riconducibili a precedenti definizioni, non sono né infallibili né irreformabili, e dunque nemmeno vincolanti; chi le negasse non per questo sarebbe formalmente eretico. Chi poi le imponesse come infallibili ed irreformabili andrebbe contro il Concilio stesso” (p. 51). Ne consegue che è lecito riconoscere al Vaticano II un’indole dogmatica solamente là dove esso ripropone come verità di fede dogmi definiti in precedenti concili. “Le dottrine, invece, che gli son proprie non potranno assolutamente considerarsi dogmatiche, per la ragione che son prive dell’ineludibile formalità definitoria e quindi della relativa voluntas definiendi” (p. 51). Non si tratta di mettere in soffitta l’ultimo concilio, o di liquidarlo, “si tratta solamente di rispettare la natura, il dettato, le finalità e la pastoralità che esso stesso rivendica” (p. 24). Benedetto XVI afferma che il Concilio Vaticano II deve essere letto alla luce della Tradizione, rivendicando un “ritorno alla verità del testo”, al di là delle intenzioni o delle conseguenze dell’”evento”. Tuttavia, secondo monsignor Gherardini, i testi presentano una loro ambiguità e possono essere oggetto di critica, storica e teologica. Un tipico esempio è la costituzione che fu detta “pastorale”, Gaudium et Spes, del 7 dicembre 1965, sulla chiesa nel mondo contemporaneo. La parola “pastorale” qualifica il suo approccio “umanistico” di simpatia, di apertura, di comprensione verso l’uomo, la sua storia e “gli aspetti della vita odierna e della società umana”, con particolare attenzione ai “problemi che sembrano oggi più urgenti”. Il mito ottocentesco e novecentesco del Progresso permea il documento: progresso della cultura e delle istituzioni (n. 53); progresso economico e sociale (n. 66); progresso tecnico (n. 23); e più in generale “progresso umano” (nn. 37, 39, 53, 72). Si tratta di un cristianesimo di nuovo conio che allarga i propri confini “ai cristiani anonimi di Karl Rahner e a quelli impliciti di E. Schillebeeckx, oltre che ai cristiani finalmente maturi dell’assise conciliare” (p. 72). La Gaudium et Spes, pur contenendo un’implicita dottrina, è tuttavia un documento privo di valore vincolante, nei punti in cui si discosta dalla Tradizione della chiesa. Quando infatti un Concilio presenta sé stesso, il contenuto e la ragione dei suoi documenti sotto la categoria della pastoralità, autoqualificandosi come pastorale, esclude in tal modo ogni intento definitorio: “E perciò non può pretender la qualifica di dogmatico, né altri posson conferirgliela” (p. 23). A differenza di tutti gli altri Concili Ecumenici della storia, il Vaticano II non è caratterizzato da una sua incidenza dottrinale - e ancor meno dogmatica - ma dalle novità di atteggiamento, di valutazione, di movimento e di azione introdotte nei gangli vitali della chiesa (p. 65). Il paradosso è consistito in questo: si è voluto elevare a dogma un Concilio che aveva apertamente chiarito di non voler affermare nessun principio assoluto. Ciò che è pastorale va giudicato non tanto nei principi quanto nei risultati concreti. Monsignor Gherardini, riecheggiando quanto già nel 1985 il cardinale Ratzinger affermava nel suo “Rapporto sulla fede”, rileva che il disastro ecclesiale, dal Vaticano II a oggi, ha assunto, con progressione crescente, proporzioni gigantesche. “A un osservatore attento e soprattutto a un cattolico coerente non dovrebbe esser difficile prender atto del disastro e riconoscerlo fra le pieghe di quel relativismo, che paragonerei al montare di uno tsunami limaccioso e travolgente” (p. 93). Nella supplica al Santo Padre che conclude il suo libro, monsignor Gherardini suggerisce come necessaria un’attenta e scientifica analisi dei singoli documenti del Concilio, del loro insieme e d’ogni loro argomento, nonché delle loro fonti immediate e remote: un’analisi che dovrebbe essere comparativa con quella degli altri venti concili, allo scopo di provare se il Vaticano II sia nel solco della continuità più o meno evolutiva, o sia invece con essa in parziale o totale rottura. Il Concilio Vaticano II, infatti, non è più grande della chiesa né della sua Tradizione.
(Roberto de Mattei, © Copyright Il Foglio, 15 settembre 2009)
Eluana, Porta Pia, la gnosi e l’Europa
«Più che di per sé (di persone ne muoiono tante, anche in situazioni ben peggiori), il caso Eluana è importante per il suo significato simbolico. Da questo punto di vista è l’analogo del caso creatosi con ha breccia di Porta Pia attraverso cui il 20 settembre 1870 i bersaglieri entrarono nella Roma papalina»: così scrive il professore di bioetica Maurizio Mori in un libro pubblicato di recente con la prefazione di Beppino Englaro. Cosa c’entra Eluana col Risorgimento? C’entra. E molto. Come nel 1861 trionfano quanti pensano che gli italiani, per essere civili, debbano smettere di essere cattolici, così ora, auspica Mori, è stata aperta una breccia che provocherà il cambiamento della «idea di vita e di morte ricevuta dalla tradizione millenaria [...] per affermarne una nuova da costruire». Nel Risorgimento trionfa il pensiero liberal-massonico nemico della Rivelazione e del Magistero, come oggi, così afferma il direttore dell’Avvenire Dino Boffo intervistato il 4 marzo sul Foglio da Nicoletta Tihiacos, vince papà Englaro sostenuto nella sua battaglia da «una cupola di indole massonica, che ha messo in campo una solidarietà formidabile, cementata in modo trasversale, capace di superare qualsiasi appartenenza politica, di categoria, di professione».Cosa accomuna il Risorgimento al caso Englaro? La volontà gnostica di cambiare la realtà (la massoneria è una forma di gnosi). Si definiscono gnostici coloro che ritengono di incarnare l’avanguardia morale ed intellettuale dell’umanità. Gnostico, alla lettera, è colui che conosce, colui che sa. Gli gnostici sono convinti che loro spetti il compito di illuminare gli ignoranti (cioè quasi tutti) sulla direzione di marcia della storia. Certi di essere i migliori, hanno la convinzione che il loro sia un pensiero scientifico, capace di indicare con sicurezza in quale direzione l’umanità debba procedere per marciare spedita verso il progresso. Nemico del limite, che nega per principio, convinto di essene in grado di definire che cosa è bene e che cosa è male, il pensiero gnostico è all’origine delle immani catastrofi che hanno caratterizzato l’epoca moderna. Si va dalla Rivoluzione Francese, che vuole fare nuove tutte le cose ricorrendo al terrore, alla carneficina che Napoleone esporta in tutta Europa. La gnosi non si ferma mai. Non ammette i propri errori. Non ammette che la negazione del limite e della legge naturale portino inevitabilmente con sé la distruzione di tutto ciò che è umano. Dopo il disastro dell’Illuminismo, invece di tornare a Dio si passa ad una nuova forma di idolatria e ci si rifugia nell’intimità del Romanticismo. Tempo qualche decennio e si torna a progettare alla grande lo Stato, definito “etico”: è la volta del Liberalismo. Tanto per fare un esempio, è in nome della scienza che Cavour decreta la morte per legge degli Ordini religiosi. Il progresso incarnato dal liberalismo, spacciato per scientifico, costa agli italiani, ridotti in miseria, un’emigrazione di massa. Nel Novecento arriva l’epoca del totalitarismo, propagandato ancora una volta in nome della scienza. Comunismo e nazismo sono due visioni del mondo che ritengono di essere scientifiche: l’uno crede nel socialismo, definito scientifico, di matrice marxista, l’altro nella scientifica dottrina della razza. Ridotto il mondo in rovine, la gnosi vira ancora una volta passando dall’idolatria dello Stato a quella dei desideri individuali. E cosi, in nome della scienza, si è arrivati a negare l’evidenza: l’umanità non sarebbe più biologicamente divisa in due sessi, ma culturalmente caratterizzata da cinque generi fra cui i bambini devono imparare ad orientarsi per scegliere quello ad essi più congeniale. E così il Parlamento europeo è stato capace di condannare la Santa Sede ben trenta volte: per violazione dei diritti umani. Quei diritti che gli gnostici ritengono di essere gli unici a conoscere e definire. E così il Preambolo della Carla Europea dei Diritti specifica che compito dell’Unione è: «rafforzare la tutela dei diritti fondamentali alla luce dell’evoluzione della società, del progresso sociale e degli sviluppi scientifici e tecnologici». Diritti intesi a partire dagli “sviluppi scientifici e tecnologici”! Diritti relativizzati, cangianti da epoca ad epoca, da ideologia ad ideologia, che garantiscono solo quelli che li vanno codificando, beninteso in nome della tecnoscienza.
I diritti umani, al contrario, ricorda Papa Ratzinger all’ONU nell’aprile del 2008, «sono basati sulla legge naturale iscritta nel cuore dell’uomo […] rimuovere i diritti umani da questo contesto significherebbe restringere il loro ambito e cedere ad una concezione relativistica, secondo la quale il significato e l’interpretazione dei diritti potrebbero variare e la loro universalità verrebbe negata in nome di contesti culturali, politici, sociali e persino religiosi differenti». Tornando ad Eluana e al libro di Mori: questi si ripromette di far trionfare una nuova concezione della vita e della morte. Il bioeticista pensa che sia ora di farla finita con la concezione sacrale della vita umana: «Come Porta Pia è importante non tanto come azione militare quanto come atto simbolico che ha posto fine al potere temporale dei papi e alla concezione sacrale del potere politico, così il caso Eluana apre una breccia che pone fine al potere (medico e religioso) sui corpi delle persone e (soprattutto) alla concezione sacrale della vita umana». Parole forti. Parole che si comprendono forse meglio tenendo presente un altro luogo comune della gnosi: la convinzione che la materia, che i corpi, che la creazione, siano il prodotto di un dio malvagio. L’idea che prima ci si libera del corpo meglio è. Se si tiene presente il desiderio titanico con tanta lucidità espresso da Mori, se di tiene presente che si vuole affermare una nuova concezione dell’umanità (vale la pena di ripeterlo: si tratta di «cambiare l’idea di vita e di morte ricevuta dalla tradizione millenaria»), si possono anche cogliere gli elementi comuni che unificano tanta parte delle convinzioni maturate negli ultimi decenni. E cioè: la liberalizzazione della droga, la pretesa che il vero problema sia la sovrappopolazione, la convinzione espressa con sempre maggiore frequenza che l’unico animale distruttivo sia l’uomo, la santificazione dei preservativi, l’affermazione dell’aborto come diritto, la promozione della sessualità per definizione slegata dalla capacità riproduttiva. Come interpretare diversamente la notizia riportata dal Corriere della Sera del 16 gennaio 2008 di un «invito informale, qualche sera fa, all’università di Hong Kong, per una cena a buffet, a un patto: che gli studenti fossero tutti gay o lesbiche. Ospite della serata una banca d’affari, il colosso americano Lehman Brothers». Come mai una banca d’affari (l’unica fallita!) promuove l’omosessualità? Come mai invece di pensare a far soldi i manager della Lehman pensano a come indirizzare i comportamenti sessuali degli studenti? Bisogna ammettere che la cultura moderna è impregnata di gnosi. Gnostica è anche la bordata finale: la diretta, aperta, sponsorizzazione della morte. La propaganda per la “buona morte”, la “dolce morte”. Anche questa scientificamente, asetticamente, procurata. Chiunque abbia assistito ad un’agonia, di uomini come di animali, sa che la morte non è né dolce né buona. La vita combatte con tutte le sue forze contro la morte. Perché la morte è l’unica realtà che Dio non ha creato: «la morte è entrata nel mondo per invidia di Satana», scrive la Sapienza. Gesù Cristo si è incarnato per vincere la morte. La morte può, sì, essere vissuta insieme a Cristo santamente, ma è sempre il dramma supremo della vita umana. Il mito della dolce morte è il punto di arrivo della ribellione a Dio “amante della vita”. La popolazione italiana, nonostante tutto, resiste alla gnosi. Roma tiene saldamente in mano la fiaccola della libertà nella verità. Il Papa rivendica la forza del logos, della ragione dell’uomo, fatto ad immagine e somiglianza di Dio. L’attacco gnostico a Roma e agli italiani sferrato nell’Ottocento dal pensiero liberale ha prodotto ingiustizie colossali ed il dramma dell’emigrazione. Oggi la breccia di Porta Pia rischia, per noi, di essere l’Europa. In nome dell’uguaglianza e della qualità della vita rischiamo di vederci imporre leggi contro la vita ed il diritto naturale.
(Fonte: Angela Pellicciari, © il Timone, n. 85/2009)
I diritti umani, al contrario, ricorda Papa Ratzinger all’ONU nell’aprile del 2008, «sono basati sulla legge naturale iscritta nel cuore dell’uomo […] rimuovere i diritti umani da questo contesto significherebbe restringere il loro ambito e cedere ad una concezione relativistica, secondo la quale il significato e l’interpretazione dei diritti potrebbero variare e la loro universalità verrebbe negata in nome di contesti culturali, politici, sociali e persino religiosi differenti». Tornando ad Eluana e al libro di Mori: questi si ripromette di far trionfare una nuova concezione della vita e della morte. Il bioeticista pensa che sia ora di farla finita con la concezione sacrale della vita umana: «Come Porta Pia è importante non tanto come azione militare quanto come atto simbolico che ha posto fine al potere temporale dei papi e alla concezione sacrale del potere politico, così il caso Eluana apre una breccia che pone fine al potere (medico e religioso) sui corpi delle persone e (soprattutto) alla concezione sacrale della vita umana». Parole forti. Parole che si comprendono forse meglio tenendo presente un altro luogo comune della gnosi: la convinzione che la materia, che i corpi, che la creazione, siano il prodotto di un dio malvagio. L’idea che prima ci si libera del corpo meglio è. Se si tiene presente il desiderio titanico con tanta lucidità espresso da Mori, se di tiene presente che si vuole affermare una nuova concezione dell’umanità (vale la pena di ripeterlo: si tratta di «cambiare l’idea di vita e di morte ricevuta dalla tradizione millenaria»), si possono anche cogliere gli elementi comuni che unificano tanta parte delle convinzioni maturate negli ultimi decenni. E cioè: la liberalizzazione della droga, la pretesa che il vero problema sia la sovrappopolazione, la convinzione espressa con sempre maggiore frequenza che l’unico animale distruttivo sia l’uomo, la santificazione dei preservativi, l’affermazione dell’aborto come diritto, la promozione della sessualità per definizione slegata dalla capacità riproduttiva. Come interpretare diversamente la notizia riportata dal Corriere della Sera del 16 gennaio 2008 di un «invito informale, qualche sera fa, all’università di Hong Kong, per una cena a buffet, a un patto: che gli studenti fossero tutti gay o lesbiche. Ospite della serata una banca d’affari, il colosso americano Lehman Brothers». Come mai una banca d’affari (l’unica fallita!) promuove l’omosessualità? Come mai invece di pensare a far soldi i manager della Lehman pensano a come indirizzare i comportamenti sessuali degli studenti? Bisogna ammettere che la cultura moderna è impregnata di gnosi. Gnostica è anche la bordata finale: la diretta, aperta, sponsorizzazione della morte. La propaganda per la “buona morte”, la “dolce morte”. Anche questa scientificamente, asetticamente, procurata. Chiunque abbia assistito ad un’agonia, di uomini come di animali, sa che la morte non è né dolce né buona. La vita combatte con tutte le sue forze contro la morte. Perché la morte è l’unica realtà che Dio non ha creato: «la morte è entrata nel mondo per invidia di Satana», scrive la Sapienza. Gesù Cristo si è incarnato per vincere la morte. La morte può, sì, essere vissuta insieme a Cristo santamente, ma è sempre il dramma supremo della vita umana. Il mito della dolce morte è il punto di arrivo della ribellione a Dio “amante della vita”. La popolazione italiana, nonostante tutto, resiste alla gnosi. Roma tiene saldamente in mano la fiaccola della libertà nella verità. Il Papa rivendica la forza del logos, della ragione dell’uomo, fatto ad immagine e somiglianza di Dio. L’attacco gnostico a Roma e agli italiani sferrato nell’Ottocento dal pensiero liberale ha prodotto ingiustizie colossali ed il dramma dell’emigrazione. Oggi la breccia di Porta Pia rischia, per noi, di essere l’Europa. In nome dell’uguaglianza e della qualità della vita rischiamo di vederci imporre leggi contro la vita ed il diritto naturale.
(Fonte: Angela Pellicciari, © il Timone, n. 85/2009)
A proposito de «Il testamento senza volontà» di G. Sartori
Il 16 settembre il Corriere della Sera ha pubblicato un articolo di fondo a firma di Giovanni Sartori in cui venivano riportati giudizi sul testamento biologico, sulla infallibilità del Papa e sulla posizione della Chiesa a riguardo dell’infezione da HIV. La virulenza dell’attacco e la grossolanità dei giudizi ci ha indotti a rispondere con una lettera al Direttore del Corriere, che qui riportatiamo.
"Il fondo di Giovanni Sartori del 16 settembre mira ad ostacolare il già periglioso cammino di approvazione della legge sul testamento biologico. A tal fine invoca i temi cari al radicalismo anticlericale. Alcuni più etico-culturali come la dialettica tra fede (cattolica, solo ovviamente) e ragione, la fallibilità del Papa, e la difesa dei “diritti della libertà” lesi dallo strapotere del Vaticano “che … comanda”. Non disdegna però anche temi più ‘passionali’, come: essere “cattolico adulto“, e cioè capace di ragionare “con la propria testa” e la presunta carente coerenza morale del Presidente del Consiglio dei Ministri. Attestiamoci sui contenuti culturali, lasciando i meno nobili alla valutazione del lettore.
Sartori invoca a sostegno della sua tesi la polemica sulla efficacia dei preservativi nella lotta all’AIDS, su cui il Papa ha espresso riserve durante il Suo recente viaggio in Africa. Lancet, una tra le riviste scientifiche più autorevoli in ambito medico, ha pubblicato qualche mese fa una nota apocrifa che derideva le tesi del Pontefice, senza però portare una voce bibliografica scientificamente valida a sostegno. Si noti che il Pontefice ha indicato che per ostacolare la diffusione di una malattia come l’AIDS non è sufficiente una barriera meccanica come è il preservativo, , ma è che è necessario un intervento educativo. E’ sempre più noto agli scienziati del settore che solo approcci diversificati, come l’ABC method sviluppato in Uganda e quindi adottato da altri Paesi africani per i rilevanti risultati ottenuti, hanno mostrato efficacia nel far regredire l’epidemia di HIV. Il metodo si basa su un intervento di educazione della popolazione teso ad evitare attività sessuale con più partner e riservando l’uso dei preservativi alle categorie a maggior rischio (le prostitute in quel contesto). Sull’ultimo numero del Journal of Medicine and the Person (http://springerlink.com/content/121442/), sono riportate due review che considerano i risultati pubblicati da eminenti riviste scientifiche, e che attestano i positivi risultati ottenuti con questo metodo e per converso l’assenza di analoghi risultati dell’utilizzo incondizionato di condom. È quindi più documentato e scientificamente valido l’approccio del Pontefice di quello sostenuto da Lancet e dai suoi più o meno interessati epigoni.
In relazione ai diritti lesi della libertà, che nel caso specifico del testamento biologico non permetterebbero a chi lo desidera di por fine alla propria vita quando la ritenga non più sopportabile, desidero evitare di addentrami in principi etici (poco interessanti ai non addetti ai lavori) e descrivere un caso clinico (sono medico). Si tratta di un sarcoma, tumore lento ma inesorabile che porta a morte certa, occorso ad una mia cara nipote. Paola ha avuto una educazione laica, sicuramente non religiosa, ed ha sempre ritenuto la fede (come tanti oggigiorno) un problema esistenziale aggiuntivo ed in ultima analisi inutile. Con questa concezione di fondo credo sia morta. Paola ha testimoniato a tutti quelli che l’hanno conosciuta ed amata, il valore laico della vita: fino all’ultimo istante è stata cosciente a se stessa e fino all’ultimo istante ha voluto vivere, nonostante gli insuccessi terapeutici e le progressive limitazioni della sua intensa vita. Cosa l’ha sostenuta? L’amore incondizionato e sempre presente dei suoi genitori. Chi si sente amato vuole vivere! Questo è il grande messaggio di Paola. Il voler vivere è il desiderio dell’uomo sano, non una questione di credo religioso. L’uomo di fede, ben conscio di questa essenziale verità, non vuol altro che sostenerla, anche in un contesto culturale poco propenso. Sorge quindi una domanda a Sartori: se non fosse questo l’intento della Chiesa, quale altro arcano interesse? Ed ancora: potranno le evidenze scientifiche confutare questa evidenza umana? Ecco allora come una sensibilità umana, in chi la coltiva, può permettere di percepire e conoscere prima che le evidenze scientifiche dimostrino di esserne a favore. Se così non fosse, quale ricercatore principierebbe qualsiasi indagine, se non ne preavvertisse i possibili risultati?
Infine, sempre a riguardo dei “diritti della libertà”, segnalo che al Professor Edward C. Green, eminente scienziato e responsabile fino a pochi mesi fa dell’AIDS Project della Harvard School of Public Health, in seguito ai suoi recenti pronunciamenti pubblici a favore delle tesi del Papa sull’AIDS, sono stati tolti improvvisamente, ed incomprensibilmente, i fondi di ricerca dalla sua università. Forse l’università non ha voluto rischiare di mettere a repentaglio i rilevanti finanziamenti delle multinazionali produttrici di preservativi. Chi dunque lede la libertà individuale? Quali i veri occulti interessi? Chi è veramente a favore della libertà?"
(Fonte: M Ferrario e Marco Bregni, Medicina e persona.org, 18 settembre 2009)
"Il fondo di Giovanni Sartori del 16 settembre mira ad ostacolare il già periglioso cammino di approvazione della legge sul testamento biologico. A tal fine invoca i temi cari al radicalismo anticlericale. Alcuni più etico-culturali come la dialettica tra fede (cattolica, solo ovviamente) e ragione, la fallibilità del Papa, e la difesa dei “diritti della libertà” lesi dallo strapotere del Vaticano “che … comanda”. Non disdegna però anche temi più ‘passionali’, come: essere “cattolico adulto“, e cioè capace di ragionare “con la propria testa” e la presunta carente coerenza morale del Presidente del Consiglio dei Ministri. Attestiamoci sui contenuti culturali, lasciando i meno nobili alla valutazione del lettore.
Sartori invoca a sostegno della sua tesi la polemica sulla efficacia dei preservativi nella lotta all’AIDS, su cui il Papa ha espresso riserve durante il Suo recente viaggio in Africa. Lancet, una tra le riviste scientifiche più autorevoli in ambito medico, ha pubblicato qualche mese fa una nota apocrifa che derideva le tesi del Pontefice, senza però portare una voce bibliografica scientificamente valida a sostegno. Si noti che il Pontefice ha indicato che per ostacolare la diffusione di una malattia come l’AIDS non è sufficiente una barriera meccanica come è il preservativo, , ma è che è necessario un intervento educativo. E’ sempre più noto agli scienziati del settore che solo approcci diversificati, come l’ABC method sviluppato in Uganda e quindi adottato da altri Paesi africani per i rilevanti risultati ottenuti, hanno mostrato efficacia nel far regredire l’epidemia di HIV. Il metodo si basa su un intervento di educazione della popolazione teso ad evitare attività sessuale con più partner e riservando l’uso dei preservativi alle categorie a maggior rischio (le prostitute in quel contesto). Sull’ultimo numero del Journal of Medicine and the Person (http://springerlink.com/content/121442/), sono riportate due review che considerano i risultati pubblicati da eminenti riviste scientifiche, e che attestano i positivi risultati ottenuti con questo metodo e per converso l’assenza di analoghi risultati dell’utilizzo incondizionato di condom. È quindi più documentato e scientificamente valido l’approccio del Pontefice di quello sostenuto da Lancet e dai suoi più o meno interessati epigoni.
In relazione ai diritti lesi della libertà, che nel caso specifico del testamento biologico non permetterebbero a chi lo desidera di por fine alla propria vita quando la ritenga non più sopportabile, desidero evitare di addentrami in principi etici (poco interessanti ai non addetti ai lavori) e descrivere un caso clinico (sono medico). Si tratta di un sarcoma, tumore lento ma inesorabile che porta a morte certa, occorso ad una mia cara nipote. Paola ha avuto una educazione laica, sicuramente non religiosa, ed ha sempre ritenuto la fede (come tanti oggigiorno) un problema esistenziale aggiuntivo ed in ultima analisi inutile. Con questa concezione di fondo credo sia morta. Paola ha testimoniato a tutti quelli che l’hanno conosciuta ed amata, il valore laico della vita: fino all’ultimo istante è stata cosciente a se stessa e fino all’ultimo istante ha voluto vivere, nonostante gli insuccessi terapeutici e le progressive limitazioni della sua intensa vita. Cosa l’ha sostenuta? L’amore incondizionato e sempre presente dei suoi genitori. Chi si sente amato vuole vivere! Questo è il grande messaggio di Paola. Il voler vivere è il desiderio dell’uomo sano, non una questione di credo religioso. L’uomo di fede, ben conscio di questa essenziale verità, non vuol altro che sostenerla, anche in un contesto culturale poco propenso. Sorge quindi una domanda a Sartori: se non fosse questo l’intento della Chiesa, quale altro arcano interesse? Ed ancora: potranno le evidenze scientifiche confutare questa evidenza umana? Ecco allora come una sensibilità umana, in chi la coltiva, può permettere di percepire e conoscere prima che le evidenze scientifiche dimostrino di esserne a favore. Se così non fosse, quale ricercatore principierebbe qualsiasi indagine, se non ne preavvertisse i possibili risultati?
Infine, sempre a riguardo dei “diritti della libertà”, segnalo che al Professor Edward C. Green, eminente scienziato e responsabile fino a pochi mesi fa dell’AIDS Project della Harvard School of Public Health, in seguito ai suoi recenti pronunciamenti pubblici a favore delle tesi del Papa sull’AIDS, sono stati tolti improvvisamente, ed incomprensibilmente, i fondi di ricerca dalla sua università. Forse l’università non ha voluto rischiare di mettere a repentaglio i rilevanti finanziamenti delle multinazionali produttrici di preservativi. Chi dunque lede la libertà individuale? Quali i veri occulti interessi? Chi è veramente a favore della libertà?"
(Fonte: M Ferrario e Marco Bregni, Medicina e persona.org, 18 settembre 2009)
Il “dopo-Boffo”: letture possibiliste
A quanto pare, i nuovi scenari che si andavano disegnando sopra la testa di Boffo, incominciano a poco a poco a delinearsi. Ho letto due articoli, assai diversi fra loro, ma entrambi estremamente interessanti al riguardo. Il primo è l’analisi del prof. Pietro De Marco, pubblicata da Sandro Magister sul suo blog Settimo cielo; il secondo è l’editoriale di Antonio Socci per Libero di ieri, ripreso dal suo blog lo Straniero.
Ho letto con piacere il commento del prof. De Marco, perché, in qualche modo, conferma la sensazione che il caso Boffo non fosse altro che una faida intra-ecclesiastica; ma, allo stesso tempo, rimuove qualsiasi sospetto pendente sulla CEI e la Santa Sede, dal momento che riconduce il caso a una lotta di potere interna all’Università Cattolica. Non che sia una cosa simpatica, ma per lo meno non vi sono direttamente coinvolte le gerarchie ecclesiastiche. E questo, almeno per me, è un bel sollievo. Personalmente trovo l’analisi del prof. De Marco piuttosto attendibile.
Socci invece parla dei nuovi scenari politici che si starebbero aprendo in Italia, soffermandosi sulla “parte ecclesiastica” di tali scenari. Secondo Socci, dopo il pensionamento di Ruini e la defenestrazione di Boffo, assistiamo a un nuovo corso della politica ecclesiastica nei confronti dell’Italia, nuovo corso controllato direttamente dalla Segreteria di Stato. Si tratterebbe praticamente di sostenere un progetto politico che si starebbe delineando in Italia: «un nuovo centrodestra post-berlusconiano (che magari torna a inglobare l’Udc): potrebbe andare da Montezemolo alla Scaraffia, con Casini ... E magari Fini al Quirinale». I patron di tale progetto sarebbero Paolo Mieli e Galli della Loggia. Non si tratta di ipotesi campate in aria. Socci documenta tali nuovi orientamenti con tutta una serie di recenti interventi dell’Osservatore Romano, del suo direttore, Gian Maria Vian, e della sua editorialista di punta, Lucetta Scaraffia (moglie, guarda caso, di Galli Della Loggia). Forse Socci dà troppo per scontato che L’Osservatore Romano costituisca, tout court, il portavoce della Segreteria di Stato; ma certo non si può negare che le sue prese di posizione siano espressione autorevole di una linea radicalmente diversa rispetto a quella (ruiniana) di Avvenire e della CEI.
Se devo essere sincero, pur concedendo una certa fondatezza alle affermazioni di Socci, trovo il “progetto” ancora alquanto confuso e non del tutto provato il coinvolgimento della Segreteria di Stato in tale progetto. In ogni caso, se le cose dovessero stare come afferma Socci, non posso nascondere qualche perplessità, non perché io sia un sostenitore della linea ruiniana (che non mi ha mai convinto completamente) o wojtyliana (mi pare di percepire nell’articolo un certo disappunto da parte di Socci, wojtyliano di ferro), ma perché queste ipotetiche nuove prospettive non mi sembrano affatto più rassicuranti dell’attuale situazione.
Capisco che un po’ tutti siano stanchi dell’interminabile telenovela berlusconiana e sentano il bisogno di voltare pagina. Capisco che dopo l’esperienza del centrosinistra e quella del centrodestra, entrambe deludenti, venga naturale guardare al centro o a un nuovo centrodestra (“liberalnazionale”?). I volti che incarnano tale progetto sembrano rassicuranti. Il problema è (e la Chiesa non può non porsi questa domanda): chi c’è dietro tale progetto? Non ci saranno per caso quei “poteri forti”, che hanno deciso di scaricare il Cavaliere? Se così fosse, non ci sarebbe da stare troppo allegri.Inoltre non mi sembra molto prudente, in tali nuovi scenari, tenere fuori completamente la Conferenza episcopale italiana. Capisco che con l’uscita di scena del Card. Ruini, che le aveva imposto una ben precisa linea “politica”, essa rischia oggi di diventare un pollaio, dove avrà la meglio il gallo che canta più forte (i Vescovi tendenti a sinistra: come li chiama De Marco, i “cattomanichei”). Ma proprio per questo, avocando il rapporto con la politica italiana alla Segreteria di Stato e ignorando l’opinione dei Vescovi (i quali, lo si voglia o no, hanno il polso della situazione), si rischia di approfondire ulteriormente il solco già esistente fra Santa Sede ed episcopato italiano. Si rischia la confusione totale.
Socci, in un poscritto al suo articolo, dice di confidare sulla presenza del Papa, che certamente rimane per tutti un punto di riferimento sicuro. Ma lui stesso limita tale rassicurante certezza all’ambito strettamente ecclesiale; e sono d’accordo con lui, perché non credo che Benedetto XVI, sia per motivi di principio e di stile, sia per la sua origine, sia per carattere, abbia alcuna intenzione di intromettersi nelle questioni politiche italiane. E allora? C’è solo da pregare che i nostri pastori siano illuminati dallo Spirito Santo e guidati da prudenza e discernimento. Non vorrei che un giorno, in Italia, si debba rimpiangere il Cavaliere e, nella Chiesa, il Card. Ruini.
(Fonte: Giovanni Scalese, querculanus.blogspot.com, 12 settembre 2009)
Ho letto con piacere il commento del prof. De Marco, perché, in qualche modo, conferma la sensazione che il caso Boffo non fosse altro che una faida intra-ecclesiastica; ma, allo stesso tempo, rimuove qualsiasi sospetto pendente sulla CEI e la Santa Sede, dal momento che riconduce il caso a una lotta di potere interna all’Università Cattolica. Non che sia una cosa simpatica, ma per lo meno non vi sono direttamente coinvolte le gerarchie ecclesiastiche. E questo, almeno per me, è un bel sollievo. Personalmente trovo l’analisi del prof. De Marco piuttosto attendibile.
Socci invece parla dei nuovi scenari politici che si starebbero aprendo in Italia, soffermandosi sulla “parte ecclesiastica” di tali scenari. Secondo Socci, dopo il pensionamento di Ruini e la defenestrazione di Boffo, assistiamo a un nuovo corso della politica ecclesiastica nei confronti dell’Italia, nuovo corso controllato direttamente dalla Segreteria di Stato. Si tratterebbe praticamente di sostenere un progetto politico che si starebbe delineando in Italia: «un nuovo centrodestra post-berlusconiano (che magari torna a inglobare l’Udc): potrebbe andare da Montezemolo alla Scaraffia, con Casini ... E magari Fini al Quirinale». I patron di tale progetto sarebbero Paolo Mieli e Galli della Loggia. Non si tratta di ipotesi campate in aria. Socci documenta tali nuovi orientamenti con tutta una serie di recenti interventi dell’Osservatore Romano, del suo direttore, Gian Maria Vian, e della sua editorialista di punta, Lucetta Scaraffia (moglie, guarda caso, di Galli Della Loggia). Forse Socci dà troppo per scontato che L’Osservatore Romano costituisca, tout court, il portavoce della Segreteria di Stato; ma certo non si può negare che le sue prese di posizione siano espressione autorevole di una linea radicalmente diversa rispetto a quella (ruiniana) di Avvenire e della CEI.
Se devo essere sincero, pur concedendo una certa fondatezza alle affermazioni di Socci, trovo il “progetto” ancora alquanto confuso e non del tutto provato il coinvolgimento della Segreteria di Stato in tale progetto. In ogni caso, se le cose dovessero stare come afferma Socci, non posso nascondere qualche perplessità, non perché io sia un sostenitore della linea ruiniana (che non mi ha mai convinto completamente) o wojtyliana (mi pare di percepire nell’articolo un certo disappunto da parte di Socci, wojtyliano di ferro), ma perché queste ipotetiche nuove prospettive non mi sembrano affatto più rassicuranti dell’attuale situazione.
Capisco che un po’ tutti siano stanchi dell’interminabile telenovela berlusconiana e sentano il bisogno di voltare pagina. Capisco che dopo l’esperienza del centrosinistra e quella del centrodestra, entrambe deludenti, venga naturale guardare al centro o a un nuovo centrodestra (“liberalnazionale”?). I volti che incarnano tale progetto sembrano rassicuranti. Il problema è (e la Chiesa non può non porsi questa domanda): chi c’è dietro tale progetto? Non ci saranno per caso quei “poteri forti”, che hanno deciso di scaricare il Cavaliere? Se così fosse, non ci sarebbe da stare troppo allegri.Inoltre non mi sembra molto prudente, in tali nuovi scenari, tenere fuori completamente la Conferenza episcopale italiana. Capisco che con l’uscita di scena del Card. Ruini, che le aveva imposto una ben precisa linea “politica”, essa rischia oggi di diventare un pollaio, dove avrà la meglio il gallo che canta più forte (i Vescovi tendenti a sinistra: come li chiama De Marco, i “cattomanichei”). Ma proprio per questo, avocando il rapporto con la politica italiana alla Segreteria di Stato e ignorando l’opinione dei Vescovi (i quali, lo si voglia o no, hanno il polso della situazione), si rischia di approfondire ulteriormente il solco già esistente fra Santa Sede ed episcopato italiano. Si rischia la confusione totale.
Socci, in un poscritto al suo articolo, dice di confidare sulla presenza del Papa, che certamente rimane per tutti un punto di riferimento sicuro. Ma lui stesso limita tale rassicurante certezza all’ambito strettamente ecclesiale; e sono d’accordo con lui, perché non credo che Benedetto XVI, sia per motivi di principio e di stile, sia per la sua origine, sia per carattere, abbia alcuna intenzione di intromettersi nelle questioni politiche italiane. E allora? C’è solo da pregare che i nostri pastori siano illuminati dallo Spirito Santo e guidati da prudenza e discernimento. Non vorrei che un giorno, in Italia, si debba rimpiangere il Cavaliere e, nella Chiesa, il Card. Ruini.
(Fonte: Giovanni Scalese, querculanus.blogspot.com, 12 settembre 2009)
venerdì 18 settembre 2009
Il massacro fa esplodere i problemi veri
Quanti anni luce dista l’Italia da Kabul? Qui parliamo d’inferno per un nubifragio o una coda in autostrada, di guerra e linciaggio per le beghe politiche o televisive, di killer per un articolo e di gente che salta per aria alludendo a un direttore dimissionario. Poi un giorno abbiamo davanti agli occhi l’inferno vero di Kabul, la guerra dei talebani contro noi occidentali, un kamikaze killer che fa saltare in aria non per modo di dire una decina di nostri soldati. E allora capiamo come quest’Italia viva in una bambagia di ipocrisie, usando metafore improprie e dimenticando la realtà. Crede di essere entrata nell’era della globalizzazione e invece vive un suo universo provinciale, a circuito chiuso, dove tutto finisce a Porta a Porta o in tribunale. Abbiamo perso il respiro della storia e abbiamo abbandonato alla solitudine i parà che sono a Kabul, ma anche i nostri che rischiano la pelle in Somalia o dove diavolo li porta la cruda realtà. Non capiamo più cos’è la storia, cos’è la guerra, cosa sono i soldati e i guerriglieri, non siamo in grado di capire la virulenza dei fanatici e l’uso delle bombe. Per avere una vaga idea di quel che succede, dobbiamo equiparare l’attentato di Kabul o di Nassirya agli incidenti stradali, ai terremoti, alle tragedie come quella di Viareggio. Non siamo più in grado di capire cos’è una guerra e cos’è l’odio. Al più c’è la camorra, c’è la guerra della criminalità; ma le guerre vere non riusciamo più a vederle. Troppo buonismo ci ha abituato a vedere nell’altro, nello straniero che siamo chiamati a difendere, solo il nostro fratello e non il nostro fratricida. Ma il nemico esiste, purtroppo; e ci dichiara guerra ogni giorno.
Da qui la solitudine sconfortante dei nostri soldati. Non sono lasciati soli dal governo o dagli apparati militari; sono dimenticati dalla gente. Esistono solo quando saltano in aria, quando si fanno martiri e diventano estreme star della tv, magari quando non sono più nemmeno volti ma bare avvolte in un tricolore.
Nessuno pretende che l’Italia viva nel clima della guerra o faccia il tifo per le missioni dei nostri soldati nei luoghi caldi del pianeta. Ma è triste rischiare la vita per il proprio Paese, per l’Occidente o per la nostra civiltà, senza che gli interessati se ne accorgano. Un tempo i ragazzi sognavano di diventare eroi cadendo in guerra; per questi guerrieri in tempo di pace non vale nemmeno la consolazione della morte trionfale, il ricordo, la partecipazione. No, il massimo che possono aspirare è l’equiparazione alle vittime della violenza, del terremoto, dei week end. Senza onore né gloria, per dirla con il titolo di un famoso libro.
Quel che più impressiona è che sono coetanei del ragazzo che ti ha sorpassato con la moto da destra, con la ragazza che ha il piercing sulle ciglia e sulla bocca, del giovane che hai visto l’altra notte fumare cannoni di pace o ingoiare pasticche in un pub. Abissi dividono coetanei, gente che vive sotto lo stesso cielo, nello stesso tempo, tra gli stessi contemporanei. Che vedono la stessa tv, navigano su internet gli uni come gli altri, magari hanno i genitori separati... Sì, forse in molti casi c’è la stessa incoscienza o inavvertenza del pericolo, la stessa voglia di vivere di più, di rischiare e di provare la propria immortalità desunta dal vigore degli anni. C’è chi prova l’ebbrezza con una sostanza, con una moto, con l’alcol e chi con la divisa, le armi e la missione patriottica. C’è chi rischia in Afghanistan e chi in borgata o in curva.
Però noi siamo disarmati davanti alla guerra, quella vera, davanti ai kamikaze o presunti tali. Non riusciamo a capire come possa essere possibile e così non siamo attrezzati a reagire, preferiamo rimuovere o derubricare l’attentato al rango di incidente, follìa o calamità. C’è gente che uccide per entrare nella storia; e c’è gente, come noi, che dalla storia è uscito e non capisce chi vuole entrare. Loro fanno più morti e più nascite, noi non uccidiamo e non procreiamo. Loro sperano e per sperare uccidono e si uccidono, noi invece disperiamo ma vogliamo vivere a ogni costo e prolungare la vita con ogni mezzo. Loro hanno dimestichezza con la morte, noi siamo impauriti analfabeti del morire. Loro aspettano paradisi e per i paradisi procurano gli inferni; noi abbiamo smesso di pensarci, e ci fabbrichiamo inferni e paradisi di giornata, uso singolo. E tra noi e loro ci sono di mezzo i nostri soldati, che vivono sull’orlo tra i due mondi, provengono dal nostro mondo e affrontano il loro, e vivono la dolorosa cerniera tra due illusioni, la guerra di liberazione e la liberazione dalla guerra; o se preferite, la vita analgesica di noi occidentali e la vita mortifera dei feroci talebani. Poi accade l’attentato e le reazioni per farla finita sono due: le colombe chiedono il ritiro, i falchi chiedono di sterminare il nemico. Due modi per rimuovere il pericolo e abolire la guerra; e invece dobbiamo abituarci a combattere, ad alternare la prudenza all’audacia, a non disarmare, a convivere con il rischio e con la morte. Perché l’uomo è guerra e pace, vita e morte, riso e pianto. E non è possibile estirpare la notte per vivere un giorno infinito.
(Fonte: Marcello Veneziani, Il Giornale, 18 settembre 2009)
Da qui la solitudine sconfortante dei nostri soldati. Non sono lasciati soli dal governo o dagli apparati militari; sono dimenticati dalla gente. Esistono solo quando saltano in aria, quando si fanno martiri e diventano estreme star della tv, magari quando non sono più nemmeno volti ma bare avvolte in un tricolore.
Nessuno pretende che l’Italia viva nel clima della guerra o faccia il tifo per le missioni dei nostri soldati nei luoghi caldi del pianeta. Ma è triste rischiare la vita per il proprio Paese, per l’Occidente o per la nostra civiltà, senza che gli interessati se ne accorgano. Un tempo i ragazzi sognavano di diventare eroi cadendo in guerra; per questi guerrieri in tempo di pace non vale nemmeno la consolazione della morte trionfale, il ricordo, la partecipazione. No, il massimo che possono aspirare è l’equiparazione alle vittime della violenza, del terremoto, dei week end. Senza onore né gloria, per dirla con il titolo di un famoso libro.
Quel che più impressiona è che sono coetanei del ragazzo che ti ha sorpassato con la moto da destra, con la ragazza che ha il piercing sulle ciglia e sulla bocca, del giovane che hai visto l’altra notte fumare cannoni di pace o ingoiare pasticche in un pub. Abissi dividono coetanei, gente che vive sotto lo stesso cielo, nello stesso tempo, tra gli stessi contemporanei. Che vedono la stessa tv, navigano su internet gli uni come gli altri, magari hanno i genitori separati... Sì, forse in molti casi c’è la stessa incoscienza o inavvertenza del pericolo, la stessa voglia di vivere di più, di rischiare e di provare la propria immortalità desunta dal vigore degli anni. C’è chi prova l’ebbrezza con una sostanza, con una moto, con l’alcol e chi con la divisa, le armi e la missione patriottica. C’è chi rischia in Afghanistan e chi in borgata o in curva.
Però noi siamo disarmati davanti alla guerra, quella vera, davanti ai kamikaze o presunti tali. Non riusciamo a capire come possa essere possibile e così non siamo attrezzati a reagire, preferiamo rimuovere o derubricare l’attentato al rango di incidente, follìa o calamità. C’è gente che uccide per entrare nella storia; e c’è gente, come noi, che dalla storia è uscito e non capisce chi vuole entrare. Loro fanno più morti e più nascite, noi non uccidiamo e non procreiamo. Loro sperano e per sperare uccidono e si uccidono, noi invece disperiamo ma vogliamo vivere a ogni costo e prolungare la vita con ogni mezzo. Loro hanno dimestichezza con la morte, noi siamo impauriti analfabeti del morire. Loro aspettano paradisi e per i paradisi procurano gli inferni; noi abbiamo smesso di pensarci, e ci fabbrichiamo inferni e paradisi di giornata, uso singolo. E tra noi e loro ci sono di mezzo i nostri soldati, che vivono sull’orlo tra i due mondi, provengono dal nostro mondo e affrontano il loro, e vivono la dolorosa cerniera tra due illusioni, la guerra di liberazione e la liberazione dalla guerra; o se preferite, la vita analgesica di noi occidentali e la vita mortifera dei feroci talebani. Poi accade l’attentato e le reazioni per farla finita sono due: le colombe chiedono il ritiro, i falchi chiedono di sterminare il nemico. Due modi per rimuovere il pericolo e abolire la guerra; e invece dobbiamo abituarci a combattere, ad alternare la prudenza all’audacia, a non disarmare, a convivere con il rischio e con la morte. Perché l’uomo è guerra e pace, vita e morte, riso e pianto. E non è possibile estirpare la notte per vivere un giorno infinito.
(Fonte: Marcello Veneziani, Il Giornale, 18 settembre 2009)
martedì 8 settembre 2009
Università italiane: Cervelli in fuga? È molto peggio per quelli inutili che restano
C’è un gran parlare pro e contro la “riforma” universitaria voluta dalla Gelmini. Ma mai come ora le sue scelte mi sembrano positivamente mirate a mettere un po’ d’ordine.
Non si perde occasione per denigrare il “taglio ai fondi destinati alla ricerca” e la conseguente fuga dei cervelli dagli atenei italiani.
Il vero problema però non sta tanto nella drastica riduzione di soldi pubblici, di quella parte peraltro destinata a foraggiare un sistema di sperperi e di baronie, quanto propriamente nella sanatoria, ancora purtroppo irrealizzabile, di un sistema incancrenito, tipicamente italiano. Lo espone egregiamente il prof. Zecchi, di cui riporto una lucida analisi:
«Fuga di cervelli? Lodevole è il tentativo di riportarli nella madre patria. Ma se saranno le università a decidere chi deve rientrare in Italia, è meglio che i cervelli fuggiti restino dove sono per il bene della ricerca scientifica. Il vero problema non è oggi il ricercatore in fuga, ma il ricercatore che resta. Le analisi e le statistiche sulla qualità dei ricercatori universitari italiani appaiono desolanti, ma la responsabilità del disastro è di chi era ed è chiamato a decidere chi può diventare ricercatore, cioè i professori dell’università. Loro sono le colpe che dividono con il massimo livello di gestione dell’università: senato accademico e rettori in testa. Cosa accade in un concorso per ricercatori? Vi spiego quello che chiunque insegna come professore ordinario dell’università sa perfettamente, e sa perfettamente di essere complice di una truffa.Dunque, supponiamo che arrivino all’ateneo i tanto agognati finanziamenti per reclutare venti ricercatori da inquadrare tra il personale di ruolo dell’università. Il senato accademico stabilisce, secondo propri criteri, che, di questi venti posti, cinque vengano assegnati alla Facoltà di Lettere e filosofia, la quale, a sua volta, decide che uno vada al Dipartimento di filosofia. Fin qua, niente di male: si potrà discutere perché cinque e non tre e non sette di quei posti siano assegnati alla Facoltà di Lettere e Filosofia e perché proprio uno al Dipartimento di filosofia, ma con un po’ di buona volontà si possono anche trovare le ragioni della suddivisone. Il bello incomincia adesso. Una persona normale penserà che a questo punto si indice il concorso, e vincerà il migliore. Neanche per sogno: incominciano invece le riunioni nel Dipartimento di Filosofia per stabilire in quale specifico raggruppamento concorsuale dovrà andare quel posto. Sarà per quello di Storia della filosofia, di Morale, di Filosofia della scienza, di Estetica? I docenti titolari di queste e delle altre discipline incominciano a discutere, a litigare: «L’altra volta il posto lo hai avuto tu, ora tocca a me. Ma tu non hai candidati. I miei sono bravissimi, non dire sciocchezze...» e avanti così, e peggio di così, finché, per esempio, il professore di morale la spunta, essendo riuscito a costruirsi attraverso una serie di compromessi una maggioranza all’interno del Dipartimento: maggioranza che ovviamente si spartirà i prossimi posti di ricercatore. Ma il peggio arriva adesso. Il concorso è nazionale, ma tutte le precedenti discussioni fanno immediatamente capire che c’è un candidato nel cuore del docente di Morale. È bravo? È un suo amico? È qualcuno sentimentalmente vicino? Mah! Decide il prof. di Morale: fatti suoi, perché i prossimi sono fatti miei, cioè deciderò io chi far diventare ricercatore, per esempio, di Filosofia della scienza. Insomma, deve vincere, alla faccia del confronto con tutti gli altri candidati nazionali che si presenteranno. Come si procede, allora, per blindare il pupillo del professore di Morale? Il pupillo ha solo tre pubblicazioni? Eh, sì, è un po’ deboluccio, ma non c’è problema. Il bando di concorso, che verrà firmato dal rettore, prevede che i concorrenti debbano presentare un numero massimo di tre pubblicazioni. Il pupillo, però, è ancora a rischio: essendo modesto, un altro concorrente lo potrebbe superare con tre suoi ottimi saggi. Cosa si inventa, adesso, quest’università autoreferenziale e truffaldina? Indica sul bando di concorso che, per lo sviluppo della ricerca scientifica del Dipartimento di filosofia c’è la necessità di reclutare uno studioso di filosofia morale specificamente esperto del periodo che va dal 1630 al 1650 in Olanda: esattamente gli argomenti delle tre pubblicazioni dell’amato pupillo. La truffa è consumata.
Qualunque studioso eccellente di filosofia morale viene emarginato. E se non bastassero quelle clausole concorsuali, sottoscritte, lo ripeto, dal rettore, in sede di valutazione degli aspiranti ricercatori si potranno taroccare le carte, perché il padrino del pupillo entra di diritto nella commissione giudicatrice. Ma questa, spesso, diventa materia per i tribunali.Ora vorrei sapere perché si debba dare del denaro pubblico per finanziare questo scandalo. Il problema dell’università non sono i tagli alla ricerca, sono i professori, le modalità in cui essi vengono reclutati e i modi in cui essi stessi perpetreranno il reclutamento fasullo. Sono loro che dovrebbero fare un passo indietro, e il ministro Gelmini dovrebbe avere il coraggio di varare nuove norme per concorsi accademici seri. Poi si potranno richiamare i cervelli fuggiti, perché altrimenti cosa tornano a fare in quest’università?
(Fonte: Stefano Zecchi, il Giornale, 8 settembre 2009)
Non si perde occasione per denigrare il “taglio ai fondi destinati alla ricerca” e la conseguente fuga dei cervelli dagli atenei italiani.
Il vero problema però non sta tanto nella drastica riduzione di soldi pubblici, di quella parte peraltro destinata a foraggiare un sistema di sperperi e di baronie, quanto propriamente nella sanatoria, ancora purtroppo irrealizzabile, di un sistema incancrenito, tipicamente italiano. Lo espone egregiamente il prof. Zecchi, di cui riporto una lucida analisi:
«Fuga di cervelli? Lodevole è il tentativo di riportarli nella madre patria. Ma se saranno le università a decidere chi deve rientrare in Italia, è meglio che i cervelli fuggiti restino dove sono per il bene della ricerca scientifica. Il vero problema non è oggi il ricercatore in fuga, ma il ricercatore che resta. Le analisi e le statistiche sulla qualità dei ricercatori universitari italiani appaiono desolanti, ma la responsabilità del disastro è di chi era ed è chiamato a decidere chi può diventare ricercatore, cioè i professori dell’università. Loro sono le colpe che dividono con il massimo livello di gestione dell’università: senato accademico e rettori in testa. Cosa accade in un concorso per ricercatori? Vi spiego quello che chiunque insegna come professore ordinario dell’università sa perfettamente, e sa perfettamente di essere complice di una truffa.Dunque, supponiamo che arrivino all’ateneo i tanto agognati finanziamenti per reclutare venti ricercatori da inquadrare tra il personale di ruolo dell’università. Il senato accademico stabilisce, secondo propri criteri, che, di questi venti posti, cinque vengano assegnati alla Facoltà di Lettere e filosofia, la quale, a sua volta, decide che uno vada al Dipartimento di filosofia. Fin qua, niente di male: si potrà discutere perché cinque e non tre e non sette di quei posti siano assegnati alla Facoltà di Lettere e Filosofia e perché proprio uno al Dipartimento di filosofia, ma con un po’ di buona volontà si possono anche trovare le ragioni della suddivisone. Il bello incomincia adesso. Una persona normale penserà che a questo punto si indice il concorso, e vincerà il migliore. Neanche per sogno: incominciano invece le riunioni nel Dipartimento di Filosofia per stabilire in quale specifico raggruppamento concorsuale dovrà andare quel posto. Sarà per quello di Storia della filosofia, di Morale, di Filosofia della scienza, di Estetica? I docenti titolari di queste e delle altre discipline incominciano a discutere, a litigare: «L’altra volta il posto lo hai avuto tu, ora tocca a me. Ma tu non hai candidati. I miei sono bravissimi, non dire sciocchezze...» e avanti così, e peggio di così, finché, per esempio, il professore di morale la spunta, essendo riuscito a costruirsi attraverso una serie di compromessi una maggioranza all’interno del Dipartimento: maggioranza che ovviamente si spartirà i prossimi posti di ricercatore. Ma il peggio arriva adesso. Il concorso è nazionale, ma tutte le precedenti discussioni fanno immediatamente capire che c’è un candidato nel cuore del docente di Morale. È bravo? È un suo amico? È qualcuno sentimentalmente vicino? Mah! Decide il prof. di Morale: fatti suoi, perché i prossimi sono fatti miei, cioè deciderò io chi far diventare ricercatore, per esempio, di Filosofia della scienza. Insomma, deve vincere, alla faccia del confronto con tutti gli altri candidati nazionali che si presenteranno. Come si procede, allora, per blindare il pupillo del professore di Morale? Il pupillo ha solo tre pubblicazioni? Eh, sì, è un po’ deboluccio, ma non c’è problema. Il bando di concorso, che verrà firmato dal rettore, prevede che i concorrenti debbano presentare un numero massimo di tre pubblicazioni. Il pupillo, però, è ancora a rischio: essendo modesto, un altro concorrente lo potrebbe superare con tre suoi ottimi saggi. Cosa si inventa, adesso, quest’università autoreferenziale e truffaldina? Indica sul bando di concorso che, per lo sviluppo della ricerca scientifica del Dipartimento di filosofia c’è la necessità di reclutare uno studioso di filosofia morale specificamente esperto del periodo che va dal 1630 al 1650 in Olanda: esattamente gli argomenti delle tre pubblicazioni dell’amato pupillo. La truffa è consumata.
Qualunque studioso eccellente di filosofia morale viene emarginato. E se non bastassero quelle clausole concorsuali, sottoscritte, lo ripeto, dal rettore, in sede di valutazione degli aspiranti ricercatori si potranno taroccare le carte, perché il padrino del pupillo entra di diritto nella commissione giudicatrice. Ma questa, spesso, diventa materia per i tribunali.Ora vorrei sapere perché si debba dare del denaro pubblico per finanziare questo scandalo. Il problema dell’università non sono i tagli alla ricerca, sono i professori, le modalità in cui essi vengono reclutati e i modi in cui essi stessi perpetreranno il reclutamento fasullo. Sono loro che dovrebbero fare un passo indietro, e il ministro Gelmini dovrebbe avere il coraggio di varare nuove norme per concorsi accademici seri. Poi si potranno richiamare i cervelli fuggiti, perché altrimenti cosa tornano a fare in quest’università?
(Fonte: Stefano Zecchi, il Giornale, 8 settembre 2009)
giovedì 3 settembre 2009
Caso Boffo-Feltri: disagio e sconcerto
Sono stato molto indeciso se esprimere o meno il mio pensiero circa il terremoto mediatico che sta ammorbando la ripresa delle normali attività dopo la pausa estiva.
Ma come al solito, quando noto qualcosa che a mio modo di vedere “non va”, la penna rifiuta qualunque coercizione, anche se talvolta il silenzio sarebbe la scelta più diplomatica.
Premetto che non voglio entrare in merito al fatto specifico, causa scatenante di questo gioco al massacro. Che Boffo abbia o non abbia fatto quanto gli viene addebitato, sono problemi suoi e della sua coscienza, e non spetta certo a me disquisire in merito.
Ma un sassolino dalla scarpa permettete che me lo tolga.
Da varie fonti è emerso che i vertici della Conferenza Episcopale Italiana erano a conoscenza già da molto tempo del fatto o comunque delle scelte di vita del Direttore di Avvenire.
Per carità: come ho detto, nel privato ognuno deve rispondere del proprio operato di fronte a Dio e alla propria coscienza, e nessuno di noi, altrettanto peccatori, può ergersi a giudice morale del proprio fratello: «Chi è senza peccato...» con quel che segue.
Ma… c’è un ma!
La Chiesa sta vivendo oggi un periodo particolarmente difficile: in un mondo in cui ognuno si sente libero di fare qualunque scelta di vita, in nome di una “libertà” a dir poco improponibile, di esternare giudizi a vanvera e fomentare veleni a tutto campo contro la Chiesa e il suo clero in nome di una “laicità” asservita alla politica e per questo invocata il più delle volte a giustificazione dei propri squallidi tornaconti; in un periodo in cui tutte le scelte della Chiesa e del Papa, le sue esternazioni, i suoi insegnamenti, i suoi interventi pastorali, la stessa Gerarchia ecclesiastica e i suoi diretti collaboratori sono passati al vaglio di una critica impietosa, prevenuta e aprioristicamente velenosa, bene: proprio in questo periodo la scelta delle persone chiamate a ricoprire ruoli fondamentali per conto e nome della stessa, dovrebbe essere fatta con una ancor più accurata e severa selezione.
Del resto di tale necessità le autorità ecclesiastiche se se sono già rese conto stabilendo, per esempio, per gli aspiranti al sacerdozio, un lungo tirocinio in cui le loro personalità, i loro risvolti caratteriali, soprattutto in campo sessuale, vengono scrupolosamente analizzati da una équipe di esperti, arrivando talvolta a tagli umanamente dolorosi, ma sicuramente necessari per una corretta gestione del gregge.
E allora mi chiedo: perché tale procedura non è stato seguita (o è stata seguita quantomeno superficialmente) anche in questo caso? Che differenza passa, al di là dell’Ordine sacro ovviamente, tra un presbitero che annuncia il messaggio di Cristo e un portavoce ufficiale della Chiesa, ancorché laico, chiamato a difendere e a far capire all’opinione pubblica le scelte dottrinali e gestionali di quest’ultima, contribuendo in tal modo a tutelare la sua credibilità e conseguentemente fortificare la fede nella moltitudine dei credenti?
Ecco il perché dello sconcerto e del disagio che personalmente ne ricavo da tutta questa faccenda; come cattolico, mi chiedo il perché del singolare comportamento di quei gerarchi ecclesiali dai quali dipende il media system cattolico.
Perché proprio di questo canale mediatico Boffo è la punta di diamante, come giustamente fa notare Vittorio Messori: responsabile di “Avvenire”; responsabile di “Sat2000”, la tv sulla quale la Cei ha riversato e riversa milioni; responsabile di “InBlu”, il network radiofonico con ben 200 emittenti. Un uomo-istituzione, dunque, ai vertici sensibili della istituzione ecclesiale.
Ho avuto modo di interessarmi da vicino dei risvolti gestionali e organizzativi della Chiesa, e in ogni situazione mi ha sempre positivamente colpito un elemento ricorrente: cardinali e vescovi hanno sempre affiancato, a tutte le altre virtù, quella della prudenza, vegliando oculatamente sul proprio staff, per stornare già a monte ogni tipo di pericolo; e questo mi riconduce ancora una volta alla domanda: come mai in questo caso si è arrivati a tanto?
La tradizionale prudenza, dopo la sentenza del 2004 nei confronti del Dr. Boffo, avrebbe sicuramente suggerito di chiedere al «condannato» di defilarsi, assumendo magari altre cariche, meno esposte a ricatti e a scandali. E questo anche se si fosse trattato di un equivoco, di una vendetta, di un errore giudiziario.
La sentenza di Terni è contestabile? Tutto è davvero una «patacca»? Se sarà dimostrato, come credo e spero, tirerò un sospiro di sollievo. Ma, intanto, un uomo immagine della Chiesa italiana ha campeggiato e campeggerà a lungo sulle prime pagine, sospettato di avere gusti «diversi», l’ombra dei quali grava oggi, più che mai, sugli ambienti clericali.
Il caso prima o poi sarebbe venuto alla luce, e in modo malevolo: perché, allora, attendere cinque anni senza cautelarsi, diminuendo la sua visibilità, anche in caso di coscienza limpida?
Pertanto, secondo me, se un giornale ha «sbattuto il mostro in prima pagina», gran parte della responsabilità si deve ascrivere a quei cardinali e vescovi che in tempi remoti avevano il compito della scelta, e che poi, una volta percepito il campanello d’allarme, non hanno preso immediati provvedimenti, destinandolo ad altri incarichi, lontani dalle aggressioni politiche. Non convincono nessuno le postume conferme di piena fiducia, recentemente espresse dai vertici e tanto strombazzate a destra e a manca: un caritatevole e dovuto tentativo di salvare il salvabile.
Capisco che le mie sono domande e considerazioni difficili. Ma sono domande e considerazioni di un credente, uno dei tanti, convinto che l’immagine della Chiesa non aveva certo bisogno oggi di un altro caso che permettesse a molti di scuotere il capo borbottando, magari ingiustamente: «Tanto, lo sappiamo: i preti e i loro amici fanno i moralisti con noi ma loro, di nascosto, fanno anche peggio...». Comunque vada a finire, l’ombra e il sospetto resteranno.
E questo è lo scotto che noi cattolici dobbiamo pagare a causa di qualcuno che, inspiegabilmente, ha dimenticato la virtù della prudenza.
Ma come al solito, quando noto qualcosa che a mio modo di vedere “non va”, la penna rifiuta qualunque coercizione, anche se talvolta il silenzio sarebbe la scelta più diplomatica.
Premetto che non voglio entrare in merito al fatto specifico, causa scatenante di questo gioco al massacro. Che Boffo abbia o non abbia fatto quanto gli viene addebitato, sono problemi suoi e della sua coscienza, e non spetta certo a me disquisire in merito.
Ma un sassolino dalla scarpa permettete che me lo tolga.
Da varie fonti è emerso che i vertici della Conferenza Episcopale Italiana erano a conoscenza già da molto tempo del fatto o comunque delle scelte di vita del Direttore di Avvenire.
Per carità: come ho detto, nel privato ognuno deve rispondere del proprio operato di fronte a Dio e alla propria coscienza, e nessuno di noi, altrettanto peccatori, può ergersi a giudice morale del proprio fratello: «Chi è senza peccato...» con quel che segue.
Ma… c’è un ma!
La Chiesa sta vivendo oggi un periodo particolarmente difficile: in un mondo in cui ognuno si sente libero di fare qualunque scelta di vita, in nome di una “libertà” a dir poco improponibile, di esternare giudizi a vanvera e fomentare veleni a tutto campo contro la Chiesa e il suo clero in nome di una “laicità” asservita alla politica e per questo invocata il più delle volte a giustificazione dei propri squallidi tornaconti; in un periodo in cui tutte le scelte della Chiesa e del Papa, le sue esternazioni, i suoi insegnamenti, i suoi interventi pastorali, la stessa Gerarchia ecclesiastica e i suoi diretti collaboratori sono passati al vaglio di una critica impietosa, prevenuta e aprioristicamente velenosa, bene: proprio in questo periodo la scelta delle persone chiamate a ricoprire ruoli fondamentali per conto e nome della stessa, dovrebbe essere fatta con una ancor più accurata e severa selezione.
Del resto di tale necessità le autorità ecclesiastiche se se sono già rese conto stabilendo, per esempio, per gli aspiranti al sacerdozio, un lungo tirocinio in cui le loro personalità, i loro risvolti caratteriali, soprattutto in campo sessuale, vengono scrupolosamente analizzati da una équipe di esperti, arrivando talvolta a tagli umanamente dolorosi, ma sicuramente necessari per una corretta gestione del gregge.
E allora mi chiedo: perché tale procedura non è stato seguita (o è stata seguita quantomeno superficialmente) anche in questo caso? Che differenza passa, al di là dell’Ordine sacro ovviamente, tra un presbitero che annuncia il messaggio di Cristo e un portavoce ufficiale della Chiesa, ancorché laico, chiamato a difendere e a far capire all’opinione pubblica le scelte dottrinali e gestionali di quest’ultima, contribuendo in tal modo a tutelare la sua credibilità e conseguentemente fortificare la fede nella moltitudine dei credenti?
Ecco il perché dello sconcerto e del disagio che personalmente ne ricavo da tutta questa faccenda; come cattolico, mi chiedo il perché del singolare comportamento di quei gerarchi ecclesiali dai quali dipende il media system cattolico.
Perché proprio di questo canale mediatico Boffo è la punta di diamante, come giustamente fa notare Vittorio Messori: responsabile di “Avvenire”; responsabile di “Sat2000”, la tv sulla quale la Cei ha riversato e riversa milioni; responsabile di “InBlu”, il network radiofonico con ben 200 emittenti. Un uomo-istituzione, dunque, ai vertici sensibili della istituzione ecclesiale.
Ho avuto modo di interessarmi da vicino dei risvolti gestionali e organizzativi della Chiesa, e in ogni situazione mi ha sempre positivamente colpito un elemento ricorrente: cardinali e vescovi hanno sempre affiancato, a tutte le altre virtù, quella della prudenza, vegliando oculatamente sul proprio staff, per stornare già a monte ogni tipo di pericolo; e questo mi riconduce ancora una volta alla domanda: come mai in questo caso si è arrivati a tanto?
La tradizionale prudenza, dopo la sentenza del 2004 nei confronti del Dr. Boffo, avrebbe sicuramente suggerito di chiedere al «condannato» di defilarsi, assumendo magari altre cariche, meno esposte a ricatti e a scandali. E questo anche se si fosse trattato di un equivoco, di una vendetta, di un errore giudiziario.
La sentenza di Terni è contestabile? Tutto è davvero una «patacca»? Se sarà dimostrato, come credo e spero, tirerò un sospiro di sollievo. Ma, intanto, un uomo immagine della Chiesa italiana ha campeggiato e campeggerà a lungo sulle prime pagine, sospettato di avere gusti «diversi», l’ombra dei quali grava oggi, più che mai, sugli ambienti clericali.
Il caso prima o poi sarebbe venuto alla luce, e in modo malevolo: perché, allora, attendere cinque anni senza cautelarsi, diminuendo la sua visibilità, anche in caso di coscienza limpida?
Pertanto, secondo me, se un giornale ha «sbattuto il mostro in prima pagina», gran parte della responsabilità si deve ascrivere a quei cardinali e vescovi che in tempi remoti avevano il compito della scelta, e che poi, una volta percepito il campanello d’allarme, non hanno preso immediati provvedimenti, destinandolo ad altri incarichi, lontani dalle aggressioni politiche. Non convincono nessuno le postume conferme di piena fiducia, recentemente espresse dai vertici e tanto strombazzate a destra e a manca: un caritatevole e dovuto tentativo di salvare il salvabile.
Capisco che le mie sono domande e considerazioni difficili. Ma sono domande e considerazioni di un credente, uno dei tanti, convinto che l’immagine della Chiesa non aveva certo bisogno oggi di un altro caso che permettesse a molti di scuotere il capo borbottando, magari ingiustamente: «Tanto, lo sappiamo: i preti e i loro amici fanno i moralisti con noi ma loro, di nascosto, fanno anche peggio...». Comunque vada a finire, l’ombra e il sospetto resteranno.
E questo è lo scotto che noi cattolici dobbiamo pagare a causa di qualcuno che, inspiegabilmente, ha dimenticato la virtù della prudenza.
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