Pubblichiamo
l'anticipazione della rubrica "Vivaio" che comparirà sul numero di
Febbraio del mensile Il
Timone (www.iltimone.org),
in cui Vittorio Messori torna sulla tempesta mediatica che lo ha avuto
protagonista suo malgrado, per l'articolo scritto sul Corriere della Sera
il 24 dicembre e ripreso su La Nuova BQ il successivo 28 dicembre (leggi
qui). Al caso La Nuova BQ ha anche dedicato alcuni
articoli (clicca qui, qui e qui).
Sono
convinto che il credente, soprattutto se scrive di cose direttamente religiose, abbia dei doveri verso i suoi
lettori. Dovere, innanzitutto, di rassicurarli che colui i cui scritti prendono
sul serio può, a sua volta, essere preso sul serio. Dovere, dunque, di spiegare
che cosa si è voluto dire, perché lo si è detto e (in caso di contestazione)
perché si pensa, in coscienza, di non avere sbagliato.
Eccomi
qui dunque a spiegare
(non certo per fatto personale ma per un doveroso impegno verso chi mi segue su
questa rubrica) che cosa è davvero successo tra lo scorso Natale e l’Epifania,
quando inaspettatamente mi sono trovato al centro di una sorta di bufera
mediatica.
Per
tutti quei giorni ho taciuto,
non ho replicato se non in due casi specifici. Il primo, quando il Corriere
della Sera, su cui avevo pubblicato l’articolo “scandaloso” (mentre sono
convinto che non lo fosse affatto e così era convinto pure il direttore De
Bortoli, pur ammiratore di papa Francesco che da lui si è fatto intervistare),
il Corriere, dunque, senza avvertirmi se non all’ultimo momento, ha
pubblicato un confuso, ingiurioso articolo di Leonardo Boff. Come forse si
ricorda, l’ormai quasi ottantenne leader della teologia detta della
liberazione, dopo gli ammonimenti dell’allora cardinal Ratzinger, Prefetto
della Congregazione per la Dottrina della Fede, e i richiami di Giovanni Paolo
II, decise di lasciare il saio francescano e di andare a vivere con una
compagna.
Dopo
pochi anni su di lui
– come su tutti gli altri cattolici, sacerdoti e laici, che avevano scoperto
entusiasti il marxismo, credendo fosse il futuro, mentre invece stava morendo –
su di lui e i suoi compagni nella nuova fede si abbatterono le rovine del muro
di Berlino. Così, l’ex frate, alla pari di molti altri, scippati in modo
imprevisto della disastrosa utopia rossa, passarono a quella verde. In Boff,
l’ambientalismo si è trasformato in un vero e proprio culto sincretista, con al
centro la Madre Terra invocata come Gaia, con forti accenti new age. Nella
fazenda brasiliana dove vive con la compagna e alcuni figli adottivi, si è
forgiata una liturgia di fantasia, nella quale battezza, celebra la messa,
benedice i matrimoni. E tutto questo nel silenzio acquiescente dell’episcopato
brasiliano. Insomma, una vera e propria Chiesa tra panteismo e verdismo: dai
dogmi cattolici (che detestava) a quelli marxisti, per finire in quelli ambientalisti.
Pubblicando
l’attacco di Boff, il Corriere mi chiedeva di replicare il giorno
seguente, come
in effetti feci: non fu certo difficile liberarmi di quel caos di politica e
miti ecologici. Il mio fu, dunque, un intervento, obbligato. Come fu obbligato
il secondo, dove l’interlocutore era ben diverso: il senatore della sinistra
Franco Monaco che presiedette l’Azione Cattolica ambrosiana ai tempi di quel
cardinal Martini cui era legato da grande comunanza personale e condivisione
teologica. Il giornale gli aveva pubblicato un articolo dove mi poneva precise
questioni, alle quali era per me doveroso rispondere.
Molti
mi invitavano a una risposta completa ai detrattori, spesso di una aggressività e
di una violenza che sfiorava l’odio (ho più volte sperimentato che nessuno è
più temibile e implacabile degli apostoli del pacifismo, della tolleranza, della
non violenza…), ma ho preferito rimandare, per potermi spiegare con più libertà
qui, sul Timone, dove si è in famiglia e si possono dire liberamente le
cose. Ho rimandato, anche perché da molto tempo ho imparato che, nelle
polemiche giornalistiche, ci sono sempre due vittime inevitabili: la carità e
la verità. La carità, perché ogni polemica è un duello, l’obiettivo è colpire
l’avversario, possibilmente ucciderlo, nel senso di ridurlo al silenzio. Muore
anche la verità, perché ciò che importa non è chiarire l’oggetto della contesa,
non è cercare una verità più alta e ricca, ma è far prevalere il proprio punto
di vista, con ogni mezzo, riducendo la prospettiva dell’altro a schema
insipiente se non ridicolo. E, invece, di rado è così: una parte almeno di verità
sta anche nell’antagonista, ma si è costretti a cercare di occultarla per
imporsi nella lotta. Come diceva Pascal, polemista pentito e, guarda caso,
proprio contro i gesuiti: «La verità senza la carità è un idolo diabolico,
perché ha l’aspetto di un’opera virtuosa».
Non
ho replicato, dunque, per cercare di spegnere una disputa che, come tutte, porta con sé
conseguenze da cui un cristiano deve rifuggire. Ma se ho potuto trattenermi,
malgrado la violenza pari alla inconsistenza degli attacchi, è perché di eventi
simili ne ho già vissuti non pochi nel mio lavoro di cronista che non si sforza
di dire cose che piacciano a tutti. I meno giovani ricordano, credo, l’uragano
mondiale, di una malizia e violenza che soltanto certi church-intellectuals
sanno esercitare, scatenato dalla pubblicazione, a metà degli anni Ottanta, del
Rapporto sulla fede, la prima intervista della storia a un Prefetto
dell’ex-Sant’Uffizio, il cui secolare silenzio era proverbiale.
I
“cattolici aperti” – e non soltanto i cattolici, ma lo schieramento di tutto
il sedicente progressismo mondiale, pure quello laico – si scagliarono non solo
contro il cardinal Ratzinger ma anche contro il cronista che qui scrive. Il
quale non soltanto aveva dato voce al Grande Inquisitore, ma aveva mostrato
adesione a quel suo programma che fu marchiato come antievangelica
“restaurazione”. Ma, sempre i meno giovani, ricordano pure come nel Novanta,
presentando al Meeting di Rimini il mio libro Un italiano serio – biografia
del beato Francesco Fàa di Bruno, un patriota che fu perseguitato da coloro
che volevano costruire l’Italia unita, ma sradicandola dalla sua religione –,
presentando quel libro, dunque, fui accusato della colpa più grave. Nientemeno
quella, proverbiale, di “avere parlato male di Garibaldi”.
Avevo
infatti osato toccare,
presentando la vita di quell’uomo di Dio, uno dei miti fondanti dell’Italia
moderna, quello che è glorificato sin dal nome: il Risorgimento. Questo nostro
Paese sopravvive su tre miti: la borghesia tra Otto e Novecento si appoggiò a
quello, appunto, risorgimentale; il fascismo su quello di Roma imperiale; la
democrazia postbellica su quello della Resistenza. Sta di fatto che, almeno
allora, Garibaldi e tutti gli altri erano ancora intoccabili e lo sperimentai
con una campagna di aggressione inaudita. Ma non la faccio lunga, con altri
casi, che pur ci sarebbero: quanto detto mi basta per dire che sono forgiato
dall’esperienza, dunque non perdo né la testa, né il sonno, né l’appetito per
questi strepiti. Prima o poi le voci diventano rauche e cessano di gridare. E,
per dirla con quel grande scrittore, ciò che resta è solo il silenzio delle
passioni sprecate.
Per
venire, allora, alla bagarre tra Natale e l’Epifania. Innanzitutto, ciò che ha
sorpreso non solo me ma anche la stessa direzione del Corsera, e i molti
lettori che hanno voluto dirmi la loro solidarietà, è il fatto che coloro che
insultavano, scrivevano appelli drammatici, raccoglievano firme, gridavano al
complotto, invocavano provvedimenti di censura, ebbene costoro sembravano uniti
da una caratteristica: non aver letto affatto l’articolo che provocava il loro
sdegno. Si basavano su dei sentito dire, su titoli faziosi di giornali, su post
nei siti internet, su ossessioni ideologiche, su fantasmi inconsistenti.
Dunque,
primo suggerimento che mi permetto di dare ai lettori di questo nostro Timone:
se non lo hanno fatto – e, naturalmente, se il caso gli interessa – leggano
quanto ho scritto davvero. Potranno trovare il testo in molti luoghi, nella
Rete. Il più spiccio è sul sito che Sebastiano Mallia, un giovane e capace
avvocato siciliano, ha voluto (dopo molte insistenze sue e resistenze mie)
costruirmi e che ormai da molti anni gestisce con affetto pari all’abilità.
Colgo qui l’occasione per ringraziarlo. L’indirizzo del sito è:
www.vittoriomessori.it. Si vedrà come il tono sia del tutto pacato;
l’informazione corretta; esplicito il rispetto verso il “Vescovo di Roma”; la
prospettiva religiosa messa in primo piano; ricordata quale debba essere la
prospettiva del cattolico; non dimenticata l’umiltà di chi sa che può sbagliare
e non vuole condurre altri all’errore e sa anche che a lui non è dato quel
carisma che lo Spirito Santo riserva all’eletto nella Cappella Sistina. Non sto
celebrandomi: credo che si tratti di realtà oggettive, come hanno riconosciuto
coloro, pochi, che si sono dati la briga di leggere.
In
ogni caso sarà bene ricordare ai lettori, anche cattolici, quanto sancisce il Diritto
Canonico, la legge che regge la Chiesa, al Canone 212, paragrafo 3: «In modo proporzionato
alla scienza, alla competenza e al prestigio di cui godono, i laici hanno il
diritto, e anzi talvolta anche il dovere, di manifestare ai sacri pastori il
loro pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa e di renderlo noto agli
altri fedeli, salva restando l’integrità della fede e dei costumi e il rispetto
verso i Pastori, tenendo inoltre presente l’utilità comune e la dignità della
persona». La libertà del “popolo di Dio”, in casi come questi, è dunque
proclamata e salvaguardata. È ciò che hanno dimenticato proprio quelli che da
sempre invocano e pretendono la partecipazione del “popolo di Dio” alla
gestione quotidiana della Chiesa.
Per
tornare a noi: c’è da riflettere su fatti curiosi, certo inediti nella Catholica:
il direttore del quotidiano Avvenire, quello del quale
l’episcopato italiano risana da sempre i debiti col nostro 8 per mille, si è
recato in una sorta di “visita di riparazione” a Radio Radicale, quasi
scusandosi con Pannella e dicendo che, a ben vedere, gli obiettivi di quell’anziano
guru anticristiano sono spesso quegli stessi dei cattolici. Devo dire, al
proposito, che molti sono rimasti sorpresi da una ostinazione persecutoria di
quell’Avvenire da cui i cattolici sensati aspettavano, semmai,
prospettive diverse dalla mia ma esposte pacatamente, non con una sorta di
persecuzione tenace: prima un editoriale, ovviamente negativo; poi una intera
paginata di lettere al vetriolo con la sentenza senza attenuanti e senza
appello del direttore; il giorno dopo e l’altro ancora, altre lettere di
lettori adirati, quasi non esistessero messaggi solidali con il blasfemo
Messori. Eppure, nella mia casella di posta sono giunti a decine. Qua e là,
poi, sparsi in molti articoli ed editoriali punture di spillo o pugnalate,
tanto da far pensare che nel direttore di quel giornale, che peraltro non ho
mai incontrato e neppure mai visto, ci sia una sorta di fatto personale. È
strano, visto che per anni, al foglio che ora dirige, ho dato quanto potevo,
con risultati forse non trascurabili, iniziando proprio lì quella rubrica
“Vivaio” che è arrivata sino a questo Timone.
Per
stare sempre a fatti inediti:
coloro (spesso anziani, in quanto vedovi e orfani della contestazione
sessantottina) che, per decenni, hanno versato quantità industriali di sterco
su Paolo VI, su Giovanni Paolo II, su Benedetto XVI hanno indossato per
l’occasione le divise da zuavi pontifici, hanno redatto e firmato vibranti
appelli, hanno addirittura organizzato banchetti per la raccolta di firme a
difesa del “vescovo di Roma”, contro il codardo aggressore che qui scrive.
Accennavamo, come a caso esemplare, allo sdegno di un Leonardo Boff che, dopo
gli strali annosi lanciati contro i pontificati precedenti, dopo essere uscito
dalla Chiesa sbattendo la porta, dopo avere creato un culto tutto suo,
nominatosi sacerdote di Gaia, invoca da quella Chiesa che ha rifiutato
provvedimenti severi verso chi osa anche solo porre domande, rispettose quanto
sofferte e fondate, a un Papa. È singolare in lui, e in molti altri come lui,
sentire l’elogio e l’invocazione della censura contro la libertà di pensiero
del cattolico, per giunta in ciò che non è dogma ma semplice pastorale!
Naturalmente,
tra chi gridava alla bestemmia
solo per avere espresso alcune, rispettose, perplessità era ovvio che il Messori
era solo lo strumento, naturalmente ben pagato, di un oscuro complotto. Dicevo,
in apertura di quel mio articolo, che avrei volentieri fatto a meno, in quel
momento, di espormi con quella sorta di confessione, non avendo ancora ben
capito quale sia il progetto preciso di Francesco. Dunque, dicevo che mi
rassegnavo a scrivere perché mi era stato “richiesto”. Era scontato che quella
“richiesta” veniva dal Corriere, con il quale da almeno una dozzina
d’anni ho un contratto di collaborazione. Sbagliavo a non precisare,
dimenticando l’istinto pavloviano alla dietrologia di un certo mondo. Così, si
è scritto, con l’aria vissuta di chi conosce i retroscena, che la richiesta mi
era in realtà venuta dalla massoneria, dall’Opus Dei, dai lefebvriani, dalla
Confindustria, da cardinali dissidenti, dalla Curia romana, da partiti
politici, da lobby di fautori della restaurazione e così via, in un delirio di
“ecco chi c’è dietro”. Rispondendo a Franco Monaco, che mi poneva egli pure la
domanda, gli confessavo che – per la delusione dei complottardi – tutto era
stato di una banale normalità; scrivendo per un giornale non avevo fatto altro
che rispondere a una richiesta del giornale stesso, senza indicazioni previe su
come scrivere il pezzo e senza aggiustamenti, a pezzo scritto, di chicchessia.
Si
potrebbe continuare ma basta così,
lo schiamazzo non è poi così importante da meritare un impegno ulteriore. Per
terminare, volevo solo confermare ai lettori ciò che peraltro è scontato e non
avrebbe bisogno di essere ribadito: quel che mi ha mosso in quell’articolo e
che, spero, mi muoverà in futuro non è altro che l’amore per la Chiesa e il
rispetto per colui che, secolo dopo secolo, è chiamato a guidarla in terra. Un
rispetto quale si deve a un padre, dunque tale non solo da permettere ma anzi
da esigere lo scambio di vedute, il confronto pacato di opinioni, ovviamente su
ciò che non attiene al Credo di cui solo lui, il Papa, è custode. Quel “vescovo
di Roma” per il quale, come ricordavo alla fine dell’articolo maudit, ogni cattolico
ha il dovere di pregare.
(Fonte:
Vittorio Messori, La nuova bussola quotidiana, 17 gennaio 2015)
http://www.lanuovabq.it/it/articoli-lo-strano-schiamazzo-11534.htm