Indovinello: chi è l’autore della seguente citazione?
“Mai la Chiesa ha avuto come oggi più urgente bisogno di oppositori contro il liberalismo religioso, mentre, ahimé, questo errore si stende come una rete su tutta la terra. [...] Il liberalismo religioso è la dottrina secondo la quale non esiste nessuna verità positiva in campo religioso, ma che qualsiasi credo è buono come qualunque altro; e questa è la dottrina che, di giorno in giorno, acquista consistenza e vigore. Questa posizione è incompatibile con ogni riconoscimento di una religione come vera. Esso insegna che tutte sono da tollerare, in quanto sono tutte materia di opinione. La religione rivelata non è verità, ma sentimento e gusto, non fatto obiettivo. [...] Ogni individuo ha diritto a interpretarla a modo suo. [...] Si può andare nelle chiese protestanti e in quelle cattoliche; si può ristorare lo spirito in ambedue e non appartenere a nessuna. Si può fraternizzare insieme in pensieri e affari spirituali, senza avere dottrina comune o vederne la necessità. Poiché la religione è un fatto personale e un bene esclusivamente privato, la dobbiamo ignorare nei rapporti reciproci”.
Joseph Ratzinger? Camillo Ruini? Né l’uno né l’altro. Per trovare l’autore di questa citazione bisogna risalire indietro di 130 anni, al 12 maggio del 1879, al discorso che John Henry Newman pronunciò dopo aver ricevuto da Leone XIII il “Biglietto” della nomina a cardinale.
Nello stesso discorso il neoporporato – grande teologo e grande convertito dall’anglicanesimo, tanto osannato come “profeta” dai cattolici progressisti di oggi – aggiungeva:
“La bella struttura della società che è l’opera del cristianesimo sta ripudiando il cristianesimo. [...] Filosofi e politici vorrebbero un’educazione universale, affatto secolare, che provveda le ampie verità etiche fondamentali di giustizia, benevolenza, veracità e simili, con la volontà di rimuovere ed escludere la religione”.
Il discorso di Newman uscì sulla prima pagina de “L’Osservatore Romano” di due giorni dopo. Ed è stato riproposto 130 anni dopo, lo scorso 20 maggio, ancora da “L’Osservatore Romano”.
Con questo commento finale, da parte del teologo Inos Biffi:
“È difficile non riconoscere la rovinosa attualità di questo liberalismo religioso, che preoccupava Newman nel 1879. Oggi infatti si sta esattamente e largamente avverando e diffondendo la persuasione che le religioni siano equivalenti, che sia indifferente e non pertinente la questione della loro verità, che una confessione o una Chiesa si equivalgono. E che, in ogni caso, la religione appartiene esclusivamente all’ambito privato e personale, senza riflessi sociali. A non mancare di equivocità è talora lo stesso dialogo interreligioso: quando cioè dovesse attutire la coscienza che, alla fine, a importare è la religione vera. La confusione che al riguardo si sta creando, all’interno stesso di esperienze cristiane elitarie, e ‘profetiche’, come le chiamano, è mirabile e singolare, ma è assolutamente contraria al Vangelo e alla tradizione ecclesiale. Parlano del Popolo di Dio e ne annebbiano le certezze.
“Anche l’altro, e connesso, rilievo di Newman appare di sorprendente attualità: quello relativo allo smantellamento della ‘cultura’ cristiana e delle sue risorse educative, con il pretesto della ‘laicità’ e dei valori ‘laici’, come diciamo oggi. Il neocardinale parlava di ‘giustizia, benevolenza’, noi solitamente di ’solidarietà’. Ma una pura educazione ‘laica’ condotta nell’indifferenza religiosa è incapace di fondare un’etica ed è fatalmente destinata a educare al nulla.
“Oggi chi afferma una cosa stramba o antiecclesiale si autofregia del titolo di profeta. Lo fu invece davvero Newman, le cui opere con la loro finezza storica e psicologica, con la loro bellezza poetica, e con lo splendore della loro verità, hanno impreziosito per sempre la Chiesa”.
(Fonte: Sandro Magister, Settimo cielo, 22 maggio, 2009)
giovedì 28 maggio 2009
Chi è senza peccato scagli la prima pietra: gli intrallazzi del giornale di Tonino Di Pietro
La figlia del leader, il figlio del suo braccio destro Formisano, il figlio del braccio destro di Formisano, la nipote di un assessore Idv dell’Abruzzo, l’ex addetto stampa (Ferdinando Pelliccia) di un assessore regionale Idv in Campania, e per ultima un’altra aspirante giornalista, con credenziali diverse da quelle parentali: lei era apparsa nuda sulla rivista Blitz nel 1983, tra «Il diario erotico di Ilona Staller» e un miniposter staccabile di Gloria Guida «diva tv proibita» (come ha rivelato Panorama). Tutti raccomandati, amici del leader o figli di, tutti appassionatamente insieme nella redazione del giornale di partito, praticanti con tesserino dei giornalisti. Tanto, paga Pantalone, alla faccia del partito anti-casta. Parliamo di Italia dei valori, stavolta non del partito, ma del giornale omonimo.
Il quotidiano organo dell’Idv, nato e morto nel giro di un anno e mezzo (giusto il tempo di incassare circa 4 milioni di euro di fondi pubblici all’editoria), dal marzo 2006 al luglio 2007, chiuso improvvisamente e senza spiegazioni da Di Pietro. Una vicenda che si porta ancora dietro molti misteri e anche qualche strascico giudiziario. È quello che riguarda appunto l’ex modella di Blitz, Graziella Solaroli, candidata poi da Di Pietro alle comunali di Roma nel 2006 (ma rimediò solo 21 voti...) e imposta come praticante nel neonato giornale di partito nel febbraio 2006. Nessuno l’ha mai vista in redazione. Però l’ex candidata ha richiesto all’editore la certificazione del praticantato, sostenendo anzi che non la facevano lavorare.
Un’altra praticante mai vista in redazione era Anna Di Pietro, figlia di Tonino. «Di Pietro mi chiese la certificazione del praticantato - racconta raggiunta al telefono dal Giornale l’ex direttore di Italia dei valori, Delia Cipullo - dopo sei mesi che ci aveva fatto chiudere il giornale, lasciandoci alla fame, aveva pure il coraggio di chiedermi quel certificato! Anche in quel caso dissi di no, perché sarebbe stato falso, visto che sua figlia non aveva svolto veramente il praticantato». Quando l’anno scorso la Cipullo denunciò questa storia da figli so piezz ’e core, Di Pietro si difese ad Annozero dicendo che erano tutte falsità, «querelerò, querelerò», minacciò Tonino. «Non ha querelato» spiega la Cipullo, che rivela anche una censura santoriana. «Provai a chiamare Annozero per rispondere in diretta a Di Pietro e dire come stavano le cose. Telefonai inutilmente: non mi fecero parlare».
Il quotidiano dell’Idv aveva come direttore editoriale Nello Formisano, plenipotenziario campano di Di Pietro (prima senatore, oggi deputato Idv). Il primo giornalista contattato per fare il direttore responsabile fu Marco Travaglio, ma chiese una cifra troppo al di sopra delle possibilità dell’editore, e la cosa finì lì. Siamo all’inizio del 2006, due anni prima della dichiarazione di voto di Travaglio per l’Idv. Dunque era già un dipietrista convinto. Formisano scriveva spesso articoli per il giornale Idv, come molti altri parlamentari Idv, tra cui ovviamente Tonino che però aveva di più, una rubrica tutta sua in prima pagina chiamata «L’angolo Di Pietro». E qui arriviamo al mistero della chiusura. «Di Pietro scrisse la sua rubrica ancora due giorni prima di convocare l’editore al ministero (nel luglio 2007 era ministro delle Infrastrutture, ndr) per comunicargli che da lì a tre giorni l’Idv non avrebbe più concesso al giornale lo status di organo del partito. Voleva dire toglierci i finanziamenti, lasciarci sul lastrico e toglierci il lavoro. E sa una cosa? Non si è mai capito perché decise così improvvisamente di tagliare il suo quotidiano».
C’è chi fa notare la coincidenza temporale tra la chiusura del giornale Idv (di fatto, una creatura di Nello Formisano) a fine luglio del 2007 e le notizie avute da Di Pietro proprio in quei giorni sulle indagini in corso a Napoli circa le telefonate tra Mautone e i dipietristi campani (molte di quelle conversazioni erano proprio con Formisano). Ma è solo una supposizione.
Quel giornale d’altra parte era già nato in modo ambiguo, sotto l’egida dell’allora dipietrista Sergio De Gregorio (all’inizio la sede del giornale era quella napoletana del movimento Italiani nel mondo) insieme all’editore Antonio Lavitola, cugino di quel Walter Lavitola che poco tempo prima aveva riesumato l’Avanti!. L’ex pm di Mani pulite patron politico di un giornale di un editore filo-craxiano? Sembra un paradosso, ma non è lontano dalla verità.
E l’ex candidata Graziella Solaroli, che fine ha fatto? Nel partito non si sente più. Qualcuno dice sia Grazia Visconti, giornalista e scrittrice autrice di inchieste sul mondo delle escort di lusso. Chissà. Però era proprio quello il nome con cui l’ex modella di Blitz Graziella Solaroli firmò i tre pezzi (mai pubblicati) sul quotidiano Italia dei valori.
(Fonte: Paolo Bracalini - Gian Marco Chiocci, il Giornale, 27 maggio 2009)
Il quotidiano organo dell’Idv, nato e morto nel giro di un anno e mezzo (giusto il tempo di incassare circa 4 milioni di euro di fondi pubblici all’editoria), dal marzo 2006 al luglio 2007, chiuso improvvisamente e senza spiegazioni da Di Pietro. Una vicenda che si porta ancora dietro molti misteri e anche qualche strascico giudiziario. È quello che riguarda appunto l’ex modella di Blitz, Graziella Solaroli, candidata poi da Di Pietro alle comunali di Roma nel 2006 (ma rimediò solo 21 voti...) e imposta come praticante nel neonato giornale di partito nel febbraio 2006. Nessuno l’ha mai vista in redazione. Però l’ex candidata ha richiesto all’editore la certificazione del praticantato, sostenendo anzi che non la facevano lavorare.
Un’altra praticante mai vista in redazione era Anna Di Pietro, figlia di Tonino. «Di Pietro mi chiese la certificazione del praticantato - racconta raggiunta al telefono dal Giornale l’ex direttore di Italia dei valori, Delia Cipullo - dopo sei mesi che ci aveva fatto chiudere il giornale, lasciandoci alla fame, aveva pure il coraggio di chiedermi quel certificato! Anche in quel caso dissi di no, perché sarebbe stato falso, visto che sua figlia non aveva svolto veramente il praticantato». Quando l’anno scorso la Cipullo denunciò questa storia da figli so piezz ’e core, Di Pietro si difese ad Annozero dicendo che erano tutte falsità, «querelerò, querelerò», minacciò Tonino. «Non ha querelato» spiega la Cipullo, che rivela anche una censura santoriana. «Provai a chiamare Annozero per rispondere in diretta a Di Pietro e dire come stavano le cose. Telefonai inutilmente: non mi fecero parlare».
Il quotidiano dell’Idv aveva come direttore editoriale Nello Formisano, plenipotenziario campano di Di Pietro (prima senatore, oggi deputato Idv). Il primo giornalista contattato per fare il direttore responsabile fu Marco Travaglio, ma chiese una cifra troppo al di sopra delle possibilità dell’editore, e la cosa finì lì. Siamo all’inizio del 2006, due anni prima della dichiarazione di voto di Travaglio per l’Idv. Dunque era già un dipietrista convinto. Formisano scriveva spesso articoli per il giornale Idv, come molti altri parlamentari Idv, tra cui ovviamente Tonino che però aveva di più, una rubrica tutta sua in prima pagina chiamata «L’angolo Di Pietro». E qui arriviamo al mistero della chiusura. «Di Pietro scrisse la sua rubrica ancora due giorni prima di convocare l’editore al ministero (nel luglio 2007 era ministro delle Infrastrutture, ndr) per comunicargli che da lì a tre giorni l’Idv non avrebbe più concesso al giornale lo status di organo del partito. Voleva dire toglierci i finanziamenti, lasciarci sul lastrico e toglierci il lavoro. E sa una cosa? Non si è mai capito perché decise così improvvisamente di tagliare il suo quotidiano».
C’è chi fa notare la coincidenza temporale tra la chiusura del giornale Idv (di fatto, una creatura di Nello Formisano) a fine luglio del 2007 e le notizie avute da Di Pietro proprio in quei giorni sulle indagini in corso a Napoli circa le telefonate tra Mautone e i dipietristi campani (molte di quelle conversazioni erano proprio con Formisano). Ma è solo una supposizione.
Quel giornale d’altra parte era già nato in modo ambiguo, sotto l’egida dell’allora dipietrista Sergio De Gregorio (all’inizio la sede del giornale era quella napoletana del movimento Italiani nel mondo) insieme all’editore Antonio Lavitola, cugino di quel Walter Lavitola che poco tempo prima aveva riesumato l’Avanti!. L’ex pm di Mani pulite patron politico di un giornale di un editore filo-craxiano? Sembra un paradosso, ma non è lontano dalla verità.
E l’ex candidata Graziella Solaroli, che fine ha fatto? Nel partito non si sente più. Qualcuno dice sia Grazia Visconti, giornalista e scrittrice autrice di inchieste sul mondo delle escort di lusso. Chissà. Però era proprio quello il nome con cui l’ex modella di Blitz Graziella Solaroli firmò i tre pezzi (mai pubblicati) sul quotidiano Italia dei valori.
(Fonte: Paolo Bracalini - Gian Marco Chiocci, il Giornale, 27 maggio 2009)
Non si processa con le allusioni e le insinuazioni
Gentile onorevole Franceschini, la ringrazio per avere risposto alle domande che ieri le ho rivolto. Ho molto apprezzato la sua disponibilità e la sua celerità.Credo e spero che non se ne avrà a male se mi permetto una controreplica. E qui, mi perdoni, ma mi sento come l’Inter che vince lo scudetto senza giocare perché il Milan perde a Udine. Non ho neppure bisogno di pensare e di scrivere, infatti, per risponderle. Mi basta rubare ciò che ha scritto ieri Antonio Polito sul Riformista, un quotidiano di sinistra: moderata quanto si vuole, ma di sinistra. Ecco qua che cosa ha scritto Polito: «La domanda (all’opposizione, ndr) è la seguente: intendete trasformare il caso Noemi in un caso istituzionale, in un Noemi-Gate? Esponenti di primo piano del Pd chiedono che il premier risponda in Parlamento. (...) Dario Franceschini è passato dal “tra moglie e marito non mettere il dito” della sua prima dichiarazione a “il premier deve chiarire i suoi rapporti con Noemi”. In mezzo c’è la campagna di Repubblica, cui nessun segretario del Pd sa resistere, e qualche sondaggio che fa sperare in un effetto-minorenne soprattutto tra le elettrici di una certa età, solitamente punto di forza del Cavaliere».Questa citazione risponde già, onorevole, a molte delle sue contro-obiezioni. Lei dice che ha «spiegato che questa vicenda non può essere oggetto di atti parlamentari», ma anche Polito, direttore di un giornale di sinistra, scrive che «esponenti di primo piano del Pd chiedono che il premier risponda in Parlamento»; lei dice che non ha mai nominato Noemi, ma anche Polito, che è direttore di un giornale di sinistra, le ricorda che invece l’ha nominata; lei dice che non ha mai usato le espressioni che noi le attribuiremmo, e che quindi non è vero che ha parlato di depravazione sessuale, di malattia e di rapporti con minorenni: ma quando lei dice che Berlusconi «deve chiarire i suoi rapporti con Noemi», come ci ricorda Polito che è direttore di un giornale di sinistra, a che tipo di rapporti si riferisce? Se fossero rapporti innocenti, che cosa ci sarebbe da chiarire?Suvvia, onorevole. Non faccia come coloro che lanciano il sasso e nascondono la mano. È vero che lei non ha usato quelle espressioni. Ma neanche Repubblica le ha usate. È che le si fa intendere, in perfetto stile da sepolcri imbiancati. Mi scusi onorevole, ma non prendiamoci in giro: tutto il can-can che s’è scatenato in questi giorni, che messaggio vuol far passare agli italiani? Lo sa benissimo anche lei: che Berlusconi frequenta una famiglia poco raccomandabile e che ha rapporti sessuali con le minorenni. Altrimenti, perché il premier dovrebbe perdere consensi «soprattutto fra le elettrici di una certa età»?Noi le abbiamo rivolto quelle domande perché riteniamo che lei e il suo partito siate diversi (spero che avrà colto questa attestazione di stima, che le assicuro è sincera) dai diffamatori in servizio effettivo e permanente. Il Vangelo? Le campagne demonizzatrici del vecchio Pci? Questo volevo dirle, onorevole. Che la campagna in corso sul caso-Noemi è in perfetta continuità con quella vecchia scuola basata sul motto «calunniate calunniate qualcosa resterà». Con l’aggravante dell’ipocrisia: non si dice chiaro e tondo che Letizia è un malavitoso e che il premier è un depravato (e non lo si dice anche perché - mi conceda - non c’è mezzo indizio); però si allude.
Lei continua a ripetere che Berlusconi deve rispondere alle dieci domande di Repubblica. Ma le legga bene, quelle domande. Uno potrebbe tranquillamente rispondere perché, se prese alla lettera, non contestano alcun reato e alcun comportamento moralmente censurabile. Berlusconi potrebbe dire: ho conosciuto il signor Letizia il giorno tale e nel luogo tale; a Noemi ho regalato questo e quest’altro. Embé? Che cosa ci sarebbe di male? Nulla. Ma a Repubblica delle risposte a quelle domande non frega niente. L’obiettivo - che ha ottenuto - è quello di insinuare altre domande. Non sto a risponderle sugli altri punti, che sono marginali. Il punto centrale era questo. E sono sicuro che ci siamo capiti.
(Fonte: Michele Brambilla, Il Giornale, 27 maggio 2009)
Lei continua a ripetere che Berlusconi deve rispondere alle dieci domande di Repubblica. Ma le legga bene, quelle domande. Uno potrebbe tranquillamente rispondere perché, se prese alla lettera, non contestano alcun reato e alcun comportamento moralmente censurabile. Berlusconi potrebbe dire: ho conosciuto il signor Letizia il giorno tale e nel luogo tale; a Noemi ho regalato questo e quest’altro. Embé? Che cosa ci sarebbe di male? Nulla. Ma a Repubblica delle risposte a quelle domande non frega niente. L’obiettivo - che ha ottenuto - è quello di insinuare altre domande. Non sto a risponderle sugli altri punti, che sono marginali. Il punto centrale era questo. E sono sicuro che ci siamo capiti.
(Fonte: Michele Brambilla, Il Giornale, 27 maggio 2009)
Chiesa tirata per la tonaca su gossip e veline
Questo rumore che arriva da sinistra è davvero strano. Sembrano i colpi di un martello, qualcosa che viene da lontano. Qualcuno sta costruendo una fila di gogne, come nel New England puritano del XVII secolo. Questa lunga schiera di intellettuali, moralisti, filosofi, ex magistrati, salottieri, imbonitori televisivi, e vecchie laiche con il rosario in mano, camminano pregando e imprecando dalle parti di Salem [la città delle streghe]. Tutti vestiti di nero, con le facce di circostanza, in attesa di una bolla papale, delle parole di un vescovo, di un segno divino. La Chiesa che fa? Parla o non parla? Qui serve una botta di morale. Signori della corte, tutti in piedi, è cominciata la caccia alle veline. Noemi e le altre. Tutte le donne dello scandalo, quelle senza vergogna, quelle con il book e le tette di fuori, quelle che sognano Amici, quelle che puzzano di periferia, si riflettono su youtube e si raccontano su Facebook, quelle truccate a 16 anni, con l’accento di Casoria o di Pioltello, quelle con i padri con la coda di cavallo, loro, tutte loro, queste streghe del XXI secolo che stanno mandando in malora il buon nome dell’Italia. Che fa la Chiesa parla o non parla? I bravi cittadini di Salem sono impazienti. Queste svergognate meritano una punizione, magari una bella V scarlatta disegnata sul corsetto. V come velina. V come vendetta. V come venduta. V come volgare. V come vanity. V come vergogna. V come verrà il giorno. V come Vade retro Satana. V come vip, very important p. Ma questa volta p non sta per persona. La sinistra di Salem può dare sfoggio della sua casta e dotta morale. Berlusconi e le veline sono tutto ciò che loro odiano. E allora via in processione dietro Dario Fo, il vecchio giullare vestito da Savonarola. Tutti a salmodiare Famiglia Cristiana, che punta l’indice contro l’Italia delle veline e delle vallette, figlie di una «vita truccata», sgualdrine di un’emergenza nazionale che inquina anche la politica. Tutte al rogo signorine, nude, scalze e fustigate. Manca solo la bolla papale. Che fa la Chiesa, parla? Parla Bagnasco, il capo della Cei, il monsignore dei vescovi italiani. Il cardinale parla di modelli che uccidono l’anima e di giovani senza speranza. Ma ai quotidiani di Salem tutto questo non basta. L’Unità tira il prelato per la tonaca. Troppo tiepido sulla morale. Troppo generico: «Neppure un cenno alla cultura delle veline». Qui servono nomi e cognomi. Serve una bella V scarlatta, sul corpo ignobile delle veline. Chi se ne frega di tutto il resto. Bagnasco parla della crisi? Non è questo il problema. I precari? Si arrangino. Gli operai? E chi sono? Noi siamo l’Unità, il sacro foglio dei puritani, mica il giornale fondato da Gramsci. La laicità? Una bufala. L’emergenza è un’altra. L’emergenza sono le veline. L’emergenza è Berlusconi. Santità basta una parola e il mondo sarà salvato. La sinistra di Salem ora ha bisogno della mano di Dio. Il Papa, un profeta, Maradona: va bene tutto. Intervenire è un dovere cristiano. Queste sono cose serie. Mica si parla di embrioni, aborto, Eluana e faccenducole di questo genere. Qui non è in ballo la vita, ma qualcosa di molto più sacro. Qui c’è Berlusconi da cacciare da Palazzo Chigi. Qui c’è la morale di una nazione minacciata dalle cosce di queste ragazzotte. Qui serve una crociata vera, seria. Non quel monsignor Crociata che ieri si è limitato a dire: «Ognuno ha la propria coscienza». Scherziamo? Questi non sono mica affari di famiglia. Storie private. Privacy. Peccati da confessionale. Qui c’è l’anima di Berlusconi da mandare al rogo. Lui, i suoi valori, la televisione, i suoi modelli culturali, il suo potere e le sue veline. Non sentite come battono i martelli di Salem? Questa è una vendetta attesa quindici anni. È la rabbia dei boniviri, la casta dei custodi del Novecento, con i loro partiti, i loro intellettuali, le loro verità sacre e inviolabili, la loro cultura cristallizzata, che non ha mai perdonato a Berlusconi di aver vinto, di aver sparigliato le carte, di aver cambiato la storia. La sinistra di Salem si è arroccata nella sua cittadella e disprezza tutto ciò che non gli assomiglia, soprattutto i barbari. Questa nuova cultura che Baricco, con intelligenza, si rifiuta di giudicare decadente. I barbari non sono peggiori dei sacerdoti del Novecento. Sono un’altra cosa. E quelle veline di periferia, che a Salem tanto detestano, non sono streghe da marchiare a fuoco. Ma forse il problema non è neppure questo. Il problema, sempre a Salem, è questa democrazia che si ostina a premiare Berlusconi. Sono i voti, il consenso, che va dalla parte sbagliata. Il problema è come abbattere l’anomalia. E allora tutto può servire. Anche il moralismo. Anche la commissione della Bonino, le domande di Repubblica, gli anatemi di Di Pietro, le punizioni divine, le prediche di Franceschini e le scomuniche della Chiesa. Quella che fino a ieri doveva tacere. Tutto, proprio tutto, può servire. Perfino una lettera scarlatta.
(Fonte: Vittorio Macioce, Il Giornale, 27 maggio 2009)
(Fonte: Vittorio Macioce, Il Giornale, 27 maggio 2009)
Ezio Mauro a “Ballarò”: la Repubblica delle babbucce
Ballarò coi lupi. Ezio Mauro vince la tradizionale ritrosia made in Cuneo e scende nell’arena tv. Si capisce: quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare. Eccolo lì, nel salotto di Giovanni Floris, su Raitre, fra Maurizio Crozza con lo scolapasta in testa, Franceschini che dice di non aver mai cavalcato la polemica su Noemi (ma va’ là) e la maschera trasfigurata di Marco Pannella, che ormai in tutte le trasmissioni viene imposto dall’alto come un comandamento divino (sempre al posto della povera Bonino, fra l’altro). Eccolo lì, fra un servizio un po’ fazioso e una domanda compiacente. Giacca blu, accento piemontese. È proprio lui, il superdirettore Mauro. Lui che non si vede quasi mai, lui che normalmente si sottrae a tutti i dibattiti, forse perché ritiene troppo futili argomenti come la crisi economica, l’immigrazione o le riforme istituzionali. Adesso finalmente ha trovato un tema che merita la sua partecipazione in diretta nazionale: Noemi. Si capisce: c’è da discutere di problemi fondamentali per il Paese: quando la ragazza è stata invitata alla sfilata di moda di Roma era accompagnata solo da papà Elio o anche da mamma Anna? È vero che papà Elio quella sera ha guardato una partita alla televisione con il maggiordomo Alfredo? E soprattutto: durante la passeggiata per il centro storico di Roma, in compagnia del premier, è vero o no che la famiglia Letizia acquistò un paio di babbucce?Voi capite: da queste domande potrebbe dipendere il futuro del Paese. La nostra democrazia è in pericolo. E se invece delle babbucce avessero comprato, che so io, un pigiama a pois? E se invece che guardare la partita in televisione con il maggiordomo Alfredo, papà Elio fosse andato a mangiare la coda alla vaccinara in una trattoria di Trastevere? Ve ne rendete conto: saremmo alle soglie della crisi istituzionale, ci sarebbero i presupposti dell’impeachment. Il Noemigate avrebbe raggiunto il suo culmine.Perciò, di fronte a una tale emergenza democratica, la Rai che poteva fare? Ovvio: concedere al potente direttore di Repubblica la tribuna di prima serata. Un assolo, proprio in principio di trasmissione, nella fascia di massimo ascolto. Fatevene una ragione, non poteva essere altrimenti: la Rai non viene forse mantenuta col denaro dei telespettatori? E i telespettatori non desiderano forse sapere tutto delle babbucce di Noemi e delle cartoline storiche di papà Elio? E vogliamo omettere qualche dettaglio sulla partita di calcio vista col maggiordomo Alfredo? Per esempio: c’erano o no le patatine? E le birre? Rutto libero? Temi di grande rilevanza mondiale, ça va sans dire. Brava Raitre, è questo il modo giusto per spendere il denaro pubblico.Ezio Mauro, d’altra parte, come ospite è perfetto. Televisivamente un po’ rigido, ma preparato. Da qualche giorno, in effetti, la sua Repubblica fa le scarpe a Eva Express. I fedelissimi l’hanno ribattezzata Repubblichella 2000. Prima vedeva solo nero, adesso vede solo (cronaca) rosa. È un bel progresso: siamo passati dai racconti della catastrofe a quelli di Letizia, dal pianeta globale al piccolo mondo di Casoria. E nel passaggio epocale si sono scatenati i cronisti della meglio gioventù: a cominciare da Giuseppe D’Avanzo, uno che ha attraversato i grandi scandali della storia recente per finire a raccogliere le confidenze dell’ex fidanzato Gino. Triste fine, come dice Andrea Marcenaro: da SuperGladio a SuperGlande.
Tanto impegno dei neopaparazzi, però, non pare produrre frutti significativi. Non ci si improvvisa dei Fabrizio Corona in due giorni. E infatti anche le ultime pagine di Repubblichella 2000 dedicate ai gravi interrogativi del caso Noemi, sono piuttosto debolucce. Quali sarebbero le gravi bugie attribuibili a Berlusconi? Il premier ha più volte ripetuto, e ieri lo ha ribadito con un comunicato ufficiale, di non aver mai detto che il signor Letizia era autista dell’onorevole Craxi. Il primo incontro fra i due sarebbe avvenuto all’hotel Raphael, ma si trattò solo di una stretta di mano. Poi la vera conoscenza nel 2001, all’hotel Vesuvio di Napoli, quando Elio Letizia portò a Berlusconi libri e cartoline antiche; poi la morte del figlio Yuri, la lettera del Cavaliere, la visita dei signori Letizia a Roma... Repubblica non ci crede. Liberissima, naturalmente. Ma che cosa cambia per il Paese?Dopo aver fatto a pezzi la vita privata di una diciottenne, dopo averla messa alla berlina in ogni modo, i segugi di Repubblichella 2000 sono riusciti ad appurare un’altra verità fondamentale per la storia patria: gli incontri fra Berlusconi e Noemi sono stati quattro. Tre alla presenza dei genitori della ragazza (lo shopping delle babbucce, la sfilata di moda a Villa Madama e la festa del Milan a Milano) e uno in Sardegna, per un Capodanno per una festa pubblica con decine di altre persone, parenti e amici del premier compresi. Ma adesso che l’abbiamo saputo, il problema è: che cosa ce ne facciamo? Soprattutto: che cosa ce ne importa? Anzi di più: perché ne stiamo parlando?Semplice: ne stiamo parlando perché da giorni Repubblica e la sua dépendance (il Pd) rilanciano il tema, solo quello. Hanno impostato su di esso tutta la campagna elettorale. Che cosa non si fa quando si è a corto d’argomenti. Si finisce persino a discutere se Noemi sia illibata o no. E fino a che giorno è stata fidanzata con Gino. Ma il massimo del paradosso è che, dopo aver fatto tutto ciò, il quotidiano di Ezio Mauro accusa Berlusconi di aver costretto (lui!) Noemi e C a finire nel tritacarne del gossip. Proprio così. «La famiglia Letizia», scrive il quotidiano di Mauro, «sempre riservata e gelosa della sua privacy» viene obbligata da Berlusconi «ad affrontare la visibilità delle copertine dei settimanali e la curiosità dei media». Viene obbligata, avete capito? Da Berlusconi. Proprio così: Noemi viene obbligata da Berlusconi ad esporsi alla curiosità dei media... Non è paradossale? Le scrutano persino dentro le mutande e poi dicono che è colpa del premier. Se ci fosse un gran premio della Realtà Sovvertita, avrebbero già il podio assicurato.
(Fonte: Mario Giordano, Il Giornale, 27 maggio 2009)
Tanto impegno dei neopaparazzi, però, non pare produrre frutti significativi. Non ci si improvvisa dei Fabrizio Corona in due giorni. E infatti anche le ultime pagine di Repubblichella 2000 dedicate ai gravi interrogativi del caso Noemi, sono piuttosto debolucce. Quali sarebbero le gravi bugie attribuibili a Berlusconi? Il premier ha più volte ripetuto, e ieri lo ha ribadito con un comunicato ufficiale, di non aver mai detto che il signor Letizia era autista dell’onorevole Craxi. Il primo incontro fra i due sarebbe avvenuto all’hotel Raphael, ma si trattò solo di una stretta di mano. Poi la vera conoscenza nel 2001, all’hotel Vesuvio di Napoli, quando Elio Letizia portò a Berlusconi libri e cartoline antiche; poi la morte del figlio Yuri, la lettera del Cavaliere, la visita dei signori Letizia a Roma... Repubblica non ci crede. Liberissima, naturalmente. Ma che cosa cambia per il Paese?Dopo aver fatto a pezzi la vita privata di una diciottenne, dopo averla messa alla berlina in ogni modo, i segugi di Repubblichella 2000 sono riusciti ad appurare un’altra verità fondamentale per la storia patria: gli incontri fra Berlusconi e Noemi sono stati quattro. Tre alla presenza dei genitori della ragazza (lo shopping delle babbucce, la sfilata di moda a Villa Madama e la festa del Milan a Milano) e uno in Sardegna, per un Capodanno per una festa pubblica con decine di altre persone, parenti e amici del premier compresi. Ma adesso che l’abbiamo saputo, il problema è: che cosa ce ne facciamo? Soprattutto: che cosa ce ne importa? Anzi di più: perché ne stiamo parlando?Semplice: ne stiamo parlando perché da giorni Repubblica e la sua dépendance (il Pd) rilanciano il tema, solo quello. Hanno impostato su di esso tutta la campagna elettorale. Che cosa non si fa quando si è a corto d’argomenti. Si finisce persino a discutere se Noemi sia illibata o no. E fino a che giorno è stata fidanzata con Gino. Ma il massimo del paradosso è che, dopo aver fatto tutto ciò, il quotidiano di Ezio Mauro accusa Berlusconi di aver costretto (lui!) Noemi e C a finire nel tritacarne del gossip. Proprio così. «La famiglia Letizia», scrive il quotidiano di Mauro, «sempre riservata e gelosa della sua privacy» viene obbligata da Berlusconi «ad affrontare la visibilità delle copertine dei settimanali e la curiosità dei media». Viene obbligata, avete capito? Da Berlusconi. Proprio così: Noemi viene obbligata da Berlusconi ad esporsi alla curiosità dei media... Non è paradossale? Le scrutano persino dentro le mutande e poi dicono che è colpa del premier. Se ci fosse un gran premio della Realtà Sovvertita, avrebbero già il podio assicurato.
(Fonte: Mario Giordano, Il Giornale, 27 maggio 2009)
La Cei non giudica il governo: parla dei problemi
I vescovi italiani non vogliono dare un giudizio su quanto fatto finora dal governo per combattere la crisi economica; si limitano a indicare le difficoltà e i problemi ancora presenti e ad incoraggiare "a fare sempre di più e meglio". È quanto ha precisato oggi il segretario generale della Cei, monsignor Mariano Crociata, in una conferenza stampa a conclusione dei lavori mattutini della 59/a assemblea generale dell'episcopato italiano. "Sarebbe falso - ha osservato mons. Crociata riferendosi ad alcuni giudizi apparsi sui giornali a commento della prolusione di ieri del card. Bagnasco - farci dire che il governo non ha fatto niente, sarebbe una strumentalizzazione. Il governo lo giudica chi fa politica". "Non siamo - ha proseguito - un soggetto politico che deve dare patenti o riconoscimenti a nessuno. Siamo un soggetto pastorale che se vede una situazione di crisi, si sforza di proporre segni, gesti, e di mettersi in gioco". Rispondendo ai giornalisti che gli chiedevano un parere sulla proposta di una moratoria sui licenziamenti lanciata dal ministro del Lavoro Maurizio Sacconi, mons. Crociata ha detto: "Tutto quello che può migliorare le condizioni dei lavoratori non può che vederci che contenti, soprattutto se va nel senso dell'attenzione alle fasce più deboli". Il ministro aveva così reagito all'appello a favore dei lavoratori lanciato domenica scorsa da papa Benedetto XVI a Montecassino.Questione immigrazione. "Il presidente della Cei Bagnasco ha parlato di malinteso multiculturalismo in quanto il multiculturalismo porta a culture isolate, enclavi chiuse, isole separate e questo non è il modello da perseguire, in quanto ha già dimostrato in altre nazioni gli effetti di non riuscita". Lo ha precisato mons. Crociata, spiegando che la Chiesa preferisce il modello dell'interculturalismo."L'interculturalismo - ha spiegato - è scambio, arricchimento, condivisione di un territorio e dei valori e istituzioni che fanno l'unità di quel territorio che non è un'unità geografica ma storica e culturale, la quale - ha scandito Crociata - deve essere contesto e orizzonte in cui le varie culture possono integrarsi attorno a quella che è la cultura non dominante ma che plasma il tessuto artistico e sociale di comune appartenenza". Secondo i vescovi, cioè, "chi arriva non è invitato a negare la propria identità ma a viverla nel rapporto con gli altri". Mons. Crociata ha anche detto che è importante un maggiore coinvolgimento dell'Europa nella gestione della situazione. "In Europa - ha detto - sono noti gli inceppamenti del processo di unificazione, ma sta invece crescendo l'esigenza di un coordinamento fra i diversi Paesi che non sia soltanto economico o burocratico. C'è bisogno di una sintesi che permetta a tutti i Paesi europei di trovare un passo comune su problemi globali. Uno di questi è il rapporto con i Paesi in via di sviluppo da cui proviene l'immigrazione. Perchè è vero che l'Italia si trova molto esposta al primo impatto anche se poi molti immigrati vanno in altri Paesi". In questo senso è necessario "più coordinamento a livello europeo su cooperazione, sicurezza e risorse da destinare ai Paesi membri dell'Unione". Il Ddl sulla sicurezza. I vescovi italiani, pur non entrando nel merito del disegno di legge sulla sicurezza, hanno ribadito oggi "l'esigenza imprescindibile del rispetto per i diritti fondamentali di ogni persona umana". "Non possiamo retrocedere da ciò", ha detto Crociata.Responsabilità morali. "Questioni morali ce ne sono tante. La nostra attenzione è a tenerle vive tutte, non andando a esprimere giudizi ogni piè sospinto su questo e quello". Così il segretario della Cei Mariano Crociata ha risposto alle pressanti domande dei giornalisti che volevano una presa di posizione sulle vicende personali del premier. "Ognuno - ha scandito Crociata - ha la sua capacità di giudizio. Ed è inutile pronunciarsi su singoli comportamenti perchè le coscienze formate di ciascuno sanno cosa sia giusto". Il tema dell'Assemblea della Cei, ha ricordato il presule, "è proprio quello dell'educazione che non è compito che si svolge solo a parole. I gesti e modelli degli adulti vengono interiorizzati. Il richiamo alla responsabilità degli adulti è in questo senso imprescindibile. La dissociazione tra i richiami moralistici e il perseguire cinicamente interessi e obiettivi non curanti degli effetti che tali comportamenti comportano vale per tutti, nella differente visibilità di ciascuno". "Ma il nostro - ha concluso Crociata - è un richiamo che non può essere strumentalizzato".
(Fonte, Avvenire, 26 maggio 2009)
(Fonte, Avvenire, 26 maggio 2009)
Il piano inclinato
Ogni volta che si discute di temi di particolare rilevanza etica, chi come noi si batte in difesa della vita non manca di segnalare alla parte avversa il pericolo del cosiddetto “piano inclinato”: il rischio ovvero che, ammesse alcune deroghe a grandi principi etici, la falla si allarghi al punto che quanto era stato inizialmente consentito solo a motivo di circostanze eccezionali, si trasformi infine in un’espressione di libertà che non ammette bilanciamenti di sorta.
Ora, è un fatto che in alcuni paesi d’Europa si stiano facendo i passi appropriati (senza che l’opinione pubblica ne abbia una reale percezione) per inquadrare la procedura abortiva in un contesto culturale e giuridico che appare ben differente da quello del passato: non più l’aborto come “male minore”, giustificato ovvero nel contesto di un sia pur presunto conflitto di interesse, e dove l’interesse dell’adulto, a certe condizioni, finisce per prevalere su quello del bambino… ma l’aborto come “diritto soggettivo” fondato unicamente sul principio di autodeterminazione dell’adulto e non sottoposto a condizioni o limiti di sorta.
La tendenza a forzare il quadro culturale e normativo tradizionale offre alla nostra attenzione vicende una volta neppure lontanamente pensabili: è di questi giorni la notizia che in Svezia le autorità hanno stabilito la piena legalità dell’aborto selettivo basato sul mero criterio del genere. Una donna, già madre di due figlie, si era infatti sottoposta ad amniocentesi al fine di verificare il sesso del nascituro. Appreso che si trattava di una bambina e non di un maschietto, chiedeva ai sanitari dell’Ospedale Mälaren di interrompere la gravidanza.
I sanitari si sono allora rivolti per un parere in merito alla Commissione nazionale per la salute ed il welfare che, pochi giorni fa, ha risposto in senso favorevole alla richiesta della donna. In breve, la Commissione nazionale ha affermato che la richiesta formulata dalla donna debba essere accolta dato che l’aborto (consentito in Svezia fino alla diciottesima settimana) è da reputarsi “un diritto inalienabile” anche quando fosse motivato solo sulla base di “una preferenza di genere” espresso dalla richiedente.
Varrà la pena ricordare che in Svezia l’aborto è una “conquista sociale” fin dal lontano 1938, quando il paese intratteneva ottimi rapporti con la Germania nazista e varava una legislazione di tipo eugenetico affine a quella tedesca. In questo paese gli abitanti godono oggi di un elevato tenore di vita, e tuttavia, oltre il 25% delle gravidanze si conclude con un aborto procurato (dati dello Johnston’s Archivi), percentuale che cresce di anno in anno e che ha registrato un impressionante balzo in avanti del 17% a seguito dell’introduzione della cosiddetta “pillola del giorno dopo”, il farmaco che a detta degli esperti avrebbe dovuto abbattere il numero dei costosi aborti chirurgici. Colpisce anche il fatto che in Svezia l'educazione sessuale faccia parte integrante dei programmi scolastici fin dal lontano 1956. Dal 1992, infine, l’Organizzazione svedese per l’educazione sessuale (RFSU) dava inizio ad un’attività che prevedeva addirittura la “consegna rapida”, su semplice richiesta telefonica, dei preservativi al domicilio degli interessati!
Si conferma pertanto il dato della sostanziale inefficacia delle strategie di prevenzione basate unicamente sulla massiccia diffusione di contraccettivi e sul facile accesso all’interruzione della gravidanza. E’ quanto si evidenzia, del resto, anche nella ben più popolosa Gran Bretagna dove, negli ultimi anni, sono state varate drastiche misure di segno analogo cui ha fatto seguito la moltiplicazione degli aborti chirurgici, particolarmente tra le giovanissime.
Tutto questo aiuta a capire che nessuna prevenzione dell’aborto è in realtà possibile se non si ha il coraggio di definire l’aborto per quello che è: non un inesistente diritto (potere?) di vita o di morte sul concepito, ma un dramma da evitare perché ferisce la donna che lo pratica ed uccide un essere umano indifeso ed innocente. Questa sconcertante sentenza avvicina purtroppo la Svezia alla Cina comunista dove, come è noto, l’aborto falcia legalmente o illegalmente la vita di molte bambine solo perché bambine! Ed in questo strano paradosso trova ulteriore conferma il monito di Giovanni Paolo II per il quale “una democrazia senza valori scivola ben presto, subdolamente o meno, verso forme esplicite o implicite di totalitarismo”.
Il piano inclinato esiste, non è evidentemente una nostra invenzione.
(Fonte: La Cittadella, 22 maggio 2009)
Ora, è un fatto che in alcuni paesi d’Europa si stiano facendo i passi appropriati (senza che l’opinione pubblica ne abbia una reale percezione) per inquadrare la procedura abortiva in un contesto culturale e giuridico che appare ben differente da quello del passato: non più l’aborto come “male minore”, giustificato ovvero nel contesto di un sia pur presunto conflitto di interesse, e dove l’interesse dell’adulto, a certe condizioni, finisce per prevalere su quello del bambino… ma l’aborto come “diritto soggettivo” fondato unicamente sul principio di autodeterminazione dell’adulto e non sottoposto a condizioni o limiti di sorta.
La tendenza a forzare il quadro culturale e normativo tradizionale offre alla nostra attenzione vicende una volta neppure lontanamente pensabili: è di questi giorni la notizia che in Svezia le autorità hanno stabilito la piena legalità dell’aborto selettivo basato sul mero criterio del genere. Una donna, già madre di due figlie, si era infatti sottoposta ad amniocentesi al fine di verificare il sesso del nascituro. Appreso che si trattava di una bambina e non di un maschietto, chiedeva ai sanitari dell’Ospedale Mälaren di interrompere la gravidanza.
I sanitari si sono allora rivolti per un parere in merito alla Commissione nazionale per la salute ed il welfare che, pochi giorni fa, ha risposto in senso favorevole alla richiesta della donna. In breve, la Commissione nazionale ha affermato che la richiesta formulata dalla donna debba essere accolta dato che l’aborto (consentito in Svezia fino alla diciottesima settimana) è da reputarsi “un diritto inalienabile” anche quando fosse motivato solo sulla base di “una preferenza di genere” espresso dalla richiedente.
Varrà la pena ricordare che in Svezia l’aborto è una “conquista sociale” fin dal lontano 1938, quando il paese intratteneva ottimi rapporti con la Germania nazista e varava una legislazione di tipo eugenetico affine a quella tedesca. In questo paese gli abitanti godono oggi di un elevato tenore di vita, e tuttavia, oltre il 25% delle gravidanze si conclude con un aborto procurato (dati dello Johnston’s Archivi), percentuale che cresce di anno in anno e che ha registrato un impressionante balzo in avanti del 17% a seguito dell’introduzione della cosiddetta “pillola del giorno dopo”, il farmaco che a detta degli esperti avrebbe dovuto abbattere il numero dei costosi aborti chirurgici. Colpisce anche il fatto che in Svezia l'educazione sessuale faccia parte integrante dei programmi scolastici fin dal lontano 1956. Dal 1992, infine, l’Organizzazione svedese per l’educazione sessuale (RFSU) dava inizio ad un’attività che prevedeva addirittura la “consegna rapida”, su semplice richiesta telefonica, dei preservativi al domicilio degli interessati!
Si conferma pertanto il dato della sostanziale inefficacia delle strategie di prevenzione basate unicamente sulla massiccia diffusione di contraccettivi e sul facile accesso all’interruzione della gravidanza. E’ quanto si evidenzia, del resto, anche nella ben più popolosa Gran Bretagna dove, negli ultimi anni, sono state varate drastiche misure di segno analogo cui ha fatto seguito la moltiplicazione degli aborti chirurgici, particolarmente tra le giovanissime.
Tutto questo aiuta a capire che nessuna prevenzione dell’aborto è in realtà possibile se non si ha il coraggio di definire l’aborto per quello che è: non un inesistente diritto (potere?) di vita o di morte sul concepito, ma un dramma da evitare perché ferisce la donna che lo pratica ed uccide un essere umano indifeso ed innocente. Questa sconcertante sentenza avvicina purtroppo la Svezia alla Cina comunista dove, come è noto, l’aborto falcia legalmente o illegalmente la vita di molte bambine solo perché bambine! Ed in questo strano paradosso trova ulteriore conferma il monito di Giovanni Paolo II per il quale “una democrazia senza valori scivola ben presto, subdolamente o meno, verso forme esplicite o implicite di totalitarismo”.
Il piano inclinato esiste, non è evidentemente una nostra invenzione.
(Fonte: La Cittadella, 22 maggio 2009)
Assurde preghiere contro l’omofobia: lettera ai “Movimenti Cattolici pro omosessuali”.
Spett. Movimenti “Cattolici”, promotori della preghiera contro l'omofobia:
al di là delle assurde battaglie di cui andate fieri, come quella di organizzarvi in gruppi di “Movimenti cattolici!” per pregare contro l’omofobia, credo che non esista assolutamente il problema che voi denunciate come fatto gravissimo, e pertanto neppure esiste la necessità di pregare per questo motivo.
Chi impedisce a omosessuali o company di fare quello che vogliono? Sono protetti da leggi, da politici, da potenti, da pseudo-cattolici come voi, a tal punto che, chi osa esprimere anche un solo parere diverso da quello imposto dalle lobby, rischia la denuncia, e in alcuni paesi anche il carcere.
Insomma c'è ormai tutta una società miscredente, relativista e atea, che continua però ad avere la spudoratezza di volersi chiamare "cattolica" – una società che favorisce da tempo sia l'omosessualità, che la pedofilia, che l'aborto, che la pillola del giorno dopo alle dodicenni e via di questo passo e pertanto.... perchè organizzare preghiere se già si sta ottenendo con abbondanza lo scopo per il quale volete ipocritamente immolarvi sull'altare del sacrificio? Ormai è concesso di tutto e di peggio, senza che voi facciate gli eroi in difesa di coloro che fanno della trasgressione il loro stile di vita! Organizzare delle preghiere come se gli omosex fossero dei poveri martiri incompresi, bastonati e lapidati quando invece stanno “orgogliosamente” dilagando a macchia d’olio, è una vera assurdità e una grande idiozia!
Ma per favore! Abbiate almeno il senso della realtà e cercate piuttosto di organizzare le vostre preghiere per altri motivi che non mancano, come ad esempio per tutte quelle vittime delle guerre passate e presenti, per quei bambini innocenti che vengono uccisi con l'aborto e che vengono anche violentati dai pedofili, per quei poveretti colpiti dal terremoto che hanno ben altre cose per la testa che pensare all'omofobia che non esiste! Per quei veri martiri cristiani che continuano a essere uccisi ogni giorno a migliaia nelle terre dove non esiste la democrazia come qui da noi, ma solo la legge ferrea della shari'ia islamica. Perché non leggete il libro di Thomas Grimaux “Il libro nero delle nuove persecuzioni anti-cristiane”? (Ed. Fede & Cultura). Oggi nel mondo i cristiani pagano un pesante tributo all'intolleranza e alla discriminazione, sempre di più essi vengono attaccati, imprigionati, torturati e uccisi per il semplice fatto che vogliono credere in Gesù Cristo e nella Chiesa Cattolica che molti di voi ormai snobbano da tempo! E voi venite a parlare di preghiere contro l'omofobia?
Semmai esiste il diritto di pensarla diversamente. O ci volete togliere anche quello? Volete metterci un bavaglio sulla bocca e magari anche le manette? Sempre in nome della democrazia e della libertà di coscienza di cui pretendete di farvi paladini, logicamente!
Assieme alla fede in Gesù Cristo e nella Chiesa, forse avete perso anche il "Ben dell'Intelletto" a tal punto da non distinguere più quali sono i veri problemi per cui battersi e pregare. Sapete perchè? "Perché Dio ha tolto il senno a coloro che hanno voluto perderlo!".
(Fonte: Patrizia Stella, Comitato Verità e Vita, 22 maggio 2009)
al di là delle assurde battaglie di cui andate fieri, come quella di organizzarvi in gruppi di “Movimenti cattolici!” per pregare contro l’omofobia, credo che non esista assolutamente il problema che voi denunciate come fatto gravissimo, e pertanto neppure esiste la necessità di pregare per questo motivo.
Chi impedisce a omosessuali o company di fare quello che vogliono? Sono protetti da leggi, da politici, da potenti, da pseudo-cattolici come voi, a tal punto che, chi osa esprimere anche un solo parere diverso da quello imposto dalle lobby, rischia la denuncia, e in alcuni paesi anche il carcere.
Insomma c'è ormai tutta una società miscredente, relativista e atea, che continua però ad avere la spudoratezza di volersi chiamare "cattolica" – una società che favorisce da tempo sia l'omosessualità, che la pedofilia, che l'aborto, che la pillola del giorno dopo alle dodicenni e via di questo passo e pertanto.... perchè organizzare preghiere se già si sta ottenendo con abbondanza lo scopo per il quale volete ipocritamente immolarvi sull'altare del sacrificio? Ormai è concesso di tutto e di peggio, senza che voi facciate gli eroi in difesa di coloro che fanno della trasgressione il loro stile di vita! Organizzare delle preghiere come se gli omosex fossero dei poveri martiri incompresi, bastonati e lapidati quando invece stanno “orgogliosamente” dilagando a macchia d’olio, è una vera assurdità e una grande idiozia!
Ma per favore! Abbiate almeno il senso della realtà e cercate piuttosto di organizzare le vostre preghiere per altri motivi che non mancano, come ad esempio per tutte quelle vittime delle guerre passate e presenti, per quei bambini innocenti che vengono uccisi con l'aborto e che vengono anche violentati dai pedofili, per quei poveretti colpiti dal terremoto che hanno ben altre cose per la testa che pensare all'omofobia che non esiste! Per quei veri martiri cristiani che continuano a essere uccisi ogni giorno a migliaia nelle terre dove non esiste la democrazia come qui da noi, ma solo la legge ferrea della shari'ia islamica. Perché non leggete il libro di Thomas Grimaux “Il libro nero delle nuove persecuzioni anti-cristiane”? (Ed. Fede & Cultura). Oggi nel mondo i cristiani pagano un pesante tributo all'intolleranza e alla discriminazione, sempre di più essi vengono attaccati, imprigionati, torturati e uccisi per il semplice fatto che vogliono credere in Gesù Cristo e nella Chiesa Cattolica che molti di voi ormai snobbano da tempo! E voi venite a parlare di preghiere contro l'omofobia?
Semmai esiste il diritto di pensarla diversamente. O ci volete togliere anche quello? Volete metterci un bavaglio sulla bocca e magari anche le manette? Sempre in nome della democrazia e della libertà di coscienza di cui pretendete di farvi paladini, logicamente!
Assieme alla fede in Gesù Cristo e nella Chiesa, forse avete perso anche il "Ben dell'Intelletto" a tal punto da non distinguere più quali sono i veri problemi per cui battersi e pregare. Sapete perchè? "Perché Dio ha tolto il senno a coloro che hanno voluto perderlo!".
(Fonte: Patrizia Stella, Comitato Verità e Vita, 22 maggio 2009)
Le insidie dell’ Unione Europea
Si sta avvicinando il momento di eleggere i nuovi rappresentati dell’Unione Europea in un clima generale di freddezza e delusione, se non di totale scetticismo. Si vada pure a votare, anzi si deve andare! Se non altro per sostenere quei pochi eroi che si sono dichiarati pronti a difendere le radici cristiane dell’Europa, finora ignorate o calpestate dai fautori dell’Unione, anche se poco potranno fare costoro contro quel manipolo di potenti che hanno decretato da sempre la fine dell’Europa cristiana in nome di un laicismo senza volto e senz’anima.
Solo per l’Italia è previsto un numero di oltre 70 parlamentari che, moltiplicato con abbondanza per tutte le altre Nazioni dell’Unione, ci fornisce il quadro di un Parlamento europeo mastodontico, mostruoso, difficile da gestire che sembra più incombere sull’Europa anziché sostenerla, perché aumenterà l’apparato burocratico che graverà sulle singole Nazioni creando nuove povertà per tutti.
D’altra parte, che cosa ci si può aspettare da un’Unione Europea che ha volutamente rinnegato la propria gloriosa storia di civiltà, di arte e di progresso, calpestando le sue radici cristiane, segno di libertà, eliminando i Crocifissi, e scegliendo come ispiratori solo i rappresentanti di correnti materialistiche, massoniche e agnostiche quali Darwin, Nietzsche, Freud, Marx, Lenin, i cui discepoli continuano a imperversare per l’Europa e il mondo intero con le loro leggi inique?
- Questa Unione è solo un agglomerato di nazionalità che crede di avere un linguaggio comune solo perché ha inventato una ridicola moneta comune, che ha avuto il pregio di impoverire tutti.
- È una nuova Europa senza radici e senza futuro che pretende di legiferare su tutto, dal sistema di riproduzione della frutta a quello dell’essere umano, decidendo sulla vita e sulla morte dell’uomo, un’Europa che stanzia fondi per l’aborto facile e che pretende di legalizzare, in nome di un laicismo disancorato dalla legge naturale, qualunque comportamento trasgressivo, presentandosi come “arbitra assoluta del sesso”.
- È una nuova Europa che sta uccidendo sé stessa a forza di favorire i suoi nemici di sempre, come ad esempio l’Islam, premendo per l’ingresso della Turchia nel nostro territorio.
C’è poco da sperare sul nostro futuro di liberi cittadini in un’Europa soggetta alla dittatura del relativismo, imposto attraverso leggi inique e avvallato dal cosiddetto “Trattato di Lisbona”, un trattato che, in nome di una falsa libertà e democrazia, in realtà vanifica la sovranità e il patrimonio culturale di ogni singolo Stato per costringere tutti a “inginocchiarsi”, non certo davanti a Dio, unico, vero garante della libertà dell’uomo e delle Nazioni, bensì davanti all’idolo del laicismo per una nuova religione senza Dio e contro l’uomo.
Questa nuova Europa si sta avviando verso la propria distruzione grazie ai suoi “nuovi fondatori”, atei, massoni e agnostici, i quali, mentre credono di disfarsi della Chiesa cattolica e dello stesso Cristo, non si accorgono che stanno mettendo un cappio al collo a sé stessi e ai loro figli.
Se è vero che occorre solo un intervento divino per sanare una situazione ormai volutamente degenerata, è altrettanto vero che Dio si serve degli uomini per raggiungere i suoi fini. Coraggio, dunque, voi che sarete chiamati a testimoniare i valori umani e cristiani perché vi attende un compito assai difficile, anzi eroico.
(Fonte: Patrizia Stella, Comitato Verità e Vita, 22 maggio 2009)
Solo per l’Italia è previsto un numero di oltre 70 parlamentari che, moltiplicato con abbondanza per tutte le altre Nazioni dell’Unione, ci fornisce il quadro di un Parlamento europeo mastodontico, mostruoso, difficile da gestire che sembra più incombere sull’Europa anziché sostenerla, perché aumenterà l’apparato burocratico che graverà sulle singole Nazioni creando nuove povertà per tutti.
D’altra parte, che cosa ci si può aspettare da un’Unione Europea che ha volutamente rinnegato la propria gloriosa storia di civiltà, di arte e di progresso, calpestando le sue radici cristiane, segno di libertà, eliminando i Crocifissi, e scegliendo come ispiratori solo i rappresentanti di correnti materialistiche, massoniche e agnostiche quali Darwin, Nietzsche, Freud, Marx, Lenin, i cui discepoli continuano a imperversare per l’Europa e il mondo intero con le loro leggi inique?
- Questa Unione è solo un agglomerato di nazionalità che crede di avere un linguaggio comune solo perché ha inventato una ridicola moneta comune, che ha avuto il pregio di impoverire tutti.
- È una nuova Europa senza radici e senza futuro che pretende di legiferare su tutto, dal sistema di riproduzione della frutta a quello dell’essere umano, decidendo sulla vita e sulla morte dell’uomo, un’Europa che stanzia fondi per l’aborto facile e che pretende di legalizzare, in nome di un laicismo disancorato dalla legge naturale, qualunque comportamento trasgressivo, presentandosi come “arbitra assoluta del sesso”.
- È una nuova Europa che sta uccidendo sé stessa a forza di favorire i suoi nemici di sempre, come ad esempio l’Islam, premendo per l’ingresso della Turchia nel nostro territorio.
C’è poco da sperare sul nostro futuro di liberi cittadini in un’Europa soggetta alla dittatura del relativismo, imposto attraverso leggi inique e avvallato dal cosiddetto “Trattato di Lisbona”, un trattato che, in nome di una falsa libertà e democrazia, in realtà vanifica la sovranità e il patrimonio culturale di ogni singolo Stato per costringere tutti a “inginocchiarsi”, non certo davanti a Dio, unico, vero garante della libertà dell’uomo e delle Nazioni, bensì davanti all’idolo del laicismo per una nuova religione senza Dio e contro l’uomo.
Questa nuova Europa si sta avviando verso la propria distruzione grazie ai suoi “nuovi fondatori”, atei, massoni e agnostici, i quali, mentre credono di disfarsi della Chiesa cattolica e dello stesso Cristo, non si accorgono che stanno mettendo un cappio al collo a sé stessi e ai loro figli.
Se è vero che occorre solo un intervento divino per sanare una situazione ormai volutamente degenerata, è altrettanto vero che Dio si serve degli uomini per raggiungere i suoi fini. Coraggio, dunque, voi che sarete chiamati a testimoniare i valori umani e cristiani perché vi attende un compito assai difficile, anzi eroico.
(Fonte: Patrizia Stella, Comitato Verità e Vita, 22 maggio 2009)
giovedì 21 maggio 2009
Tettamanzi, l’arcistar buonista che predica il dialogo dal salotto tv
Uomo solitamente incline alla prudenza, più per innata predisposizione d’animo che per conformità di condotta alle virtù cardinali, da qualche tempo don Dionigi Tettamanzi ha alzato i toni delle sue omelie mediatiche, come è noto ben più seguite di quelle domenicali.Ieri, dalle pagine del Corriere della sera, ha flagellato la «sua» città, la Milano della quale dal 2002 è arcivescovo, per volontà di Dio e consiglio del cardinal Re.
Don Dionigi, in ossequio al precetto gesuitico suaviter in modo fortiter in re, «in modo garbato, ma energico nella sostanza», con la dolcezza dell’eloquio che gli è propria ha fatto a pezzi l’anima (e la faccia) dell’ex capitale morale d’Italia: una città smarrita, frantumata, incattivita addirittura. Indifferente, impaurita, intollerante addirittura. Tettamanzi vede sì generosità nell’aiutare, ma si domanda «se esista ancora la borghesia di una volta». E se c’è ancora una città che sa accogliere, dialogare, «integrare».
Figlio di quella Brianza monzese pragmatica e realista che ha nell’etica del lavoro e nel senso del dovere i suoi più marcati confini morali, Dionigi Tettamanzi ha fatto della «mediazione», soprattutto sui temi dell’immigrazione, dell’accoglienza e dell’integrazione, una vocazione. Incontro, dialogo, confronto sono le sue litanie.Già ghost writer di Papa Wojtyla per i temi morali, partecipe nei giorni del devastante G8 genovese alle proteste no global, comprensivo delle ragioni di Israele ma anche delle rivendicazioni palestinesi, fautore architettonicamente bipartisan di una chiesa e di una moschea in ogni quartiere, sua Eminenza in nome del prudentemente corretto si è forse guadagnato l’ecumene intellettuale e progressista, ma rischia di smarrire il gregge fedele e tradizionalista.Quello che lo ascoltò invitare i suoi preti ad «andare nelle case degli islamici» ma non lo sentì alzare la voce davanti all’occupazione musulmana del sagrato del Duomo. A essere troppo buonisti...Politicamente accorto per “vecchia” abitudine democristiana e mediaticamente parsimonioso per consiglio dei suoi addetti stampa, l’arcivescovo Dionigi Tettamanzi, uno a cui può capitare di dimenticare un discorso ma non una stretta di mano, ha ultimamente allungato la propria verso i signori dei salotti «buoni».
Il mese scorso l’«infedele» Gad Lerner, ieri mattina le «illuminate» stanze del Corriere e, in serata, l’oratorio di Fabio Fazio, in registrata su Raitre, tra Francesco Totti e Eros Ramazzotti. Dionigi Tettamanzi, rispetto ai suoi eccelsi predecessori alla guida della diocesi più grande e importante della cristianità (quella di Milano, dove l’islam è la seconda religione per numero ma la prima, in proporzione, per frequenza dei luoghi di culto), non è un teologo come Carlo Maria Martini, o un «intellettuale» come Giovanni Battista Montini. Piuttosto un pastore.Dal carattere di ferro e dal cuore generoso ma che - secondo i maligni - ultimamente sta camminando su un sentiero lungo il quale le sue pecorelle fanno fatica a seguirlo. A volte le considerazioni «sociali» delle alte gerarchie sono troppo lontane dal senso comune della gente.E spesso capita che chi parli dal pulpito, o dai salotti tv, non sia perfettamente sintonizzato con i fedeli. I soliti maligni fanno notare che tra le cento righe di intervista concesse al Corriere e i 25 minuti di chiacchierata con Fazio, don Dionigi ha pronunciato venti volte le parole «dialogo» e «solidarietà», ma appena due il nome «Gesù».Al cardinale Tettamanzi, da quando è arcivescovo di Milano, piace ricordare che il nome della città rimanda a Mediolanum, una terra che «sta nel mezzo»: un luogo dove si converge, ci si incontra, si dialoga. Cosa apprezzata dalla Lega per la citazione di sapore celtico, un po’ meno per l’allusione al confronto interculturale e interreligioso. Lo hanno chiamato «Vescovo di Kabul». Ma Tettamanzi, che sullo stemma episcopale porta il motto Gaudium et pax, saprà di sicuro perdonare.
Quando nel settembre del 2002, entrò in Duomo come arcivescovo di Milano, il cardinale Martini, consegnandogli il pastorale, gli disse: «Vedrai quanto pesa». Forse don Dionigi non immaginava così tanto. Anche se a volte esibirla ai media fà per entrambi molto "in".
(Fonte: Luigi Mascheroni, © Copyright Il Giornale, 21 maggio 2009)
Don Dionigi, in ossequio al precetto gesuitico suaviter in modo fortiter in re, «in modo garbato, ma energico nella sostanza», con la dolcezza dell’eloquio che gli è propria ha fatto a pezzi l’anima (e la faccia) dell’ex capitale morale d’Italia: una città smarrita, frantumata, incattivita addirittura. Indifferente, impaurita, intollerante addirittura. Tettamanzi vede sì generosità nell’aiutare, ma si domanda «se esista ancora la borghesia di una volta». E se c’è ancora una città che sa accogliere, dialogare, «integrare».
Figlio di quella Brianza monzese pragmatica e realista che ha nell’etica del lavoro e nel senso del dovere i suoi più marcati confini morali, Dionigi Tettamanzi ha fatto della «mediazione», soprattutto sui temi dell’immigrazione, dell’accoglienza e dell’integrazione, una vocazione. Incontro, dialogo, confronto sono le sue litanie.Già ghost writer di Papa Wojtyla per i temi morali, partecipe nei giorni del devastante G8 genovese alle proteste no global, comprensivo delle ragioni di Israele ma anche delle rivendicazioni palestinesi, fautore architettonicamente bipartisan di una chiesa e di una moschea in ogni quartiere, sua Eminenza in nome del prudentemente corretto si è forse guadagnato l’ecumene intellettuale e progressista, ma rischia di smarrire il gregge fedele e tradizionalista.Quello che lo ascoltò invitare i suoi preti ad «andare nelle case degli islamici» ma non lo sentì alzare la voce davanti all’occupazione musulmana del sagrato del Duomo. A essere troppo buonisti...Politicamente accorto per “vecchia” abitudine democristiana e mediaticamente parsimonioso per consiglio dei suoi addetti stampa, l’arcivescovo Dionigi Tettamanzi, uno a cui può capitare di dimenticare un discorso ma non una stretta di mano, ha ultimamente allungato la propria verso i signori dei salotti «buoni».
Il mese scorso l’«infedele» Gad Lerner, ieri mattina le «illuminate» stanze del Corriere e, in serata, l’oratorio di Fabio Fazio, in registrata su Raitre, tra Francesco Totti e Eros Ramazzotti. Dionigi Tettamanzi, rispetto ai suoi eccelsi predecessori alla guida della diocesi più grande e importante della cristianità (quella di Milano, dove l’islam è la seconda religione per numero ma la prima, in proporzione, per frequenza dei luoghi di culto), non è un teologo come Carlo Maria Martini, o un «intellettuale» come Giovanni Battista Montini. Piuttosto un pastore.Dal carattere di ferro e dal cuore generoso ma che - secondo i maligni - ultimamente sta camminando su un sentiero lungo il quale le sue pecorelle fanno fatica a seguirlo. A volte le considerazioni «sociali» delle alte gerarchie sono troppo lontane dal senso comune della gente.E spesso capita che chi parli dal pulpito, o dai salotti tv, non sia perfettamente sintonizzato con i fedeli. I soliti maligni fanno notare che tra le cento righe di intervista concesse al Corriere e i 25 minuti di chiacchierata con Fazio, don Dionigi ha pronunciato venti volte le parole «dialogo» e «solidarietà», ma appena due il nome «Gesù».Al cardinale Tettamanzi, da quando è arcivescovo di Milano, piace ricordare che il nome della città rimanda a Mediolanum, una terra che «sta nel mezzo»: un luogo dove si converge, ci si incontra, si dialoga. Cosa apprezzata dalla Lega per la citazione di sapore celtico, un po’ meno per l’allusione al confronto interculturale e interreligioso. Lo hanno chiamato «Vescovo di Kabul». Ma Tettamanzi, che sullo stemma episcopale porta il motto Gaudium et pax, saprà di sicuro perdonare.
Quando nel settembre del 2002, entrò in Duomo come arcivescovo di Milano, il cardinale Martini, consegnandogli il pastorale, gli disse: «Vedrai quanto pesa». Forse don Dionigi non immaginava così tanto. Anche se a volte esibirla ai media fà per entrambi molto "in".
(Fonte: Luigi Mascheroni, © Copyright Il Giornale, 21 maggio 2009)
La chiesa “alternativa” di Martini e don Verzé
Siamo tutti sulla stessa barca è il libro firmato dal cardinale Carlo Maria Martini, già arcivescovo di Milano, e da don Luigi Verzé, fondatore dell’Ospedale San Raffaele e rettore dell’Università Vita-Salute. Siamo tutti sulla stessa barca, dice il titolo del libro. Qualcuno ci spieghi se è quella di Pietro…
La pillola anticoncezionale? Spesso è giocoforza che vada consigliata e fornita. L’etica cristiana? Incongruente, da rifare. I divorziati risposati? Basta fisime clericali. Il celibato ecclesiastico? Una finzione, buttiamolo a mare. I vescovi? Li elegga il popolo di Dio.
Tutto ciò fermandosi solo alle anticipazioni di Siamo tutti sulla stessa barca (Editrice San Raffaele, pp. 96, euro 14,5) libro in uscita oggi e anticipato ieri dal Corriere della Sera, firmato dal cardinale Carlo Maria Martini, già arcivescovo di Milano, e da don Luigi Verzé, fondatore dell’Ospedale San Raffaele e rettore dell’Università Vita-Salute.
Sarebbe interessante sapere che cosa pensano di queste tesi le autorità preposte alla salvaguardia della dottrina cattolica. Perché è venuto il momento di dire se, in materia di dottrina e di morale, i fedeli sono tutti uguali e devono accettare tutti le stesse regole o se, invece, c’è qualcuno più uguale degli altri.
Contraltare del Papa
Il cattolico medio non può ignorare che se il Papa si pronuncia su un tema, subito spunta il cardinale Martini a fare da contraltare. Il Papa scrive un libro su Gesù? Lui l’avrebbe fatto meglio. Il Papa liberalizza la Messa in latino? Lui non avrebbe suscitato perniciose nostalgie. Il Papa ribadisce il primato di Pietro? Lui si appella alla collegialità. Il Papa prende atto degli scivoloni del Vaticano II? Lui convoca il Vaticano III.
Così come non può ignorare che don Verzé ha riempito la sua università di nomi come Massimo Cacciari, Roberta De Monticelli, Vito Mancuso, Salvatore Natoli, Emanuele Severino, Edoardo Boncinelli: il meglio del pensiero anticattolico sulla piazza. Del resto, don Verzé è l’inventore di un’inedita dottrina simil-cattolica grazie alla quale si è auto-autorizzato a praticare nel suo ospedale la fecondazione artificiale omologa condannata dalla Chiesa.
Lo ha fatto con una decisione del comitato etico del San Raffaele e poco gli importa di essere stato smentito dalla Congregazione per la dottrina della fede. Senza dimenticare che, in piena bagarre sul caso Englaro, don Verzé rivelò di aver tolto la spina ad un amico attaccato a un respiratore artificiale. «Col pianto nel cuore», ma lo fece.
Due come il cardinale Martini e don Verzé sembrano fatti apposta per incontrarsi. E potrebbe stupire che, per anni, la curia martiniana abbia fatto la guerra al san Raffaele e al suo fondatore. Ma si trattava di questioni politiche e non teologiche. Perché sul metodo del dubbio applicato al dogma e sulla teoria delle “zone grigie” applicata alla morale messi a punto da Martini, don Verzé ci va a nozze. Tanto che, nel 2006, la sua università ha conferito la laurea honoris causa al porporato.
E così ecco spiegato il presente libro, nel quale il fondatore del San Raffaele parla con rammarico di «un’etica ecclesiastica imposta».
Poi dice «che anche ai sacerdoti dovrebbe essere presto tolto l’obbligo del celibato» e annuncia che l’ora della democrazia nella Chiesa suonerà con l’elezione diretta dei vescovi. «La Chiesa cattolica è troppo lontana dalla realtà, e le fiumane di gente, quando arriva il Papa, hanno più o meno il valore delle carnevalate».
Un nuovo concilio
Don Verzé va giù di vanga, e allora Martini interviene con il fioretto ad allargare il solco. «Oggi ci sono non poche prescrizioni e norme che non sempre vengono capite dal semplice fedele».
Caro don Luigi, ha proprio ragione lei, qui bisogna cambiare tutto, che orrore quelle fiumane di gente ignorante e impreparata, avrà mai seguito almeno una lezione della Cattedra dei non credenti?
Con studiata ritrosia, il cardinale conferma tutto. Senza dimenticare che, per rimettere un po’ d’ordine, «non basta un semplice sacerdote o un vescovo. Bisogna che tutta la Chiesa si metta a riflettere su questi casi». Insomma, un altro Concilio.
Siamo tutti sulla stessa barca, dice il titolo del libro. Qualcuno ci spieghi se è quella di Pietro.
(Fonte: Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, Libero, 20 maggio 2009)
La pillola anticoncezionale? Spesso è giocoforza che vada consigliata e fornita. L’etica cristiana? Incongruente, da rifare. I divorziati risposati? Basta fisime clericali. Il celibato ecclesiastico? Una finzione, buttiamolo a mare. I vescovi? Li elegga il popolo di Dio.
Tutto ciò fermandosi solo alle anticipazioni di Siamo tutti sulla stessa barca (Editrice San Raffaele, pp. 96, euro 14,5) libro in uscita oggi e anticipato ieri dal Corriere della Sera, firmato dal cardinale Carlo Maria Martini, già arcivescovo di Milano, e da don Luigi Verzé, fondatore dell’Ospedale San Raffaele e rettore dell’Università Vita-Salute.
Sarebbe interessante sapere che cosa pensano di queste tesi le autorità preposte alla salvaguardia della dottrina cattolica. Perché è venuto il momento di dire se, in materia di dottrina e di morale, i fedeli sono tutti uguali e devono accettare tutti le stesse regole o se, invece, c’è qualcuno più uguale degli altri.
Contraltare del Papa
Il cattolico medio non può ignorare che se il Papa si pronuncia su un tema, subito spunta il cardinale Martini a fare da contraltare. Il Papa scrive un libro su Gesù? Lui l’avrebbe fatto meglio. Il Papa liberalizza la Messa in latino? Lui non avrebbe suscitato perniciose nostalgie. Il Papa ribadisce il primato di Pietro? Lui si appella alla collegialità. Il Papa prende atto degli scivoloni del Vaticano II? Lui convoca il Vaticano III.
Così come non può ignorare che don Verzé ha riempito la sua università di nomi come Massimo Cacciari, Roberta De Monticelli, Vito Mancuso, Salvatore Natoli, Emanuele Severino, Edoardo Boncinelli: il meglio del pensiero anticattolico sulla piazza. Del resto, don Verzé è l’inventore di un’inedita dottrina simil-cattolica grazie alla quale si è auto-autorizzato a praticare nel suo ospedale la fecondazione artificiale omologa condannata dalla Chiesa.
Lo ha fatto con una decisione del comitato etico del San Raffaele e poco gli importa di essere stato smentito dalla Congregazione per la dottrina della fede. Senza dimenticare che, in piena bagarre sul caso Englaro, don Verzé rivelò di aver tolto la spina ad un amico attaccato a un respiratore artificiale. «Col pianto nel cuore», ma lo fece.
Due come il cardinale Martini e don Verzé sembrano fatti apposta per incontrarsi. E potrebbe stupire che, per anni, la curia martiniana abbia fatto la guerra al san Raffaele e al suo fondatore. Ma si trattava di questioni politiche e non teologiche. Perché sul metodo del dubbio applicato al dogma e sulla teoria delle “zone grigie” applicata alla morale messi a punto da Martini, don Verzé ci va a nozze. Tanto che, nel 2006, la sua università ha conferito la laurea honoris causa al porporato.
E così ecco spiegato il presente libro, nel quale il fondatore del San Raffaele parla con rammarico di «un’etica ecclesiastica imposta».
Poi dice «che anche ai sacerdoti dovrebbe essere presto tolto l’obbligo del celibato» e annuncia che l’ora della democrazia nella Chiesa suonerà con l’elezione diretta dei vescovi. «La Chiesa cattolica è troppo lontana dalla realtà, e le fiumane di gente, quando arriva il Papa, hanno più o meno il valore delle carnevalate».
Un nuovo concilio
Don Verzé va giù di vanga, e allora Martini interviene con il fioretto ad allargare il solco. «Oggi ci sono non poche prescrizioni e norme che non sempre vengono capite dal semplice fedele».
Caro don Luigi, ha proprio ragione lei, qui bisogna cambiare tutto, che orrore quelle fiumane di gente ignorante e impreparata, avrà mai seguito almeno una lezione della Cattedra dei non credenti?
Con studiata ritrosia, il cardinale conferma tutto. Senza dimenticare che, per rimettere un po’ d’ordine, «non basta un semplice sacerdote o un vescovo. Bisogna che tutta la Chiesa si metta a riflettere su questi casi». Insomma, un altro Concilio.
Siamo tutti sulla stessa barca, dice il titolo del libro. Qualcuno ci spieghi se è quella di Pietro.
(Fonte: Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, Libero, 20 maggio 2009)
I barconi degli immigrati in piazza San Pietro? Parliamone
La Chiesa è scesa in campo contro il governo Berlusconi, a motivo delle nuove norme sull’immigrazione? Sì e no. Anzi, più no che sì.
Monsignor Agostino Marchetto, segretario del pontificio consiglio per la pastorale dei migranti, ha tuonato contro, come già altre volte in passato. Ma si sa che non rappresenta la Santa Sede. Ogni volta che lui apre bocca arriva la precisazione che parla a titolo personale, e mai “L’Osservatore Romano” riporta le sue bordate.
Quanto alla conferenza episcopale italiana, ufficialmente non ha emesso verbo. Hanno parlato il suo segretario generale, Mariano Crociata, il segretario della commissione per le migrazioni, Domenico Sigalini, e il direttore dell’ufficio per la pastorale degli immigrati, Gianromano Gnesotto. Ma che si siano espressi come CEI contro il governo l’hanno scritto i giornali, tutti i giornali tranne uno, quello che dovrebbe saperne di più, cioè “Avvenire“, il quotidiano di proprietà dei vescovi.
Lunedì 11 maggio, quando i giornali davano in prima pagina la notizia che la Chiesa italiana, per la voce di monsignor Crociata, aveva condannato i “respingimenti”, “Avvenire” non era in edicola.
E il giorno successivo? Bisognava andare a pagina 8 per scovare un misuratissimo cenno alle parole di Crociata. Sotto il titolo “Mondo cattolico: interculturalità per creare integrazione”, del segretario della CEI erano riportate queste sole parole: “L’Italia vive già e non da oggi una realtà di intercultura. E corollario di questa convinzione è che tutto deve essere inserito in un rigoroso rispetto della legalità, necessaria garanzia per l’integrazione”.
Idem giovedì 14 maggio. Le dichiarazioni di monsignor Sigalini e don Gnesotto finiscono anch’esse a pagina 8, dentro un articolo intitolato: “Dal mondo cattolico ancora preoccupazione”. Del primo le parole clou sono: “Accoglienza coniugata con sicurezza”. E del secondo: “Valorizzare le diversità”.
Ma la prova del nove che la CEI, tramite il suo giornale, non è contro il governo ma piuttosto lo invita a riflettere bene su quello che fa con gli immigrati, è data dalla pagina delle lettere al direttore.
La pagina di giovedì 14 maggio è esemplare. Allinea lettere contro e lettere pro, queste ultime anche molto battagliere.
C’è un lettore, Giorgio Pizzonia, che addirittura scrive così: “Caro direttore, al Vaticano che critica la politica dei respingimenti dei clandestini, la risposta migliore l’ha data il funzionario del governo libico che ha trattato l’accordo con l’Italia: «Se volete, possiamo portare a piazza San Pietro tutti gli stranieri che le navi italiane hanno portato qui». Che fa il Vaticano? Accetta? Se li prendono tutti loro, questi e quelli che verranno?”.
(Fonte: S. Magister, Settimo cielo, 16 maggio 2009)
Monsignor Agostino Marchetto, segretario del pontificio consiglio per la pastorale dei migranti, ha tuonato contro, come già altre volte in passato. Ma si sa che non rappresenta la Santa Sede. Ogni volta che lui apre bocca arriva la precisazione che parla a titolo personale, e mai “L’Osservatore Romano” riporta le sue bordate.
Quanto alla conferenza episcopale italiana, ufficialmente non ha emesso verbo. Hanno parlato il suo segretario generale, Mariano Crociata, il segretario della commissione per le migrazioni, Domenico Sigalini, e il direttore dell’ufficio per la pastorale degli immigrati, Gianromano Gnesotto. Ma che si siano espressi come CEI contro il governo l’hanno scritto i giornali, tutti i giornali tranne uno, quello che dovrebbe saperne di più, cioè “Avvenire“, il quotidiano di proprietà dei vescovi.
Lunedì 11 maggio, quando i giornali davano in prima pagina la notizia che la Chiesa italiana, per la voce di monsignor Crociata, aveva condannato i “respingimenti”, “Avvenire” non era in edicola.
E il giorno successivo? Bisognava andare a pagina 8 per scovare un misuratissimo cenno alle parole di Crociata. Sotto il titolo “Mondo cattolico: interculturalità per creare integrazione”, del segretario della CEI erano riportate queste sole parole: “L’Italia vive già e non da oggi una realtà di intercultura. E corollario di questa convinzione è che tutto deve essere inserito in un rigoroso rispetto della legalità, necessaria garanzia per l’integrazione”.
Idem giovedì 14 maggio. Le dichiarazioni di monsignor Sigalini e don Gnesotto finiscono anch’esse a pagina 8, dentro un articolo intitolato: “Dal mondo cattolico ancora preoccupazione”. Del primo le parole clou sono: “Accoglienza coniugata con sicurezza”. E del secondo: “Valorizzare le diversità”.
Ma la prova del nove che la CEI, tramite il suo giornale, non è contro il governo ma piuttosto lo invita a riflettere bene su quello che fa con gli immigrati, è data dalla pagina delle lettere al direttore.
La pagina di giovedì 14 maggio è esemplare. Allinea lettere contro e lettere pro, queste ultime anche molto battagliere.
C’è un lettore, Giorgio Pizzonia, che addirittura scrive così: “Caro direttore, al Vaticano che critica la politica dei respingimenti dei clandestini, la risposta migliore l’ha data il funzionario del governo libico che ha trattato l’accordo con l’Italia: «Se volete, possiamo portare a piazza San Pietro tutti gli stranieri che le navi italiane hanno portato qui». Che fa il Vaticano? Accetta? Se li prendono tutti loro, questi e quelli che verranno?”.
(Fonte: S. Magister, Settimo cielo, 16 maggio 2009)
In retrospettiva: il caso Lario e ciò che interessa agli italiani
Caso Berlusconi-Lario. Mettiamola così, perchè cos' è. Il nostro premier nell'ultimo mse ha dimostrato doti di grande statista. Ha fronteggiato con grande efficacia l'emergenza terremoto (a qualcuno sarà pure dispiaciuta la sua continua presenza in Abruzzo, ma alla naggioranza degli italiani no, perchè ha dato il senso di una presenza delle Istituzioni) e la sta gestendo con uguale efficacia; ha tirato fuori dal cilindro l'idea del G8 in Abruzzo (che è piaciuta in tutta Europa e che è stato anche un modo per risparmiare fondi statali in un momento in cui ce n'è molto bisogno); ha raccolto la sfida del 25 Aprile, celebrando la ricorrenza e contribuendo coi suoi discorsi ufficiali e le sue iniziative alla riconciliazione, in pieno accordo con il Presidente della Repubblica.
Gradimento alle stelle, popolarità crescente, ma, soprattutto, crescente autorità del personaggio, il quale ha acquistato (se ne aveva bisogno, ma sembra che Berlusconi debba essere l'unico in Italia ad averne sempre bisogno) in peso politico, in caratura. E gli osservatori seri l'hanno riconosciuto.
Certo, la cosa non andava bene. Bisognava in qualche modo ridimensionare, alla vigilia di importanti elezioni, la figura di quest'uomo che rischia, sono parole di Franceschini (che svelano un nervo scoperto della sinistra) di "prendere tutto". Berlusconi non può, non deve fare la figura dello statista. Deve essere il solito parvenu, un po' cretino, un po' superficiale, un mestierante, quando non un menzognero, un ingannapopolo. Un niente rispetto ai politici di professione, che vantano, tra l'altro, illustri antenati. Un Mastro-don Gesualdo, non degno di sedere al banchetto dei nobili veri.
Ed ecco che scoppia il caso Lario, che offre miracolosamente il destro ad un elenco già nutrito di di insulti gratuiti: Hitler (Di Pietro), dittatore di una repubblica orientale sovietica (Franceschini), Capo di una coalizione di governo razzista (Franceschini bis). Si arriva all'infamante accusa di velinaro e di frequentatore di minorenni. E giù con le analisi e le riflessioni serie e impegnate sulla questione morale, che va "ben oltre il conflitto di interessi" (Bindi). Ed ecco che, improvvisamente, il parere del mondo cattolico (quello che è sempre sgradito ed è sempre un'intromissione negli affari dello Stato quando si tratta di tematiche sgradite a lorsignori) diventa importante e da tenere in seria considerazione.
L'Italia torna ad essere, in un attimo, la repubblica delle banane, guidata da un personaggio oscuro e poco raccomandabile. Gli italiani, che a questo personaggio danno l loro fiducia, tornano immediatamente dei cretini, presi collettivamente per i fondelli dal Kaimano.
La Bonino grida alla decadenza della vita politica. Dovrebbe fare mea culpa: non fu lei e il suo amichetto Pannella a portare per prima una pornostar al Parlamento? La sinistra fa lo steso. Ma scusate, quali meriti aveva il transessuale Luxuria di sedere in Parlamento, se non quelli di fare la soubrette al Muccassassina? Si parla di veline... Ma, chiedo ancora, la bellissima Gruber è stata candidata al Parlamento Europeo per le sue memorabili inchieste o per essere un'affascinante lettrice di veline? Si dice che il Berlusconi populista, quello che va a casa anche della gente, a festeggiare il compleanno della figlia di un amico con tanto di fotografi al seguito, è uno scandalo. Ma, chiedo di nuovo, l’anno scorso non ci siamo dovuti sorbire Veltroni che andava a fare l’amico buono della gente e entrava in casa dell’inquilino medio a portare la rosa alla madre di famiglia?
Sono ormai alla frutta. Prima che si concluda la campagna elettorale. Hanno già perso e lo sanno. Sono disperati. Hanno però dalla loro parte la stampa nazionale (quella dalle alte tirature, quella che pesa, i programmi che parlano di politica) e lo stuolo di tutti i moralisti più tristi della vecchia DC. Richiamano alla moralità, ma stanno dando l’ennesimo, squallido, immorale esempio di uno sciacallaggio politico che non s’arresta davanti a nulla. Ciò che conta è sbaragliare l’odiato Nemico che li ha messi all’angolo. E tutti i mezzi sono leciti. Il problema è che anche stavolta faranno un buco nell’acqua.
Si sta provando a mettere su un caso, anzi, nella mente di certa gente il caso già c’è. E’ nella loro testa, ovviamente, è un sogno, una gufata che diventa miracolosamente realtà. Peccato che sia solo una realtà virtuale, una specie di gioco, una partita a Spore.
Certo, si dirà, ci sono le frasi di sdegno della Lario, la quale, guarda caso, coglie sempre il momento giusto per mettere il marito in difficoltà. C’è sempre di mezzo una campagna elettorale, quando la signora Berlusconi decide di esternare le proprie amarezze di moglie delusa. Offrendo il destro a tutti coloro che passerebbero anche sulla propria madre, pur di ammazzare Berlusconi. La Lario ha fatto un bel regalo alla Bindi, a Franceschini, a Bersani, a Di Pietro: una richiesta di divorzio pubblica, con tanto di dichiarazioni imbarazzanti rese alla stampa. In tempo in tempo per le elezioni europee, sulla base di un fatto che non sussiste (è evidente che non sussiste). Si poteva fare di più?
E giù tutti a gufare (non gli è rimasto altro da fare), a guardare contenti la marea che monta, o a farla montare, che è più esatto. Con risultati comici, parossistici, come è stata comica la puntata di Alzo Zero di ieri sera, che mi ha messo molto di buon umore, stavolta. La speranza di questa gente è che il “matrimonio a pezzi” di Berlusconi oscuri la sua credibilità. Ma consiglierei a costoro di andarci piano, di non correre troppo. Perché è tutto da dimostrare che questa penosa vicenda oscuri il prestigio di Berlusconi, come sognano. E’ tutto da dimostrare che la partecipazione al brindisi del compleanno della figlia di un amico possa diventare quello scandalo nazionale che costoro si augurano, tanto, addirittura, da presentarci sopra un’interrogazione parlamentare.
Anche perchè i sondaggi parlano chiaro: le dichiarazioni della signora Lario, troppo tempestive per essere spontanee, non sembrano in grado di “oscurare” l’attività del capo del governo. Non sono delle imbarazzanti questioni familiari, a determinare la vita politica italiana. Gli italiani non valutano l’operato di un governo sulla base delle liti in famiglia del premier. Alla nazione interessa ben altro. Gli italiani non sono così stupidi come qualcuno li vorrebbe.
(Fonte: Gianluca Zappa, La Cittadella, 8 maggio 2009)
Gradimento alle stelle, popolarità crescente, ma, soprattutto, crescente autorità del personaggio, il quale ha acquistato (se ne aveva bisogno, ma sembra che Berlusconi debba essere l'unico in Italia ad averne sempre bisogno) in peso politico, in caratura. E gli osservatori seri l'hanno riconosciuto.
Certo, la cosa non andava bene. Bisognava in qualche modo ridimensionare, alla vigilia di importanti elezioni, la figura di quest'uomo che rischia, sono parole di Franceschini (che svelano un nervo scoperto della sinistra) di "prendere tutto". Berlusconi non può, non deve fare la figura dello statista. Deve essere il solito parvenu, un po' cretino, un po' superficiale, un mestierante, quando non un menzognero, un ingannapopolo. Un niente rispetto ai politici di professione, che vantano, tra l'altro, illustri antenati. Un Mastro-don Gesualdo, non degno di sedere al banchetto dei nobili veri.
Ed ecco che scoppia il caso Lario, che offre miracolosamente il destro ad un elenco già nutrito di di insulti gratuiti: Hitler (Di Pietro), dittatore di una repubblica orientale sovietica (Franceschini), Capo di una coalizione di governo razzista (Franceschini bis). Si arriva all'infamante accusa di velinaro e di frequentatore di minorenni. E giù con le analisi e le riflessioni serie e impegnate sulla questione morale, che va "ben oltre il conflitto di interessi" (Bindi). Ed ecco che, improvvisamente, il parere del mondo cattolico (quello che è sempre sgradito ed è sempre un'intromissione negli affari dello Stato quando si tratta di tematiche sgradite a lorsignori) diventa importante e da tenere in seria considerazione.
L'Italia torna ad essere, in un attimo, la repubblica delle banane, guidata da un personaggio oscuro e poco raccomandabile. Gli italiani, che a questo personaggio danno l loro fiducia, tornano immediatamente dei cretini, presi collettivamente per i fondelli dal Kaimano.
La Bonino grida alla decadenza della vita politica. Dovrebbe fare mea culpa: non fu lei e il suo amichetto Pannella a portare per prima una pornostar al Parlamento? La sinistra fa lo steso. Ma scusate, quali meriti aveva il transessuale Luxuria di sedere in Parlamento, se non quelli di fare la soubrette al Muccassassina? Si parla di veline... Ma, chiedo ancora, la bellissima Gruber è stata candidata al Parlamento Europeo per le sue memorabili inchieste o per essere un'affascinante lettrice di veline? Si dice che il Berlusconi populista, quello che va a casa anche della gente, a festeggiare il compleanno della figlia di un amico con tanto di fotografi al seguito, è uno scandalo. Ma, chiedo di nuovo, l’anno scorso non ci siamo dovuti sorbire Veltroni che andava a fare l’amico buono della gente e entrava in casa dell’inquilino medio a portare la rosa alla madre di famiglia?
Sono ormai alla frutta. Prima che si concluda la campagna elettorale. Hanno già perso e lo sanno. Sono disperati. Hanno però dalla loro parte la stampa nazionale (quella dalle alte tirature, quella che pesa, i programmi che parlano di politica) e lo stuolo di tutti i moralisti più tristi della vecchia DC. Richiamano alla moralità, ma stanno dando l’ennesimo, squallido, immorale esempio di uno sciacallaggio politico che non s’arresta davanti a nulla. Ciò che conta è sbaragliare l’odiato Nemico che li ha messi all’angolo. E tutti i mezzi sono leciti. Il problema è che anche stavolta faranno un buco nell’acqua.
Si sta provando a mettere su un caso, anzi, nella mente di certa gente il caso già c’è. E’ nella loro testa, ovviamente, è un sogno, una gufata che diventa miracolosamente realtà. Peccato che sia solo una realtà virtuale, una specie di gioco, una partita a Spore.
Certo, si dirà, ci sono le frasi di sdegno della Lario, la quale, guarda caso, coglie sempre il momento giusto per mettere il marito in difficoltà. C’è sempre di mezzo una campagna elettorale, quando la signora Berlusconi decide di esternare le proprie amarezze di moglie delusa. Offrendo il destro a tutti coloro che passerebbero anche sulla propria madre, pur di ammazzare Berlusconi. La Lario ha fatto un bel regalo alla Bindi, a Franceschini, a Bersani, a Di Pietro: una richiesta di divorzio pubblica, con tanto di dichiarazioni imbarazzanti rese alla stampa. In tempo in tempo per le elezioni europee, sulla base di un fatto che non sussiste (è evidente che non sussiste). Si poteva fare di più?
E giù tutti a gufare (non gli è rimasto altro da fare), a guardare contenti la marea che monta, o a farla montare, che è più esatto. Con risultati comici, parossistici, come è stata comica la puntata di Alzo Zero di ieri sera, che mi ha messo molto di buon umore, stavolta. La speranza di questa gente è che il “matrimonio a pezzi” di Berlusconi oscuri la sua credibilità. Ma consiglierei a costoro di andarci piano, di non correre troppo. Perché è tutto da dimostrare che questa penosa vicenda oscuri il prestigio di Berlusconi, come sognano. E’ tutto da dimostrare che la partecipazione al brindisi del compleanno della figlia di un amico possa diventare quello scandalo nazionale che costoro si augurano, tanto, addirittura, da presentarci sopra un’interrogazione parlamentare.
Anche perchè i sondaggi parlano chiaro: le dichiarazioni della signora Lario, troppo tempestive per essere spontanee, non sembrano in grado di “oscurare” l’attività del capo del governo. Non sono delle imbarazzanti questioni familiari, a determinare la vita politica italiana. Gli italiani non valutano l’operato di un governo sulla base delle liti in famiglia del premier. Alla nazione interessa ben altro. Gli italiani non sono così stupidi come qualcuno li vorrebbe.
(Fonte: Gianluca Zappa, La Cittadella, 8 maggio 2009)
E se provassimo a "de-ideologizzare" un po' la Chiesa?
Si fa un gran parlare di avvicendamenti nella Curia romana e nell'Episcopato. Nil sub sole novi: da che mondo è mondo, i pettegolezzi su eventuali nomine sono uno degli sport preferiti del genere umano. Non c'è assolutamente da meravigliarsi. È dell'altro giorno la smentita delle anticipazioni riguardanti un'eventuale promozione di Mons. Malcom Ranjith alla sede arcivescovile di Colombo. Anche se non posso negare un naturale interesse per tutte queste voci che si rincorrono, per principio mi sono ripromesso di non dar credito a certe notizie finché esse non sono state ufficialmente pubblicate.
Ma in questa sede non è questa o quella (possibile) nomina che mi interessa. Vorrei fare qualche considerazione sulla "politica" che ispira certi avvicendamenti. Io non so quale sia la politica attualmente seguita dalla Santa Sede nella scelta dei responsabili dei dicasteri della Curia romana e delle sedi episcopali. Non so neppure se esista una tale politica o se piuttosto certe nomine non debbano essere considerate semplicemente frutto di "giochi di potere".
Certamente molti rimarranno rabbrividiti al solo sentir parlare di "giochi di potere" nella Chiesa. Vi dirò sinceramente: anche in questo caso la cosa non mi meraviglia piú di tanto. Sono convinto che una simile realtà, per quanto riprovevole, c'è sempre stata e — ahimè — sempre ci sarà nella Chiesa, come in qualsiasi altra istituzione umana.
Quel che invece mi preoccupa maggiormente è che ci possa essere una "politica" dettata dall'ideologia. Che cosa voglio dire? È un fatto che viviamo in una società fortemente ideologizzata. Non saprei dire quando la tendenza a considerare la realtà attraverso le lenti dell'ideologia abbia avuto inizio. Certamente si tratta di una tendenza abbastanza naturale, ma penso che essa abbia avuto una spinta notevole a partire dall'illuminismo (la prima grande ideologia moderna) per arrivare al XX secolo, che è stato il "secolo delle ideologie". A un certo punto, col crollo del comunismo (1989), ci eravamo illusi che le ideologie fossero finite, ma non era affatto vero: continuiamo a essere vittima di altre ideologie.
Probabilmente anche il Concilio Vaticano II va letto all'interno di questa generale ideologizzazione, che ha finito per insinuarsi anche nella Chiesa. Non solo nelle discussioni, ma negli stessi documenti conciliari si sente l'influsso delle ideologie allora in voga. Ma anche questo non deve scandalizzarci: la Chiesa vive nel tempo; ed è ingenuo pensare che essa possa rimanerne incontaminata. Ciò che importa è che la Chiesa, in questo suo cammino attraverso la storia, non è mai sola, ma è assistita dallo Spirito Santo, che le permette di discernere e ritenere ciò che è buono, lasciando cadere ciò che è male. Dunque, nessun dubbio che ciò che il Concilio ha deciso è ciò che Dio vuole dalla sua Chiesa in questo nostro tempo.
Eppure certe tendenze ideologiche sono rimaste presenti nella Chiesa. Che altro è, se non ideologia, il cosiddetto "spirito del Concilio", che non solo ha operato durante il Concilio, ma che ha continuato ad agire dopo di esso, pretendendo di essere l'unica sua chiave di lettura? Per anni il "progressismo" è stato visto come l'unico modo legittimo di vivere il cristianesimo. E tale progressismo ha ispirato non solo l'interpretazione del Concilio, ma anche la nomina dei Vescovi, dei responsabili della Curia romana, dei professori di teologia, ecc. Scelte "ideologiche", appunto.
Ma, da qualche anno a questa parte, è presente nella Chiesa una tendenza opposta. Dopo decenni di vita nelle catacombe, con il pontificato di Giovanni Paolo II prima e, soprattutto ora, col pontificato di Benedetto XVI, hanno ripreso forza i gruppi tradizionalisti, che hanno incominciato a far sentire la loro voce e a pretendere alcuni cambiamenti nella Chiesa. Ciò non deve meravigliare, perché, col passare degli anni le forze progressiste si sono a poco a poco esaurite: i giovani rivoluzionari degli anni Sessanta-Settanta nel frattempo sono invecchiati, senza avere ricambi; al contrario dei tradizionalisti che invece in questi anni hanno incrementato le loro fila con l'adesione di non pochi giovani.
È così che tali gruppi tradizionalisti spingono per un ricambio nei posti chiave della Chiesa (diocesi e Curia romana), un ricambio che preveda la sostituzione di uomini di tendenza progressista con persone che siano fedeli a una visione piú tradizionale. Già in altra occasione facevo notare che tale operazione non è per nulla facile: lo abbiamo visto recentemente in Austria col tentativo di nominare Mons. Wagner Vescovo ausiliare di Linz. Non è facile scalfire un sistema di potere cosí consolidato: è come fare un trapianto; segue l'immediato "rigetto" dell'organo che si vuole innestare. Lo stiamo vedendo anche nella Curia Romana, dove, nonostante che da quattro anni ci sia Benedetto XVI, le nomine in importanti dicasteri continuano a lasciare molto a desiderare.
Ma qui vorrei aggiungere qualche altra considerazione. Prima di tutto, non dobbiamo farci illusioni. Il tradizionalismo, di per sé, non è garanzia di qualità. Lo abbiamo visto in non poche nomine fatte durante il pontificato di Giovanni Paolo II, specialmente in alcuni paesi europei (Olanda, Svizzera, Austria). Quelle nomine non solo non sono riuscite a recuperare la situazione della Chiesa in quei paesi o anche solo a creare un nuovo clima all'interno dei rispettivi episcopati, ma in non pochi casi sono rimaste travolte da scandali di vario genere.
C'è poi da chiedersi: è questa auspicata "normalizzazione", alla fin fine, tanto diversa dalla "rivoluzione" avvenuta in seguito al Vaticano II? Non è anch'essa, dopo tutto, una tendenza ideologica? In entrambi i casi si giudicano le persone per le loro idee, se sono tradizionaliste o progressiste; e questo dovrebbe essere un criterio sufficiente per la loro nomina. Vi sembra giusto? Delle capacità, delle competenze, del valore di una persona importa poco; ciò che importa è se quella persona è un tradizionalista o un progressista. Ed è, a mio parere, proprio questo, che rovina la Chiesa; perché ci ritroviamo spesso persone non capaci in posti-chiave.
Che ciascuno di noi sia tendenzialmente portato verso la conservazione o il cambiamento, è cosa naturale. Ma non dovrebbe essere questo ciò che ci qualifica e che determina la nostra scelta per un determinato incarico. Quando c'è da provvedere a qualche ufficio l'unica preoccupazione dovrebbe essere la capacità e la competenza dei candidati. È ovvio che questo sistema ha senso solo all'interno di una condivisione dei valori di fondo. Voglio dire: a prescindere che io sia tradizionalista o progressista, non metterò in discussione la divinità di Cristo; al massimo potrò discutere se il rito della pace va fatto prima della comunione o all'offertorio.
Probabilmente, se incominciassimo a guardare di piú al valore delle persone e non alle loro idee, a quello che fanno piú che a quello che dicono, il livello dei "quadri" della Chiesa ne guadagnerebbe non poco.
(Fonte: “Senza peli sulla lingua”, 9 maggio 2009)
Ma in questa sede non è questa o quella (possibile) nomina che mi interessa. Vorrei fare qualche considerazione sulla "politica" che ispira certi avvicendamenti. Io non so quale sia la politica attualmente seguita dalla Santa Sede nella scelta dei responsabili dei dicasteri della Curia romana e delle sedi episcopali. Non so neppure se esista una tale politica o se piuttosto certe nomine non debbano essere considerate semplicemente frutto di "giochi di potere".
Certamente molti rimarranno rabbrividiti al solo sentir parlare di "giochi di potere" nella Chiesa. Vi dirò sinceramente: anche in questo caso la cosa non mi meraviglia piú di tanto. Sono convinto che una simile realtà, per quanto riprovevole, c'è sempre stata e — ahimè — sempre ci sarà nella Chiesa, come in qualsiasi altra istituzione umana.
Quel che invece mi preoccupa maggiormente è che ci possa essere una "politica" dettata dall'ideologia. Che cosa voglio dire? È un fatto che viviamo in una società fortemente ideologizzata. Non saprei dire quando la tendenza a considerare la realtà attraverso le lenti dell'ideologia abbia avuto inizio. Certamente si tratta di una tendenza abbastanza naturale, ma penso che essa abbia avuto una spinta notevole a partire dall'illuminismo (la prima grande ideologia moderna) per arrivare al XX secolo, che è stato il "secolo delle ideologie". A un certo punto, col crollo del comunismo (1989), ci eravamo illusi che le ideologie fossero finite, ma non era affatto vero: continuiamo a essere vittima di altre ideologie.
Probabilmente anche il Concilio Vaticano II va letto all'interno di questa generale ideologizzazione, che ha finito per insinuarsi anche nella Chiesa. Non solo nelle discussioni, ma negli stessi documenti conciliari si sente l'influsso delle ideologie allora in voga. Ma anche questo non deve scandalizzarci: la Chiesa vive nel tempo; ed è ingenuo pensare che essa possa rimanerne incontaminata. Ciò che importa è che la Chiesa, in questo suo cammino attraverso la storia, non è mai sola, ma è assistita dallo Spirito Santo, che le permette di discernere e ritenere ciò che è buono, lasciando cadere ciò che è male. Dunque, nessun dubbio che ciò che il Concilio ha deciso è ciò che Dio vuole dalla sua Chiesa in questo nostro tempo.
Eppure certe tendenze ideologiche sono rimaste presenti nella Chiesa. Che altro è, se non ideologia, il cosiddetto "spirito del Concilio", che non solo ha operato durante il Concilio, ma che ha continuato ad agire dopo di esso, pretendendo di essere l'unica sua chiave di lettura? Per anni il "progressismo" è stato visto come l'unico modo legittimo di vivere il cristianesimo. E tale progressismo ha ispirato non solo l'interpretazione del Concilio, ma anche la nomina dei Vescovi, dei responsabili della Curia romana, dei professori di teologia, ecc. Scelte "ideologiche", appunto.
Ma, da qualche anno a questa parte, è presente nella Chiesa una tendenza opposta. Dopo decenni di vita nelle catacombe, con il pontificato di Giovanni Paolo II prima e, soprattutto ora, col pontificato di Benedetto XVI, hanno ripreso forza i gruppi tradizionalisti, che hanno incominciato a far sentire la loro voce e a pretendere alcuni cambiamenti nella Chiesa. Ciò non deve meravigliare, perché, col passare degli anni le forze progressiste si sono a poco a poco esaurite: i giovani rivoluzionari degli anni Sessanta-Settanta nel frattempo sono invecchiati, senza avere ricambi; al contrario dei tradizionalisti che invece in questi anni hanno incrementato le loro fila con l'adesione di non pochi giovani.
È così che tali gruppi tradizionalisti spingono per un ricambio nei posti chiave della Chiesa (diocesi e Curia romana), un ricambio che preveda la sostituzione di uomini di tendenza progressista con persone che siano fedeli a una visione piú tradizionale. Già in altra occasione facevo notare che tale operazione non è per nulla facile: lo abbiamo visto recentemente in Austria col tentativo di nominare Mons. Wagner Vescovo ausiliare di Linz. Non è facile scalfire un sistema di potere cosí consolidato: è come fare un trapianto; segue l'immediato "rigetto" dell'organo che si vuole innestare. Lo stiamo vedendo anche nella Curia Romana, dove, nonostante che da quattro anni ci sia Benedetto XVI, le nomine in importanti dicasteri continuano a lasciare molto a desiderare.
Ma qui vorrei aggiungere qualche altra considerazione. Prima di tutto, non dobbiamo farci illusioni. Il tradizionalismo, di per sé, non è garanzia di qualità. Lo abbiamo visto in non poche nomine fatte durante il pontificato di Giovanni Paolo II, specialmente in alcuni paesi europei (Olanda, Svizzera, Austria). Quelle nomine non solo non sono riuscite a recuperare la situazione della Chiesa in quei paesi o anche solo a creare un nuovo clima all'interno dei rispettivi episcopati, ma in non pochi casi sono rimaste travolte da scandali di vario genere.
C'è poi da chiedersi: è questa auspicata "normalizzazione", alla fin fine, tanto diversa dalla "rivoluzione" avvenuta in seguito al Vaticano II? Non è anch'essa, dopo tutto, una tendenza ideologica? In entrambi i casi si giudicano le persone per le loro idee, se sono tradizionaliste o progressiste; e questo dovrebbe essere un criterio sufficiente per la loro nomina. Vi sembra giusto? Delle capacità, delle competenze, del valore di una persona importa poco; ciò che importa è se quella persona è un tradizionalista o un progressista. Ed è, a mio parere, proprio questo, che rovina la Chiesa; perché ci ritroviamo spesso persone non capaci in posti-chiave.
Che ciascuno di noi sia tendenzialmente portato verso la conservazione o il cambiamento, è cosa naturale. Ma non dovrebbe essere questo ciò che ci qualifica e che determina la nostra scelta per un determinato incarico. Quando c'è da provvedere a qualche ufficio l'unica preoccupazione dovrebbe essere la capacità e la competenza dei candidati. È ovvio che questo sistema ha senso solo all'interno di una condivisione dei valori di fondo. Voglio dire: a prescindere che io sia tradizionalista o progressista, non metterò in discussione la divinità di Cristo; al massimo potrò discutere se il rito della pace va fatto prima della comunione o all'offertorio.
Probabilmente, se incominciassimo a guardare di piú al valore delle persone e non alle loro idee, a quello che fanno piú che a quello che dicono, il livello dei "quadri" della Chiesa ne guadagnerebbe non poco.
(Fonte: “Senza peli sulla lingua”, 9 maggio 2009)
Perché dire che basta la "buona fede" per salvarsi…?
Il vero dibattito aperto da “L’elogio della coscienza” di Benedetto XVI è destinato a svolgersi all’interno della chiesa, dove il Papa-teologo è sottoposto a un acceso fuoco incrociato.
I progressisti vi vedranno una nuova pietra di ostacolo lanciata contro il “dialogo” ecumenico, gli ultralefebvriani, un ennesimo esempio di cedimento al “liberalismo”.
Né gli uni né gli altri hanno in genere la pazienza di leggere fino in fondo e con attenzione gli scritti ratzingeriani, spesso intellettualmente sofisticati e di accessibilità non immediata a chi vorrebbe tagliare con l’accetta problemi teologici complessi. Comunque il libro è qui, pubblicato dall’ottimo Davide Cantagalli, con l’unico difetto di non indicare le fonti da cui sono tratti i capitoli che lo compongono.
Proprio qualche settimana prima che uscisse il volumetto, il quindicinale antimodernista “Sì sì no no”, ha accusato Benedetto XVI di voler “conciliar l’inconciliabile”, addebitando all’allora cardinale Ratzinger l’adesione ad una nota frase del cardinale John Henry Newman, secondo cui, “io brinderei per il Papa. Ma prima per la coscienza e poi per il Papa”. Questa sentenza, secondo “Sì sì no no”, rivelerebbe un “soggettivismo filosofico-teologico”, che è il “motivo conduttore” di tutto il pensiero ratzingeriano dai primi anni di seminario (1946) sino ad oggi (2009), confermato dal recente libro di Gianni Valente, “Ratzinger professore” (San Paolo, Cinisello Balsamo, 2008) sulla formazione intellettuale di Benedetto XVI.
Il libro di Valente, interessante per ricostruire l’atmosfera culturale del cattolicesimo soprattutto tedesco prima del Vaticano II, prova semmai l’esistenza di un’evoluzione nel pensiero di Joseph Ratzinger, dagli anni in cui il teologo Michael Schmaus, correlatore della sua tesi, ne criticava il soggettivismo, a quelli del celebre “Rapporto sulla fede” (1985).
Tutti sanno che il giovane Ratzinger svolse un ruolo di punta come perito teologico del cardinale Joseph Frings nel Concilio Vaticano II; ma è altrettanto noto che di fronte alla “aggressione della realtà” postconciliare, egli svolse e continua a svolgere una serrata critica, dall’interno, al progressismo cattolico avanzante. Fin dalle prime pagine del nuovo libro, Benedetto XVI-Ratzinger spiega che la coscienza non può essere separata dalla verità, in cui trova la sua misura e il suo fondamento. Il concetto di verità ci offre, a suo avviso, la chiave per spiegare il significato del brindisi del cardinale Newman, che non voleva affermare il primato della soggettività dell’individuo sull’oggettività del Magistero, ma al contrario sottolineare l’esistenza di un’armonia tra i due poli della coscienza e dell’autorità.
Il termine medio è proprio la verità, che prima di essere annunciata dalla chiesa, è impressa nella nostra coscienza, perché ci viene data con la stessa natura umana. La coscienza non si radica sull’io, ma sull’oggettività dell’essere. “In definitiva, il linguaggio dell’essere, il linguaggio della natura, è identico al linguaggio della coscienza” (p.163).
Benedetto XVI, accusato di “liberalismo” e di “soggettivismo”, critica esplicitamente “l’ideologia del liberalismo filosofico che impregna anche la mentalità della nostra epoca” (p. 110). “La coscienza non si può identificare con l’auto-coscienza dell’io, un muro di bronzo contro cui persino il Magistero non può fare a meno di infrangersi” (p. 146). Svincolata dal suo rapporto costitutivo con la verità e con l’ordine morale, la coscienza viene a essere nient’altro che la soggettività elevata a criterio ultimo dell’agire (p. 42). Voler conciliare coscienza e legge morale, non significa voler “conciliare l’inconciliabile”.
Alla fine degli anni Sessanta, in piena crisi post conciliare, il padre Cornelio Fabro dedicò un approfondito saggio a “Il valore permanente della morale” (raccolto in “L’avventura della teologia progressista”, Rusconi, Milano 1974) contro i moralisti protestanti e cattolici che teorizzavano la “morale della situazione”. Quel saggio, attualissimo, andrebbe riletto accanto al libro di Benedetto XVI. L’autore vi dimostrava l’esistenza di due aspetti della morale: una dimensione soggettiva, che ha la sua radice nella libertà, e una dimensione oggettiva che ha la sua radice nella norma, ossia nella legge divina e naturale. Non si può amputare la morale di nessuna delle due dimensioni, né della libertà, né della legge, se non la si vuole vanificare.
La libertà e la norma, osservava Fabro, non sono dei momenti dialettici, ma costitutivi l’uno dell’altro. Anche la coscienza, spiegava a sua volta il padre Ramon Garcia de Haro, è una norma della moralità, ma mentre la legge costituisce una norma fondante, la coscienza è una norma fondata: essa ha nella legge oggettiva e universale il suo fondamento. (La vita cristiana, Ares, Milano 1995, p. 402). “E’ sempre più evidente che la malattia propria del mondo moderno è la mancanza di moralità”, ovvero la perdita della legge naturale, osserva Benedetto XVI (p. 139).
La negazione della legge naturale è l’esito di un processo intellettuale che risale alla filosofia del diritto illuminista e, più indietro, al giusnaturalismo di Ugo Grozio e al nominalismo di Guglielmo da Ockham. Nel Novecento il principale tentativo di fondare il diritto sulla ragione umana è stato quello di Hans Kelsen. Secondo il giurista austriaco, la validità dell’ordinamento giuridico si fonda sulla pura “efficacia” delle norme, cioè sul loro potere di fatto.
Quando Pilato pone a Gesù la domanda: “Che cosa è la verità?” (Gv, 18, 38), non attende una risposta, ma si rivolge immediatamente alla folla, sottoponendo la decisione del caso controverso al giudizio del popolo. Kelsen è dell’opinione che egli abbia agito da perfetto democratico e si spinge ad affermare che il relativismo di Pilato dovrebbe essere la regola assoluta della democrazia. Il filosofo del diritto Richard Rorty è oggi il più noto esponente della visione kelseniana della democrazia secondo cui l’unico parametro della politica e del diritto è l’opinione della maggioranza dei cittadini. La maggioranza ha sempre ragione e la sua volontà deve essere imposta a ogni costo, senza alcun riguardo per l’esistenza di un diritto e di una verità
Dove sbagliano Mancuso e Bianchi
Dal saggio del cardinale Ratzinger, la concezione di Kelsen-Rorty esce frantumata. Una volta dissolto il fondamento universale di un ordine di valori, è facile dimostrare la fragilità e la precarietà di diritti che si pretende costruire sulla pura creazione razionale della norma.
“Laddove il criterio decisivo del riconoscimento dei diritti diventa quello della maggioranza, lì è la forza che è divenuta il criterio del diritto” (p. 40). Ciò è lampante nel caso in cui, in nome della maggioranza si nega il fondamentale diritto alla vita di chi non ha neanche la possibilità di fare ascoltare la sua voce. Alla “dittatura del relativismo”, Benedetto XVI Ratzinger oppone la concezione metafisica e cristiana secondo cui “al di sopra del potere dell’uomo sta la verità: essa deve essere il limite e il criterio di ogni potere” (p. 85).
Per questa concezione, “la verità non è un ‘prodotto’ della politica (cioè della maggioranza), bensì ha un primato su quest’ultima e dunque la illumina: non è la prassi a ‘creare’ la verità, ma è la verità che rende possibile un’autentica prassi” (p. 54). Ci si potrebbe domandare in che cosa consista questa legge naturale e morale che l’autore considera assoluta e vera. La risposta va cercata in un’analogia tra la logica e la morale. Se esistono principi indimostrabili, che si impongono per la loro evidenza all’intelligenza, a cominciare dal principio di identità e di non contraddizione che ne costituisce il cardine, esistono anche principi morali che si impongono con evidenza alla coscienza, senza bisogno di dimostrazione. Il primo principio evidente all’uomo è che bisogna fare il bene ed evitare il male.
Il giudizio non riguarda il bene e il male in astratto, ma i singoli atti umani. La coscienza è in questo senso la valutazione morale del nostro agire concreto.
Essa presuppone la verità e indica alla volontà il cammino che deve percorrere. Non è possibile un’ignoranza incolpevole dei primi principi della legge morale, afferma san Tommaso d’Aquino nella Summa Theologica (I, q. 79, a. 12 ad 3) e ripete ora Benedetto XVI. Non è mai una colpa seguire le convinzioni che ci si è formate, anzi uno deve seguirle. “Ma nondimeno può essere una colpa che uno sia arrivato a formarsi convinzioni tanto sbagliate e che abbia calpestato la repulsione verso di esse, che avverte la memoria del suo essere” (pp.29-30). Il richiamo alla coscienza, insomma, non può giustificare qualsiasi scelta dell’uomo, a cominciare dalla scelta religiosa.
Esiste un ampio ventaglio di teologi, talvolta in discussione tra loro, come Enzo Bianchi e Vito Mancuso, colleghi al San Raffaele di Milano, che rifiutano l’assioma dell’extra ecclesiam nulla salus. Eppure, come non avrebbe senso affermare l’esistenza di una verità fuori della verità, ancor meno senso ha la pretesa di una possibilità di salvezza al di fuori di quella società di salvezza che è la chiesa.
A meno che non si volesse negare alla chiesa il suo fine specifico, che è quello, assegnatole dal suo Fondatore, di redimere gli uomini dal peccato e condurli alla salvezza eterna. I cattolici che rifiutano l’assioma extra ecclesiam nulla salus sono convinti che la “buona fede” salva.
Ma allora, assomigliano a quel teologo, conosciuto dal giovane professor Ratzinger, secondo cui persino i membri delle SS naziste sarebbero in Paradiso perché portarono a compimento le loro atrocità con assoluta certezza di coscienza (p. 10).
Fu in seguito a queste parole che il futuro Pontefice maturò la convinzione che dovesse essere falsa la teoria della coscienza soggettiva. Questa riflessione lo portò a sviluppare il suo pensiero e il volume che ora appare, elogio della verità, più che della coscienza, illustra bene il suo percorso intellettuale.
(Fonte: Roberto de Mattei, Il Foglio, 5 maggio 2009)
I progressisti vi vedranno una nuova pietra di ostacolo lanciata contro il “dialogo” ecumenico, gli ultralefebvriani, un ennesimo esempio di cedimento al “liberalismo”.
Né gli uni né gli altri hanno in genere la pazienza di leggere fino in fondo e con attenzione gli scritti ratzingeriani, spesso intellettualmente sofisticati e di accessibilità non immediata a chi vorrebbe tagliare con l’accetta problemi teologici complessi. Comunque il libro è qui, pubblicato dall’ottimo Davide Cantagalli, con l’unico difetto di non indicare le fonti da cui sono tratti i capitoli che lo compongono.
Proprio qualche settimana prima che uscisse il volumetto, il quindicinale antimodernista “Sì sì no no”, ha accusato Benedetto XVI di voler “conciliar l’inconciliabile”, addebitando all’allora cardinale Ratzinger l’adesione ad una nota frase del cardinale John Henry Newman, secondo cui, “io brinderei per il Papa. Ma prima per la coscienza e poi per il Papa”. Questa sentenza, secondo “Sì sì no no”, rivelerebbe un “soggettivismo filosofico-teologico”, che è il “motivo conduttore” di tutto il pensiero ratzingeriano dai primi anni di seminario (1946) sino ad oggi (2009), confermato dal recente libro di Gianni Valente, “Ratzinger professore” (San Paolo, Cinisello Balsamo, 2008) sulla formazione intellettuale di Benedetto XVI.
Il libro di Valente, interessante per ricostruire l’atmosfera culturale del cattolicesimo soprattutto tedesco prima del Vaticano II, prova semmai l’esistenza di un’evoluzione nel pensiero di Joseph Ratzinger, dagli anni in cui il teologo Michael Schmaus, correlatore della sua tesi, ne criticava il soggettivismo, a quelli del celebre “Rapporto sulla fede” (1985).
Tutti sanno che il giovane Ratzinger svolse un ruolo di punta come perito teologico del cardinale Joseph Frings nel Concilio Vaticano II; ma è altrettanto noto che di fronte alla “aggressione della realtà” postconciliare, egli svolse e continua a svolgere una serrata critica, dall’interno, al progressismo cattolico avanzante. Fin dalle prime pagine del nuovo libro, Benedetto XVI-Ratzinger spiega che la coscienza non può essere separata dalla verità, in cui trova la sua misura e il suo fondamento. Il concetto di verità ci offre, a suo avviso, la chiave per spiegare il significato del brindisi del cardinale Newman, che non voleva affermare il primato della soggettività dell’individuo sull’oggettività del Magistero, ma al contrario sottolineare l’esistenza di un’armonia tra i due poli della coscienza e dell’autorità.
Il termine medio è proprio la verità, che prima di essere annunciata dalla chiesa, è impressa nella nostra coscienza, perché ci viene data con la stessa natura umana. La coscienza non si radica sull’io, ma sull’oggettività dell’essere. “In definitiva, il linguaggio dell’essere, il linguaggio della natura, è identico al linguaggio della coscienza” (p.163).
Benedetto XVI, accusato di “liberalismo” e di “soggettivismo”, critica esplicitamente “l’ideologia del liberalismo filosofico che impregna anche la mentalità della nostra epoca” (p. 110). “La coscienza non si può identificare con l’auto-coscienza dell’io, un muro di bronzo contro cui persino il Magistero non può fare a meno di infrangersi” (p. 146). Svincolata dal suo rapporto costitutivo con la verità e con l’ordine morale, la coscienza viene a essere nient’altro che la soggettività elevata a criterio ultimo dell’agire (p. 42). Voler conciliare coscienza e legge morale, non significa voler “conciliare l’inconciliabile”.
Alla fine degli anni Sessanta, in piena crisi post conciliare, il padre Cornelio Fabro dedicò un approfondito saggio a “Il valore permanente della morale” (raccolto in “L’avventura della teologia progressista”, Rusconi, Milano 1974) contro i moralisti protestanti e cattolici che teorizzavano la “morale della situazione”. Quel saggio, attualissimo, andrebbe riletto accanto al libro di Benedetto XVI. L’autore vi dimostrava l’esistenza di due aspetti della morale: una dimensione soggettiva, che ha la sua radice nella libertà, e una dimensione oggettiva che ha la sua radice nella norma, ossia nella legge divina e naturale. Non si può amputare la morale di nessuna delle due dimensioni, né della libertà, né della legge, se non la si vuole vanificare.
La libertà e la norma, osservava Fabro, non sono dei momenti dialettici, ma costitutivi l’uno dell’altro. Anche la coscienza, spiegava a sua volta il padre Ramon Garcia de Haro, è una norma della moralità, ma mentre la legge costituisce una norma fondante, la coscienza è una norma fondata: essa ha nella legge oggettiva e universale il suo fondamento. (La vita cristiana, Ares, Milano 1995, p. 402). “E’ sempre più evidente che la malattia propria del mondo moderno è la mancanza di moralità”, ovvero la perdita della legge naturale, osserva Benedetto XVI (p. 139).
La negazione della legge naturale è l’esito di un processo intellettuale che risale alla filosofia del diritto illuminista e, più indietro, al giusnaturalismo di Ugo Grozio e al nominalismo di Guglielmo da Ockham. Nel Novecento il principale tentativo di fondare il diritto sulla ragione umana è stato quello di Hans Kelsen. Secondo il giurista austriaco, la validità dell’ordinamento giuridico si fonda sulla pura “efficacia” delle norme, cioè sul loro potere di fatto.
Quando Pilato pone a Gesù la domanda: “Che cosa è la verità?” (Gv, 18, 38), non attende una risposta, ma si rivolge immediatamente alla folla, sottoponendo la decisione del caso controverso al giudizio del popolo. Kelsen è dell’opinione che egli abbia agito da perfetto democratico e si spinge ad affermare che il relativismo di Pilato dovrebbe essere la regola assoluta della democrazia. Il filosofo del diritto Richard Rorty è oggi il più noto esponente della visione kelseniana della democrazia secondo cui l’unico parametro della politica e del diritto è l’opinione della maggioranza dei cittadini. La maggioranza ha sempre ragione e la sua volontà deve essere imposta a ogni costo, senza alcun riguardo per l’esistenza di un diritto e di una verità
Dove sbagliano Mancuso e Bianchi
Dal saggio del cardinale Ratzinger, la concezione di Kelsen-Rorty esce frantumata. Una volta dissolto il fondamento universale di un ordine di valori, è facile dimostrare la fragilità e la precarietà di diritti che si pretende costruire sulla pura creazione razionale della norma.
“Laddove il criterio decisivo del riconoscimento dei diritti diventa quello della maggioranza, lì è la forza che è divenuta il criterio del diritto” (p. 40). Ciò è lampante nel caso in cui, in nome della maggioranza si nega il fondamentale diritto alla vita di chi non ha neanche la possibilità di fare ascoltare la sua voce. Alla “dittatura del relativismo”, Benedetto XVI Ratzinger oppone la concezione metafisica e cristiana secondo cui “al di sopra del potere dell’uomo sta la verità: essa deve essere il limite e il criterio di ogni potere” (p. 85).
Per questa concezione, “la verità non è un ‘prodotto’ della politica (cioè della maggioranza), bensì ha un primato su quest’ultima e dunque la illumina: non è la prassi a ‘creare’ la verità, ma è la verità che rende possibile un’autentica prassi” (p. 54). Ci si potrebbe domandare in che cosa consista questa legge naturale e morale che l’autore considera assoluta e vera. La risposta va cercata in un’analogia tra la logica e la morale. Se esistono principi indimostrabili, che si impongono per la loro evidenza all’intelligenza, a cominciare dal principio di identità e di non contraddizione che ne costituisce il cardine, esistono anche principi morali che si impongono con evidenza alla coscienza, senza bisogno di dimostrazione. Il primo principio evidente all’uomo è che bisogna fare il bene ed evitare il male.
Il giudizio non riguarda il bene e il male in astratto, ma i singoli atti umani. La coscienza è in questo senso la valutazione morale del nostro agire concreto.
Essa presuppone la verità e indica alla volontà il cammino che deve percorrere. Non è possibile un’ignoranza incolpevole dei primi principi della legge morale, afferma san Tommaso d’Aquino nella Summa Theologica (I, q. 79, a. 12 ad 3) e ripete ora Benedetto XVI. Non è mai una colpa seguire le convinzioni che ci si è formate, anzi uno deve seguirle. “Ma nondimeno può essere una colpa che uno sia arrivato a formarsi convinzioni tanto sbagliate e che abbia calpestato la repulsione verso di esse, che avverte la memoria del suo essere” (pp.29-30). Il richiamo alla coscienza, insomma, non può giustificare qualsiasi scelta dell’uomo, a cominciare dalla scelta religiosa.
Esiste un ampio ventaglio di teologi, talvolta in discussione tra loro, come Enzo Bianchi e Vito Mancuso, colleghi al San Raffaele di Milano, che rifiutano l’assioma dell’extra ecclesiam nulla salus. Eppure, come non avrebbe senso affermare l’esistenza di una verità fuori della verità, ancor meno senso ha la pretesa di una possibilità di salvezza al di fuori di quella società di salvezza che è la chiesa.
A meno che non si volesse negare alla chiesa il suo fine specifico, che è quello, assegnatole dal suo Fondatore, di redimere gli uomini dal peccato e condurli alla salvezza eterna. I cattolici che rifiutano l’assioma extra ecclesiam nulla salus sono convinti che la “buona fede” salva.
Ma allora, assomigliano a quel teologo, conosciuto dal giovane professor Ratzinger, secondo cui persino i membri delle SS naziste sarebbero in Paradiso perché portarono a compimento le loro atrocità con assoluta certezza di coscienza (p. 10).
Fu in seguito a queste parole che il futuro Pontefice maturò la convinzione che dovesse essere falsa la teoria della coscienza soggettiva. Questa riflessione lo portò a sviluppare il suo pensiero e il volume che ora appare, elogio della verità, più che della coscienza, illustra bene il suo percorso intellettuale.
(Fonte: Roberto de Mattei, Il Foglio, 5 maggio 2009)
No nozze gay? Niente vittoria: la discriminazione per Carrie Prejean
Fosse stata politicamente corretta e consapevole di vivere nell’era obamiana forse oggi sarebbe Miss America. Invece deve accontentarsi di essere soltanto Miss California. In effetti sono problemi anche questi, in più Carrie Prejean, stangona bionda di anni ventuno e almeno trentaquattro denti da mostrare, non è diventata la più bella degli Stati Uniti perché discriminata, azzarda qualcuno: il suo problema è che non crede nel matrimonio omosessuale. Pare che lo scettro della più bella d’America le sia stato sfilato da una domanda in finalissima. “Nel Vermont hanno legalizzato il matrimonio gay (è il quarto, negli Stati Uniti, ndr). Secondo lei tutti gli stati dovrebbero seguirne l’esempio?”, le domanda il giudice Perez Hilton, un ragazzetto appena più vecchio di lei. E domanda più politicamente corretta non poteva essere posta. “E’ bello che uno possa scegliere – risponde lei – Ma nel mio paese e nella mia famiglia il matrimonio è tra un uomo e una donna”. E si gioca così la vittoria, la corona in testa, i fiori in braccio e le lacrime piagnone di tutte le prime miss della terra.
Hai voglia poi ad aggiungere, cara la mia Carrie, che tua sorella è nell’aeronautica americana e che è un’attivista pro gay, che ti ha consolata in albergo, quella sera, dicendoti che non si era offesa per niente, che ognuno ha le sue idee, ma che rispetta le tue e che ti vuole bene e basta. Hai voglia a dire che con tuo padre se ne discute molto, a casa, di queste visioni del mondo. Hai voglia a rilasciare interviste in cui dici che in realtà ti sembra di aver vinto tu, davvero, visti i mille messaggi di solidarietà ricevuti e le duemila richieste di amicizia su Facebook. La verità è che ti meriti di restare una Miss California qualsiasi perché non hai capito che l’aria adesso è cambiata, vivi nella fiorita era obamiana, era in cui è candidamente richiesto di essere pro gay, pro choice, pro islam, e tra poco magari pure pro Ahmadinejad. Per la cronaca, la corona è finita sulla testa di tale Kristen Dalton, Miss Carolina del nord, bionda come Carrie, ma forse appena meno gnocca. Anche lei, naturalmente, piagnucola storcendo la faccia in modo orribile quando viene emesso il verdetto.
La storia della discriminazione di Carrie sta scaldando il grande popolo dei telespettatori di concorsi di bellezza, ma non solo. Larry King, quello del “Larry King live”, lunedì sera ha intervistato il controverso giudice che ha posto la domanda trabocchetto. Il giudice dice che non pensa di aver posto una domanda ingiusta, sbagliata o trabocchetto. Però insulta Carrie, dice che ha dato la risposta sbagliata e comunque ha perso perché è un’idiota sgualdrina. Quindi c’è chi gli dà di cafone.
Lui, forse pensando di auscultare il polmone vero del popolo americano, forse pensando di poter iniziare il post successivo sul suo blog rosa con: “We, the people… crediamo nel matrimonio omo” eccetera, ha postato il video dell’intervista integrale al Larry King Live. Alla richiesta di: “Pensieri?”, ha avuto in cambio ben 983 messaggi. Il tono dei commenti è molto americano, americano da primo emendamento, si intende, del tipo: ognuno è libero di pensare e dire quello che crede, ognuno ha le sue idee ma questo non c’entra con un concorso di bellezza, sei uno stupido, discriminare lei perché ha risposto così è peggio che discriminare i gay, lei ha ragione e tu hai torto, e infine il più bello di tutti: “Much adieu about nothing. 85% of americans believe marriage is between a man and a woman (tanto casino per niente. L’85 per cento degli americani pensa che il matrimonio sia tra un uomo e una donna)”.
La verità è che la biografia di Carrie sembra studiata e scritta per un’era che non c’è più, quella del presidente George W. Bush. Comincia così: “Carrie è una vera californiana” (ce ne devono essere anche molte finte, evidentemente). Si prosegue con l’elenco dei desideri di Carrie, che vuole diventare insegnante delle elementari, che fa la volontaria tra ragazzi disabili, che ha una grande famiglia italiana, che ha un’energia e un buon carattere che attira i più piccoli, che ha un chihuahua di nome Biggie con cui passa la gran parte del suo tempo.
Nel frattempo Carrie ha avuto anche il modo di partecipare a innumerevoli spettacolini, promozioni, di prestare il volto a campagne pubblicitarie e televisive, ma non è per questo che vuole essere ricordata. La sua forza le viene da un passo della Bibbia, citato per intero nella sua biografia ufficiale. Si tratta della lettera di san Paolo ai Filippesi, 4:13: “I can do all things through Christ who strengthens me” (posso fare tutto attraverso Cristo che mi sostiene).
Carrie vorrebbe che la gente la ricordasse per essere vera e compassionevole. E invece ora tutti la ricorderanno perché è stata ed è rimasta una bella bionda e abbronzata Miss California, sconfitta nella corsa per la più bella d’America per aver dato la risposta sbagliata nell’era sbagliata, e aver candidamente sostenuto che bè, nella sua famiglia e nel suo paese, il matrimonio è tra un uomo e una donna.
(Fonte: Diana Zancheddu, Il Foglio, 26 aprile 2009)
Hai voglia poi ad aggiungere, cara la mia Carrie, che tua sorella è nell’aeronautica americana e che è un’attivista pro gay, che ti ha consolata in albergo, quella sera, dicendoti che non si era offesa per niente, che ognuno ha le sue idee, ma che rispetta le tue e che ti vuole bene e basta. Hai voglia a dire che con tuo padre se ne discute molto, a casa, di queste visioni del mondo. Hai voglia a rilasciare interviste in cui dici che in realtà ti sembra di aver vinto tu, davvero, visti i mille messaggi di solidarietà ricevuti e le duemila richieste di amicizia su Facebook. La verità è che ti meriti di restare una Miss California qualsiasi perché non hai capito che l’aria adesso è cambiata, vivi nella fiorita era obamiana, era in cui è candidamente richiesto di essere pro gay, pro choice, pro islam, e tra poco magari pure pro Ahmadinejad. Per la cronaca, la corona è finita sulla testa di tale Kristen Dalton, Miss Carolina del nord, bionda come Carrie, ma forse appena meno gnocca. Anche lei, naturalmente, piagnucola storcendo la faccia in modo orribile quando viene emesso il verdetto.
La storia della discriminazione di Carrie sta scaldando il grande popolo dei telespettatori di concorsi di bellezza, ma non solo. Larry King, quello del “Larry King live”, lunedì sera ha intervistato il controverso giudice che ha posto la domanda trabocchetto. Il giudice dice che non pensa di aver posto una domanda ingiusta, sbagliata o trabocchetto. Però insulta Carrie, dice che ha dato la risposta sbagliata e comunque ha perso perché è un’idiota sgualdrina. Quindi c’è chi gli dà di cafone.
Lui, forse pensando di auscultare il polmone vero del popolo americano, forse pensando di poter iniziare il post successivo sul suo blog rosa con: “We, the people… crediamo nel matrimonio omo” eccetera, ha postato il video dell’intervista integrale al Larry King Live. Alla richiesta di: “Pensieri?”, ha avuto in cambio ben 983 messaggi. Il tono dei commenti è molto americano, americano da primo emendamento, si intende, del tipo: ognuno è libero di pensare e dire quello che crede, ognuno ha le sue idee ma questo non c’entra con un concorso di bellezza, sei uno stupido, discriminare lei perché ha risposto così è peggio che discriminare i gay, lei ha ragione e tu hai torto, e infine il più bello di tutti: “Much adieu about nothing. 85% of americans believe marriage is between a man and a woman (tanto casino per niente. L’85 per cento degli americani pensa che il matrimonio sia tra un uomo e una donna)”.
La verità è che la biografia di Carrie sembra studiata e scritta per un’era che non c’è più, quella del presidente George W. Bush. Comincia così: “Carrie è una vera californiana” (ce ne devono essere anche molte finte, evidentemente). Si prosegue con l’elenco dei desideri di Carrie, che vuole diventare insegnante delle elementari, che fa la volontaria tra ragazzi disabili, che ha una grande famiglia italiana, che ha un’energia e un buon carattere che attira i più piccoli, che ha un chihuahua di nome Biggie con cui passa la gran parte del suo tempo.
Nel frattempo Carrie ha avuto anche il modo di partecipare a innumerevoli spettacolini, promozioni, di prestare il volto a campagne pubblicitarie e televisive, ma non è per questo che vuole essere ricordata. La sua forza le viene da un passo della Bibbia, citato per intero nella sua biografia ufficiale. Si tratta della lettera di san Paolo ai Filippesi, 4:13: “I can do all things through Christ who strengthens me” (posso fare tutto attraverso Cristo che mi sostiene).
Carrie vorrebbe che la gente la ricordasse per essere vera e compassionevole. E invece ora tutti la ricorderanno perché è stata ed è rimasta una bella bionda e abbronzata Miss California, sconfitta nella corsa per la più bella d’America per aver dato la risposta sbagliata nell’era sbagliata, e aver candidamente sostenuto che bè, nella sua famiglia e nel suo paese, il matrimonio è tra un uomo e una donna.
(Fonte: Diana Zancheddu, Il Foglio, 26 aprile 2009)
Il quotidiano “la Repubblica”: la corazzata nichilista
Esiste un gruppo editoriale, in Italia, che ha plasmato e continua a plasmare buona parte della cultura del paese. Mi riferisco all’editore L’espresso, che possiede il quotidiano Repubblica (il secondo più venduto in Italia dopo il Corriere della Sera), il settimanale L’espresso e altri 15 quotidiani locali (oltre a due mensili, due trimestrali, tre emittenti radiofoniche nazionali, l’emittente nazionale All Music...). Un vero impero mediatico, insomma, rispetto a cui la stampa cattolica, cosi povera e divisa, fa una assai magra figura.
Tra i giornalisti di spicco che vi collaborano troviamo Umberto Eco, l’autore del celebre romanzo Il Nome della rosa; Natalia Aspesi e Miriam Mafai, vestali del pensiero nichilista al femminile; Aldo Schiavone, ex direttore dell’Istituto Gramsci, che oggi immagina un futuro in cui ha tecnica sconfiggerà la morte e disgregherà finalmente la famiglia tradizionale; Umberto Veronesi, il famoso oncologo che si dedica soprattutto alla difesa dell’evoluzionismo materialista e della clonazione terapeutica e riproduttiva; Corrado Augias, autore di due pubblicizzatissimi libri in cui, senza conoscenza alcuna di esegesi biblica e di filologia, cerca di spiegare al credulone di turno che Cristo non è veramente risorto, e che il Cristianesimo è in realtà un «costantinismo», cioè una «religione civile» forgiata dall’imperatore Costantino per fini politici e di potere; Umberto Galimberti, di cui recentemente si è scoperta l’attitudine a copiare libri altrui, che ha caro il concetto per cui la tecnica sconfiggerà ed eliminerà la religione; il presentatore televisivo Gad Lerner, anch’egli omogeneo alla cultura anticattolica dominante nelle elite, e tanti altri opinionisti che hanno fatto della lotta alle radici cristiane dell’Italia il loro principale obiettivo.All’origine di questa potentissima corazzata ideologica che ha sostenuto le campagne a favore del divorzio e dell’aborto, e che ora promuove il testamento biologico, oltre che ogni altro cambiamento di costume che vada in una ben precisa direzione, c’è una operazione culturale ben precisa, portata avanti dalla grande finanza laicista del nostro paese, che data a partire dal 1955, quando appunto venne creata la società editrice L’espresso, con Adriano Olivetti come principale azionista. Il 1955 è, non a caso, l’anno di nascita anche del Partito radicale, da una costola del Partito liberale italiano, erede a sua volta di quella borghesia elitaria che aveva (mal) fatto l’unità d’Italia. La storia dell’Espresso e poi di Repubblica, nata nel 1976, è strettamente legata alla figura di Eugenio Scalfari, primo direttore e vero padre ideale del suddetto quotidiano.Chi e Eugenio Scalfari? Nel suo Scalfari, una vita per il potere, il noto giornalista Giancarlo Perna ricorda che il giovane Eugenio fu un membro del Guf fascista, che esordì come giornalista su Roma fascista, dimostrando una forte passione per il duce, lo stato etico, l’impero, la guerra. Perna ci dice anche che «Scalfari-padre era massone. Una tradizione di famiglia. Il capostipite fu don Antonio, che, a cavallo tra il Sette e l’Ottocento, fondô la Loggia della Calabria uniforme […] Eugenio ha i ritratti degli avi che indossarono il grembiulino appesi nella sua villa di campagna, a Velletri. Su ognuno c’è l’emblema rnassonico scalfariano: uno scudetto a due campi: uno con la scure e l’altro con il ponte […]. Con la caduta del fascismo […] Pietro (padre di Eugenio) fu tra i fondatori della loggia locale».
Ma per comprendere meglio la storia di questo celebre giornalista, occorre leggere il suo ultimo libro, L’uomo che non credeva in Dio (Einaudi, 2008), in cui l’autore rievoca «il laicismo massonico» del padre, la propria «infanzia solitaria», nutrita di «tristezza» e «malinconia», e la propria cupa e disperata visione dell’esistenza. Per Scalfari ogni uomo è solamente una delle «forme che la natura casualmente produce», un insieme di «cellule neuronali» casualmente connesse e intrecciate tra loro, gettate, quasi per uno scherzo maligno, «nel caos di una vita ancora tutta da inventare».
La domanda di senso, scrive Scalfari, «è il tema dominante della nostra specie»: «il filo d’erba vive ma non si pensa e così la farfalla, gli uccelli, il serpente... la vita dell’universo non ha bisogno di senso. Noi ne abbiamo bisogno, la nostra specie ne ha bisogno».
Ma la verità è che questo senso non esiste, che il lungo interrogarsi dell’uomo non porta a nulla ed egli rimane «un animale tra i tanti, una forma tra le innumerevoli forme», segnata però da un io, una coscienza, una personalità distinta, unica e irripetibile, che non è assolutamente un segno della nostra natura spirituale, bensì una condanna, un errore, «una superstizione», una «maschera», una «gabbia», un «capriccioso dittatore»... Meglio sarebbe annullarsi in una natura panteisticamente intesa, «distruggere l’Io», come propongono le religioni orientali. Distrutto l’io, evidentemente, anche l’esigenza di un Dio trascendente, personale, creatore, che sia il senso della vita, scompare, ed insieme a lui perisce anche l’idea di una morale oggettiva, segno della nostra libertà e della nostra grandezza. L’uomo, per Scalfari, come per tutti gli evoluzionisti materialisti, non è libero, non sceglie tra il bene e il male, non aspira alla Giustizia e alla Verità: semplicemente agisce spinto dall’«istinto di sopravvivenza», e null’altro, esattamente come gli altri animali. Perché Socrate è morto per la giustizia? Perché Cristo ha dato la sua vita per gli altri? Perché un uomo può donare tutte le sue ricchezze a poveri che neppure conosce? Non certo per una libera scelta, per la nostra natura spirituale. «Chi mette a rischio la propria vita, scrive, per salvare qualcuno che sta annegando o per difendere un debole […] non obbedisce a concetti ma agisce sotto la spinta emotiva di pulsioni e di istinti» animali, impersonali, oscuri. Ecco perché ciò che ci muove non può essere l’amore, l’altruismo, il desiderio di santità. Ma solo «la volontà di potenza», quella stessa volontà che Scalfari, come giornalista, afferma di sentire fortemente nella propria vita, nel momento in cui scrive di altri, giudica tutti, si pone al di sopra di ogni cosa. Oggi Scalfari non è più direttore di Repubblica, ma scrive ogni settimana la sua interminabile «predica» domenicale. L’impostazione del giornale rimane infatti quella delle origini. A garantirla un editore come Carlo De Benedetti, che, come racconta Ferruccio Pinotti, in un suo studio molto documentato, benché a tratti un po’ ingenuo, Fratelli d’Italia (Rizzoli), «risulta essere entrato nella massoneria a Torino, nella loggia Cavour del Grande Oriente d’Italia, regolarizzato nel grado di Maestro, il 18 marzo 1975».
(Fonte: Francesco Agnoli, il Timone n. 78, dicembre 2008)
Tra i giornalisti di spicco che vi collaborano troviamo Umberto Eco, l’autore del celebre romanzo Il Nome della rosa; Natalia Aspesi e Miriam Mafai, vestali del pensiero nichilista al femminile; Aldo Schiavone, ex direttore dell’Istituto Gramsci, che oggi immagina un futuro in cui ha tecnica sconfiggerà la morte e disgregherà finalmente la famiglia tradizionale; Umberto Veronesi, il famoso oncologo che si dedica soprattutto alla difesa dell’evoluzionismo materialista e della clonazione terapeutica e riproduttiva; Corrado Augias, autore di due pubblicizzatissimi libri in cui, senza conoscenza alcuna di esegesi biblica e di filologia, cerca di spiegare al credulone di turno che Cristo non è veramente risorto, e che il Cristianesimo è in realtà un «costantinismo», cioè una «religione civile» forgiata dall’imperatore Costantino per fini politici e di potere; Umberto Galimberti, di cui recentemente si è scoperta l’attitudine a copiare libri altrui, che ha caro il concetto per cui la tecnica sconfiggerà ed eliminerà la religione; il presentatore televisivo Gad Lerner, anch’egli omogeneo alla cultura anticattolica dominante nelle elite, e tanti altri opinionisti che hanno fatto della lotta alle radici cristiane dell’Italia il loro principale obiettivo.All’origine di questa potentissima corazzata ideologica che ha sostenuto le campagne a favore del divorzio e dell’aborto, e che ora promuove il testamento biologico, oltre che ogni altro cambiamento di costume che vada in una ben precisa direzione, c’è una operazione culturale ben precisa, portata avanti dalla grande finanza laicista del nostro paese, che data a partire dal 1955, quando appunto venne creata la società editrice L’espresso, con Adriano Olivetti come principale azionista. Il 1955 è, non a caso, l’anno di nascita anche del Partito radicale, da una costola del Partito liberale italiano, erede a sua volta di quella borghesia elitaria che aveva (mal) fatto l’unità d’Italia. La storia dell’Espresso e poi di Repubblica, nata nel 1976, è strettamente legata alla figura di Eugenio Scalfari, primo direttore e vero padre ideale del suddetto quotidiano.Chi e Eugenio Scalfari? Nel suo Scalfari, una vita per il potere, il noto giornalista Giancarlo Perna ricorda che il giovane Eugenio fu un membro del Guf fascista, che esordì come giornalista su Roma fascista, dimostrando una forte passione per il duce, lo stato etico, l’impero, la guerra. Perna ci dice anche che «Scalfari-padre era massone. Una tradizione di famiglia. Il capostipite fu don Antonio, che, a cavallo tra il Sette e l’Ottocento, fondô la Loggia della Calabria uniforme […] Eugenio ha i ritratti degli avi che indossarono il grembiulino appesi nella sua villa di campagna, a Velletri. Su ognuno c’è l’emblema rnassonico scalfariano: uno scudetto a due campi: uno con la scure e l’altro con il ponte […]. Con la caduta del fascismo […] Pietro (padre di Eugenio) fu tra i fondatori della loggia locale».
Ma per comprendere meglio la storia di questo celebre giornalista, occorre leggere il suo ultimo libro, L’uomo che non credeva in Dio (Einaudi, 2008), in cui l’autore rievoca «il laicismo massonico» del padre, la propria «infanzia solitaria», nutrita di «tristezza» e «malinconia», e la propria cupa e disperata visione dell’esistenza. Per Scalfari ogni uomo è solamente una delle «forme che la natura casualmente produce», un insieme di «cellule neuronali» casualmente connesse e intrecciate tra loro, gettate, quasi per uno scherzo maligno, «nel caos di una vita ancora tutta da inventare».
La domanda di senso, scrive Scalfari, «è il tema dominante della nostra specie»: «il filo d’erba vive ma non si pensa e così la farfalla, gli uccelli, il serpente... la vita dell’universo non ha bisogno di senso. Noi ne abbiamo bisogno, la nostra specie ne ha bisogno».
Ma la verità è che questo senso non esiste, che il lungo interrogarsi dell’uomo non porta a nulla ed egli rimane «un animale tra i tanti, una forma tra le innumerevoli forme», segnata però da un io, una coscienza, una personalità distinta, unica e irripetibile, che non è assolutamente un segno della nostra natura spirituale, bensì una condanna, un errore, «una superstizione», una «maschera», una «gabbia», un «capriccioso dittatore»... Meglio sarebbe annullarsi in una natura panteisticamente intesa, «distruggere l’Io», come propongono le religioni orientali. Distrutto l’io, evidentemente, anche l’esigenza di un Dio trascendente, personale, creatore, che sia il senso della vita, scompare, ed insieme a lui perisce anche l’idea di una morale oggettiva, segno della nostra libertà e della nostra grandezza. L’uomo, per Scalfari, come per tutti gli evoluzionisti materialisti, non è libero, non sceglie tra il bene e il male, non aspira alla Giustizia e alla Verità: semplicemente agisce spinto dall’«istinto di sopravvivenza», e null’altro, esattamente come gli altri animali. Perché Socrate è morto per la giustizia? Perché Cristo ha dato la sua vita per gli altri? Perché un uomo può donare tutte le sue ricchezze a poveri che neppure conosce? Non certo per una libera scelta, per la nostra natura spirituale. «Chi mette a rischio la propria vita, scrive, per salvare qualcuno che sta annegando o per difendere un debole […] non obbedisce a concetti ma agisce sotto la spinta emotiva di pulsioni e di istinti» animali, impersonali, oscuri. Ecco perché ciò che ci muove non può essere l’amore, l’altruismo, il desiderio di santità. Ma solo «la volontà di potenza», quella stessa volontà che Scalfari, come giornalista, afferma di sentire fortemente nella propria vita, nel momento in cui scrive di altri, giudica tutti, si pone al di sopra di ogni cosa. Oggi Scalfari non è più direttore di Repubblica, ma scrive ogni settimana la sua interminabile «predica» domenicale. L’impostazione del giornale rimane infatti quella delle origini. A garantirla un editore come Carlo De Benedetti, che, come racconta Ferruccio Pinotti, in un suo studio molto documentato, benché a tratti un po’ ingenuo, Fratelli d’Italia (Rizzoli), «risulta essere entrato nella massoneria a Torino, nella loggia Cavour del Grande Oriente d’Italia, regolarizzato nel grado di Maestro, il 18 marzo 1975».
(Fonte: Francesco Agnoli, il Timone n. 78, dicembre 2008)
Insulti al Papa sulla radio dei coloni israeliani
47 minuti di Tovia Singer e Tamara Yonah, un programma radiofonico di Arutz Sheva, l'agenzia di informazione dei coloni israeliani, per insultare il Papa: «L'ex giovane nazista viene qui da crociato per chiederci di svendere parte della Terra Santa alla sua Chiesa. Speriamo che il suo aereo non parta»…
I coloni non sono quattro avventurieri un po'naive che con la loro roulotte si piazzano in un posto e creano un insediamento. Sono gente il più delle volte nata e cresciuta negli Stati Uniti, con a disposizione mezzi di comunicazione non marginali attraverso i quali predica l'intolleranza verso tutti gli altri. E certe tesi fanno breccia, tanto che le loro idee circolano in Israele…
«Tovia poo-poos the Pope». Il titolo appare bello chiaro accanto alla foto di Benedetto XVI per lanciare il programma radiofonico sull'home-page di Arutz Sheva, l'agenzia di informazione dei coloni israeliani. Tovia è il nome di Tovia Singer, il conduttore della trasmissione Tamar & Tovia Dynamite. Ma anche il resto ha bisogno di qualche spiegazione per chi non è ferratissimo sullo slang. Il vocabolario Ragazzini - con eleganza - traduce il verbo inglese to poo-poo con “dileggiare”. Senza spiegare, però, che l'origine del termine è un pochino forte: perché il significato letterale inglese di poo-poo è esattamente lo stesso di pù-pù in italiano.
Con questo titolo il mondo dei coloni israeliani guarda alla visita di Benedetto XVI in Israele che sta per iniziare. E basta entrare ed ascoltare i 47 minuti di Tovia Singer e Tamara Yonah per capire che quello è appena il titolo. Il Papa - chiamato «il ragazzo di Roma, l'ex giovane nazista» - viene qui da «crociato» per chiederci «di svendere parte della Terra Santa alla sua Chiesa». «Si legga il libro di Zaccaria o la Genesi, al posto di Agostino: questa terra è legata a un'Alleanza, non appartiene a Roma». «Pretende di venir qui nei nostri posti più sacri indossando la croce, senza nessun rispetto: vada a farlo alla Mecca». «Deve venire come una persona umile, non come un usurpatore». «Speriamo che quando va all'aeroporto di Roma il motore dell'aereo non parta». E poi via con tutto il libro nero sulla Chiesa e i cristiani: i crociati che quando arrivarono a Gerusalemme nel 1099 uccisero tutti gli ebrei. I bambini ebrei «rapiti dalla Chiesa anche in Italia; chissà che qualcuno di loro non diventi Papa». «C'era il cardinale Lustiger, il convertito: pensate che alcuni ebrei sarebbero persino stati fieri se fosse diventato Papa. Come siamo ridotti...». «Certo, non tutti i cattolici sono cattivi. Ma è un dato di fatto - sentenzia Tovia Singer -. Quelli che sono amici di Israele lo sono nonostante la Chiesa di Roma». «Dicono di seguire i comandamenti: il terzo dice di non adorare immagini; perché - allora - le loro Chiese sono piene di statue?». Sono solo alcune delle perle di questa trasmissione che chiunque sappia l'inglese può ascoltare a questo link.
Stiamo parlando ovviamente di una frangia estrema della società israeliana: la maggior parte degli ebrei non la pensa come Tovia Singer. E il governo di Israele - che pure ha nella sua compagine anche deputati molto vicini ad Arutz Sheva - ha detto con chiarezza che il viaggio del Papa sarà un'occasione importante di dialogo e di pace. Detto questo, però, le voci dei fanatici anche in campo ebraico esistono. E per loro deve valere lo stesso atteggiamento che adottiamo -ad esempio - con i fondamentalisti islamici giordani secondo cui il Papa prima di arrivare ad Amman dovrebbe «scusarsi per il discorso di Ratisbona».
Forse questa trasmissione scellerata è un'occasione per capire un po' meglio il mondo dei coloni. Non sono quattro avventurieri un po' naive che con la loro roulotte si piazzano in un posto e creano un insediamento. Sono gente il più delle volte nata e cresciuta negli Stati Uniti, con a disposizione mezzi di comunicazione non marginali attraverso i quali predica l'intolleranza verso tutti gli altri. E certe tesi fanno breccia. Lo stesso sito di Arutz Sheva - sempre oggi - ci informa che un non meglio precisato «Comitato per l'unità del campo nazionalista» contatterà esponenti dei partiti religiosi alla Knesset (il Parlamento israeliano) per chiedere che «il viaggio del Papa sia cancellato, dato che le sue finalità sono più politiche che personali, e per far crescere la consapevolezza sul ruolo del Vaticano nella campagna per indebolire la sovranità israeliana su Gerusalemme e sul resto della Terra Santa». Ovviamente non se ne farà nulla; però queste idee intanto in Israele circolano, seminando altro veleno in una Terra che non ne ha certo bisogno.
(Fonte: Giorgio Bernardelli, www.missionline.org, 6 maggio 2009)
I coloni non sono quattro avventurieri un po'naive che con la loro roulotte si piazzano in un posto e creano un insediamento. Sono gente il più delle volte nata e cresciuta negli Stati Uniti, con a disposizione mezzi di comunicazione non marginali attraverso i quali predica l'intolleranza verso tutti gli altri. E certe tesi fanno breccia, tanto che le loro idee circolano in Israele…
«Tovia poo-poos the Pope». Il titolo appare bello chiaro accanto alla foto di Benedetto XVI per lanciare il programma radiofonico sull'home-page di Arutz Sheva, l'agenzia di informazione dei coloni israeliani. Tovia è il nome di Tovia Singer, il conduttore della trasmissione Tamar & Tovia Dynamite. Ma anche il resto ha bisogno di qualche spiegazione per chi non è ferratissimo sullo slang. Il vocabolario Ragazzini - con eleganza - traduce il verbo inglese to poo-poo con “dileggiare”. Senza spiegare, però, che l'origine del termine è un pochino forte: perché il significato letterale inglese di poo-poo è esattamente lo stesso di pù-pù in italiano.
Con questo titolo il mondo dei coloni israeliani guarda alla visita di Benedetto XVI in Israele che sta per iniziare. E basta entrare ed ascoltare i 47 minuti di Tovia Singer e Tamara Yonah per capire che quello è appena il titolo. Il Papa - chiamato «il ragazzo di Roma, l'ex giovane nazista» - viene qui da «crociato» per chiederci «di svendere parte della Terra Santa alla sua Chiesa». «Si legga il libro di Zaccaria o la Genesi, al posto di Agostino: questa terra è legata a un'Alleanza, non appartiene a Roma». «Pretende di venir qui nei nostri posti più sacri indossando la croce, senza nessun rispetto: vada a farlo alla Mecca». «Deve venire come una persona umile, non come un usurpatore». «Speriamo che quando va all'aeroporto di Roma il motore dell'aereo non parta». E poi via con tutto il libro nero sulla Chiesa e i cristiani: i crociati che quando arrivarono a Gerusalemme nel 1099 uccisero tutti gli ebrei. I bambini ebrei «rapiti dalla Chiesa anche in Italia; chissà che qualcuno di loro non diventi Papa». «C'era il cardinale Lustiger, il convertito: pensate che alcuni ebrei sarebbero persino stati fieri se fosse diventato Papa. Come siamo ridotti...». «Certo, non tutti i cattolici sono cattivi. Ma è un dato di fatto - sentenzia Tovia Singer -. Quelli che sono amici di Israele lo sono nonostante la Chiesa di Roma». «Dicono di seguire i comandamenti: il terzo dice di non adorare immagini; perché - allora - le loro Chiese sono piene di statue?». Sono solo alcune delle perle di questa trasmissione che chiunque sappia l'inglese può ascoltare a questo link.
Stiamo parlando ovviamente di una frangia estrema della società israeliana: la maggior parte degli ebrei non la pensa come Tovia Singer. E il governo di Israele - che pure ha nella sua compagine anche deputati molto vicini ad Arutz Sheva - ha detto con chiarezza che il viaggio del Papa sarà un'occasione importante di dialogo e di pace. Detto questo, però, le voci dei fanatici anche in campo ebraico esistono. E per loro deve valere lo stesso atteggiamento che adottiamo -ad esempio - con i fondamentalisti islamici giordani secondo cui il Papa prima di arrivare ad Amman dovrebbe «scusarsi per il discorso di Ratisbona».
Forse questa trasmissione scellerata è un'occasione per capire un po' meglio il mondo dei coloni. Non sono quattro avventurieri un po' naive che con la loro roulotte si piazzano in un posto e creano un insediamento. Sono gente il più delle volte nata e cresciuta negli Stati Uniti, con a disposizione mezzi di comunicazione non marginali attraverso i quali predica l'intolleranza verso tutti gli altri. E certe tesi fanno breccia. Lo stesso sito di Arutz Sheva - sempre oggi - ci informa che un non meglio precisato «Comitato per l'unità del campo nazionalista» contatterà esponenti dei partiti religiosi alla Knesset (il Parlamento israeliano) per chiedere che «il viaggio del Papa sia cancellato, dato che le sue finalità sono più politiche che personali, e per far crescere la consapevolezza sul ruolo del Vaticano nella campagna per indebolire la sovranità israeliana su Gerusalemme e sul resto della Terra Santa». Ovviamente non se ne farà nulla; però queste idee intanto in Israele circolano, seminando altro veleno in una Terra che non ne ha certo bisogno.
(Fonte: Giorgio Bernardelli, www.missionline.org, 6 maggio 2009)
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