giovedì 20 ottobre 2022

L’assurdità di piegare l’etica per non essere divisivi


Nell’ultima scontata intervista [qui], il card. Matteo Maria Zuppi conferma la deliberata cancellazione dei «principi non negoziabili» dall’agenda della Cei, per via del loro essere divisivi. E, anzi, in quanto prassi, la fede del cattolico in politica – dice – «è di tutti e non può essere divisiva».

Tramontata, in modo definitivo, l’agenda Ratzinger-Ruini, Zuppi ritiene che il cattolico in politica, sia pure «mai rinunciando alle proprie convinzioni», debba scendere a compromessi. E difatti, secondo il cardinale, queste convinzioni servono a «tradurre l’etica» in «scelte a seconda delle necessità e delle opportunità». Non sono dunque le necessità e le circostanze storiche che vanno tradotte, comprese e, se necessario, smontate e ricostruite rispetto alla verità, ma è l’etica – che Zuppi chiama «visione cristiana» – che va tradotta e adattata alle circostanze storiche e fluide.

Il cattolico, cioè, «deve tradurre la dottrina sociale sempre con la necessaria mediazione e laicità, che poi è la storia comune a tutti». Ecco, la dottrina sarebbe allora qualcosa di poco chiaro o di astratto, da interpretare e sistemare tra le pieghe della storia. Le pieghe dovrebbero restare come sono: è la dottrina invece destinata a piegarsi nel solco delle pieghe.

L’impianto del discorso traballa anche solo a partire dal cattolico e dalle «proprie convinzioni» o dalla sua «visione cristiana». Da decenni s’è imposta la norma del cattolico non solo indifferente all’etica, ma del tutto a favore di aberrazioni morali come l’aborto, la distruzione del matrimonio o l’eutanasia. Nessuna visione cristiana a monte, dunque, se non in pochi casi isolati.

Ma il discorso del Presidente della Cei è inaccettabile per motivazioni legate alle fondamenta stesse della fede. Zuppi mette Dio e l’amore al centro di tutto, così come appunto dev’essere. Tralascia, però, secondo un uso più che consumato, di declinare l’amore secondo la giustizia, riducendolo alla misericordia. Se l’amore fosse declinato secondo giustizia – secondo questo suo schema – non sarebbe più «incontro», «comunione», «presenza», ma «forza di occupazione», «sistema intellettuale», «conservativo».

Che l’amore, al contrario, sia anche giustizia non è solo indicato dalle realtà spirituali (inferno, purgatorio), ma pure da quelle temporali. E, anzi, le realtà temporali hanno il dovere di amministrare la giustizia, come afferma san Paolo, non di occuparsi di misericordia: «il magistrato non porta la spada inutilmente, essendo ministro di Dio, e vindice nell’ira divina per chi fa il male» (Rm 13, 4).

San Paolo dice chiaramente che è dovere dell’autorità lodare il bene e sanzionare il male (cf. Rm 13, 3-4). L’autorità, inoltre, non è contro Dio: «Ogni persona sia sottoposta alle autorità superiori; perché non v’è podestà se non da Dio, e quelle che sono, son da Dio ordinate» (Rm 13, 1). Uno dei valori (e tra le virtù primarie) della Dottrina sociale della Chiesa c’è la giustizia, declinata in giustizia commutativa, distributiva e legale (cfr. Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, n. 201). Tra queste, la «giustizia sociale», in quanto «esigenza connessa alla questione sociale», «rappresenta un vero e proprio sviluppo della giustizia generale, regolatrice dei rapporti sociali in base al criterio dell’osservanza della legge» (ivi).

Non v’è altro senso, quindi, nel concetto di «principi non negoziabili», se non quello di realizzare la giustizia nell’ambito della famiglia e della vita. La giustizia, in questo senso, procede dall’amore ed è la vocazione primaria di chi fa politica.

Da questo punto di vista, la prosa del cardinale è molto astratta e non coglie la sostanza di nessuna questione particolare, che abbia a che fare con l’etica (o con la bioetica). Che significato possono avere affermazioni di questo tipo, se non la pura astrazione? – «la presenza è stare per strada»; «il carisma è un dono e va speso»; «ci troviamo sommersi da tante domande che riguardano la sfera dell’umano».

Ha insomma ragione l’intervistatore: «Il cardinale Zuppi cesella le parole con la lima». E infatti le sue parole sono molto belle, sono tante belle parole.

 

(Fonte: Silvio Brachetta, Osservatorio card. Van Thuân sulla dottrina sociale della chiesa, 20 ottobre 2022) - https://vanthuanobservatory.com/2022/10/20/lassurdita-di-piegare-letica-per-non-essere-divisivi/

 

 

venerdì 14 ottobre 2022

Concilio, il fine “pastorale” è la fonte degli equivoci


A 60 anni dalla sua inaugurazione, si dibatte ancora se la valutazione del Vaticano II debba riguardare solo la sua applicazione o anche i suoi documenti. C’è un fattore, proprio del Concilio, che ha prestato il fianco ai travisamenti applicativi: il suo scopo “pastorale”, che ha influito sulla presentazione della dottrina.

 Il Concilio Vaticano II inaugurato da Giovanni XXIII l’11 ottobre 1962, sessant’anni fa, non cessa di interrogare la Chiesa, nonostante i tentativi o di celebrarlo come acquisizione indiscussa o addirittura un dogma, o di considerarlo ormai superato perché saremmo nella fase di un post-Concilio definitivamente post. Del Concilio come problema è alquanto difficile liberarsi.

La questione principale che rimane ancora aperta è se la sua valutazione debba riguardare solo l’applicazione del Concilio o il Concilio stesso. A fare problema e a provocare discussione sono state solo le (spesso) avventurose applicazioni del Concilio, che non avevano nessuna relazione con i testi approvati dai Padri, oppure c’era qualcosa che si prestava all’equivoco anche nei testi? Nel Concilio c’è stato qualcosa che poi è sfuggito di mano, qualcosa che è poi sfuggito di mano perché formulato nel Concilio in modo da permettere che sfuggisse di mano?

Sui travisamenti applicativi del Concilio, le fughe in avanti appellandosi al suo “spirito” e non alla sua “lettera”, si possono fare infiniti esempi. Questi sessant’anni, compresi i nostri giorni, ne sono pieni. Ci sono però molte prove anche a sostegno che qualche problema impostato in modo poco chiaro c’era nel Concilio stesso. Altrimenti non si spiegherebbe perché molte applicazioni distorte comunque hanno potuto far leva su questo o quell’altro passaggio dei documenti conciliari. Per esempio, la sinodalità che oggi si vuole imporre con la fase sinodale in atto si fonda sulla nozione di “segni dei tempi”, una delle espressioni più ambigue del Vaticano II e che si presta ad ogni strumentalizzazione: oggi nella Chiesa si dice che anche l’emergenza dei diritti delle coppie omosessuali sarebbe un segno dei tempi, ossia un soffio dello Spirito.

Il Concilio come problema non può quindi essere relegato nelle sue manchevoli applicazioni, ma collegato anche a fattori suoi propri. Ora ci si chiede: qual era il principale di questi fattori suoi propri? Quale elemento produce impedimenti alla piena comprensione del Concilio, e continua a farlo anche dopo sessant’anni? A mio avviso si tratta del suo carattere essenzialmente “pastorale”. Il Vaticano II fu convocato per esigenze pastorali, eppure proprio questa sua caratteristica ha confuso le cose, sicché anche oggi esso rimane da decifrare.

Era, ed è, molto difficile pensare che la finalità pastorale di ri-presentare il messaggio cristiano all’uomo contemporaneo - finalità propria del Concilio - non comportasse anche un ri-pensamento della dottrina. Un po’ di ingenuità in questo campo è ravvisabile nel discorso di apertura di Giovanni XXIII, ma poi non più. E infatti il Concilio fu pienamente dottrinale, approvando esso anche delle Costituzioni “dogmatiche”. Nello stesso tempo, però, il suo scopo non era primariamente dottrinale, dato che era primariamente pastorale, sicché questo ultimo intento (pastorale) influì sul ri-pensamento e sull’esposizione dell’altro elemento (dottrinale). Da qui sono nati tutti i problemi.

Intanto, per motivi pastorali, alcuni elementi della dottrina o furono taciuti o furono formulati in modo da non scontentare. Il comunismo non fu condannato per questi motivi; il rapporto tra Scrittura e Tradizione fu pensato tenendo conto delle esigenze dei rapporti ecumenici con i protestanti; anche la discussione assembleare su quale spazio assegnare a Maria Santissima risentì di queste preoccupazioni; l’accoglienza del personalismo si deve all’idea che la mentalità contemporanea apprezza molto la soggettività.

Poi, per motivi pastorali, si scelse un linguaggio non definitorio ma narrativo, che però necessariamente risultava più sfumato e da interpretare. Il problema del linguaggio del Concilio è un grosso problema. Nei testi ci sono molte espressioni, come per esempio l’incipit della Gaudium es spes, che vengono continuamente citate, ma hanno scarsissima precisione dottrinale e debole consistenza teologica. La Gaudium et spes viene chiamata (problematicamente) “Costituzione” pastorale, ma la fotografia del mondo contemporaneo che essa propone nella sua prima parte con un linguaggio sociologico ed esistenziale che valore teologico e magisteriale ha? Molte espressioni devono essere collegate con altre per avere un quadro completo del problema presentato, ma questo è un lavoro complesso e di difficile attuazione per i non addetti ai lavori. Si pensi, a questo proposito, alla definizione di bene comune della Gaudium et spes, oppure alla famosa frase secondo cui l’uomo è l’“unica creatura che Dio ha voluto per se stesso”. Questa si può interpretare sia in senso antropocentrico che in senso teocentrico.

Per motivi pastorali, poi, sono stati presentati in modo nuovo dei problemi senza però adeguatamente risolverli dal punto di vista della certezza magisteriale. Si pensi alla dottrina della libertà religiosa della Dignitatis humanae. Quell’insegnamento non chiude il cerchio e fa discutere ancora oggi. Se lo avesse chiuso, non ci sarebbe stato bisogno di pubblicare la Dominus Iesus e, all’opposto, Francesco non avrebbe firmato la Dichiarazione di Abu Dhabi.

Più in generale: nei testi conciliari è difficile distinguere tra quanto è dottrinale e quanto è pastorale e questo ha poi permesso che una nuova visione di pastorale si imponesse in teologia, una pastorale che co-produce dottrina insieme con la Rivelazione. E qui si aprono le porte a tanti aspetti inaccettabili della teologia contemporanea. Quella del Concilio era ancora una teologia della pastorale, ma poi si è elaborata una teologia pastorale, nella quale oggi si inserisce la nuova versione pastoralista della sinodalità.

Il Concilio Vaticano II impegnerà la Chiesa anche nei prossimi sessant’anni.


(Fonte: Stefano Fontana, LNBQ, 11 ottobre 2022) 
Concilio, il fine “pastorale” è la fonte degli equivoci - La Nuova Bussola Quotidiana (lanuovabq.it)

 

venerdì 7 ottobre 2022

“Omosessualità è di natura”: Milano supera il Segno


Il mensile della Chiesa di Milano “Il Segno” dedica la copertina di ottobre al “tabù omosessualità". Un concentrato di tesi per normalizzare la condizione gay, accettarla come "di natura" e "espressione di amore cristiano". Le solite fonti: da Fumagalli a Padre Piva a suor Giuliana Galli all'insegna del "nessuna condanna". E il solito Moia che arriva pure a rimproverare alla Chiesa di aver sbarrato la strada ai gay con una dottrina chiusa. L'immagine è quella di una Chiesa aperta da tutti i lati. Sì, così aperta che fa acqua da tutte le parti.

 Da tempi immemori, la Chiesa è stata considerata come la nuova arca noachica, che salva quanti vi entrano dalle acque mortifere del peccato e del mondo. O ancora come una barca, capace di rimanere a galla in mezzo ai marosi della storia. A Fabio Landi, direttore del mensile della diocesi di MilanoIl Segno, piace invece lanciare l’immagine di una Chiesa “aperta da tutti i lati”. Che, se associata all’immagine tradizionale della Chiesa arca/barca, non dona un’idea molto rassicurante del Corpo mistico di Cristo.

Il riferimento è alla chiesa di San Carlo al Lazzaretto di Milano, oggi in zona Porta Venezia, ma all’epoca dell’erezione del piccolo altare, alla fine del XV secolo, era la zona dedicata al lazzaretto. Più precisamente, l’altare era collocato al centro del lazzaretto, di modo che potesse essere visto da ogni punto. Lì, circa un secolo dopo, all’epoca della “peste di San Carlo”, il grande vescovo di Milano dispose la costruzione di un edificio ottagonale, con una singolare caratteristica: doveva rimanere aperto da tutti i lati, per permettere la visione delle celebrazioni liturgiche a tutti gli appestati ed impedire che rimanessero privi della vita liturgica sacramentale della Chiesa, nel momento della grande prova. Il raffronto con quanto abbiamo vissuto al tempo della pandemia Covid-19 è piuttosto evidente, ma non è l’argomento di questo articolo.

Torniamo all’editoriale del numero di ottobre di Fabio Landi; questo esempio architettonico di sublime carità è stato completamente distorto nel suo significato. Ci informa infatti il direttore che esso è stato scelto per la celebrazione mensile animata da un gruppo di fedeli omosessuali, divenendo, con tale iniziativa, «il ritratto della Chiesa così fortemente voluta da Francesco: aperta, accessibile, essenziale, per mostrare Dio a tutti». L’effetto nemmeno troppo collaterale è quello di una Chiesa talmente aperta da far acqua da tutte le parti, come documenta l’approfondimento interno curato da Laura Badaracchi.

I “Giovani del Guado” oggi conta circa settanta persone di svariati orientamenti sessuali, che scorrazzano tra parrocchie, oratori e associazioni presenti nella Diocesi di Milano per farsi conoscere ed organizzare ritiri per dare spazio «ai momenti di convivialità e alla preghiera, alla riflessione e formazione su vari temi», spiega uno dei coordinatori, Francesco Gagliardi. Tra questi temi compare anche «la vita di coppia». Iniziative che pare abbiano un grande successo e godano di molti aiuti: «Cerchiamo di invitare teologi, biblisti, sacerdoti per aiutarci: li troviamo facilmente, sono molto disponibili. Facciamo parte di una grande rete che ha ottimi contatti e ce li passa: oserei dire che siamo viziati». La vita del cattolico non LGBT non è così facilitata, specie se ha la sventura di essere etichettato come tradizionalista o conservatore; non che ce ne dispiaccia, bisognerebbe però avere almeno l’onestà di rivedere la retorica della mancanza di “inclusività”.

Nella Chiesa si moltiplicano le attività per normalizzare la condizione omosessuale. L’articolo presenta l’opera di “accompagnamento” del gesuita padre Pino Piva a Bologna e le iniziative di don Gabriele Davalli, il direttore dell’Ufficio famiglia della diocesi felsinea, quello della benedizione della coppia gay “sposatasi” civilmente a Budrio (vedi qui). Si parla del gruppo Zaccheo, voluto dal vescovo di San Severo, Mons. Giovanni Checchinato: tutto all’insegna del superare i preconcetti e andare al di là degli stereotipi. Al di là anche dell’insegnamento della Chiesa?

La domanda viene rivolta a don Aristide Fumagalli, zelante sostenitore della nuova linea morale della Chiesa post-Amoris Laetitia, quella del bene possibile attraverso il male reale. Il teologo risponde che «la dottrina del Magistero non esclude che la persona omosessuale possa corrispondere alla vocazione cristiana all’amore, ma nega la legittimità morale di un amore che volesse esprimersi anche sessualmente». Bene.

Tuttavia, nel suo saggio L’amore impossibile. Persone omosessuali e morale cristiana, sostiene l’idea di un’identità omosessuale che non può e non dev’essere riconsiderata, ma riconosciuta ed accettata. Secondo la presentazione che ne ha fatto Luciano Moia (vedi qui), per Fumagalli «la condanna degli atti o omosessuali, “non contempla la possibilità, sconosciuta sino all’epoca contemporanea, che gli atti omosessuali corrispondano alla natura della persona ed esprimano l’amore personale”. Non quindi atti dettati da «idolatria religiosa ed egoismo edonistico» – le due condizioni che li rendono inaccettabili – ma “espressione di amore personale cristiano”. Fumagalli parte da un dato scientifico che non si può ignorare. Oggi gli studiosi sono in gran parte concordi nel considerare l’omosessualità “espressione di una condizione esistenziale che costituisce e pervade, similmente all’eterosessualità, l’identità della persona”».

Anche Moia trova nell’articolo spazio più che sufficiente per pontificare, esibendo tutto un frasario che più stereotipato non si può. Prima se la prende con la Chiesa, che avrebbe esercitato «per troppo tempo […] un forte controllo delle coscienze, evitando una crescita educativa». In questo modo, «ha chiuso la strada a qualsiasi spazio di discernimento personale e per troppo tempo ha continuato a proporre una dottrina “chiusa”, senza accorgersi che l’insistenza su norme morali, ormai dichiarate inattuali dal tribunale della storia, rischiano di mettere in sordina l’annuncio cristiano».

La dottrina della Chiesa viene accantonata dal “tribunale della storia” – chissà cosa ne pensano nel “tribunale di Dio” -, e i suoi insegnamenti sulla questione derubricati a «dispute dottrinali e contese pastorali», che a giudizio di Moia, non devono essere risolti dal Magistero, ma dal discernimento esercitato dai laici. La strada che conduce a «costruire una dottrina da museo e schierarsi tutt’intorno per difenderla» dev’essere abbandonata a pro di «un giardino di relazioni» che accolgano le persone. Questo nuovo atteggiamento pastorale «è profondamente cambiato quasi ovunque grazie al magistero di Papa Francesco, che ha aperto la strada anche a uno sviluppo della dottrina».

Dulcis in fundo, spazio alla testimonianza di una donna. Tale suor Giuliana Galli, delle suore del Cottolengo, che, quasi alla soglia dei novant’anni, ha tirato le orecchie alla nota consorella che aveva allontanato due modelle, mentre posavano scambiandosi un bacio saffico, attirandosi così una valanga di sbeffeggiamenti da parte di quegli stessi media che poi invitano a non giudicare. Anche Suor Giuliana difende quella «posizione nella vita non riconosciuta e ritenuta vizio o malattia, mentre è un modo di essere e di vivere». «Un percorso alternativo, che va rispettato», per il quale bisogna deporre ogni rigidità. «Io non ho negazione da fare, né condanna da dire», conclude la religiosa.

E l’articolista trae l’originalissimo insegnamento morale della questione: «L’atteggiamento giusto, in ogni contesto: misericordia, non giudizio». Slogan passpartout per continuare ad aprire i vari lati della Chiesa.

 (Fonte: Luisella Scrosati, LNBQ, 10 ottobre 2022) “Omosessualità è di natura”: Milano supera il Segno - La Nuova Bussola Quotidiana (lanuovabq.it)