sabato 26 luglio 2014

Bianchi come Scalfari: usa il Papa per i suoi fini

Nel celebrare oggi la Santa Messa (ieri per chi legge, ndr), mi ha turbato alquanto la prima lettura, tratta dal profeta Geremia: «Mi fu rivolta questa parola del Signore: "Va' e grida agli orecchi di Gerusalemme: Così dice il Signore: Mi ricordo di te, dell'affetto della tua giovinezza, dell'amore al tempo del tuo fidanzamento, quando mi seguivi nel deserto,in una terra non seminata. Israele era cosa sacra al Signore la primizia del suo raccolto; quanti ne mangiavano dovevano pagarla, la sventura si abbatteva su di loro. Oracolo del Signore. Io vi ho condotti in una terra da giardino, perché ne mangiaste i frutti e i prodotti. Ma voi, appena entrati, avete contaminato la mia terra e avete reso il mio possesso un abominio. Neppure i sacerdoti si domandarono: Dov'è il Signore? I detentori della Legge non mi hanno conosciuto, i pastori mi si sono ribellati, i profeti hanno predetto nel nome di Baal e hanno seguito esseri inutili. Stupitene, o cieli; inorridite come non mai! Oracolo del Signore. Perché il mio popolo ha commesso due iniquità: essi hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva, per scavarsi cisterne, cisterne screpolate, che non tengono l'acqua» (Libro di Geremia, 2,1-3.7-8.12-13).
Ecco che cosa ci comunica oggi la Parola di Dio, inserita nella liturgia della Chiesa. L’argomento di questo “oracolo del Signore” è, appunto, ciò che avviene anche oggi all’interno della Chiesa, che è la “Gerusalemme celeste”, prefigurata da quella Gerusalemme che ha preparato la venuta di Cristo. In questa Gerusalemme che per noi cristiani è la Chiesa, in mezzo al popolo che Dio ha liberato dalla schiavitù d’Egitto e portato a possedere la Terra promessa, ci sono sacerdoti infedeli (e per questo io sono trasalito leggendo queste parole tremende e pensando al rischio che corro io stesso); ci sono detentori della Legge che ignorano colpevolmente l’autore stesso della Legge, che è Dio; ci sono dei pastori che hanno un potere legittimo ma ne abusano, fomentando la ribellione del popolo a Colui che è il “pastore supremo”; e ci sono falsi profeti, i quali distolgono la Chiesa dal culto di Yahvè, vero e unico Dio, per compiacere gli idoli dei pagani, e in definitiva il demonio (Baal). Dio però non intende abbandonare il suo popolo all’abominio dell’idolatria e del tradimento dell’Alleanza. Per questo provvede a inviare un vero profeta che si opponga ai falsi profeti. Dio stesso, che è autore principale della Scrittura, assicura che Geremia è un vero profeta, uno che Egli ha veramente “consacrato e inviato” e che ha il carisma per parlare veracemente in nome di Dio.
Come non applicare questa pagina biblica, così drammatica, alla situazione attuale della Chiesa? Come non tentare, alla luce della rivelazione divina, una “lettura” dei “segni dei tempi”? La Parola di Dio è sempre attuale e sempre pertinente alla nostra vocazione personale e alla situazione sociale, ecclesiale, nella quale Dio vuole che viviamo e operiamo per la nostra e per l’altrui salvezza. Questo è il motivo per cui mi vedo costretto (a malincuore davvero!) a mettere in guardia di nuovo i miei fratelli nella fede (che non consiste in opinioni soggettive e arbitrarie, ma è sempre e soltanto “la fede della Chiesa”) da taluni cattivi maestri e falsi profeti che operano all’interno della Chiesa per snaturarla e privarla della sua funzione essenziale, che è la trasmissione integra e fedele della dottrina degli Apostoli e il conferimento della grazia sacramentale.
L’attualità mediatica mi costringe e riprendere il discorso sul più noto di questi cattivi maestri e falsi profeti, Enzo Bianchi. Vatican Insider dava ampio risalto il 23 luglio alle sue dichiarazioni (clicca qui) in seguito alla nomina come “consultore” di un organismo pastorale della Santa Sede. Bianchi si lascia andare al più ridicolo trionfalismo, dicendo che papa Bergoglio, dopo averlo ricevuto tre volte, ha deciso di dargli una specie di approvazione ufficiale delle sue opinioni sul papato e sull’ecumenismo.
Se si fosse limitato a vantarsi di avere un rapporto privilegiato con il Papa (quello attuale, perché con i predecessori è sempre stato assai polemico), avrebbe solo manifestato troppa vanità, che è una delle tante miserie umane dalle quali siamo tutti afflitti, in maggiore o minor grado. Ma Bianchi non si limita a vantarsi del suo presunto trionfo personale: si spinge oltre, fino a farsi interprete ufficiale del Papa e ad annunciare un programma rivoluzionario, che – guarda caso – è proprio il suo programma di “riforma” della Chiesa, quello che va sostenendo con i libri e le conferenze da decenni.
Il programma però non può essere attribuito al Papa, per due ragioni: innanzitutto, perché si tratta di iniziative rivoluzionarie che sarebbero in contrasto con l’intera Tradizione cattolica e persino con la dottrina ecclesiologica del Vaticano II; e poi perché nessuno che abbia rispetto e amore filiale per il Santo Padre si può permettere di “rivelare” alla stampa improbabili progetti pastorali tuttora mai enunciati ufficialmente, in documenti di magistero ordinario, dal Papa stesso.
In effetti, il ben noto (direi famigerato) programma rivoluzionario di Bianchi è una sistematica richiesta di misure “pastorali” che, con il pretesto dell’ecumenismo, mirano a concedere ai protestanti e agli ortodossi tutta la ragione nella loro secolare polemica contro la Chiesa cattolica.
Lutero voleva abolire il magistero ecclesiastico e basare la fede cristiana nella sola Scrittura interpretata con il “libero esame”? Ecco allora che Bianchi si fa capofila dei cattivi teologi che operano per una de-dogmatizzazione della Chiesa cattolica, ossia per la sostituzione della dottrina della fede (sancita dal Magistero) con una esegesi biblica frammentaria e arbitraria. Dopo di che, la pastorale, sganciata dal dogma, resta condizionata da motivi contingenti di convenienza socio-politica (il cosiddetto “annuncio del Vangelo all’uomo di oggi” è in realtà volontario asservimento a quella parte dell’opinione pubblica che sostiene il progetto riformatore, e non certo per amore della Chiesa).
I protestanti vogliono abolire tutti i sacramenti, ad eccezione del Battesimo? Ecco che Bianchi giustifica e incoraggia la prassi sempre più diffusa di eliminare la pratica della Confessione e la trasformazione della Santa Messa (basata sul dogma della Transustanziazione quindi sulla “presenza reale” di Cristo che si immola per la redenzione del mondo) in una “cena del Signore”, in una mera riunione di cristiani che celebrano la “memoria” di un evento che si perde nelle nebbie del mito.
I protestanti vogliono abolire il culto dei santi e della Madonna? Ecco che Bianchi ignora la dignità altissima di Colei che il Concilio di Efeso (che Bianchi dovrebbe conoscere, visto che parla tanto dell’annuncio cristiano nei primi secoli) definisce dogmaticamente come la “Madre di Dio”, e che anche il Vaticano II, nel capitolo ottavo della Lumen gentium, si limita a parlarne, ove necessario, come “la nostra sorella”.
Quanto ai santi, nel calendario liturgico della comunità di Bose si registrano indistintamente – come si legge nella presentazione - «le festività e le memorie dei santi delle chiese cattolica, ortodossa, anglicana, le festività e i sabati ebraici, il calendario liturgico del monastero di Bose. È una possibilità in più per accostarsi alle tradizioni delle chiese cristiane e alla fede del popolo di Israele. Per estendere questa memoria anche agli uomini di altre fedi religiose, abbiamo voluto aggiungere una tavola con le date delle principali ricorrenze islamiche e buddhiste». E così il culto cattolico dei santi (con la dottrina dogmatica circa la loro unione con Dio nella gloria del Cielo e la loro intercessione per noi che siamo ancora viatores) lascia il posto a mere commemorazioni di uomini illustri e anche a eretici e persecutori della Chiesa.
Insomma, la “riforma” che Bianchi ha sempre auspicato e che ora (secondo lui) papa Francesco sarebbe intenzionato ad attuare in tempi brevi, sarebbe, nei punti più qualificanti, la riforma stessa di Lutero!
Non molto diversa la strategia riformatrice adottata da Bianchi nei confronti degli ortodossi, sempre in nome di quello che egli definisce «dovere ecumenico». Gli ortodossi hanno in comune con i cattolici tutti i dogmi (eccetto quello sull’infallibilità del Papa, sancito nel 1870 dal Vaticano I) e tutti sacramenti, e pertanto sono divisi dai cattolici solo per il secolare rifiuto di accettare il primato di Pietro, ossia la funzione del papa come Pastore della Chiesa universale.
Il primato del Papa è non solo di “onore” ma anche di “giurisdizione”, a garanzia dell’unità della Chiesa e dello sviluppo omogeneo del dogma. Gli ortodossi riconoscerebbero anche un certo primato d’onore del vescovo di Roma ma non la sua effettiva giurisdizione universale e immediata su tutta la Chiesa. Bianchi allora che cosa fa? Propone (e attribuisce a papa Francesco) una radicale «riforma del papato», in nome di una “sinodalità” che darebbe potere deliberativo a tutti i vescovi del mondo, tramite i loro rappresentanti, su tutte le materie che ora sono di competenza del solo vescovo di Roma.
E lancia uno slogan privo di reale contenuto: «Non c’è primato senza sinodalità, e non c’è
sinodalità senza primato!». Dico che è uno slogan privo di contenuto reale, perché la “sinodalità” che Bianchi auspica (e che assicura sia intenzione di questo Papa attuare presto come elemento centrale di una «riforma del papato») sarebbe una novità solo se andasse oltre la prassi attuale di consultazione dei vescovi (prassi che si rifà alle disposizioni di Paolo VI subito dopo il Concilio). Ma in tal caso la Chiesa cattolica adotterebbe la medesima “sinodalità” delle “chiese autocefale” dell’Ortodossia, le quali accettano solo disposizioni pastorali e disciplinari decise in comune tra loro nei sinodi di ciascun patriarcato. Del primato di Pietro, inteso come giurisdizione universale e immediata del Papa su tutta la Chiesa, non resterebbe nulla.
Anche qui, come nel caso dei protestanti, il progetto ecumenico di Bianchi (che si ispira alle teorie materialmente eretiche di Hans Küng) consiste in definitiva nel dare ragione ai “fratelli separati” e torto alla Tradizione dogmatica della Chiesa cattolica.
In entrambi i casi, attribuire a un Papa l’intenzione di abrogare il papato e, così facendo, contraddire i dogmi della fede cattolica (non uno, ma tutti insieme) è qualcosa che difficilmente si concilia con il “senso della fede”, e prima ancora con il buon senso. Bianchi è talmente proiettato verso la “Chiesa del futuro” che non teme di profetizzare, da falso profeta qual è, l’autodemolizione della Chiesa cattolica ad opera di chi – per volontà di Cristo stesso - ha la missione e la grazia di garantire in ogni tempo e contro ogni attentato la sua indefettibilità.

(Fonte: Antonio Livi, La nuova bussola quotidiana, 25 luglio 2014)
http://www.lanuovabq.it/it/articoli-bianchi-come-scalfari-usa-il-papa-per-i-suoi-fini-9847.htm#.U9IMeOQ1IDQ.facebook

giovedì 24 luglio 2014

Una nuova “tendenza”: il Rosario usato come collana

È troppo chiedere che l’ostentazione della corona del Rosario sia segnale di sentimento anche piccolo ma onesto, di devozione anche fievole ma sincera, di domanda genuina per un conforto o una protezione celeste e non soltanto “fashion”?
La cosiddetta “moda” ci ha indottrinati a tutto. Certo allo stile, all’eleganza, alla raffinatezza. Però, sempre più spesso e particolarmente in estate, anche alla sguaiataggine, alla volgarità, all’indecenza, alla sconcezza, perfino alla blasfemia giustificata in nome e per conto di quella vuota trovata pubblicitaria chiamata “provocazione”. Così osservare le tendenze modaiole, di ieri e di oggi, diventa strumento utile per capire chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo. Accade con sempre maggiore frequenza, dunque, di vedere frotte di ragazzette e ragazzotti con la corona del Rosario appesa al collo. La si nota pendere sulle magliette, sulle camicette, sulle canottine aderenti e scollate. Perfino in spiaggia, sul bagnasciuga o sotto l’ombrellone, ecco il gruppetto di adolescenti in boxer da mare scuri con la corona penzolante sul petto nudo.
Magari uno pensa, inizialmente e ingenuamente, a un gruppo di seminaristi. Però si ricrede dopo averli sentiti parlare, dopo aver colto nel loro eloquio un florilegio di parolacce, perfino qualche bestemmia, gli immancabili commenti spinti nei confronti delle giovani bagnanti. Già, perché questa storia della corona del Rosario portata al collo dall’utenza giovanile è, per l’appunto, una “tendenza” attuale. Che non riguarda, oltretutto, oggetti di gioielleria o di bigiotteria ricreati con somiglianza alla coroncina; prodotti, quindi, appositamente ideati (per quanto con fattezze simili) per un commercio profano e mondano.
No. Si usano proprio corone vere, magari pure benedette: di legno con il Tau, di metallo con la croce, di plastica fluorescente e così via. Per carità, niente in contrario rispetto al fatto che la gente porti sempre con sé la corona del Rosario, ci mancherebbe altro. La si metta in tasca, al collo, in mano, infilata nelle maniche. La si indossi, la si mostri. Sono numerose, del resto, le apparizioni nelle quali la Madonna ha pronunciato promesse rilevanti verso quelle persone che hanno sempre con sé il pio strumento che aiuta nella recita dei Pater, delle Ave, dei Gloria.
La perplessità non coinvolge dunque il gesto ma l’atteggiamento, il comportamento, lo spirito. È troppo chiedere che all’ostentazione della corona del Rosario corrisponda almeno un porsi adeguato e urbano? Che non si accompagni a modi rozzi, incivili, sgarbati? Che sia segnale di sentimento anche piccolo ma onesto, di devozione anche fievole ma sincera, di domanda genuina per un conforto o una protezione celeste e non soltanto “fashion”? Sarebbe, in fondo, una battaglia vinta contro la banalità, la superficialità, l’ovvietà e la superstizione di tanto vivere attuale.

(Fonte: Leon Bertoletti, Riscossa Cristiana, 22 luglio 2014)
http://www.riscossacristiana.it/una-nuova-tendenza-il-rosario-usato-collana-di-leon-bertoletti/

 

sabato 19 luglio 2014

Francesco parla, Scalfari trascrive, Brandmüller boccia

“Forse lei non sa che il celibato fu stabilito nel X secolo, cioè 900 anni dopo la morte di nostro Signore. La Chiesa cattolica orientale ha facoltà fin d’ora che i suoi presbiteri si sposino. Il problema certamente esiste ma non è di grande entità. Ci vuole tempo ma le soluzioni ci sono e le troverò”.
È questa la risposta sul tema del celibato del clero che papa Francesco dà a Eugenio Scalfari nell’intervista concessa al fondatore del quotidiano “la Repubblica” e nume dell’intellettualità laica italiana, pubblicata domenica 13 luglio.
Lo stesso giorno, una nota di padre Federico Lombardi, direttore della sala stampa della Santa Sede, ha precisato:
“Se si può ritenere che nell’insieme l’articolo riporti il senso e lo spirito del colloquio fra il Santo Padre e Scalfari, occorre ribadire con forza quanto già si era detto in occasione di una precedente ‘intervista’ apparsa su ‘Repubblica’, cioè che le singole espressioni riferite, nella formulazione riportata, non possono essere attribuite con sicurezza al papa”.
In particolare, padre Lombardi ha messo in dubbio che il papa abbia annunciato, a proposito del celibato del clero: “Le soluzioni le troverò”.
Ma nulla ha eccepito sull’altra molto più spericolata asserzione messa sulla bocca del papa, secondo cui “il celibato fu stabilito nel X secolo, cioè 900 anni dopo la morte di nostro Signore”
Uno storico della Chiesa autorevole come il cardinale tedesco Walter Brandmüller, per più di vent’anni presidente del Pontificio Comitato di Scienze Storiche, si è infatti sentito in dovere di mostrare l’infondatezza della tesi.
Lo ha fatto con un intervento sul quotidiano “Il Foglio” del 16 luglio, riprodotto qui di seguito integralmente.
Anche la precedente intervista di Scalfari a Francesco, apparsa su “la Repubblica” del 1 ottobre 2013, aveva sollevato dubbi sulla sua attendibilità. Tant’è vero che il successivo 15 novembre fu tolta dal sito ufficiale del Vaticano, dove era stata collocata tra i discorsi del papa e dove in seguito è inspiegabilmente ricomparsa, tradotta in cinque lingue, per poi di nuovo sparire pochi giorni fa.
Lo stesso Scalfari ammise di aver accompagnato l’invio preliminare al papa della sua stesura di quel primo colloquio – che non sollevò obiezioni e fu pubblicata tale quale – con un biglietto nel quale scriveva tra l’altro:
“Tenga conto che alcune cose che Lei mi ha detto non le ho riferite. E che alcune cose che Le faccio riferire, non le ha dette. Ma le ho messe perché il lettore capisca chi è Lei”.
Mesi dopo, un secondo colloquio tra Scalfari e Francesco non ebbe nessuna “traduzione” giornalistica, su prudenziale richiesta vaticana.
Ma dopo il ferzo colloquio, avvenuto il 10 luglio scorso, anche questa volta senza registratore, il papa avrebbe dato di nuovo il via libera a Scalfari perché ne scrivesse, con il risultato che s’è visto.

NOI SACERDOTI, CELIBI COME CRISTO di Walter Brandmüller
Illustrissimo dott. Scalfari,
anche se non godo del privilegio di conoscerla di persona, vorrei tornare alle Sue affermazioni riguardo il celibato contenute nel resoconto del Suo colloquio con Papa Francesco, pubblicate il 13 luglio 2014 e immediatamente smentite nella loro autenticità da parte del direttore della sala stampa vaticana. In quanto “vecchio professore” che per trent’anni ha insegnato storia della chiesa all’università, desidero portare a Sua conoscenza lo stato attuale della ricerca in questo campo.
In particolare, deve essere sottolineato innanzitutto che il celibato non risale per niente a una legge inventata 900 anni dopo la morte di Cristo. Sono piuttosto i Vangeli secondo Matteo, Marco e Luca che riportano le parole di Gesù al riguardo.
Matteo scrive (19, 29): “Chiunque abbia lasciato in mio nome case o fratelli, sorelle, padre, madre, figli o campi, otterrà cento volte di più e la vita eterna”.
Molto simile è anche quanto scrive Marco (10,29): “In verità, vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia che non riceva cento volte tanto”.
Ancora più preciso è Luca (18, 29ss): “In verità, io vi dico: chiunque abbia abbandonato per il Regno di Dio casa o moglie, fratelli, genitori o figli, riceverà già ora, in cambio molto di più, e nel mondo futuro la vita eterna”.
Gesù non rivolge queste parole alle grandi masse, bensì a coloro che manda in giro affinché diffondano il suo Vangelo e annuncino l’avvento del Regno di Dio.
Per adempiere a questa missione è necessario liberarsi da qualsiasi legame terreno e umano. E visto che questa separazione significa la perdita di ciò che è scontato, Gesù promette una “ricompensa” più che appropriata.
A questo punto viene spesso rilevato che il “lasciare tutto” si riferiva solo alla durata del viaggio di annuncio del suo Vangelo, e che una volta terminato il compito, i discepoli sarebbero tornati alle loro famiglie. Ma di questo non c’è traccia. Il testo dei Vangeli, accennando alla vita eterna, parla peraltro di qualcosa di definitivo.
Ora, visto che i Vangeli sono stati scritti tra il 40 e il 70 d.C., i suoi redattori si sarebbero messi in cattiva luce se avessero attribuito a Gesù parole alle quali poi non corrispondeva la loro condotta di vita. Gesù, infatti, pretende che quanti sono resi partecipi della sua missione adottino anche il suo stile di vita.
Ma cosa vuol dire allora Paolo, quando nella prima lettera ai Corinti (9, 5) scrive: “Non sono libero? Non sono un apostolo? Non abbiamo il diritto di mangiare e bere? Non abbiamo il diritto di portare con noi una donna credente, esattamente come gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa? Dovremmo essere solo io e Barnaba a dover rinunciare al diritto di non lavorare?”. Queste domande e affermazioni non danno per scontato che gli apostoli fossero accompagnati dalle rispettive mogli?
Qui bisogna procedere con cautela. Le domande retoriche dell’apostolo si riferiscono al diritto che ha colui che annuncia il Vangelo di vivere a spese della comunità, e questo vale anche per chi lo accompagna.
E qui si pone ovviamente la domanda su chi sia questo accompagnatore. L’espressione greca “adelphén gynaìka” necessita di una spiegazione. “Adelphe” significa sorella. E qui per sorella nella fede si intende una cristiana, mentre “gyne” indica – più genericamente – una donna, vergine o sposa che sia. Insomma un essere femminile. Ciò rende però impossibile dimostrare che gli apostoli fossero accompagnati dalle mogli. Perché, se invece così fosse, non si capirebbe perché si parli distintamente di una “adelphe” come sorella, dunque cristiana. Per quel che riguarda la moglie, bisogna sapere che l’apostolo l’ha lasciata nel momento in cui è entrato a far parte della cerchia dei discepoli.
Il capitolo 8 del Vangelo di Luca aiuta a fare più chiarezza. Lì si legge: “Gesù venne accompagnato dai dodici e da alcune donne che aveva guarito da spiriti maligni e malattie: Maria Maddalena, dalla quale erano usciti sette demoni, Giovanna, la moglie di Cuza, un funzionario di Erode, Susanna, e molte altre. Tutte loro servivano Gesù e i discepoli con quel che possedevano”. Da questa descrizione pare logico dedurre che gli apostoli avrebbero seguito l’esempio di Gesù.
Inoltre va richiamata l’attenzione sull’appello empatico al celibato o all’astinenza coniugale fatto dall’apostolo Paolo (1 Corinti 7, 29ss): “Perché io vi dico, fratelli: il tempo è breve. Per questo, chi ha una moglie deve in futuro comportarsi come se non ne avesse una”. E ancora: “Il celibe si preoccupa delle questioni del Signore; vuole piacere al Signore. L’ammogliato si preoccupa delle cose del mondo; vuole piacere a sua moglie. Così finisce per essere diviso in due”. È chiaro che Paolo con queste parole si rivolge in primo luogo a vescovi e sacerdoti. E lui stesso si sarebbe attenuto a tale ideale.
Per provare che Paolo o lo chiesa dei tempi apostolici non avessero conosciuto il celibato vengono tirate in ballo, a volte, le lettere a Timoteo e Tito, le cosiddette lettere pastorali. E in effetti, nella prima lettera di Timoteo (3, 2) si parla di un vescovo sposato. E ripetutamente si traduce il testo originale greco nel seguente modo: “Il vescovo sia il marito di una femmina”, il che viene inteso come precetto. Ma basterebbe una conoscenze rudimentale del greco per tradurre correttamente: “Per questo il vescovo sia irreprensibile, sia sposato una volta sola (e deve essere marito di una femmina!), essere sobrio e assennato”. E anche nella lettera a Tito si legge: “Un anziano (cioè un sacerdote, vescovo) deve essere integerrimo e sposato una volta sola”.
Sono indicazioni che tendono a escludere la possibilità che venga ordinato sacerdote-vescovo chi, dopo la morte della moglie, si è risposato (bigamia successiva). Perché, a parte il fatto che a quei tempi non si vedeva di buon occhio un vedovo che si risposava, per la Chiesa si aggiungeva poi la considerazione che un uomo così non poteva dare alcuna garanzia di rispettare l’astinenza, alla quale un vescovo o sacerdote doveva votarsi.
LA PRATICA DELLA CHIESA POSTAPOSTOLICA
La forma originaria del celibato prevedeva dunque che il sacerdote o il vescovo continuassero la vita familiare, ma non quella coniugale. Anche per questo si preferiva ordinare uomini in età più avanzata.
Il fatto che tutto ciò sia riconducibile ad antiche e consacrate tradizioni apostoliche, lo testimoniano le opere di scrittori ecclesiastici come Clemente di Alessandria e il nordafricano Tertulliano, vissuti nel II-III secolo dopo Cristo. Inoltre, sono testimoni dell’alta considerazione di cui godeva l’astinenza tra i cristiani una serie di edificanti romanzi sugli apostoli: si tratta dei cosiddetti Atti degli apostoli apocrifi, composti nel II secolo e molto diffusi.
Nel successivo III secolo si moltiplicano e diventano sempre più espliciti – soprattutto in oriente – i documenti letterari sull’astinenza dei chierici. Ecco per esempio un passaggio tratto dalla cosiddetta Didascalia siriaca: “Il vescovo, prima di essere ordinato, deve essere messo alla prova, per stabilire se è casto e se ha educato i suoi figli nel timore di Dio”. Anche il grande teologo Origene di Alessandria (III secolo) conosce un celibato di astinenza vincolante; un celibato che spiega e approfondisce teologicamente in diverse opere. E ci sarebbero ovviamente altri documenti da portare a sostegno, cosa che ovviamente qui non è possibile.
LA PRIMA LEGGE SUL CELIBATO
Fu il Concilio di Elvira del 305-306 a dare a questa pratica di origine apostolica una forma di legge. Con il canone 33, il Concilio vieta ai vescovi, sacerdoti, diaconi e a tutti gli altri chierici rapporti coniugali con la moglie e vieta loro altresì di avere figli. Ai tempi si pensava dunque che astinenza coniugale e vita familiare fossero conciliabili. Così, anche il santo papa Leone I, detto Leone Magno, attorno al 450 scriveva che i consacrati non dovevano ripudiare le loro mogli. Dovevano restare insieme alle stesse, ma come se “non le avessero”, scrive Paolo nella prima lettera ai Corinzi (7,29).
Con il passar del tempo, si tenderà vieppiù ad accordare i sacramenti solo a uomini celibi. La codificazione arriverà nel medioevo, epoca in cui si dava per scontato che il sacerdote e il vescovo fossero celibi. Altra cosa è il fatto che la disciplina canonica non venisse sempre vissuta alla lettera, ma questo non deve stupire. E, com’è nella natura delle cose, anche l’osservanza del celibato ha conosciuto nel corso dei secoli alti e bassi.
Famosa è per esempio la disputa molto accesa che si ebbe nel secolo XI, ai tempi della cosiddetta riforma gregoriana. In quel frangente si assistette a una spaccatura così netta – soprattutto nella chiesa tedesca e francese – da portare i prelati tedeschi contrari al celibato a cacciare con la forza dalla sua diocesi il vescovo Altmann di Passau. In Francia, gli emissari del papa incaricati di insistere sulla disciplina del celibato venivano minacciati di morte, e il santo abate Walter di Pontoise venne picchiato, durante un sinodo tenutosi a Parigi, dai vescovi contrari al celibato e sbattuto in prigione. Ciò nonostante, la riforma riuscì a imporsi, e si assistette a una rinnovata primavera religiosa.
È interessante notare che la contestazione del precetto del celibato si è sempre avuta in concomitanza con segnali di decadenza nella chiesa, mentre in tempi di rinnovata fede e di fioritura culturale si notava una rafforzata osservanza del celibato.
E non è certo difficile trarre da queste osservazioni storiche paralleli con l’attuale crisi.
I PROBLEMI DELLA CHIESA D’ORIENTE
Restano aperte ancora due domande che vengono poste frequentemente. C’è quella che riguarda la pratica del celibato da parte della Chiesa cattolica del regno bizantino e del rito orientale, che non ammette il matrimonio per vescovi e monaci, ma lo accorda ai sacerdoti, a patto che si siano sposati prima di prendere i sacramenti. E prendendo proprio ad esempio questa pratica, c’è chi si chiede se non potrebbe essere adottata anche dall’occidente latino.
A questo proposito va innanzitutto sottolineato che proprio a oriente la pratica del celibato astinente è stata ritenuta vincolante. Ed è solo durante il Concilio del 691, il cosiddetto “Quinisextum” o “Trullanum”, quando risultava evidente la decadenza religiosa e culturale del regno bizantino, che si giunge alla rottura con l’eredità apostolica. Questo Concilio, influenzato in massima parte dall’imperatore, che con una nuova legislazione voleva rimettere ordine nelle relazioni, non fu però mai riconosciuto dai papi. È proprio ad allora che risale la pratica adottata dalla Chiesa d’oriente. Quando poi, a partire dal secoli XVI e XVII, e successivamente, diverse Chiese ortodosse tornarono alla Chiesa d’occidente, a Roma si pose il problema su come comportarsi con il clero sposato di quelle Chiese. I vari papi che si susseguirono decisero, per il bene e l’unità della Chiesa, di non pretendere dai sacerdoti tornati alla Chiesa madre alcuna modifica del loro modo di vivere.
L’ECCEZIONE NEL NOSTRO TEMPO
Su una simile motivazione si fonda anche la dispensa papale dal celibato concessa – a partire da Pio XII – ai pastori protestanti che si convertono alla Chiesa cattolica e che desiderano essere ordinati sacerdoti. Questa regola è stata recentemente applicata anche da Benedetto XVI ai numerosi prelati anglicani che desideravano unirsi, in conformità alla costituzione apostolica “Anglicanorum coetibus”, alla Chiesa madre cattolica. Con questa straordinaria concessione, la Chiesa riconosce a questi uomini di fede il loro lungo e a volte doloroso cammino religioso, giunto con la conversione alla meta. Una meta che in nome della verità porta i diretti interessati a rinunciare anche al sostentamento economico fino a quel momento percepito. È l’unità della chiesa, bene di immenso valore, che giustifica queste eccezioni.
EREDITÀ VINCOLANTE?

Ma a parte queste eccezioni, si pone l’altra domanda fondamentale, e cioè: la Chiesa può essere autorizzata a rinunciare a una evidente eredità apostolica??
È un’opzione che viene continuamente presa in considerazione. Alcuni pensano che questa decisione non possa essere presa solo da una parte della Chiesa, ma da un Concilio generale. In questo modo, si pensa che pur non coinvolgendo tutti gli ambiti ecclesiastici, almeno per alcuni si potrebbe allentare l’obbligo del celibato, se non addirittura abolirlo. E ciò che oggi appare ancora inopportuno potrebbe essere realtà domani. Ma se così si volesse fare, si dovrebbe riproporre in primo piano l’elemento vincolante delle tradizioni apostoliche. E ancora ci si potrebbe chiedere se, con una decisione presa in sede di Concilio, sarebbe possibile abolire la festa della domenica che, a voler essere pignoli, ha meno fondamenti biblici del celibato.?
Infine, per concludere, mi si permetta di avanzare una considerazione proiettata nel futuro: se continua a essere valida la constatazione che ogni riforma ecclesiastica che merita questa definizione deve scaturire da una profonda conoscenza della fede ecclesiastica, allora anche l’attuale disputa sul celibato verrà superata da una approfondita conoscenza di ciò che significa essere sacerdote. E se si comprenderà e insegnerà che il sacerdozio non è una funzione di servizio, esercitata in nome della comunità, ma che il sacerdote – in forza dei sacramenti ricevuti – insegna, guida e santifica “in persona Christi”, tanto più si comprenderà che proprio per questo egli assume anche la forma di vita di Cristo. E un sacerdozio così compreso e vissuto tornerà di nuovo a esercitare una forza di attrazione sull’élite dei giovani.
Per il resto, bisogna prendere atto che il celibato, così come la verginità in nome del Regno dei Cieli, resteranno, per chi ha una concezione secolarizzata della vita, sempre qualcosa di irritante. Ma già Gesù a tal proposito diceva: “Chi può capire, capisca”. (Traduzione dall’originale tedesco di Andrea Affaticati)


(Fonte: Sandro Magister, www.chiesa, 19 luglio 2014)
http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1350847

 

giovedì 17 luglio 2014

Santa Maria Maddalena, la testimone di Cristo

Quando il Figlio di Dio entrò nella storia, Maria Maddalena fu fra coloro che maggiormente lo amarono, dimostrandolo. Quando giunse il tempo del Calvario, Maria Maddalena era insieme a Maria Santissima e a san Giovanni, sotto la Croce (Gv. 19,25). Non fuggì per paura come fecero i discepoli, non lo rinnegò per paura come fece il primo Papa, ma rimase presente ogni ora, dal momento della sua conversione, fino al Santo Sepolcro.
La Chiesa celebra la sua festa il 22 luglio.
Non parole d’amore, ma atti d’amore ci consegnano i Vangeli sulla figura della Maddalena, colei che aveva lavato (con le lacrime del pentimento), asciugato, baciato i piedi di Cristo. A quella vista il fariseo, scandalizzato, che aveva invitato Gesù a casa sua, pensò fra sé: «Se costui fosse un profeta, saprebbe chi e che specie di donna è colei che lo tocca: è una peccatrice». Gesù lesse quell’indebito giudizio e gli disse: «Vedi questa donna? Sono entrato nella tua casa e tu non m’hai dato l’acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato un bacio, lei invece da quando sono entrato non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu non mi hai cosparso il capo di olio profumato, ma lei mi ha cosparso di profumo i piedi. Per questo ti dico: le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato. Invece quello a cui si perdona poco, ama poco» (Lc. 7, 39-47).
Non a caso per il Messale romano, nel giorno dedicato a Maria Maddalena, è stata scelta una lettura del Cantico dei Cantici: «Mi alzerò e perlustrerò la città, i vicoli, le piazze, ricercherò colui che amo con tutta l’anima. L’ho cercato, ma non l’ho trovato. Mi incontrarono i vigili di ronda in città: “Avete visto colui che amo con tutta l’anima?”» (Ct. 3,2), un amore perseverante che il Signore premiò, rendendola degna di essere «apostola degli apostoli»: fu la prima ad annunciare la sua resurrezione.
San Gregorio Magno ha parole straordinarie (Om. 25,1-2. 4-5; PL 76,1189-1193) per colei che fece di Cristo l’unica ragione di vita. «Ella si recò la Domenica di Pasqua al Sepolcro, con gli unguenti, per onorare il Signore. Ma non lo trovò: “Maria invece stava all’esterno, vicino al sepolcro, e piangeva” (Gv. 20,10-11). In questo fatto dobbiamo considerare quanta forza d’amore aveva invaso l’anima di questa donna, che non si staccava dal sepolcro del Signore, anche dopo che i discepoli se ne erano allontanati. (…) Accadde perciò che poté vederlo essa sola che era rimasta per cercarlo; perché la forza dell’opera buona sta nella perseveranza, come afferma la voce stessa della Verità: “Chi persevererà sino alla fine, sarà salvato” (Mt. 10, 22). Cercò dunque una prima volta, ma non trovò, perseverò nel cercare, e le fu dato di trovare. (…) I santi desideri crescono col protrarsi. Se invece nell’attesa si affievoliscono, è segno che non erano veri desideri. (…) “Donna perché piangi? Chi cerchi?” (Gv. 20,15). Le viene chiesta la causa del dolore, perché il desiderio cresca, e chiamando per nome colui che cerca, s’infiammi di più nell’amore di lui. “Gesù le disse: Maria!” (Gv. 20,16). Dopo che l`ha chiamata con l’appellativo generico (…) senza essere riconosciuto, la chiama per nome come se volesse dire: Riconosci colui dal quale sei riconosciuta. Io ti conosco non come si conosce una persona qualunque, ma in modo del tutto speciale».
Maria si risveglia dall’incubo: «Rabbunì!» («Maestro!»). L’umile penitente Maddalena, diventa testimone del trionfo del Crocifisso. Ora vorrebbe stare lì, in adorazione, e invece no: «Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli e di’ loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro» (Gv. 20, 17). Porterà Lei l’annuncio agli Apostoli.

(Fonte: Cristina Siccardi, Corrispondenza Romana, 16 luglio 2014))
http://www.corrispondenzaromana.it/santa-maria-maddalena-la-testimone-di-cristo/
 

giovedì 10 luglio 2014

Per non dimenticare lo scandalo del Forteto, la Coop in cui si stupravano i bambini

Il Forteto era e in parte è ancora, una “comune”- in realtà una sorta di lager – finanziata dalla Regione Toscana – dal ’97 al 2010 con oltre 1,2 milioni – dove si sperimentava omosessualità, pedofilia, zoofilia e tutto quello che poteva essere negazione dell’ordine naturale delle cose. Tutto in nome di un’anarchia morale, oggi esaltata dal pensiero libertino tanto caro ad una certa area politica e culturale che vede la famiglia come gabbia, i legami come un freno alla libertà individuale e quindi, lavora per lo scardinamento di valori che ritiene sorpassati, fondendo una sorta di cristianesimo comunitarista con l’ideologia da comune parigina.
Tutto questo è accaduto alle porte di Firenze negli ultimi trent’anni, coperto da quel sistema di potere per il quale non esistevano delinquenti, ma solo amici o nemici politici. E se eri un “amico politico”, allora, automaticamente, non potevi essere delinquente. E venivi finanziato, protetto e incensato.
È a causa di questa perversione ideologica che decine di ragazzi sono stati plagiati e ridotti a marionette di una setta “progressista”.
Tutto poteva essere bloccato sul nascere quando solo un anno dopo la fondazione della “comune”, un magistrato ne arrestò il fondatore, Roberto Fiesoli, per violenza sessuale. Non servì a nulla, il sistema di potere si mise in azione e questi venne scarcerato il 1° giugno 1979. Il giorno stesso della scarcerazione, il Tribunale dei Minori gli affidò – a lui accusato di stupro – un bambino con la sindrome di Down. Presidente del Tribunale dei Minori era Giampaolo Meucci, consulente del venerato sindaco di Firenze Giorgio La Pira e grande ammiratore della Cina maoista.
Fiesoli e Goffredi sarebbero poi stati condannati definitivamente nel 1985, per diversi capi d’imputazione fra cui corruzione di minorenne e sottrazione consensuale di minore, questo «dopo aver scardinato, ricorrendo a forme di convincimento ossessive, aggressive e umilianti, ogni preesistente valore e le figure parentali, in modo da renderli del tutto dipendenti da loro, costretti ad accettare e a praticare il regime di vita da loro imposto e caratterizzato da promiscuità assoluta tra persone della stesso sesso, pratica dell’omosessualità, messa a disposizione della cooperativa di ogni risorsa». Ma incredibilmente, anche dopo la condanna, in quella fattoria finirono 58 minori. Perché Meucci ritenne che l’arresto e la condanna fossero in realtà una macchinazione architettata dai “fascisti”, e dunque continuò a considerare il Forteto una comunità «accogliente e idonea». Dichiara oggi l’ex funzionario Asl Marino Marunti: «Ci fu una presa di posizione di una certa parte culturale di Firenze che cominciò a dire: sì, la sentenza c’è stata, però è stato un errore perché ci sono state malelingue…». Malelinque fasciste of course.
Chi è il fondatore del Forteto? – Il suo nome è Rodolfo Fiesoli, 72 anni. Nuovamente arrestato il 20 dicembre del 2011 – si, era tornato libero – per presunti atti di pedofilia e zoofilia commessi all’interno della cooperativa agricola che ha legami con la Coop Toscana, fondata nel 1977 da lui e da Luigi Goffredi con una trentina di giovani frequentatori di una parrocchia pratese.
E alla comunità in cui il Profeta – così si fa chiamare Fiesoli – rappresentava il capo indiscusso, venivano anche affidati bambini e ragazzi, di quelli con un passato di disagio familiare e magari abusati sessualmente – formalmente, però, per aggirare la legislazione italiana, i magistrati ideologicamente schierati intestavano gli affidi a persone che nel Forteto vivevano, non alla struttura, incuranti e complici di quello che avveniva nella comune-lager che sarebbe stata l’orgoglio del marchese De Sade.
E secondo la commissione d’inchiesta che se ne occupa, il programma della comune finanziata dalla Regione Toscana era caratterizzato – fino al Dicembre 2011 – da «pratiche abusanti, l’abuso risulta essere la prassi», con «uomini e donne che vivono divisi: dormono, mangiano, lavorano separati anche se sposati» e «i rapporti eterosessuali chiaramente osteggiati» e «l’omosessualità non solo permessa ma incentivata, percorso obbligato verso quella che Fiesoli definiva “liberazione dalla materialità”». Sembra il programma del Pd.
L’obiettivo principale della setta finanziata dalla regione pare fosse “la distruzione della normalità”, e l’approdo ad una società distopica della confuzione sessuale. Basta leggere le testimonianze che raccontano gli abusi di Fiesoli sui ragazzini anche disabili e i rapporti sessuali imposti fra madri affidatarie e ragazzine a loro affidate e poi le stesse femmine adolescenti obbligate ad avere fra loro rapporti omosessuali, e affiancarle a un altro libro sul Forteto uscito sempre per il Mulino.
C’è anche la negazione dei rapporti di sangue, a favore di non-legami artificiosi – una sorte di Ius Soli familiare – con la vicenda della madre che allontana il figlio naturale nato quando lei era già in comunità, dal vero padre e il riconoscimento della paternità da parte del figlio di Fiesoli («Ho regalato mio figlio a una persona che non era suo padre»),
Racconti agghiaccianti – E ora ci sono le testimonianze a raccontare un «contesto scandito da lavoro, scuola, abusi, paura. Giorno dopo giorno i ragazzi vengono plagiati», con tanto di “confessioni” pubbliche di pensieri ritenuti sconvenienti, oltretutto rieducati a disprezzare i genitori biologici – e quelli affidatari in realtà lo erano solo formalmente. Il tutto all’interno di un ambiente in cui «qualunque comportamento, qualunque gesto, tutto viene ricondotto al sesso, alle fantasie sessuali», con i «minori che spesso divenivano o continuavano a essere prede». E ciò «col consenso non solo collettivo, ma anche dei genitori affidatari». Di più: si racconta di «abusi sessuali sui ragazzi da parte dei genitori affidatari, siano essi uomini o donne, e di un atteggiamento compiacente nei confronti delle “strane” attenzioni del Fiesoli su ragazzi». Ed erano proprio i genitori affidatari a introdurre gli adolescenti nella stanza del Profeta, e se preso dall’imbarazzo il ragazzino veniva rimproverato, «…ma lasciati andare! Rodolfo fa così con tutti, è normale, ti leva questa materialità!».
Anche dopo la condanna del 1985: è del 1999 il primo libro sul Forteto edito dalle prestigiose edizioni del Mulino, “Universo simbolico, ethos, areté e regole di relazione nel mondo del Forteto». E la rivista letteraria “Testimonianza” a pubblicare nel 2001 l’articolo “Le libere donne del Forteto”. E nel 2003 il secondo libro del Mulino, “La strada stretta. Storia del Forteto”.
Ma chi erano i protettori? Nel febbraio 2010 il gruppo Pd al Senato presentava il libro dello stesso Fiesoli, «Una scuola per l’integrazione». E viste le attuali idee bersaniane dell’ora di omosessualità a scuola, non è da escludere che sia proprio il Fiesoli l’ideologo morale di questa iniziativa e il prossimo ministro dell’istruzione dopo averlo “amnistiato”. E chi organizzò quell’evento? La senatrice Vittoria Franco, quella tanto preoccupata per il “non fenomeno” del “femminicidio”.
E – parole della commissione d’inchiesta – dal Forteto sono passati Piero Fassino, Susanna Camusso, Rosi Bindi, Livia Turco, Antonio Di Pietro (che andò a parlare di pedofilia), Tina Anselmi, e poi giudici minorili, avvocati, medici. E la Carovana della Pace guidata da Alex Zanotelli – l’amico degli immigrati – che andò in visita nella struttura definendola il luogo dove «più famiglie alla luce del Vangelo vivono controcorrente». Si, forse il Vangelo secondo Zanotelli.
Ora la Regione Toscana si costituirà parte civile nel processo contro il “mostro democratico”, ma è tardi, dovevano pensarci trent’anni fa. O almeno, un paio d’anni fa.
E il presidente di Legacoop Toscana, a cui il Forteto è associata, si preoccupa dei suoi affari e del suo business, puntualizzando che «è giusto fare luce sui reati, ma bisogna difendere l’azienda agricola».
Naturalmente tutti gli amici del Fiesoli e della sua setta vorrebbero che questa storia fosse dimenticata, faremo in modo che se ne parli.
Il Forteto è solo in nuce quello molti vorrebbero divenisse un “esperimento globale”: omosessualità come norma. E la normalità degradata a ribellione.

(Fonte: Magdi Cristiano Allam, Io amo l’Italia, 20/7/2013)
http://www.ioamolitalia.it/blogs/verita-e-libeta/il-pd-la-coop-e-lo-scandalo-forteto-dove-si-stupravano-i-bambini.html

venerdì 4 luglio 2014

Sondaggi e contestazioni non guidano la Chiesa

Nei giorni scorsi è stato pubblicato - in inglese e francese mentre si attende ancora che compaia sul sito della Santa Sede la versione integrale italiana - il documento della Commissione Teologica Internazionale Il sensus fidei nella vita della Chiesa. I testi prodotti dalla Commissione non sono Magistero, ma sono punti di riferimento autorevoli nella Chiesa specie quando, come in questo caso, sono muniti della clausola secondo cui il Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede ha approvato il testo e ne ha autorizzato la pubblicazione.
Potrebbe sembrare che la materia sia arcana, specialistica e d'interesse quasi solo per i teologi di professione, ma non è così. Fu Benedetto XVI a chiedere alla Commissione di studiare in modo approfondito il «sensus fidei», e lo studio si è protratto per ben  quattro anni, in dialogo prima con lo stesso Papa Ratzinger e poi con Papa Francesco. E non a caso Benedetto XVI chiese di studiare questo tema proprio mentre iniziava a suggerire un nuovo esame delle tematiche relative alla famiglia e ai divorziati, esame che ha portato con Papa Francesco alla convocazione del prossimo Sinodo sulla famiglia.
Di che si tratta? Il «sensus fidei», spiega il documento, è l'«istinto dei fedeli per le verità del Vangelo, che permette loro di riconoscere quali sono le dottrine cristiane autentiche e di aderirvi». Questo «istinto», che viene dalla grazia e che è soprannaturale, è stato riconosciuto già dai Padri della Chiesa e dai teologi medievali, specie benedettini, ed è stato studiato in modo approfondito da teologi del calibro di Melchior Cano (1509-1560), Johann Adam Möhler (1796-1838), Giovanni Perrone (1794-1876) e del beato John Henry Newman (1801-1890), il cui On Consulting the Faithful in Matters of Doctrine (1859) rimane ancora oggi un testo fondamentale sul tema.
Dal libro di Newman si evince che il Magistero, quando si pronuncia, tiene conto della Scrittura, del Magistero precedente, delle opinioni espresse dai teologi ma anche della «testimonianza» diffusa nel popolo fedele. Così avviene in materia di canonizzazioni, e così è avvenuto in occasione della proclamazione dei dogmi dell'Immacolata Concezione e dell'Assunzione di Maria. Ma il documento nota che anche la dottrina sociale della Chiesa, così come «lo sviluppo sorprendente, anche se omogeneo» - la rivendicazione dell'omogeneità viene da Benedetto XVI - in materia di libertà religiosa, dal Sillabo del Beato Pio IX (1792-1878) alla dichiarazione Dignitatis humanae del Vaticano II, sarebbero difficili da capire se non si considerasse il ruolo avuto nella loro preparazione da studiosi, economisti, imprenditori, giuristi e politici laici.
Il «sensus fidei» è dunque un elemento fondamentale per comprendere il ruolo dei fedeli, anche laici, nella Chiesa: un ruolo che non è solo di passiva ricezione del Magistero ma che in qualche modo partecipa alla sua formazione. Tuttavia, nota il documento, sul «sensus fidei» si sono diffusi recentemente anche equivoci ed errori. Si è immaginato cioè che l'appello al «sensus fidei» potesse diventare uno strumento per contestare il Magistero. Questo, chiarisce il documento citando anche puntuali interventi sul punto di Benedetto XVI, è totalmente sbagliato, e falsifica la dottrina esposta da Perrone e dalla «scuola romana» di cui fu autorevole esponente, nonché dal beato Newman. Quest'ultimo scriveva con grande chiarezza: «il dono che permette di discernere, discriminare, definire, promulgare e dare forza di legge a una qualunque parte della Tradizione spetta esclusivamente alla Chiesa docente», cioè al Papa e ai vescovi uniti con lui. Il documento precisa che è «il Magistero [che] giudica se le opinioni che sono presenti nel popolo di Dio e che possono sembrare "sensus fidelium" corrispondono realmente alla verità della Tradizione trasmessa dagli Apostoli». Cioè: nel popolo fedele si rilevano sensibilità e opinioni su elementi che il Magistero non ha ancora completamente chiarito. Il Magistero le studia e ne tiene conto. Ma ultimamente è il Magistero che decide, discerne e giudica se queste sensibilità «corrispondono realmente alla verità della Tradizione» oppure testimoniano semplicemente che tra i fedeli circolano equivoci ed errori, in questo secondo caso intervenendo per chiarirli.
Oggi, nota il documento, la situazione si è complicata perché il «sensus fidei fidelium» viene confuso con la nozione «sociologica» di «opinione pubblica», che è una cosa diversa. L'opinione pubblica si accerta di solito con i sondaggi. È sociologicamente rilevante, ma è anche vero che può essere manipolata e che oggi le tecniche di manipolazione hanno raggiunto un grado di raffinatezza ignoto in altre epoche. I sondaggi e anche l'attenzione a quanto sostengono i media a proposito delle opinioni che sarebbero maggioritarie tra i cattolici, spiega il testo, non sono inutili. Ma è molto importante chiarire che non c'entrano con il «sensus fidei fidelium», dove non conta «la maggioranza espressa secondo le regole della democrazia» ma la fede.
Si viene qui al punto fondamentale del documento. Nell'espressione «sensus fidei fidelium» è cruciale capire chi sono i «fedeli» del cui «senso della fede» il Magistero, pur riservandosi di operare un discernimento autorevole, tiene conto. Certamente non si tratta del «pubblico» in generale, dal momento che all'interno del «pubblico» - che determina l'«opinione pubblica» - oggi i fedeli cattolici sono in minoranza. Ma non si tratta neppure di tutti coloro che si dichiarano cattolici - né dei soli cattolici, perché in una certa misura e cautamente, secondo il documento, si può tenere conto anche della sensibilità dei fratelli separati rispettosi della Chiesa Cattolica e con cui è in corso un dialogo ecumenico. Ma il cuore, il nucleo duro dei «fedeli» di cui tenere conto per accertare qual è il «sensus fidei fidelium» è costituito dai fedeli cattolici che aderiscono al Magistero: «disposizione necessaria per una partecipazione autentica al "sensus fidei" è l'attenzione al Magistero della Chiesa e la volontà di ascoltare l'insegnamento dei pastori della Chiesa». In definitiva, «i soggetti del "sensus fidei" sono i membri della Chiesa che tengono conto delle parole di Gesù a coloro che invia: "Chi ascolta voi ascolta me"». E si tratta del Magistero di oggi, non solo di quello di ieri né di un ipotetico Magistero di domani. Del Magistero anche ordinario, non solo di quello straordinario e infallibile.
Comprendiamo qui perché il documento è importante. In occasione del prossimo Sinodo sulla famiglia la Santa Sede ha distribuito un questionario. Alcune conferenze episcopali, tra cui quella svizzera, si sono affidate a sociologi per accertare le opinioni maggioritarie in tema di divorzio, aborto, omosessualità. Il documento spiega che queste indagini, se sono fatte bene, non sono inutili: come afferma l'«Instrumentum laboris» per il Sinodo, servono almeno ad accertare il gravissimo scollamento fra la società moderna e la dottrina cattolica. Sbaglierebbe però in modo grossolano chi pensasse che così si accerta il «sensus fidei fidelium»: si accerta l'opinione, ma non l'opinione «dei fedeli» perché coloro che si dicono cattolici ma non ascoltano e aderiscono al Magistero non rientrano fra i soggetti rilevanti per accertare il «sensus fidei». Per questi ultimi, più dei sondaggi, rileva la vita ordinaria della Chiesa che è - o dovrebbe essere - nota ai vescovi, i quali interagiscono - o dovrebbero interagire - con le parrocchie, gli ordini religiosi e i movimenti, e sapere quali idee vi circolano, chi segue il Magistero e chi lo contesta.
Così pure, è del tutto inutile che certi teologi, storici o blogger oppongano il «sensus fidei fidelium» come interprete della Tradizione cattolica  all'interpretazione della Tradizione cattolica insegnata dal Papa e dai vescovi in comunione con lui, magari citando a sproposito il beato Newman. Tra tante opinioni, maggioritarie e minoritarie, che pretendono di dire che cos'è la Tradizione, il beato Newman - come abbiamo visto, e come ricorda il documento - insegnava che «spetta esclusivamente al Magistero» discernere che cosa fa veramente parte della Tradizione e che cosa è soggettiva opinione di qualcuno. Il «sensus fidei» è un grande elemento di libertà, di coralità e di armonia nella vita della Chiesa. Diventa una mistificazione quando lo si usa per contestare il Magistero.


(Fonte: Massimo Introvigne, La nuova Bussola Quotidiana, 4 luglio 2014)
http://www.lanuovabq.it/it/articoli-sondaggi-e-contestazioni-non-guidano-la-chiesa-9648.htm

 

giovedì 3 luglio 2014

Il Vaticano II. Un Concilio pastorale

L’ultima opera pubblicata del teologo Padre Serafino Lanzetta F.I. è un vero e proprio chef-d’œuvre, un capolavoro che arricchisce, con tasselli nuovi e argomentazioni convincenti, gli approfondimenti che da diversi anni vanno sviluppandosi, con sempre maggiore intensità e determinazione speculativa, su quell’evento che ha prodotto un vero e proprio sisma nella Chiesa, riconosciuto tale anche da coloro che ne tessono le lodi per le novità introdotte: il Concilio Vaticano II.
Ma quelle novità furono soltanto pastorali oppure anche dottrinali? La Fede è ancora quella dei nostri padri, annunciata da Cristo, da San Pietro, da San Paolo, tramandata di Dottore in Dottore della Chiesa, di Concilio in Concilio… oppure è cambiata? Ecco che il laborioso impegno del raffinato teologo Padre Lanzetta viene in soccorso in questi tempi tanto confusi quanto sovvertitori. «Lo studio di P. Lanzetta fornisce un approccio di grande respiro, attento alle fonti storiche e alle varie proposte d’interpretazione negli ultimi decenni. (…) è una trattazione brillante del tema scelto.
L’autore conosce bene la discussione temporanea e le fonti del Vaticano II. La tesi porta un contributo originale nuovo sia dal punto di vista storico (…) sia dal lato della riflessione sistematica. L’autore non si accontenta di presentare le varie posizioni (ciò avviene in maniera precisa), ma fa anche delle proposte chiarificatrici che possono illuminare il dibattito attuale. Vengono toccati dei temi centrali (la discussione sulle fonti della Rivelazione, l’ecclesiologia, la mariologia, l’ermeneutica delle affermazioni magisteriali…). Tutti i vari aspetti sono finalizzati a capire meglio il significato e la portata della dottrina conciliare», così scrive il Professor Don Manfred Hauke dell’Università di Lugano nella sua presentazione del volume Il Vaticano II. Un Concilio pastorale. Ermeneutica delle dottrine conciliari, edito in questi giorni da Cantagalli (pp. 490, € 25.00).
Il libro nasce come tesi di abilitazione alla libera docenza, conseguita da Padre Lanzetta alla Facoltà Teologica di Lugano, in Svizzera, presso la quale l’autore diede inizio al suo poderoso lavoro di ricerca nel maggio 2011, sotto la direzione dello stesso Hauke. Fra la documentazione emersa negli archivi si trova un importante intervento di Paolo VI sulla Dei Verbum, così come dalla consultazione all’Archivio Segreto Vaticano Lanzetta ha trovato un prezioso carteggio con il Cardinale Ottaviani dove emerge la preoccupazione di Papa Montini per l’imminente approvazione del De Divina Revelatione, manifestando l’esplicito desiderio di sottolineare il ruolo della Tradizione costitutiva della Fede (p. 245).
Lo stesso Paolo VI, l’8 dicembre 1966, ad un anno dalla chiusura del Vaticano II, in un discorso che ricorda quello che pronuncerà alla Curia romana, 39 anni più tardi, Benedetto XVI (22 dicembre 2005) condannò chi presentava il Vaticano II come «una rottura con la tradizione dottrinale e disciplinare che lo precede, quasi ch’esso sia tale novità da doversi paragonare ad una sconvolgente scoperta, ad una soggettiva emancipazione, che autorizzi il distacco, quasi una pseudo-liberazione, da quanto fino a ieri la Chiesa ha con autorità insegnato e professato, e perciò consenta di proporre al dogma cattolico nuove e arbitrarie interpretazioni, spesso mutuate fuori dell’ortodossia irrinunciabile, e di offrire al costume cattolico nuove ed intemperanti espressioni, spesso mutuate dallo spirito del mondo; ciò non sarebbe conforme alla definizione storica e allo spirito autentico del Concilio, quale lo presagì Papa Giovanni XXIII. Il Concilio tanto vale quanto continua la vita della Chiesa; esso non la interrompe, non la deforma, non la inventa; ma la conferma, la sviluppa, la perfeziona, la “aggiorna”».
Il problema, dunque, era emerso fin da allora: il dubbio serpeggiava ovunque, si era interrotto qualcosa nella trasmissione della Fede? L’auspicio di Paolo VI sopra esposto non poteva avverarsi poiché le ambiguità interne ai documenti conciliari e le linee pastorali degli “aggiornamenti”, che per forza di cose hanno influito sulla dottrina stessa, portando la prassi del mondo (cultura e mentalità) dentro la prassi ecclesiale e catechetica, non potevano essere soffocate e continuano a reclamare risposte. Lo stesso processo metodologico con cui si è tenuto il Concilio, fin dal suo esordio, provoca non soltanto perplessità, ma critiche storiche e teologiche facilmente identificabili se si conoscono i fatti, quelli che, grazie a studiosi come Lanzetta, oggi possono essere di pubblico dominio.
Con scrupolo metodologico ed epistemologico viene illustrato il rapporto Scrittura-Tradizione nella Dei Verbum: l’autore parte dal primo schema De fontibus per approdare alla promulgazione della Costituzione sulla Divina Rivelazione. Nessun passaggio viene omesso: si parte dalla preparazione del Concilio, passando attraverso il grande esame teologico delle Commissioni e delle Sottocommissioni, per arrivare allo svolgimento dei lavori conciliari fino alle decisioni definitive, che in molte occasioni contrastano con i lavori preparatori.
I cattolici che continuano a vivere secondo la Tradizione della Chiesa e la Fede dei loro padri non si riconoscono più in quegli «aggiornamenti» che hanno di fatto mutato il volto della Chiesa. «Cosa veramente voleva dire il Vaticano II? Cosa ha rappresentato? Uno “spirito del Concilio”, molto spesso confuso con lo spirito del mondo, prese il sopravvento, e i testi magisteriali furono semplicemente tralasciati per fare spazio ad una “primavera” costruita a tavolino da alcuni esperti della pastorale. Si agitava la questione del Concilio come “un tutto” per la fede, come nuova stagione per la Chiesa, come via di non ritorno, dal lato opposto, lo si presentava come un incidente di percorso, un errore di valutazione. Per molti una partenza. Per altri un arresto. Cos’è l’ultimo Concilio per la Chiesa? La domanda divide la Chiesa forse come non mai prima» (p. 26).
Padre Lanzetta, in definitiva, ha interrogato il Concilio, volendo scoprire soprattutto la sua mens, una mens che poi determinò le scelte e le decisioni e dai risultati raccolti emerge che non sempre è chiaramente distinto il campo pastorale da quello dottrinale «per il semplice fatto che non si dà né una definizione dell’uno né dell’altro, ma spesso, i due lemmi impiegati nella loro accezione tradizionale, servono ora a confermare la sana teologia, ora a lasciare ancora il dato dottrinale alla teologia, ora a provocare uno sviluppo che necessariamente coinvolge la fede e la sua dottrina» (p. 32).
Ciò che accadde in San Pietro fra il 1962 e il 1965 viene sempre più, teologicamente e storicamente, reso noto, perché la Chiesa appartiene a Cristo, che è la Verità e la Verità appartiene a Dio. Nella Lettera agli Ebrei San Paolo dichiara: «Non v’è creatura che possa nascondersi davanti a lui, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi e a lui noi dobbiamo rendere conto» (Eb 4, 13).

(Fonte: Cristina Siccardi, Corrispondenza Romana, 2 luglio 2014)
http://www.corrispondenzaromana.it/il-vaticano-ii-un-concilio-pastorale-di-p-serafino-lanzetta/