Walter
Kasper è nato in Germania il 5 marzo 1933, a Heidenheim (Brenz) nei pressi di
Rottemburg. Completati gli studi di Filosofia e di Teologia presso la Facoltà
teologica cattolica dell’Università di Tubinga, nel 1961 ha conseguito il
dottorato con una tesi su Die Lehre von der Tradition in der Römischen
Schule, e ha ottenuto la libera docenza in Teologia quattro anni
dopo. Dal 1964 al 1970 ha insegnato nell’Università di Münster e dal 1971 è
ritornato nell’ Università di Tubinga come ordinario di Teologia dogmatica.
Ordinato sacerdote nel 1957, è stato consacrato Vescovo di Rottenburg-Stoccarda
nel 1989. Nel 1994 hanno inizio i suoi incarichi nel campo dell’ecumenismo con
la nomina come co-presidente della Commissione Internazionale di dialogo
cattolica-luterana, cui fa seguito nel marzo 1999 la nomina come segretario del
Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani e nel marzo del
2001 la nomina come presidente del Pontificio Consiglio per l’unità dei
cristiani. Nel Concistoro del 21 febbraio 2001 Kasper è stato elevato alla
porpora cardinalizia.
___________
La
produzione teologica di Kasper è costituita da saggi di argomento
prevalentemente ecclesiologico e pastorale; l’edizione completa delle sue
opere, programmata da Herder Verlag, prevede finora diciotto volumi. La prima osservazione da fare a riguardo di queste opere
e di quelle che si sono poi aggiunte negli ultimi anni, è che in esse risulta
evidente la mancanza di una corretta metodologia teologica.
Ogni
singola tesi sostenuta da Kasper (che raramente ha i caratteri
dell’originalità, visto che l’autore si accontenta di ripetere quanto già
sostenuto dai suoi maestri, a cominciare da Karl Rahner), se analizzata da un
punto di vista rigorosamente epistemologico, appare priva di quella consistenza
epistemica che caratterizza la vera teologia; le sue ricerche teologiche non
sono (e nemmeno si propongono di essere) un’ipotesi di interpretazione
scientifica della fede professata dalla Chiesa attraverso la Sacra
Scrittura, le formule dogmatiche e la liturgia: sono piuttosto espressioni di
una ambigua “filosofia religiosa”, termine con il quale io designo
quell’arbitraria interpretazione delle nozioni religiose proprie del
cristianesimo che ha prodotto nell’Ottocento i grandi sistemi dell’idealismo
storicistico, come quello di Hegel e quello di Schelling[2].
A questi sistemi di pensiero - che epistemologicamente sono da considerare
esclusivamente filosofici ma che nell’ambiente luterano nel quale sono
sorti sono considerati anche teologici - si sono ispirati nel Novecento
e si ispirano oggi molti teologi cattolici, tra i quali proprio Walter Kasper,
il quale si è formato presso quella scuola di Tubinga che, come egli stesso
scrive compiaciuto in una sua opera prima,
«ha
avviato un rinnovamento della teologia e dell’intero cattolicesimo tedesco
nell’incontro con Schelling ed Hegel» [3],
il
cosiddetto «incontro con Schelling ed Hegel», che i teologi appartenenti alla
scuola di Tubinga hanno ritenuto necessario per “rinnovare” la teologia e con
essa l’intera Chiesa “conciliare”, è in realtà un incomprensibile regresso alle
posizioni ideologiche di quei teologi (non a caso anch’essi tedeschi) che
nell’Ottocento erano stati condannati dalla Santa Sede proprio per l’adozione in
teologia delle categorie filosofiche dell’idealismo hegeliano e
schellinghiano. Il fatto che nel Novecento degli studiosi cattolici
abbiano voluto combattere la loro battaglia contro la tradizione metafisica in
teologia mediante la sistematica ripresa di una filosofia religiosa nata in
ambiente luterano e sempre criticata in ambiente cattolico, non ha altra
spiegazione plausibile se non la loro sudditanza psicologica nei
confronti dei teologi luterani, la cui egemonia nella cultura tedesca è sempre
stata assoluta (si consideri che persino la critica di Hegel svolta da
Kierkegaard è sorta ed è rimasta all’interno della cultura religiosa luterana).
Tra Hegel e Schelling, Kasper predilige quest’ultimo, chiamandolo «gigante
solitario» [4] e mostrandosi affascinato dal carattere
gnostico delle sue ricerche filosofico-religiose, senza avvertire alcun
imbarazzo di fronte al loro esito chiaramente panteistico
[5]. La ripresa di temi specificamente schellinghiani da parte di Kasper
mi fa pensare all’analoga scelta metodologica operata da un altro teologo
cattolico tedesco, Klaus Hemmerle, alla cui scuola si è formato poi in Italia
Piero Coda, entrambi analiticamente da me criticati per via del metodo
teologico, radicalmente incompatibile con quella della vera teologia[6].
Kasper
sembra condividere senza riserve le premesse immanentistiche dell’analisi
filosofica della fede cristiana condotta da Schelling, e nelle parole con le
quali egli si dichiara convinto di dover “rinnovare” la teologia cattolica
proprio sulla base di quelle premesse si avverte chiaramente come egli sia
privo di quel senso critico che è il primo requisito di ogni ricerca
scientifica, tanto che la sua sintesi della filosofia religiosa di Schelling è
un accumulo di parole senza senso:
«Schelling
non concepisce in modo statico, metafisico e sovratemporale il rapporto tra
naturale e soprannaturale, bensì in modo dinamico e storico. L’essenziale della
rivelazione Cristiana è proprio questo, che essa è storia»
[7].
Che
significa che la rivelazione cristiana, nella sua “essenza” (termine
indubbiamente metafisico, ma che deve essere sfuggito a Kasper), è “storia”?
Storia di che cosa, storia di chi? Si deve forse intendere la storia degli
uomini (quello che Kasper chiama la «natura») in rapporto all’azione di Dio (il
«soprannaturale»)? In questo caso, si tratterebbe della nozione teologica di
“storia della salvezza”, ossia dell’iniziativa salvifica di Dio Creatore e
Redentore, che è rivelata all’uomo da Dio stesso, prima tramite i Profeti e
poi, definitivamente, mediante l’Incarnazione del Verbo. Questa però non può
essere la concezione di Kasper, perché corrisponde pienamente alla dottrina
teologica tradizionale, che per Kasper sarebbe da rigettare in quanto
presupporrebbe un «modo statico, metafisico e sovratemporale» di concepire «il
rapporto tra naturale e soprannaturale». Ora, tenendo conto del fatto che,
parlando di un «rapporto tra naturale e soprannaturale», Kasper ammette
(involontariamente) la distinzione tra il mondo (la creazione) e Dio (il Creatore),
uno dei due termini del rapporto, Dio, non può essere identificato con la
“Storia”: a meno che non si voglia, in definitiva, escludere Dio dal discorso
teologico e parlare solo del mondo e delle sue vicissitudini, anche quando si
tratta della vita religiosa e della Chiesa. Il che è proprio quello che intende
Kasper, come ben presto si vedrà.
In
un’ecclesiologia immanentistica il mistero eucaristico non trova più il proprio
spazio teologico.
I
frequenti cambiamenti di tesi teologiche che hanno caratterizzato la produzione
scientifica e la pubblicistica divulgativa di Kasper fanno pensare che il
criterio (i target, la finalità, lo scopo finale) dei suoi discorsi non sia
tanto una valida proposta di interpretazione del dogma, animata dallo
zelo per la sua applicazione salvifica alla vita dei fedeli, quanto piuttosto
l’ansia di imporsi nell’opinione pubblica come figura di rilievo dell’ala
progressista della teologia contemporanea, soprattutto in rapporto
all’ecumenismo, ossia al “dialogo” con i protestanti in vista di un
“riavvicinamento” rituale e dottrinale tra loro e la Chiesa cattolica. In ogni
caso, va detto che, nelle opere di Kasper, la continua proposta di
“riforme” della Chiesa - riforme istituzionali, liturgiche, pastorali -
ignora il necessario riferimento alla fondamentale “forma” che la Chiesa ha per
istituzione divina; e ciò dipende dalla svalutazione dei principi propriamente
teologici dell’ecclesiologia, a cominciare dal riconoscimento esplicito della
natura divina di Cristo come Verbo Incarnato che ha affidato alla Chiesa da Lui
fondata la prosecuzione della sua missione salvifica con il fedele annuncio dei
misteri soprannaturali e la grazia santificante dei sacramenti. I principi
propriamente teologici dell’ecclesiologia erano stati giustamente connessi con
il dogma cristologico (e anche a quello mariologico) negli anni precedenti il
Concilio da un altro teologo del Novecento, lo svizzero Charles Journet, il
quale aveva saputo ripresentare e sviluppare coerentemente i
principi essenziali della tradizione dogmatica su Cristo, Maria e la Chiesa nel
suo trattato su L’Église du Verbe Incarné [8], la
cui dottrina risulta in gran parte recepita nella costituzione dogmatica Lumen
gentium, specie nell’ottavo capitolo, lì dove il Concilio parla di Maria,
Madre di Dio e Madre della Chiesa [9]. Ma Kasper, che
pure si presenta come “teologo conciliare”, ignora sistematicamente le nozioni
propriamente teologiche dell’ecclesiologia, anzi pretende di “purificare” la
fede cattolica dalle «forme e formule» che pure erano state riconfermate
solennemente dal Vaticano II, in quanto proprio queste «forme e formule»
assicurano il carattere soprannaturale (trascendente) delle realtà divine e
giustificano il culto di adorazione che la Chiesa tributa a Cristo, che è Dio,
il Verbo eterno che nel tempo si è fatto carne ed è realmente presente
nell’Eucaristia, così come giustificano la venerazione nei confronti di Maria,
riconosciuta come Madre di Dio in quanto è la vera Madre di Cristo che è Dio [10]. La battaglia per l’abolizione di termini teologici
dal sapore “metafisico”, presentata come mera esigenza pastorale (la solita
pretesa necessità di abbandonare un linguaggio che risulterebbe incomprensibile
e inaccettabile per l’uomo di oggi), è indirizzata in realtà a eliminare dalla
“predicazione” tutti i principi di base dell’ecclesiologia cattolica,
sottomettendoli a una sistematica critica razionalistica, a cominciare proprio
dalla nozione di “Verbo Incarnato”. Questa infatti è ridotta in termini
immanentistici nella sua opera più nota, Jesus der Christus [11], dove
Kasper propone la “sua” cristologia in chiave antimetafisica: si tratta in
realtà di una riformulazione del dogma cristiano attraverso l’adozione delle
categorie immanentistiche proprie della filosofia religiosa di Schelling, il
quale riduce le tre Persone divine a tre “modi di sussistenza” di un’unica
realtà divina, la cui natura si risolve nella storia del suo manifestarsi al
mondo. Nell’orizzonte di questa Selbstoffenbarung Gottes, Cristo non è
più creduto e adorato come Mediatore tra Dio e gli uomini
[12], ma è ridotto alla manifestazione storica della Trinità “economica” [13]. Kasper non riesce a emanciparsi dalla filosofia
della rivelazione schellinghiana, come invece aveva fatto nel suo stesso
ambiente tedesco Romano Guardini [14], e così, da
teologo cattolico finisce per ostinarsi in un’opera insensata di decostruzione
del dogma cristologico tradizionale; persino le prove storiche della divinità
di Cristo - ossia i miracoli da Lui operati con l’esplicita intenzione di
mostrare la sua onnipotenza e sostenere così la fede dei discepoli - vengono
sottoposti da Kasper al dubbio sulla loro effettiva verità fattuale e sul loro
significato teologico in rapporto alla fede, sicché in definitiva vengono a
essere negate per quello che essenzialmente sono, cioè l’evidenza empirica
dell’intervento di Dio, facente parte dei motivi di credibilità. Dalla
negazione implicita della divinità di Cristo deriva l’uso insistito che Kasper
fa dell’espressione «il Dio di Gesù Cristo», espressione che appare anche come
titolo di una delle sue opere dianzi citate (Der Gott Jesu Christi) e
che, in quanto separa il nome di Dio dal nome di Cristo, insinua semanticamente
la negazione della divinità di Gesù, non riconosciuto come l’unigenito Figlio
di Dio, consustanziale al Padre [15]. In realtà, Kasper
partecipa in pieno a quella corrente ideologica che fa capo a Hans Küng e a Kar
Rahner e che intende la teologia come antropologia, suggerendo alla Chiesa di
parlare non tanto di Dio quanto dell’uomo [16]; in
conformità a questo preciso indirizzo speculativo, Kasper mette da parte il
discorso sulla duplice natura di Cristo, Verbo eterno (discorso che logicamente
ha senso solo se si ammettendo che le categorie metafisiche di “persona” e di
“natura” siano adeguate alla necessaria formulazione dogmatica del mistero
soprannaturale contenuto nella Rivelazione) e riduce la cristologia a un
discorso di stampo fenomenologico sulla coscienza di Gesù come “uomo che parla
di Dio”.
Alcuni
esempi di come Kasper, ricorrendo a categorie filosofiche inadeguate, non
riesca mai a interpretare correttamente il dogma eucaristico.
In
seguito alla pubblicazione dell’enciclica Ecclesia de Eucharistia di
papa Giovanni Paolo II[18], Walter Kasper volle commentarla in lunga intervista
alla rivista italianaTrentagiorni per valutarne gli “effetti” nei
confronti del dialogo ecumenico[19]. Leggendo le sue risposte si comprende come
egli guardi all’Eucaristia in un’ottica umanistica e sociologica, che è
l’ottica con la quale egli crede di dover affrontare da teologo i temi
dell’ecclesiologia. In effetti, l’argomento pressoché unico di tutti gli
scritti e i discorsi di Kasper è la Chiesa, vista però non come mistero
soprannaturale intrinsecamente connesso ai dogmi della Trinità e
dell’Incarnazione, bensì come una realtà umana sociologicamente
rilevabile, che dal teologo tedesco viene identificata con la comunità di
quanti professano la fede in Cristo, una comunità che è dinamicamente
proiettata verso l’avvento del “Regno” e che oggi è chiamata a superare le
divisioni confessionali del passato tra cattolici, ortodossi e protestanti.
Al fine ultimo dell’azione ecumenica Kasper riduce ogni altro aspetto della
Chiesa e dell’Eucaristia nella vita della Chiesa; l’Eucaristia come sacramento
in senso proprio resta in un secondo piano, mentre in primo piano viene
collocata la Chiesa, la cui “sacramentalità”, enunciata dal Concilio, è però da
intendersi in senso soltanto improprio, cioè derivato per analogia. Sicché
l’inevitabile ammissione della natura sacrificale della santa Messa
(inevitabile in un commento all’enciclica, che di questo principalmente tratta)
va di pari passo, nel discorso di Kasper, con la mancanza di ogni riferimento
alla “presenza reale” di Cristo nell’Eucaristia, e quindi al culto di
adorazione che la Chiesa le tributa, sia nella liturgia che nella pietà
individuale dei fedeli. Ecco in proposito le parole di Kasper:
«Nel
nostro tempo si assiste a tutta una fioritura di rituali prodotti quasi a ritmo
commerciale, ma sembra perdersi la percezione stessa della specificità storica
dei sacramenti cristiani. Per riprendere un’immagine usata una volta dal
cardinale Danneels, si assiste a una sorta di atrofizzazione, di “accecamento”,
per cui non si percepisce più la sacramentalità della Chiesa stessa,
soprattutto nelle terre di antica evangelizzazione. Già il Concilio Vaticano
II, con la costituzione Lumen gentium e con quella sulla liturgia, ha
richiamato la natura sacramentale della Chiesa. Ma dopo si sono registrati una
banalizzazione, un appiattimento, che certo non possono essere imputati al
Concilio. Anche grazie al dialogo coi fratelli protestanti abbiamo imparato
l’importanza del ministero della Parola. Ma intanto i sacramenti rischiano di
non essere più il punto di gravità della pastorale cattolica»[20].
Discorso
quanto mai confuso, dove l’unica cosa che si capisce è che Kasper aborrisce la
concretezza del dogma eucaristico, dove l’essenziale è la Persona divina di
Cristo Signore, che con la sua “presenza reale” sotto le specie del pane e del
vino è a disposizione di quanti – singole persone umane – possono unirsi a Lui
con la fede e con l’amore. Ma Kasper non riesce a parlare dell’unione personale
con Cristo, tanto che traduce quell’espressione teologicamente pregnante di
«contatto attuale» che aveva usato Giovanni Paolo II nell’enciclica in una
soggettiva e impersonale «memoria celebrata»:
«Al
paragrafo 12, riguardo all’Eucaristia, sta scritto che “la Chiesa vive
continuamente del sacrificio redentore, e ad esso accede non soltanto per mezzo
di un ricordo pieno di fede, ma anche in un contatto attuale”. La vita di
grazia si trasmette per contatto: questa è la dinamica propria dei sacramenti,
che è evidente nell’Eucaristia. La memoria celebrata nell’Eucaristia non è solo
ricordo di un fatto passato su cui coltivare riflessioni religiose soggettive:
al paragrafo 11, sta scritto che l’Eucaristia “non è solo l’evocazione, ma la
ri-presentazione sacramentale” della passione e della morte del Signore. Il
riconoscimento di questo contenuto oggettivo, reale della memoria eucaristica
aiuta anche nel dialogo con i luterani, per far riconoscere anche a loro la
dimensione sacrificale della celebrazione eucaristica»[21].
Non si sa a che cosa si riferisce precisamente Kasper quando parla di
“contatto”, visto che ignora di proposito i presupposti metafisici della
teologia sacramentaria. In ogni caso, trovandosi a doversi rifare, oltre che
all’insegnamento di Papa Wojtyla, anche alle formule dogmatiche del Concilio di
Trento, Kasper finisce per parlare di un «contatto personale» tra il singolo
cristiano e Cristo nell’Eucaristia. Ma tale “contatto” si riduce evidentemente
a qualcosa di meramente intenzionale (nel senso di cognitivo, rappresentativo):
invece di riferirsi esplicitamente alla Persona di Cristo alla quale si unisce
il cristiano nella comunione eucaristica, egli riduce il suo discorso alla
percezione soggettiva del significato della celebrazione, percezione che
consentirebbe – dice Kasper – di arrivare a «un contatto personale con lo
stesso unico sacrificio di Gesù Cristo». Con queste incomprensibili contorsioni
dialettiche il teologo tedesco spera di poter concludere positivamente i suoi
sforzi di intesa dottrinale con i protestanti, i quali certamente non vogliono
sentir parlare di “transustanziazione” e di “presenza reale”:
«I
luterani in passato hanno spesso compreso il nostro riconoscimento del
carattere sacrificale della celebrazione eucaristica come una moltiplicazione
del fatto unico, singolare, non riproducibile della passione del Signore. Ma la
Chiesa cattolica riconosce che l’evento unico, singolare della passione e morte
di Gesù non può essere ripetuto. È lo stesso evento che in modo sacramentale, e
quindi misterioso, diviene presente nella celebrazione liturgica. L’Eucaristia
è il dono presente della stessa santa umanità di Gesù, e non una
rappresentazione metaforica di quel dono messa in scena dagli uomini. Chi
mangia il pane eucaristico entra in un contatto personale con lo stesso unico
sacrificio di Gesù Cristo. L’enciclica al paragrafo 12 si rifà all’insegnamento
del Concilio di Trento, quando riconosce che “la messa rende presente il
sacrificio della croce, non vi si aggiunge e non lo moltiplica”. E cita su
questo anche una bella frase di san Giovanni Crisostomo: “Noi offriamo sempre
il medesimo Agnello, e non oggi uno e domani un altro, ma sempre lo stesso. Per
questa ragione il sacrificio è sempre uno solo”. Al paragrafo 13 si ripete che
“l’Eucaristia è sacrificio in senso proprio, e non solo in senso generico”,
come se Cristo si fosse offerto in senso metaforico, quale “cibo spirituale”
per i fedeli. Il sacrificio di Cristo è autodonazione del Figlio al Padre e a
noi. Ridurlo a un incontro conviviale fraterno per ricordare una vicenda del
passato è una banalizzazione»[22].
Quella
è certamente una «banalizzazione», ma lo è altrettanto e più ancora la
riduzione che fa Kasper dell’Eucaristia a una “memoria celebrata” della
Passione, trascurando il fatto che il fine proprio del sacramento, istituito da
Cristo e che la Chiesa celebra come «memoriale mortis Domini», è la
comunione eucaristica, ossia l’incontro personale del fedele con Cristo che si
fa realmente presente, come Verbo Incarnato, con il suo corpo, il suo sangue,
la sua anima e la sua divinità. Il significato memoriale
dell’istituzione dell’Eucaristia, come risulta dalle parole dell’Ultima
Cena riferite dai Vangeli sinottici, è da collegarsi alla sua finalità
comunionale, quale risulta dalle parole di Cristo nel discorso a Cafarnao
riferito da Giovanni nel quarto Vangelo, la cui redazione è di molti anni
posteriore a quella dei primi tre Vangeli. Kasper, che si vede costretto dai
testi del Magistero da lui citati a usare il termine metafisico
“transustanziazione”, lo riferisce correttamente al momento liturgico della
“consacrazione”, ma poi evita di metterlo in rapporto con la possibilità e con
la convenienza della comunione eucaristica; mentre il suo maestro
Rahner riconosce che la comunione è il fine principale della
“transustanziazione”[23], come se avesse un significato teologico in rapporto
alla sola celebrazione eucaristica, dove la Chiesa prega il Padre
affinché renda presente il Figlio per opera dello Spirito Santo:
«Al
paragrafo dell’enciclica 23 si trova scritto: “L’azione congiunta e
inseparabile del Figlio e dello Spirito Santo, che è all’origine della Chiesa,
del suo costituirsi e del suo permanere, è operante nell’Eucaristia”. Anche
grazie all’ultimo Concilio ecumenico, abbiamo riscoperto l’importanza
dell’epiclesi, cioè della preghiera eucaristica in cui il prete invoca il Padre
di mandare il suo Spirito, affinché il pane e il vino diventino il corpo e il
sangue di Gesù Cristo. Non è il sacerdote che compie la transustanziazione: il
sacerdote prega il Padre, affinché essa avvenga per opera dello Spirito Santo.
Si può dire che tutta la Chiesa è una epiclesis».
Ed
ecco che il discorso torna, come sempre, sulla dinamiche della Chiesa e sulle
pretese gestionali avanzate da parte di alcune sue componenti insoddisfatte di
avere in essa un ruolo sociologicamente “passivo”:
«È una tentazione reale, che affiora in molti ambiti
ecclesiali, quando ad esempio si dice di voler costruire la Chiesa “dal basso”.
In senso proprio, non si può “fare” Chiesa, “organizzare” Chiesa. Perché la
communio non viene dal basso, è grazia e dono che viene dall’alto.
Ma “dall’alto” vuol dire dallo Spirito Santo, non dalla gerarchia. La Chiesa
non si può “fare” dal basso, ma nemmeno dal vertice. Neanche la gerarchia, il
Papa, i vescovi, possono pensare di essere loro a “produrre” la Chiesa. E di
fatto, la tentazione di “fare Chiesa” non è confinata solo alle comunità di
base e ai gruppi parrocchiali. Si manifesta anche ai livelli più alti
dell’istituzione ecclesiastica, o nelle accademie teologiche»[24].
E così
il discorso si conclude riproponendo il tema del “dialogo ecumenico”, al cui
successo Kasper pensa di contribuire re-interpretando il rapporto tra
l’Eucaristia e la Chiesa con le categorie storicistiche dei suoi maestri della
Scuola di Tubinga, eredi della “nouvelle théologie”:
«La
riscoperta dei Padri della Chiesa, dovuta anche a Henri de Lubac, ha portato
nuovi spunti per cogliere la connessione tra Chiesa ed Eucaristia. La Chiesa
celebra l’Eucaristia, ma la Chiesa stessa vive dell’Eucaristia. Tutta
l’enciclica è attraversata dal riconoscimento che la Chiesa non si dà la vita
da sola, non si edifica da se stessa, non si autoproduce. La Chiesa non è un
organo puramente esteriore creato dalla comunità dei credenti, né tanto meno
una specie di ipostasi trascendente che quasi preesiste l’opera in atto di
Cristo nel mondo. E la comunione non è una aggregazione volontaristica tra i
fedeli. Vive della partecipazione a una realtà che la precede, che c’è prima e
che ci viene incontro dall’esterno»[25].
Un’ecclesiologia
di questo tipo, dove l’Eucaristia è ridotta a un momento celebrativo di una
Chiesa che si riconosce soltanto in un’indefinita e indefinibile «opera in atto
di Cristo nel mondo», sembra a Kasper la piattaforma ideale per ripristinare
l’unità dei cristiani e mettere da parte le “incomprensioni” tra cattolici e
luterani, già che essi hanno già in comune la considerazione dell’Eucaristia
come “memoria” della Cena e come segno di appartenenza alla comunità. L’aspetto
propriamente sacramentale, soprattutto per quanto riguarda la Presenza Reale, è
messo da parte per non intralciare l’auspicata intesa con i protestanti. Sono
prospettive teologico-pastorali che in quegli stessi anni Kasper espone in
altri suoi scritti, che poi vengono raccolti nel 2004 in una pubblicazione dal
titolo programmatico Sakrament der Einheit. Eucharistie und Kirche. Ecco
che cosa scrive nella Presentazione:
«Il
secondo e il terzo capitolo sono meditazioni bibliche su aspetti essenziali
dell’eucaristia. Il quarto riprende una conferenza da me tenuta al
Katholikentag di Ulm nel 2004 e colloca gli aspetti ecumenici dell’eucaristia
nel più vasto orizzonte di un ecumenismo della vita. Dal punto di vista
ecumenico ci troviamo in una fase intermedia, in un tempo di transizione. Nel
nostro cammino abbiamo felicemente percorso alcune miglia, ma non abbiamo
ancora raggiunto la meta. L’ecumenismo è un processo di crescita della vita.
Lungo questa strada della crescita e della maturazione sono necessari molti
passi intermedi, che dovranno sfociare nella comunione eucaristica, nel
sacramento dell’unità. […] L’eucaristia è – come l’enciclica Ecclesia de
eucharistia (2003) ha ancora una volta mostrato – fonte, centro e culmine della
vita cristiana e della vita della chiesa, quindi anche della sua pastorale. Nel
corso della sua missione la chiesa cerca in ogni tempo di diventare in maniera
convincente quel che nella sua essenza già da sempre è: in qualche modo il
sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’unità e della pace del mondo [LG
1]. L’eucaristia è il sacramento di questa unità»[26].
Walter
Kasper vede dunque nell’Eucaristia soltanto un rito, che deve esprimere e
rafforzare l’unione (affettiva, sentimentale, non ontologica) tra i membri
della comunità cristiana, auspicando che questa unità sia ancora più evidente
(nell’esteriorità del rito) quando saranno superate le divisioni dottrinali tra
cattolici e luterani[27]. Kasper rappresenta così uno dei più espliciti fautori
di una falsa teologia che interpreta in termini umanistici (esclusivamente
naturali) il genuino senso soprannaturale del dogma cattolico, proprio e
soprattutto riguardo all’Eucaristia, creando tra i fedeli una progressiva
insensibilità nei confronti del carattere soprannaturale dei sacramenti, con
quelle conseguenze pastorali gravissime che già deprecava con giustificato
allarme il cardinale Giuseppe Siri[28]. Questa impostazione umanistica si
rileva anche in interventi più recenti, come ad esempio quello del 7
giugno 2014, quando si è recato a Orvieto per la solennità del Corpus Domini e
ha concelebrato accanto al vescovo Benedetto Tuzia. In quell’occasione il
cardinale Kasper ha reso ancora più esplicita la sua sistematica riduzione
dell’Eucaristia a celebrazione liturgica e a simbolo di unità tra gli uomini,
lasciando in ombra la comunione eucaristica (che presuppone la fede nella
Presenza Reale) per mettere in luce la sola comunione ecclesiale (che può anche
essere un risultato meramente umano, al di fuori della vita soprannaturale in
Cristo). Ecco alcune sue parole nell’omelia in Duomo:
«L’Eucarestia
è il sacramento della conoscenza di un amore che chiede di essere ricambiato
con l’amore, con gratitudine e riconoscenza. Dio condivide con noi e noi siamo
chiamati a condividere nella comunità della famiglia. Oggi porteremo il
Sacramento in processione in questa antica e bellissima città come segno che
Gesù vuole essere presente nelle nostre case e nelle nostre famiglie, nessuno è
escluso dal suo amore. Non possiamo condividere il pane eucaristico, senza
condividere anche il pane quotidiano, con i nostri gesti. Per il bene degli
altri. Con noi celebra tutto il mondo, l’intera Chiesa».
Interventi
ancora più recenti di Kasper sul tema dell’Eucaristia riguardano la possibilità
di concedere l’accesso alla comunione eucaristica ai fedeli che, una volta
divorziati, che si sono sposati con un rito civile. Kasper si è fatto promotore
di tutta una serie di ipotesi “pastorali” che in pratica disconoscono la
dottrina certa sul sacramento della Penitenza e su quello dell’Eucaristia. E
pensare che Kasper, a proposito della comunione ai “divorziati risposati” che
non possono ricevere l’assoluzione sacramentale in quanto incapaci di uscire da
una situazione di peccato grave, nel 2003 aveva detto:
«Già
san Paolo nella prima lettera ai Corinzi scrive che uno, quando accede
all’Eucaristia, prova se stesso. L’Eucaristia e il sacramento della confessione
dei peccati sono necessariamente collegati. Mio papà, molti anni fa, ogni
domenica, non faceva la comunione se non si era prima confessato, e forse
poteva sembrare un po’ esagerato. Ma adesso mi pare che si stia abbondantemente
esagerando in senso opposto. Non si può andare a fare la comunione senza tener
conto dello stato della propria coscienza»[29].
Ora
invece Kasper ipotizza varie ipotesi di soluzione pastorale del problema, auspicando
che vengano adottate dal Sinodo dei vescovi del 2015, strumentalizzando a tal
fine il ricorso alla comunione spirituale. Ad esempio, nell’introdurre il
concistoro del febbraio 2013, si rifà a quanto aveva detto Benedetto XVI nel
2012, ossia che «i divorziati risposati non possono ricevere la comunione
sacramentale ma possono ricevere quella spirituale», e di conseguenza propone
di consigliare ufficialmente a tutti quei fedeli che non fossero in condizione
di comunicarsi sacramentalmente la pratica della “comunione spirituale”. Ma
poi, nello spiegare il senso della sua proposta, Kasper mostra di non saper
distinguere la “comunione di desiderio” dalla vera e propria comunione
sacramentale, che per lui è un atto meramente “spirituale” e simbolico, senza
un reale incontro del fedele con Cristo, Verbo Incarnato. E infatti dice:
«Molti
saranno grati per questa apertura. Essa solleva però diverse domande. Infatti,
chi riceve la comunione spirituale è una cosa sola con Gesù Cristo. […] Perché,
quindi, non può ricevere anche la comunione sacramentale? […] Alcuni sostengono
che proprio la non partecipazione alla comunione è un segno della sacralità del
sacramento. La domanda che si pone in risposta è: non è forse una
strumentalizzazione della persona che soffre e chiede aiuto se ne facciamo un
segno e un avvertimento per gli altri? La lasciamo sacramentalmente morire di
fame perché altri vivano?»[30].
Si
noti l’ambiguità – o, per meglio dire, la vuotezza semantica – di questa frase,
tutta retorica e nient’affatto teologica. Che cosa vorrebbe dire,
teologicamente parlando, «lasciare sacramentalmente morire di fame» dei fedeli
non riconoscendo loro le dovute disposizioni di grazia per ricevere
l’Eucaristia? La Scrittura, quando parla di “fame” in senso teologico, intende
la «fame e sete di giustizia», non il soddisfacimento di un preteso bisogno
affettivo, psicologico, analogo al bisogno di nutrimento per il corpo. Se un
fedele è consapevole di essere in stato di peccato mortale, la sua «fame e sete
di giustizia» è da intendersi come desiderio di conversone e di
riconciliazione, per poter poi ricevere, una volta riconciliato con la valida
celebrazione del sacramento della Penitenza, il sacramento dell’Eucaristia, che
assicura al fedele un aumento effettivo (sia o non avvertito sentimentalmente
dal soggetto) della grazia santificante. Sia nell’uno che nell’altro sacramento
opera (misteriosamente ma efficacemente) la grazia di Cristo, nostro divino
Redentore, e proprio a Lui, percepito dalla fede attraverso i segni
sacramentali, si rivolge l’anima credente che avverta la «fame e sete di
giustizia».
Comunque,
la relazione di Kasper è stata contestata da numerosi cardinali, sia durante il
concistoro che dopo. Ma questa sua equiparazione tra comunione spirituale e
sacramentale è stata poco toccata dalle critiche, che si sono concentrate su
altri punti della relazione. Ma è proprio questa equiparazione che viene
criticata come “fallace” da Alessandro Martinetti in un testo pubblicato da
Sandro Magister[31].
È
l’immanentismo storicistico ciò che porta Kasper a privare di ogni contenuto
veritativo il dogma della Presenza Reale di Cristo nell’Eucaristia.
Da
quanto finora visto, è chiaro che è l’ecclesiologia storicistica ereditata dai
suoi maestri Rahner e Küng ciò che rende Kasper incapace di comprendere il
mistero eucaristico nei sui termini essenziali, che sono metafisici e
realistici. I discorsi di Kasper sulla Chiesa, ridotta a mera comunità dei
credenti in Cristo, – che lo Spirito guiderebbe non tanto a una “statica”
fedeltà alla Tradizione quanto a una “dinamica creatività” che renda possibile
il “dialogo con gli uomini del proprio tempo” -, se hanno qualche plausibilità
dal punto di vista sociologico, non ne ha alcuna dal punto di vista teologico.
Nulla giustifica la concezione esclusivamente “pneumatica” della Chiesa,
presentata dal teologo tedesco come «sacramento dello Spirito»,
definizione che per lui dovrebbe sostituire la definizione “giuridica”
tradizionale, quale ad esempio si ritrova nell’enciclica Mystici Corporis di
papa Pio XII[32]. Il campo di azione dello Spirito Santo non coincide
infatti, come vuole la Tradizione, con quello della Chiesa cattolica romana, ma
si estende ad una più vasta realtà ecumenica, la “Chiesa di Cristo” di cui la
Chiesa cattolica è parte. Per Kasper il decreto Unitatis redintegratio del
Vaticano II ha superato l’ecclesiologia tradizionale, insegnando che l’unica
Chiesa di Cristo va individuata ma in tante comunità ecclesiali separate: la
vera Chiesa cattolica si trova lì «dove non c’è alcun vangelo selettivo»
ma tutto si dilata in maniera inclusiva, nel tempo e nello spazio[33]. La
missione attuale della Chiesa cattolica, pertanto, è di “uscire da sé stessa”
per riacquistare una dimensione che la renda veramente universale[34]. In questa linea si collocano le tante proposte
di riforma della Chiesa formulate da Kasper in vista delle molteplici
iniziative ecclesiastiche per l’intensificazione del dialogo ecumenico, e più
recentemente in vista del Sinodo per la famiglia[35].
Questa
eliminazione radicale dalla teologia di un “discorso serio” su Dio come realtà personale
e trascendente non è un aspetto marginale della riformulazione che della
cristologia ha proposto Walter Kasper, il quale riconosce la sua dipendenza
dall’interpretazione immanentistica dell’Incarnazione avevano già fornito altri
due influenti teologi cattolici, il tedesco Karl Rahner[36]
e lo svizzero Hans Küng[37], entrambi convinti che la
ripresa del pensiero religioso di Hegel e di Schelling avrebbe favorito il
rinnovamento della teologia cristiana. A riprova di tutto ciò, appare assai
significativo un suo scritto del 1970, che fa parte di Die Frage nach Gott,
opera collettanea alla quale hanno collaborato i teologi tedeschi all’epoca più
attivi[38]. Nell’edizione italiana[39]
il contributo di Kasper è intitolato La questione di Dio come problema della
predicazione e riprende le tesi agnostiche e storicistiche esposte pochi
mesi prima nella sua opera Glaube und Geschichte[40].
L’autore, a pochi anni dalla conclusione del Vaticano II, non ritiene
sufficiente quanto la Chiesa stessa ha solennemente insegnato con la
costituzione pastorale Gaudium et spes ma sostiene che il compito dei
teologi sia di rimettere radicalmente in discussione la possibilità di parlare
di Dio agli uomini del nostro tempo[41]. La prima cosa
da fare, a questo proposito, è demolire con la critica razionalistica la
tradizione dogmatica e pastorale della Chiesa, una tradizione che si è svolta
in assoluta coerenza dall’epoca apostolica all’epoca contemporanea ma che – a
detta di Kasper – non è mai stata capace di suscitare una fede autentica :
«Solo
la fede nel Dio presente nella storia è in grado di offrire un ubi consistam
nella storia. Il pensiero storico contemporaneo non rappresenta perciò soltanto
una messa in questione dei modi di parlare di Dio finora in voga; esso
dischiude anche alla predicazione cristiana un kairos unico, in quanto oggi
storicamente per la prima volta può svilupparsi in condizioni ch’essa stessa ha
concorso a produrre. Per poter cogliere questo kairos la teologia e la
predicazione devono certamente liberarsi dalle forme e formule tradizionali,
senza però smarrire la sostanza in esse contenuta. In effetti, già nel quadro
della dottrina tradizionale di Dio, improntata alle categorie della metafisica
greca, si era giunti con difficoltà a esprimere in maniera adeguata il Dio
vivente nella storia»[42].
Non si
può non rilevare come, al di sotto dell’evidente retorica storicistica, non ci
sia in questo discorso un pensiero che abbia una qualche consistenza, né dal
punto di vista teologico né da quello filosofico. Le contraddizioni si
accavallano a ogni passo, e ci si può domandare con quale criterio Kasper
pretende di «esprimere in maniera adeguata il Dio vivente nella storia»,
partendo dal presupposto che la «dottrina tradizionale di Dio, improntata alle
categorie della metafisica greca» è stata totalmente inadeguata. Che cosa rende
adeguata alle esigenze pastorali di oggi la dottrina nuova (immanentistica,
storicistica, trascendentale, fenomenologica) già proposta da Rahner e
riproposta ora da Kasper? La risposta a una domanda del genere non la si
può naturalmente trovare negli scritti di Kasper: egli non fa che ripetere a
ogni piè sospinto la necessità di eliminare tutta la teologia precedente, il
che costituisce la pars destruens della sua dialettica storicistica,
senza curarsi di illustrare quale dovrebbe essere una plausibile pars
construens. A Kasper, in realtà, interessa soltanto mettere da parte il Dio
che la ragione umana (dal senso comune alla metafisica come scienza
dell’essere) riconosce come trascendente, in quanto creatore (anche se la
Scrittura inizia proprio con la rivelazione di questa verità: «Nel principio
Dio creò il cielo e la terra»: Libro della Genesi, 1, 1); il Dio
che si rivela come l’Essere di per sé sussistente (è la “metafisica dell’Esodo”
illustrata da Étienne Gilson); il Dio eterno e immutabile che ha creato
liberamente, per amore, e destina gli uomini alla comunione con Sé nella
vita eterna. Mettere da parte questo Dio, ritenuto “impresentabile” di fronte
alla cultura secolarizzata di oggi, è per Kasper il principale dovere della teologia,
che si deve oggi occupare soltanto dell’uomo nella storia: Dio può restare, nel
discorso teologico, solo come esperienza interiore dell’uomo (Gotteserfahrung),
come vissuto religioso esistenziale (religioser Erlebnis). Ecco allora
che scrive:
«Sulla
base di un concetto statico dell’eternità, si è spesso quasi reso Dio
prigioniero del proprio essere e del proprio sistema. Le aporie che di qui
derivano alla cristologia là dove si tratta di pensare il divenire-uomo
(Menschen-Werdung) di Dio, recentemente, a seguito di K. Rahner, sono state
rilevate energicamente ancora una volta da H. Küng. Le conseguenze di tale
concezione certamente potrebbero essere ancora più funeste per la predicazione
della fede. Un Dio che non abbia la possibilità di essere continuamente un
nuovo inizio, secondo Schelling è “un Dio alla fine”»[43].
Basta
questa breve citazione (che però è assolutamente omogenea allo stile e al
contenuto di tutto lo scritto) per comprendere come il discorso di Kasper su
Dio non abbia nulla di propriamente scientifico, ma vada affastellando i più
triti luoghi comuni della pubblicistica religiosa cattolica del Novecento,
tributaria della teologia (o meglio, della filosofia religiosa) luterana,
rappresentata da Hegel e Schelling nell’Ottocento, cui si riconnettono in vario
modo Oscar Cullmann e Karl Barth nel Novecento. Si noti in particolare
l’assurdità di parlare di un «concetto statico dell’eternità» che andrebbe sostituito
con un «concetto dinamico dell’eternità» capace di includere in sé il
divenire: si tratta di un’assurdità, ho detto, perché la nozione metafisica di
Dio creatore come “atto puro” non implica affatto la staticità, mentre
esclude il divenire, che è caratteristica delle creature; e anche perché questi
teologi, che mettono da parte il Magistero per restare con la sola Scrittura,
contraddicono proprio ciò che nella Scrittura stessa è più insistentemente
enunciato, ossia la trascendenza di Dio rispetto al divenire del mondo[44]. Ancora più assurdo è ricamare argomenti insensati
sulla falsa nozione di un «divenire-uomo (Menschen-Werdung) di Dio»,
quando il dogma cattolico e il suo riferimento biblico dicono ben altro,
parlano cioè dell’Incarnazione come assunzione nel tempo della natura
umana da parte del Verbo eterno («Ho logos sarx egeneto»). Con
l’Incarnazione Dio resta nella sua eterna perfezione e trascendenza: non cambia,
non sparisce e non si annulla nell’uomo; solo la natura umana, assunta dalla
Persona del Verbo, cambia e viene elevata grazie all’unione ipostatica. Ma non
vale la pena sottoporre ad analisi critica queste sconclusionate elucubrazioni
dialettiche, visto che esse hanno in Kasper solo una funzione pragmatica,
performativa: servono a concludere che Cristo è uomo (anzi, simbolo o metafora
dell’uomo) e che Dio può essere lasciato stare da una teologia che voglia
parlare all’uomo di oggi. Questa intenzionale de-costruzione del dogma
cristologico – dal quale dipende la retta comprensione del mistero della Chiesa
– è il presupposto dottrinale di tutte le ambiguità o degli evidenti errori
teologici dei riferimenti che Kasper fa all’Eucaristia nelle sue opere. In
effetti, la dogmatica cattolica, come risulta dalle formule adottate dal
concili ecumenici dei primi cinque secoli, esprime il mistero di Cristo
in termini la cui semantica è sempre materialmente (e talvolta anche
formalmente)metafisica, in quanto basata sulla nozione di “persona” (e
quindi di sostanza) in rapporto dialettico con la nozione di “natura” (o
“essenza”); di conseguenza, anche il dogma eucaristico, come ebbe a ricordare
Paolo VI alla conclusione del Vaticano II[45], è
parimenti espresso in termini la cui semantica è sempre metafisica, in
quanto basata sulla nozione di “sostanza”, solo con la quale è possibile
comprendere il significato del termine “transustanziazione” e il suo effetto
sacramentale, la “presenza reale” di Cristo in Persona (metafisicamente,
la persona è rationalis naturae individua substantia), ossia il fatto
che Egli, dopo la consacrazione, sia presente «vere, realiter et
substantialiter» sotto le specie del pane e del vino. Un teologo che abbia
scelto come metodo teologico “più adeguato ai tempi” l’eliminazione della
semantica metafisica dalla comprensione e dall’approfondimento del dogma
eucaristico, non può che parlare dell’Eucaristia in termini retorici,
inconcludenti, in definitiva irrispettosi di questo grande mistero dell’Amore
che ci è rivelato da Dio e che la Chiesa proclama infallibilmente con le sue
definizioni dogmatiche, la cui eco fedele si trova nella tradizione liturgica[46]: ed è proprio quello che si rileva nelle opere
teologiche di Kasper, come più sopra ho sufficientemente documentato.
NOTE
[1] Vol. 1: Die
Lehre von der Tradition in der Römischen Schule; vol. 2: Das
Absolute in der Geschichte; Vol. 3: Jesus der Christus;
vol. 4: Der Gott Jesu Christi; vol. 5: Das Evangelium
Jesu Christi; vol. 6: Theologie und Wissenschaft; vol.
7: Grundlagen der Dogmatik; vol. 8: Gott, der Schöpfer und
Vollender; vol. 9: Jesus Christus, das Heil der Welt;
vol. 10: Die Liturgie der Kirche; vol. 11: Die Kirche
Jesu Christi; vol. 12: Die Kirche und ihre Ämter; vol.
13: Katholische Kirche; vol. 14: Wege zur Einheit der Christen;
vol. 15: Einheit in Jesus Christus: vol. 16:
Kirche und Gesellschaft; vol. 17: Pastoral; vol. 18: Predigten.
[2]
Vedi Antonio Livi, Vera e falsa teologia. Come distinguere l’autentica
“scienza della fede” da un’equivoca “filosofia religiosa”, Leonardo da
Vinci, Roma 2012.
[3]
Walter Kasper, Das Absolute in der Geschichte. Philosophie und Theologie der
Geschichte in der Spätphilosophie Schellings, Matthias-Grünewald-Verlag,
Mainz 1965; trad. it.: L’assoluto nella storia nell’ultima filosofia di
Schelling, Jaca Book, Milano 1986, p. 53.
[4] Walter Kasper, Das
Absolute, trad. it. cit., p. 90.
[5]
La metafisica storicistica di Friedrich Schelling (1775-1854), eliminata la
trascendenza di un Dio creatore e provvidente, elabora alla fine una nozione di
Storia (Geschichte) che figura come unico agente universale di ogni
evento, con le caratteristiche dell’«anima mundi» degli Stoici e
del «Deus sive natura» di Spinoza. Nella sua ultima opera, Philosophie
der Offenbarung (1858), Schelling contrappone al cristianesimo
“dogmatico” il cristianesimo “della storia”, e riduce la nozione realistica di
“rivelazione” a quella immanentistica di autocoscienza (Selbsbewußtsein)
dello Spirito nel suo sviluppo storico.
[6]
Vedi Antonio Livi, Vera e falsa teologia, cit., pp. 246-255. Dello
stesso avviso è un storico della Chiesa, il quale ha parlato di «quei teologi -
ed oggi son i più - che si son formati non sulla Summa di san Tommaso
d'Aquino e nemmeno su quei "loci" che Melchior Cano individuò
soprattutto nella Rivelazione, nella Chiesa e nella Tradizione, ma sui testi di
rinomati maîtres-à-penser, preferibilmente postconciliari, quasi tutti
sensibili alla suggestione d'un hegelismo vagamente cristianizzato, che ciò
nonostante imprigiona il messaggio evangelico nelle maglie del divenire, lo
spoglia d'ogni sua componente soprannaturale e lo riduce ad un dato
sempre cangiante dell'immanenza» (Roberto de Mattei, “Pasticcio Kasper”, in Il
foglio, 1° ottobre 2014, pp. 1-3).
[7] Walter Kasper, Das
Absolute, trad. it. cit., p. 206.
[8] Cfr Charles Journet, L’Église du Verbe Incarné.
Essai de théologie speculative, tomo I: La hiérarchie apostolique, Téqui,
Paris 1941; tomo II: Sa structure interne et son unité catholique, Desclée de
Brouwer, Paris 1952. Nuova edizione riveduta: Charles Journet, L’Église
du Verbe Incarné, 5 voll., Editions Saint-Augustin, Saint-Maurice 1998-2005.
Vedi Antonio Livi, “Presentazione”, in Charles Journet, Maria corredentrice,
Edizioni Ares, Milano 1989, pp. 6-10; Idem, Marian Coredemption in the
Ecclesiology of Cardinal Charles Journet, in Mary at the Foot of the Cross,
VII: Corredemptrix, therefore Mediatrix of All Graces, a cura di Alessandro
Apolloni, Academy of the Immaculate, New Bedford, Massachusetts 2008, pp.
355-366.
[9]
Cfr Concilio Vaticano II, cost. dogm. Lumen gentium, §§ 52-69.
[10]
Vedi Concilio Vaticano II, cost. dogm. Lumen gentium, § 53: «La beata Vergine,
predestinata fino dall'eternità, all'interno del disegno d'incarnazione del
Verbo, per essere la madre di Dio, per disposizione della divina Provvidenza fu
su questa terra l'alma madre del divino Redentore, generosamente associata alla
sua opera a un titolo assolutamente unico, e umile ancella del Signore,
concependo Cristo, generandolo, nutrendolo, presentandolo al Padre nel tempio,
soffrendo col Figlio suo morente in croce, ella cooperò in modo tutto speciale
all'opera del Salvatore, coll'obbedienza, la fede, la speranza e l'ardente
carità, per restaurare la vita soprannaturale delle anime. Per questo ella è
diventata per noi madre nell'ordine della grazia». Si noti in particolare
l’espressione «vita soprannaturale delle anime», che costituisce la più formale
smentita delle pretese di certa esegesi dei testi conciliari (penso a
Yves-Marie Congar, a Henri de Lubac, e infine a Karl Rahner, maestro di Kasper)
nei quali non si troverebbero più né il sostantivo “anima” né l’aggettivo
“soprannaturale”, considerati residui della teologia scolastica.
[11] Cfr Walter Kasper, Jesus
der Christus, Matthias-Grünewald-Verlag, Mainz 1974; trad. it.: Gesù
il Cristo, Editrice Queriniana, Brescia 1974.
[12]
Cfr Prima Lettera a Timoteo, 2, 5: «C’è un solo Dio e anche un
solo mediatore fra Dio e gli uomini, Cristo Gesù uomo».
[13]
Per una sintesi aggiornata delle diverse interpretazioni teologiche delle
relazioni intra-trinitarie e del rapporto della Trinità con il mondo
(creazione, missione del Figlio e dello Spirito Santo), vedi Antonio Livi, I
presupposti logico-aletici delle diverse ipotesi teologiche sulle relazioni
intratrinitarie, in Il “Filioque”. A mille anni dal suo inserimento nel
Credo a Roma (1014-2014), a cura di Mauro Gagliardi, Libreria Editrice
Vaticana, Città del Vaticano 2015, pp. 325-342.
[14] Vedi Josef Kreiml, Die
Selbstoffenbarung Gottes und der Glaube des Menschen: Eine Studie zum Werk
Romano Guardinis, EOS Verlag, Sankt Ottilien 2002.
[15]
Vedi Brunero Gherardini, “Il Dio di Gesù Cristo”, in Divinitas, 2004.
[16]
Vedi Cornelio Fabro, La svolta antropologica di Karl Rahner, Editore
Rusconi, Milano 1970; Antonio Livi, “Il metodo teologico di Karl Rahner. Una
critica del punto di vista epistemologico”, in Fides catholica, n. 2,
II, 2007, pp. 269-276; Idem, Il metodo teologico di Karl Rahner. Una critica
del punto di vista epistemologico, in Karl Rahner. Un’analisi critica, a
cura di Serafino M. Lanzetta, Edizoni Cantagalli, Siena 2009, pp. 13-27;
Idem, Vera e falsa teologia, cit., pp. 222-227.
[18]
San Giovanni Paolo II, enciclica Ecclesia de Eucharistia, 17 aprile
2003.
[19]
Cfr Gianni Valente, “La Chiesa non si dà la vita da sola. Il presidente del
Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani interviene
sull’ultima enciclica del papa”, intervista al cardinale Walter Kasper, inTrentagiorni,
maggio 2003. Nell’intervista, che pure riguarda direttamente ed
esclusivamente il mistero eucaristico in rapporto con la vita soprannaturale
della Chiesa, il giornalista presentava Kasper avvertendo i lettori che il
teologo tedesco «non ha un profilo da nostalgico tradizionalista. Il cardinale
Walter Kasper viene spesso annoverato nell’ala “progressista” da chi ama
dividere anche il Sacro Collegio secondo le categorie ingessate del bipolarismo
politico. Dal marzo 2001 è presidente del Pontificio Consiglio per la
promozione dell’unità dei cristiani. È quindi ex officiol’esponente di
spicco della Curia romana più coinvolto nei rapporti con i capi delle altre
Chiese e comunità ecclesiali cristiane. […] Le sue lucide e pacate
considerazioni acquistano valore anche in virtù del ruolo affidatogli, visto
che le critiche più forti finora espresse all’Ecclesia de Eucharistia hanno
preso di mira soprattutto il presunto passatismo antiecumenico che
serpeggerebbe nell’enciclica»
[20] Walter
Kasper, in Trentagiorni, cit.
[21]
Walter Kasper, in Trentagiorni, cit.
[22]
Walter Kasper, in Trentagiorni, cit.
[23]
Cfr Karl Rahner – Herbert Vorgrimler, Kleines theologishces Worterbuc, Verlag
Herder, Freiburg 1968; trad. it.: Dizionario di teologia, a cura di
Giuseppe Ghiberti e di Giovanni Ferretti, Editori Associati, Milano 1994,
pp. 243-244: «Tale trasformazione si realizza per offrire la possibilità al
credente di mangiare il corpo e il sangue di Cristo al momento della comunione
e per rendere presente attraverso ad essa il sacrificio della croce in
quest’ora concreta della storia (ad opera della Chiesa). Tuttavia l’avvenimento
che in essa si attua è permanente: fintantoché le specie del “cibo” (per essere
mangiate) rimangono presenti, è presente anche Cristo (perché venga adorato).
Tale presenza durevole e reale di Cristo (“presenza reale”) resta però
necessariamente rapportata all’atto con il quale la Chiesa la pone e alla sua
finalità che è appunto la sua recezione (“mangiare”) da parte del credente».
[24]
Walter Kasper, in Trentagiorni, cit.
[25] Walter Kasper, in Trentagiorni,
cit.
[26] Walter Kasper, Sakrament
der Einheit. Eucharistie
und Kirche
[2004]; trad. it.: Sacramento dell’unità. Eucaristia e Chiesa, trad.
it., Queriniana, Brescia 2004, p.7.
[27] Kasper rifà poi a una
celebre frase di padre Paul Couturier (Lione, 29 luglio 1881 – 24 marzo 1953),
ideatore di un «ecumenismo spirituale», il quale auspicava che nella Chiesa si
formasse «un monastero invisibile in cui si prega incessantemente per l’avvento
dello Spirito» (cfr Walter Kasper, Sakrament der Einheit , trad.it.,
cit., p. 75).
[28]
Cfr Giuseppe Siri, Dogma e liturgia, a cura di Antonio Livi, Leonardo da
Vinci, Roma 2014.
[29]
Walter Kasper, in Trentagiorni, cit.
[30] Il
testo della Relazione introduttiva al dibattito concistoriale, munita di
una Premessa e di due Appendici, è pubblicato in Walter Kasper, Das
Evangelium von der Familie. Die Rede vor dem Konsistorium, Verlag Herder,
Feiburg 2014; trad. it.: Il Vangelo della famiglia, Editrice Queriniana,
Brescia 2014; il volume comprende anche le sue Considerazioni finali
riguardo al dibattito svoltosi all’interno dell’assemblea dei cardinali e un Epilogo
intitolato «Che cosa possiamo fare?».
[31]
«Occorre badare a non favorire che prenda piede nella coscienza del fedele la
convinzione fallace secondo cui la comunione sacramentale dell’eucaristia e la
comunione spirituale siano sostanzialmente la stessa cosa. La convinzione della
sostanziale identità tra comunione eucaristica e comunione spirituale
condurrebbe infatti il fedele ad assuefarsi alla condizione di peccato grave
abituale che gli impedisce la ricezione della comunione eucaristica, mettendo a
repentaglio la salvezza della sua anima. Da una catechesi e da una pastorale
che non siano limpide al riguardo il fedele potrebbe essere infatti indotto ad
avvalorare il ragionamento seguente: la comunione spirituale produce i medesimi
effetti della comunione eucaristica, non c’è differenza tra l’una e l’altra nel
grado di unione a Cristo che realizzano, quindi il peccato grave che mi
impedisce di ricevere la comunione eucaristica non è tale da interdirmi la
medesima unione con Cristo che conseguirei con la recezione dell’Eucaristia.
Conclusione: questo peccato grave (se ha ancora senso chiamarlo tale) non
produce effetti così gravi da giustificare che io mi adoperi per emendarmene.
Non mi pare inutile pertanto rimarcare che la comunione spirituale con Cristo
da parte di chi, versando in situazione di peccato grave abituale, non può
accostarsi alla comunione eucaristica, è dono largito dall’amore misericordioso
di Cristo, che non vuole la morte del peccatore, ma incessantemente opera perché
si converta e giunga a una perfetta comunione con Lui. La comunione spirituale
deve pertanto essere vissuta (e i pastori debbono curare che sia intesa e
praticata correttamente così) non come esauriente surrogato della comunione
eucaristica ma come dono con il quale Cristo si unisce spiritualmente al fedele
per infiammarlo di sempre più fervente desiderio di unirsi perfettamente a Lui,
purificandosi dal peccato per poter accedere all’assoluzione sacramentale e
alla comunione eucaristica» (Alessandro Martinetti, citato da Sandro Magister,
“Settimo cielo”, inL’Espresso, 22 maggio 2014).
[32]
Cfr Walter Kasper, Gerhart Sauter, Kirche – Ort des Geistes [1980];
trad. it.: La Chiesa luogo dello spirito.Linee di ecclesiologia
pneumatologica , trad. it., Queriniana, Brescia 1980, p. 91.
[33] Walter Kasper, Das Absolute, trad.
it. cit., p. 94. Come
è noto, questa teoria (e la relative falsa interpretazione del dettato
conciliare) è stata ufficialmente smentita dall’istruzione Dominus Iesus.
[34] Walter Kasper, Das
Absolute, trad. it. cit., p. 206. La
medesima tesi si ritrova, molti anni dopo, in Walter Kasper, Katholische
Kirche. Wesen – Wirklichkeit – Sendung, Verlag Herder, Freiburg im Breisgau/Basel/Wien 2011
(cfr trad. it.: Chiesa cattolica. Essenza, realtà, missione, Editrice Queriniana, Brescia
2012, p. 289).
[35] Vedi Dogma e pastorale.
L’ermeneutica del Magistero, dal Vaticano II al Sinodo sulla famiglia, a
cura diAntonio Livi, Leonardo da Vinci, Roma 2015.
[36] Cfr Karl Rahner, Zur
Theologie der Menschenwerdung, in Schriften zur Theologie, vol. IV,
Einsiedeln 1960, pp. 145 ss.
[37] Cfr Hans Küng, Menschenwerdung
Gottes. Eine Einfürung in Hegels theologische Denken als Prolegomena zu einer
künftigen Christologie, Verlag Herder, Freiburg im Breisgau 1970, pp.
522-557; 637-646.
[38] Die Frage nach
Gott, herausgegeben von Joseph Ratzinger, Verlag Herder, Freiburg im
Breisgau 1971.
[39] Saggi sul problema di
Dio, a cura di Joseph Ratzinger, Editrice Morcelliana, Brescia 1975.
[40] Cfr Walter Kasper, Unsere
Gottesbeziehung angesichts der sich wandelden Gottesvorstellung, in
Idem, Glaube und Geschichte, Matthias-Grünewald-Verlag, Mainz
1970, pp. 101-119; Idem, Möglickheiten der Gotteserfahrung heute, in
Idem, Glaube und Geschichte, pp. 120.143.
[41] «In Rahner e nella vasta
scuola (non si sbaglierebbe troppo se si dicesse che oggi è, forse, la
dominante, almeno in sede accademica) a lui ispirata o prossima il mondo (de
facto il mondo moderno, ovvero la modernità assiologica) diviene, in forza
d’una ridefinizione del rapporto tra Dio e la Storia, della nozione di
Rivelazione e del concetto stesso d’Incarnazione e di molto altro, luogo
teologico, anzi “il” luogo teologico» (Samuele Ceccotti, “La sentenza della
Corte suprema degli Stati Uniti e la non negoziabilità dei principi contrari
all’ordine naturale”, in Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuan, 23
luglio 2015)
[42] Walter Kasper, La
questione di Dio come problema della predicazione, in Saggi sul problema
di Dio, cit., p. 182.
[43] Walter Kasper, La
questione di Dio come problema della predicazione, in Saggi sul problema
di Dio, cit., p. 183.
[44] Vedi, ad esempio, quanto
si legge nella Lettera di Giacomo, 16-18: «Non lasciatevi ingannare,
fratelli miei carissimi; ogni buona donazione e ogni dono perfetto vengono
dall’alto e discendono dal Padre dei lumi, presso il quale non vi è mutamento
né ombra di rivolgimento. Egli ci ha generati di sua volontà mediante la parola
di verità, affinché siamo in certo modo le primizie delle sue creature».
[45] Cfr Paolo VI, enciclica Mysterium
fidei, 3 settembre 1965.
[4
6] Vedi Giuseppe Siri, Dogma
e liturgia, a cura di Antonio Livi, Leonardo da Vinci, Roma 2014.
(Fonte:
Antonio Livi, Disputationes
Theologicae, 19 agosto 2015)
http://disputationes-theologicae.blogspot.it/2015/08/leucarestia-secondo-kasper.html#more