mercoledì 30 settembre 2015

Una manovra occulta per l’elezione di papa Francesco?

Se certe faccende fossero anche soltanto verosimili, già vi sarebbe motivo di allarme. Quando poi si rivelino vere, la preoccupazione si trasforma in tragedia. È questo il pensiero che sorge spontaneo dopo la presentazione della sconcertante biografia sul card. Godfried Danneels uscita in Belgio, opera degli storici della Chiesa, Jürgen Mettepenningen e Karim Schelkens. Che hanno compiuto indubbiamente il proprio lavoro: loro stessi hanno definito «scientifico» l’approccio scelto e non v’è ragione di dubitarne, avendo avuto accesso agli archivi personali dell’interessato.
Tutto ebbe dunque inizio nel 1996, quando l’Arcivescovo di Milano, card. Carlo Maria Martini, deciso ad arginare la crescente influenza nella Chiesa del card. Joseph Ratzinger e del suo entourage, iniziò ad organizzare degli incontri “riservati” con Eminenze e Vescovi. Si tennero nella cittadina di San Gallo, in Svizzera, su iniziativa del vescovo del posto, mons. Ivo Fürer. Di tali incontri ebbero sentore alcuni addetti ai lavori, ma la notizia non si propalò.
Il libro di Mettepenningen e Schelkens svela come, in tale singolare sodalizio, Danneels abbia fatto il proprio ingresso nel 1999. Che lo si dica è già grave. Ma ancor peggio è il fatto che l’interessato l’abbia pubblicamente confermato in occasione della presentazione della sua biografia ufficiale, avvenuta nella basilica del Sacro Cuore a Koekelberg, in Belgio. Precisando, oltre tutto, goliardicamente come «il nome chic fosse “gruppo di San Gallo”, benché noi lo chiamassimo “la mafia”», sia pur detto «in modo affettuoso», come si è affrettato a precisare Mettepenningen ai microfoni dell’emittente belga Radio 1.
Di tale «mafia», dunque, avrebbero fatto parte il Vescovo olandese Adriaan van Luyn (peraltro presidente della Comece, la Conferenza episcopale dell’Unione europea, dal 2006 al 2012), i cardinali tedeschi Walter Kasper e Karl Lehman, il britannico Basil Hume, l’italiano Achille Silvestrini, prelati austriaci, francesi e molti altri, che richiesero ed ottennero l’anonimato, tuttora perdurante. Per Danneels e per gli altri, queste riunioni furono una sorta di «vacanza spirituale», un’occasione cioè di reciproca consolazione e di mutuo sostegno tra gente della stessa pasta in un’epoca, per loro, particolarmente buia. Erano isolati, la loro influenza era molto limitata, le loro teorie minoritarie.
La voce che si tenessero queste strane riunioni giunse tuttavia in Vaticano, che decise pertanto di inviarvi il card. Camillo Ruini, per capire esattamente di cosa si trattasse e cosa vi si dicesse. Ovviamente, fece un buco nell’acqua. Bocche cucite in sua presenza, benché il “gruppo di San Gallo” avesse già cominciato a giocare le proprie carte e muovere le proprie pedine, per cercar d’interferire sugli orientamenti romani. Ad esempio, fece l’impossibile per evitare che il card. Ratzinger divenisse Papa.
Ciò che, di contro, avvenne al conclave del 2005: l’influenza del teologo tedesco si dimostrò troppo forte, con grande delusione del card. Danneels & C. Che avrebbero già avuto pronto all’epoca il proprio candidato, per l’appunto il card. Bergoglio, pur dovendo rinviare evidentemente a tempi migliori il proprio progetto di “rinnovamento” fondato sulla strategia dell’“ottimismo”. Proseguirono il loro lavoro, quello d’organizzare intanto la “resistenza” interna. Il card. Danneels fu coinvolto in alcuni scandali. Non questioncine di second’ordine, bensì le indagini su casi di preti pedofili. Le dimissioni di Benedetto XVI, tuttavia, gli aprirono qualche spiraglio, divenuto certezza con l’elezione di Jorge Mario Bergoglio, che pose fine alle sue disgrazie: «L’elezione di Bergoglio è stata preparata a San Gallo, non v’è alcun dubbio. E le grandi linee del suo programma sono quelle di cui Danneels ed i suoi confratelli discutevano da oltre dieci anni», ha scritto a chiare lettere Schelkens.
Quel 13 marzo 2013, a fianco di papa Francesco appena eletto al soglio pontificio, v’era proprio il card. Godfried Danneels. Ufficialmente, in quanto decano dei Cardinali. Secondo il giornale belga Le Vif, invece, questo sarebbe stato il segnale della vittoria di una tela, tessuta per anni. Lui stesso avrebbe parlato di una «risurrezione personale». La cartina di tornasole la si è avuta allo scorso Sinodo, dove lui fu presente, si noti, come delegato pontificio, scelto personalmente da papa Francesco: ebbene, si allineò totalmente alle posizioni ultraprogressiste del card. Kasper, altro membro del “Gruppo di San Gallo”.
Il che fa il paio con l’“apertura” mostrata dall’Eminenza belga circa le “nozze gay”. A favore delle quali si espresse in una lettera scritta il 28 maggio 2003 al primo ministro Guy Verhofstadt. Missiva, che il premier dell’epoca ha dichiarato di non ricordare, pur precisando di «non aver mai avuto alcun problema col Cardinale» e di aver sempre avuto con lui «un buon rapporto», nonostante il suo esecutivo abbia varato, oltre al “matrimonio” omosessuale, anche le leggi sull’eutanasia, a favore degli esperimenti condotti su embrioni umani, nonché della fecondazione artificiale.
In realtà, gli “strappi” del card. Danneels, rispetto alla Dottrina cattolica, non si contano più, dalle pressioni esercitate sul Re del Belgio affinché nel 1990 firmasse la legge sull’aborto, all’aver intimato ad una vittima di abusi sessuali di tacere e di non denunciare l’autore (un Vescovo, zio della stessa vittima), sino al rifiutarsi di condannare il materiale pornografico circolante nelle scuole cattoliche belghe, ritenuto «educativo». In una parola, ciò cui le cronache dicono trovarsi di fronte è un’incredibile collezione di attentati all’insegnamento della Chiesa. Ancor più incredibile, perché impunita, anzi promossa, come questa biografia rende peraltro evidente.
Questo è ciò che racconta, tristemente, la stampa. Da tutta questa vicenda si può trarre una conclusione, al di là dei legittimi commenti di merito: che quel che viene così accreditato, ciò che trova sempre più conferma è il clima di veleni, che circondò la figura di Benedetto XVI e che preparò il terreno all’elezione di papa Francesco. Un clima da guerriglia, da congiura, che non rende certo onore ai suoi fautori, rimette in discussione la figura del Pontefice, minandone la credibilità, e quindi ferisce gravemente la Chiesa. Ciò che sconcerta è che proprio questo clima non solo, come detto, non sia stato punito, ma abbia raggiunto anzi il proprio apice, ostentando una sicumera tale da potersene ormai venire allo scoperto. Senza più timori, senza più tabù, senza più pudore.
 

(Fonte: Mauro Faverzani, Corrispondenza Romana, 30 settembre 2015)
http://www.corrispondenzaromana.it/una-manovra-occulta-per-lelezione-di-papa-francesco/
 

sabato 26 settembre 2015

Caro Bianchi: È falso dire che Gesù Cristo non ha condannato l’omosessualità.

L’assordante propaganda omosessualista e omofila, sostenuta da tutti i grandi mezzi d’informazione, in crescendo nell’imminenza del Sinodo sulla Famiglia del 5 ottobre p.v., continua a ripetere a beneficio dei cattolici un vieto ritornello e cioè che Gesù Cristo non avrebbe mai parlato dell’omosessualità, ragion per cui la sua condanna non si potrebbe reperire nei Vangeli ma solo nelle Lettere apostoliche, segnatamente in quelle di san Paolo. Come se questo, annoto, facesse la differenza! Le Epistole paoline non vengono lette durante la Messa come “Parola di Dio”, allo stesso modo dei Vangeli? Ma prescindiamo da questa scorretta separazione tra le varie parti del corpo neotestamentario, del tutto inaccettabile, spiegabile solo alla luce della miscredenza attuale, che vuole escludere di fatto l’insegnamento di san Paolo dalla Rivelazione con l’argomento singolare che egli dettava norme e concetti validi solo per il proprio tempo!
Ciò che la propaganda omofila vuole insinuare a proposito dei Vangeli, è parimenti assurdo: non avendovi il Cristo mai nominato esplicitamente l’omosessualità, non la si dovrebbe ritener da Lui condannata! La fornicazione e l’adulterio li ha con­dannati apertamente mentre la sodomia e affini (che sono fornicazione contro natura) li avrebbe invece assolti con il suo (supposto) silenzio? Ma ci rendiamo conto delle castronerie che vengono oggi propinate alle masse, peraltro ben felici di esser ingannate, a quanto pare?
Dove si trova, nei Vangeli, la condanna dell’omosessualità da parte di Nostro Signore? In maniera diretta tutte le volte che Egli porta ad esempio il destino toccato a Sodoma come condanna esemplare del peccato; in maniera indiretta in un passo nel quale elenca i vizi e peccati che ci mandano in perdizione.

1.   La distruzione di Sodoma e Gomorra citata tre volte da Gesù come esempio di punizione esemplare di chi si ostina nel peccato: Mt 10, 15; 11, 24; Lc 10, 12; 17, 29.
a) Vangelo di san Matteo
Nel dare le istruzioni ai Dodici Apostoli mandati per la prima volta a predi­care e convertire i peccatori, il Verbo incarnato disse, a proposito di coloro che si fossero rifiutati di riceverli o ascoltarli:
“In verità vi dico: nel giorno del Giudizio il paese di Sodoma e Gomorra sarà trattato meno severamente di quella città” (Mt 10, 15).
Il concetto fu da Lui ribadito poco dopo. Di fronte ai discepoli di Giovanni Battista, Egli fece l’elogio del Battista per passare poi a rampognare l’incredulità di “questa generazione”, concludendo con un durissimo rimprovero alle città impenitenti, che non avevano voluto pentirsi, nonostante i miracoli che Egli vi aveva fatto.
“Guai a te, Corazin! Guai a te, Betsaida! Perché se a Tiro e a Sidone fossero avvenuti i miracoli compiuti in mezzo a voi, già da gran tempo avrebbero fatto penitenza cinti di cilicio e ricoperti di cenere. Perciò vi dico: nel giorno del Giudizio Tiro e Sidone saranno trattate meno severamente di voi. E tu Cafarnao, sarai esaltata sino al cielo? Tu discenderai all’inferno: perché se in Sodoma fossero avvenuti i miracoli operati in te, oggi ancora sussisterebbe. E però vi dico, che nel giorno del giudizio il paese di Sodoma sarà trattato meno duramente di te” (Mt 11, 21-24).
Il parallelo con le antiche città pagane ha lo scopo di mettere nel massimo rilievo la gravità del peccato delle città ebraiche, che avevano rifiutato la “conversione” pur avendo visto i miracoli operati da Nostro Signore. Avevano peccato nella fede, contro lo Spirito Santo, possiamo dire. Tiro, Sidone, Sodoma, Gomorra erano diventate per gli Ebrei simboli della corruzione del mondo pagano, privo del vero Dio e nell’ignoranza della Salvezza. Ma questo non si poteva dire degli Ebrei, ragion per cui il loro peccato era più grave: più grave degli abomini carnali dei pagani era la loro incredibile mancanza di fede.
Per quanto riguarda Sodoma e il suo particolare peccato: nel giorno del Giudizio essa sarà trattata “meno duramente” delle città ebraiche impenitenti ma non sarà certamente assolta. Anzi, proprio la condanna di Sodoma serve da punto di riferimento, da metro di giudizio per determinare la gravità di un peccato e quindi per affermare che l’incredulità degli Ebrei è addirittura più grave di un peccato così grave come quello di Sodoma e Gomorra, di “Tiro e Sidone” in quanto ad esso assimilabile: la corruzione dei costumi spinta sino alla ribellione contro la legge naturale stabilita da Dio, in odio a Dio.
Il carattere esemplare del peccato e della condanna di Sodoma erano già ben presenti nella tradizione profetica. Li ritroviamo nel libro di Ezechiele.
Dio ammonisce Israele per i suoi tradimenti e le sue “abominazioni idolatriche”, tramite la voce dei Profeti. Nel libro di Ezechiele già compare il parallelo tra le colpe di Gerusalemme e quelle dei pagani, utilizzato anche da Nostro Signore: le colpe di Gerusalemme verso Dio sono più gravi di quelle dei pagani, pur di per sé gravissime. Gerusalemme ha, infatti, avuto la Rivelazione, al contrario dei pagani.
“Com’è vero che io vivo, dice il Signore Dio, tua sorella Sodoma e le sue figlie [le città dipendenti] non furono sì perverse come te e le figlie tue. Ecco, questa fu la colpa di Sodoma, tua sorella e delle sue figlie: superbia, sovrabbondanza di cibo e pigrizia: non aiutavano il povero e l’indigente; ma insuperbirono e fecero ciò ch’è abominevole davanti a me: per questo io le distrussi non appena vidi la loro condotta” (Ez 16, 48-50).
Sodoma è rappresentata qui dal profeta come “sorella” nella colpa di Ge­rusalemme, “adultera” nella fede. La punizione di Sodoma sarà anche quella di Gerusalemme colpevole, ed anzi ancor più colpevole; sarà la punizione inferta alle “adultere e omicide” (ivi, 38). Il profeta, ispirato da Dio, descrive la colpa di Sodoma: la superbia innanzitutto, nutrita dal benessere materiale, che comportava pigrizia e disprezzo per “il povero e l’indigente”. L’ozio prodotto dal benessere è il padre dei vizi, come si suol dire. E alla base della ribellione contro la legge divina e naturale nei rapporti sessuali c’è la superbia e la mancanza di giustizia: “insuperbirono e fecero ciò ch’è abominevole davanti a me”. Un gran benessere materiale, il narcisismo e la superbia all’origine dell’omosessualità. Dal narcisismo e dalla superbia la ribellione contro Dio e le sue leggi. Tutto ciò lo vediamo riprodursi oggi, nelle nostre sventurate società, e in molti casi con la complicità dello Stato.
b) Vangelo di san Luca
Luca riporta l’invettiva di cui a Mt 11, 21-24, in modo quasi identico, aggiungendovi un illuminante commento del Signore stesso.
“Io vi dico che, nel gran giorno [del Giudizio], Sodoma sarà trattata meno rigorosamente di quella città [dove non vi avranno accolti]. Guai a te , Corazin!, guai a te, Betsaida! […] E tu Cafarnao, sarai forse elevata fino al cielo? Tu sarai precipitata sino all’inferno! Chi ascolta voi, ascolta me, e chi disprezza voi, disprezza me. Chi disprezza me, disprezza colui che mi ha mandato” (Lc 10, 12-15).
Ma Nostro Signore nominò di nuovo Sodoma nelle profezie sugli ultimi tempi, che avrebbero visto il ritorno del Figlio dell’uomo, predetto quale avvenimento improvviso e fulminante, che non avrebbe lasciato scampo a nessuno.
“E come avvenne al tempo di Noè, così avverrà al tempo del Figlio dell’uomo: mangiavano e bevevano, si sposavano e facevano sposare i propri figliuoli, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca; ma venne il diluvio e li fece tutti perire. Altrettanto avvenne al tempo di Lot: mangiavano e bevevano, compravano e vendevano, piantavano e costruivano; ma il giorno in cui Lot uscì da Sodoma, Dio fece piovere fuoco e zolfo dal cielo e fece perire tutti”. (Lc 17, 26-29).
Continuando nella profezia, Nostro Signore aggiunse:
“Lo stesso avverrà nel giorno in cui il Figlio dell’uomo dovrà apparire”. In quel giorno nessuno dovrà voltarsi indietro, non gli sarà consentito: “Ricordatevi della moglie di Lot! Chi cercherà di salvare la sua vita, la perderà; e chi la perderà, la conserverà” (ivi, 30-32).
Il Diluvio e la fine di Sodoma sono dunque proposti più volte da Nostro Signore quali esempi della giustizia divina, esempi classici, si potrebbe dire, nella cultura e nella mentalità ebraiche. Ciò significa che Egli approvava quelle condanne e quei castighi; riteneva giusto che l’umanità fosse punita per i suoi peccati nel modo che Dio ritenesse opportuno, a seconda della loro gravità. Riteneva quindi giusto che il peccato contro natura dei sodomiti fosse stato punito col fuoco e lo zolfo caduti subitaneamente dal cielo. Si noti la sfumatura: ricorda che al tempo di Noè gli uomini, tra le altre cose, “si sposavano e facevano sposare i propri figli”; al tempo di Lot invece, cioè a Sodoma e Gomorra, tra le loro molteplici attività (“piantavano e costruivano”) mancava ovviamente il costruir famiglie, lo sposarsi e far figli secondo natura, realtà dalle quali i sodomiti (omosessuali e lesbiche) si escludono a priori, perché da loro detestate.
Riscontrato tutto ciò sui Sacri Testi, come si fa a dire che Gesù non ha mai parlato dell’omosessualità e quindi non l’ha (per ciò stesso) mai condannata? Nella più perfetta tradizione ebraica, ha portato o no più volte a monito, approvandola, la condanna di Sodoma quale esempio di condanna divina esemplare dei peccati gravi e ostinati di un’intera comunità? E ciò non basta a dimostrare che Egli ha condannato l’omosessualità e la conseguente falsità radicale della tesi degli omofili? Che altro doveva dire? Aveva forse bisogno di fare tanti discorsi per condannare il peccato e un peccato come quello? Invece di cercare di falsare il senso autentico delle Sacre Scritture, i propagandisti e sostenitori a vario livello della presente, terrificante deriva omosessualista (attivi purtroppo anche nella Gerarchia!), non farebbero meglio a meditare le parole stesse di Nostro Signore sul giusto castigo di Sodoma sventurata? Sembrava ai depravati che tutto dovesse continuare in eterno come prima, immersi nel benessere, nelle loro intense attività e nei loro vizi, ma improvvisamente un giorno, “il giorno in cui Lot uscì da Sodoma, Dio fece piovere fuoco e zolfo dal cielo e fece perire tutti”. Senza preavviso fece perire tutti di una morte orribile, tutti inceneriti in un batter d’occhio, come i poveri giapponesi a Hiroshima e Nagasaki, peraltro vittime innocenti della crudeltà della guerra. Anzi, peggio, perché in Giappone ci furono dei superstiti e la vita è tornata nelle città ricostruite. A Sodoma e Gomorra, invece, non si è salvato nessuno e il luogo, inizialmente fertilissimo, è da allora un tetro e spettrale deserto di sale, acqua salmastra e bitume. Se si continuerà ad offendere gravemente Dio, come a Sodoma, andrà a finire anche per noi come a Sodoma, quale che sia la forma specifica del castigo, se l’acqua o il fuoco o la terra, che si spalancherà sotto di noi.

2.    L’omosessualità deve ritenersi inclusa da Gesù nella condanna di tutte le “fornicazioni” .
Polemizzando contro il legalismo dei Farisei e la loro ossessione con le purificazioni rituali, Gesù disse ai discepoli, che ancora non avevano afferrato adeguatamente il concetto:
“Non capite che quanto entra per la bocca, passa nel ventre e va a finire nella latrina? Ma quel che esce dalla bocca viene dal cuore, ed è questo che contamina l’uomo; poiché dal cuore vengono i cattivi pensieri, gli omicidi, gli adulteri, le fornicazioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie: queste cose contaminano l’uomo, ma il mangiare senza lavarsi le mani non contamina l’uomo” (Mt 15, 17-20).
Egli distingue nettamente tra “adulteri” (adulteriamoichetai) e “fornicazioni” (fornicationes,porneiai).
L’adulterio è l’infedeltà coniugale. E le fornicazioni? Evidentemente, tutti i rapporti sessuali di persone non sposate. E quindi tutte le violazioni del Sesto Comandamento, secondo natura e contro natura che siano. Anche l’adulterio è “fornicazione”, però con aggiunto il peccato della violazione della fede coniugale. Nell’adulterio ci sono due peccati in un unico atto.
Potrebbero le “fornicazioni” qui menzionate dal Signore escludere quelle contro natura? Non potrebbero, evidentemente: per la natura stessa del concetto, tale da impedire di per sé simile eccezione. Inoltre, il termine porneia (scortatio,fornicatio), che risale a Demostene ed è usato dai LXX, anche nel Nuovo Testamento indica “ogni uso illegittimo della venere, compreso l’adulterio e l’incesto. In Mt 15, 19 si distingue dalla moicheia ossia dall’adulterio. Vedi anche Mc 7, 21, [passo parallelo]”. E a riprova di tale impossibilità abbiamo l’evidente approvazione manifestata (tre volte) da Gesù per la condanna di Sodoma e Gomorra, rappresentate addirittura come esempio di grave peccato che merita di esser colpito anche in questo mondo dall’ira divina, con tutta la sua terribile potenza, quando un intero popolo vi si indurì.
Lo scopo di quest’articolo è solo quello di ricordare la condanna evidente e manifesta del peccato di omosessualità da parte di Cristo, per sbarazzare il campo dalle falsità pullulanti sulla nostra religione e ristabilire il vero. Per completezza di documentazione, voglio ricordare che Sodoma e Gomorra sono rammentate anche nella Seconda Lettera di san Pietro, allo stesso modo di Nostro Signore e con ulteriori precisazioni, relative alla sopravvivenza e comunque alla salvezza dell’anima dei giusti che siano costretti a vivere in una società dominata dall’empietà.
“[…] se Dio condannò alla distruzione e ridusse in cenere le città di Sodoma e Gomorra, perché fossero di esempio a tutti gli empi futuri, e se liberò il giusto Lot, rattristato dalla condotta di quegli uomini senza freno nella loro dissolutezza – poiché quest’uomo, pur abitando in mezzo a loro, si manteneva giusto di fronte a tutto quello che vedeva ed ascoltava, nonostante che tormentassero ogni giorno la sua anima retta con opere nefande – il Signore sa liberare dalla prova gli uomini pii e riserbare gli empi per esser puniti nel giorno del Giudizio, specialmente quelli che seguono la carne nei suoi desideri immondi e disprezzano l’autorità. Audaci e arroganti, essi non temono d’insultare le glorie dei cieli, mentre gli stessi angeli ribelli, pur essendo superiori a costoro per forza e potenza, tuttavia non osano portare contro di esse un giudizio ingiurioso davanti al Signore” (2Pt 2, 6-11).
 

(Fonte: Paolo Pasqualucci, Riscossa Cristiana, 25 settembre 2015)
http://www.riscossacristiana.it/e-falso-dire-che-nostro-signore-gesu-cristo-non-ha-condannato-lomosessualita-i-vangeli-dimostrano-esattamente-il-contrario-di-paolo-pasqualucci/

 

giovedì 24 settembre 2015

Una mattina nell’eremo del Papa emerito

Il mattino di mercoledì 9 settembre, alla Porta Sant’Anna del Vaticano, sono salito su un’auto condotta da un graduato della Guardia Svizzera che, districandosi tra i viali dei celebri giardini mi ha portato al Monastero detto di Maria Mater Ecclesiae. Come si sa, è questo il luogo scelto dal Papa Emerito per vivere tra preghiera e studio dopo la clamorosa rinuncia. Una delle quattro Memores Domini (la famiglia religiosa ispirata da don Giussani) che accudiscono Benedetto XVI, mi ha accolto e mi ha fatto accomodare in un salotto al primo piano, ma dal quale si vede in modo completo il Cupolone incombente. Pochi minuti dopo, eccomi in ascensore ed ecco un Benedetto XVI, solo, sorridente, sulla soglia del suo studio.
La mia collaborazione professionale prima e l’amicizia poi con Joseph Ratzinger risale ai primi anni Ottanta quando, insieme, preparammo quel Rapporto sulla fede che mise a rumore la Chiesa intera. Da allora, ci vedemmo piuttosto spesso. Ma, divenuto Papa, rispettai i suoi impegni opprimenti, non chiesi udienze e non lo incontrai che una sola volta quando fu lui stesso che volle rivedermi dopo la pubblicazione di Perché credo, il libro che avevo appena scritto con Andrea Tornielli. Rispettai poi anche il suo ritiro ma, ovviamente, mi ha fatto piacere l’invito, giuntomi attraverso il suo Segretario, ad andarlo a trovare per rivederci e parlare tra noi, in confidenza. Da quando quell’invito mi è giunto, ho subito pensato che fosse mio dovere di non metterlo in imbarazzo con domande da giornalista indiscreto, come i suoi rapporti col suo successore o come i motivi ”veri” della sua rinuncia. Sono dunque pregati di astenersi i soliti complottologi e dietrologi che pensassero che dietro questo nostro incontro ci fosse chi sa che.
Mentre mi inchinavo per baciargli la mano (come vuole una tradizione che rispetto, soprattutto da quando si cerca di declassare il ruolo e la figura del Supremo Pontefice), Sua Santità mi ha messo una mano sulla testa, per una benedizione che ho accolto come un grande dono. Con l’altra mano, si appoggiava a un sostegno a rotelle: ormai, gli sono precluse le passeggiate con il segretario nei giardini. Le sue possibilità di muoversi sono talmente limitate che, per uscire, viene sospinto su una carrozzella, mentre in casa si sposta solo per pochi metri appoggiandosi al ”girello”, come lo chiamano. Sotto la tonaca bianca si indovina la magrezza del corpo, ma il viso non porta affatto i segni dei quasi 90 anni: è quello di sempre, da eterno fanciullo, cui fa contrasto la corona dei capelli tutti bianchi e la vivacità degli occhi chiari. ”Bello”, insomma, come sempre è stato nel volto. E belle anche la sua lucidità intellettuale e la sua attenzione all’interlocutore.Spiritus promptus, caro infirma: la citazione viene spontanea, stando accanto a quello” spirito” prigioniero di una” carne” che ormai fatica a portarlo.
Seduti sull’orlo di due divani ravvicinati – per ovviare, accostandoci, a un suo calo dell’udito – abbiamo parlato per oltre un’ora. Io, come dicevo, mi sono astenuto dal fare domande ovvie e sin troppo facili. Da lui, invece, le domande sono venute numerose. Mi ha ascoltato con attenzione quando, su sua richiesta, ho cercato di fargli una sintesi della situazione ecclesiale, almeno così come la avverto. Alla fine non ha detto che: «Io  posso solo pregare».
Gli ho chiesto però di farci un dono: un De Senectute di ciceroniana memoria ma, ovviamente, in prospettiva cristiana, anzi cattolica, raccogliendo egli stesso per iscritto la sua esperienza senile, spesso dolorosa, e l’apertura sull’Aldilà, sulla vita vera che tutti ci attende. Una occasione preziosa per affrontare il tema di quel Novissimi che è stato rimosso da una Chiesa tutta e solo preoccupata non della salvezza eterna ma del benessere, per tutti, in questa vita.
Ha scosso il capo, e mi ha replicato: «Sarebbe una cosa preziosa, più volte ho denunciato questo oblio della morte, questa rimozione dell’aldilà con ciò che ci attende ”dopo”. Ma lei sa che sono abituato a ragionare da teologo, a filtrare la realtà attraverso le categorie filosofiche, dunque non potrei scrivere nulla se non in questo modo. Ma, ormai, per un simile impegno mi mancano le forze per farlo». E poi: «Il mio dovere verso la Chiesa e il mondo cerco di farlo con una orazione che occupa tutta la mia giornata». Preghiera mentale o verbale, Santità? mi è venuto, forse futilmente, di chiedergli. Pronta la sua risposta: «Verbale, soprattutto: il rosario completo, con le sue tre corone, poi i Salmi, le orazioni scritte dai santi e i brani biblici e le invocazioni del breviario». Alla preghiera mentale provvedono le molte letture di testi di spiritualità affiancati a quelli di teologia e di esegesi biblica.
Me lo si lasci poi dire, sfidando il sospetto di vanità: ha voluto, bontà sua, ringraziarmi per un libro in particolare, quella inchiesta sulla passione di Cristo – Patì sotto Ponzio Pilato – che non solo ha citato ma ha raccomandato nei due primi volumi sulla trilogia dedicata a Gesù e pubblicata quando era già pontefice. Ovviamente, ne sono stato contento per me, come autore; ma non solo per me, bensì anche per quella apologetica, demonizzata dopo il Concilio al punto di cancellarne il nome nei seminari (“Teologia fondamentale” la chiama il clericalmente corretto) ma che è indispensabile a ciò su cui Ratzinger ha sempre insistito, da teologo e poi da papa, cioè da custode supremo della fede. La possibilità e la necessità, cioè, di non porre in contrasto ma in mutua collaborazione la ragione e la fede, l’intelletto e la devozione.
Ad altri temi abbiamo poi accennato ma, per questi, vale una discrezione doverosa. Devo aggiungere – con un sorriso ironico, ad uso di chi si ostini a pensare all’incontro tenebroso tra congiurati – devo aggiungere, dunque, che nonostante l’ora del pranzo fosse giunta, anzi, abbondantemente superata, non è arrivato alcun invito ad andare a tavola. Benedetto XVI, mi hanno poi detto, mangia pochissimo (“come un passero”) e da solo, dando uno sguardo a un telegiornale: dunque, ha solo raramente commensali.
Insomma, come si vede, non sono certo clamorose le cose che qui ho da dire. Se ho pensato egualmente di scriverne è per confortare i lettori: proprio accanto alla tomba di Pietro, c’è un vegliardo ammirevole che per otto anni ha guidato la Chiesa e che ora non ha altra preoccupazione che pregare per essa. Con impegno, ma senza alcuna angoscia. E, cioè, non dimenticando mai che i papi passano ma la Chiesa resta e sino alla fine della storia risuonerà l’esortazione del suo vero Capo e Corpo a noi pusillanimi: «Non temere, piccolo gregge, questa barca non affonderà e, malgrado ogni tempesta, starà a galla sino al mio ritorno».
 

(Fonte: Vittorio Messori, La bussola quotidiana, 16 settembre 2015)
http://www.vittoriomessori.it/blog/2015/09/16/una-mattina-nelleremo-del-papa-emerito/

 

lunedì 14 settembre 2015

Enzo Bianchi, l'«umanista ateo», getta la maschera

L’intervista apparsa su la Repubblica il 9 settembre scorso sarebbe ripetitiva e insignificante se non fosse anche il riassunto del vasto progetto politico-religioso di Enzo Bianchi ("La Chiesa del futuro", a cura di Silvia Ronchey, il cui testo è stato tolto dal sito del Monastero di Bose e di Repubblica, ndr). Il “piccolo riformatore” piemontese ha affisso le sue “tesi” alla porta, non di una chiesetta della Germania cinquecentesca ma di un quotidiano romano la cui sede è a pochi passi dalla basilica di San Pietro.
Tutto è chiaramente simbolico: il giornale che lo intervista proprio perché parli male del cristianesimo e bene dell’islam (le domande sembrano proprio redatte da chi deve rispondere) è lo stesso giornale dove il suo fondatore, Eugenio Scalfari, ha lodato papa Francesco per avergli dato ragione in tutto, e in particolare sul rifiuto di Dio come creatore del mondo e come autore della legge morale naturale. Erano altri tempi quando La Repubblica usciva con un articolo in prima pagina intitolato «Il Papa contro le donne» (si trattava di una delle reiterate condanne dell’aborto da parte di san Giovanni Paolo II). Quel papa era da criticare ferocemente, e con lui tutta la tradizione dogmatica e morale della Chiesa cattolica. Il papa attuale invece va elogiato perché – dice esplicitamente Scalfari e dice implicitamente anche Bianchi – ha iniziato un’opera di demolizione della Chiesa come depositaria della verità rivelata da Cristo, per trasformarla in uno dei tanti movimenti “spirituali” che contribuiscono al “nuovo ordine mondiale”, che mira all’annullamento delle differenze tra le religioni e ultimamente all’annullamento della religione stessa.
Perché questo progetto mondialista si presenta talvolta come espressione del più genuino senso religioso, ma i suoi presupposti sono sempre quelli dell’umanesimo ateo. Lo scrissi nel 2012 a proposito della riduzione che Bianchi fa di Cristo a semplice modello di umanità, e lo ho ripetuto a proposito della riduzione che il cardinale Kasper fa dell’Eucaristia a mero strumento rituale dell’identificazione dei fedeli nella comunità. Ora, nel cosiddetto monastero di Bose, Bianchi ha chiamato proprio il suo maestro Kasper a parlare dell’ecumenismo, inteso logicamente come attività  politico-culturale con la quale la Chiesa cattolica dovrebbe dissolversi in un’indifferenziata religiosità umanistica. E alla vigilia del convegno, Bianchi illustra alla compiacente e compiaciuta giornalista di Repubblica i criteri fondamentali del suo progetto etico-politico, che passa dalla critica di ogni dottrina e di ogni prassi della Chiesa cattolica che non siano omologabili all’ecumenismo inteso come indifferentismo religioso.
La prima critica di Bianchi colpisce la cristianità del quarto e quinto secolo: «Quando con Teodosio il cristianesimo è diventato religione dello stato imperiale la furia dei monaci – lo dico con dolore, mi strappa il cuore – ha distrutto i templi pagani, fatto uno scempio di opere d'arte non diverso da quello dell'Is, ma ben più vasto. È il motivo per cui san Basilio non ha mai usato nei suoi scritti la parola "monaco": designava integralisti violenti, i talebani del momento. Guardando i secoli mi permetto di dire, pur con tutte le differenze: vediamo che altri rifanno a noi quello che abbiamo fatto». Poi fa continuare il discorso all’ignara giornalista: «Come ad Alessandria d'Egitto, quando fu distrutto il Serapeo e i parabalani del vescovo Cirillo assassinarono Ipazia. Nel "Libro dei testimoni", lo straordinario martirologio ecumenico di Bose, questa martire pagana potrebbe trovare posto?». Ecco la scontata risposta di Bianchi alla non-domanda della giornalista di Repubblica: «Sì, come tutti coloro che – da Buddha a Savonarola, da Rumi a Gandhi – in qualunque religione o anche all'esterno hanno perseverato in una posizione di umanità».
Il discorso di Bianchi non potrebbe essere più chiaro: invece di unirsi alla Chiesa cattolica, che nel Martirologium Romanum, elenca i cristiani che hanno testimoniato eroicamente la loro fede in Dio, Enzo Bianchi elenca nel suo “martirologio ecumenico” una serie eterogenea di personaggi che avrebbero testimoniato una non precisata «posizione di umanità». Insomma, si tratta di un’altra esplicita professione di fede nella “religione dell’uomo”. La cosa strana, peraltro, è che Bianchi nomina, accanto al Buddha (che è un maestro di sapienza nichilistica e quindi atea) e ad altri maestri di spiritualità naturalistica (il persiano Rumi e l’indiano Gandhi), anche il frate domenicano Girolamo Savonarola, che per quanto vittima di lotte politiche tra Firenze e il Papa, non ha nulla a che vedere con l’umanesimo ateo, anzi è stato un uomo di autentica fede e di grande rigore morale, tanto che a Firenze si oppose energicamente ai costumi e anche alle arti dell’Umanesimo paganeggiante, tanto da far bruciare libri e quadri sconvenienti, proprio come avevano fatto i «monaci integralisti» contro i quali Bianchi  si era scagliato qualche riga più sopra.
Ma non è questa l’unica incongruenza del discorso di Bianchi (le ideologie non riescono a esprimersi senza tradire le loro contraddizioni interne). Più avanti egli si mostra entusiasta di papa Francesco, non perché sia, come tutti i suoi predecessori, il Vicario di Cristo (figuriamoci!), ma solo perché in qualche caso le sue direttive pastorali sembrano in sintonia con le direttive politiche emanate dalle lobbies installate negli organismi internazionali, dall’ONU all’UE, delle quali sono zelanti propagandisti La Repubblica e gli altri media di orientamento laicista, cioè massonico. Ad esempio, parlando delle direttive pastorali di papa Francesco riguardo all’accoglienza dei profughi in Italia, Bianchi va all’attacco di ogni opinione e di ogni prassi che a lui sembrano “disobbedienza” al Papa: «Il papa ha lanciato l'allarme già due anni fa, dopo la visita a Lampedusa. È rimasto inascoltato e credo che anche questo suo nuovo appello lo sarà. Il fastidio di un certo clero verrà magari dissimulato dall'ipocrisia religiosa, che è la più bieca e spaventosa di tutte». E poi: «Un mese fa il vescovo di Crema ha chiesto di ospitare i rifugiati in locali adiacenti una scuola cattolica, è stato contestato dalle famiglie. La situazione italiana è una vergogna, soprattutto nelle regioni tradizionalmente più cattoliche, il Veneto e la Lombardia». L’intervistatrice domanda a Bianchi: «Il rifiuto è più sociale o più confessionale?», volendo forse far dire a Bianchi che si tratta di ragioni più religiose che politiche. E infatti Bianchi risponde: «Quello confessionale l'hanno gridato a suo tempo il cardinal Biffi e il vescovo Maggiolini, secondo cui bisognava eventualmente accogliere solo i cristiani. Ma il problema è la vera e propria fabbrica di paura dei barbari, edificata da forze politiche attente solo all'interesse locale, forze che prima di Francesco la chiesa italiana ha assecondato, anche se all'inizio sembravano assumere riti pagani, precristiani, quelli sì barbarici. Ora si proclamano cattolici ma io li chiamo cristiani del campanile. Il grande silenzio di una chiesa complice li ha aiutati a iniettare nel tessuto sociale del territorio il veleno della xenofobia».
Insomma, dove ci sono principi formulati dal pensiero unico, non c’è spazio per la coscienza e la responsabilità personale, non sono possibili interpretazioni e applicazioni prudenziali, nemmeno se vengono suggerite da pastori esemplari come Biffi e Maggiolini, la cui memoria (sono entrambi defunti) Bianchi non esita a infangare. E pensare che lo stesso Bianchi – i cui discorsi mancano non solo di fede soprannaturale ma anche di logica naturale – poco dopo sostiene che il dettame della propria coscienza prevale sull’obbedienza al Papa: «La dottrina cattolica del Vaticano II ribadisce con chiarezza che la coscienza prevale su qualsiasi autorità, anche su quella papale». Non è affatto questa la «dottrina cattolica» sul rapporto tra legge morale e coscienza: è piuttosto  la “dottrina Scalfari”, che ignora l’esistenza di Dio creatore e legislatore e la natura libera e responsabile degli atti umani.
La dottrina morale cristiana – che si estende anche agli orientamenti socio-politici che costituiscono la “dottrina sociale della Chiesa” – non è stata affatto rivoluzionata dal Concilio, come peraltro ebbe a chiarire definitivamente san Giovanni Paolo II con la sua enciclica Veritatis splendor. Ma tant’è: quando non è d’accordo con il Papa, Bianchi incita tutti a disobbedirgli, e quando invece è d’accordo esige da tutti la più assoluta obbedienza, anche quando non si tratta di veri e propri ordini (come sono quelli contenuti in precise leggi canoniche, dove sono specificati i tempi, i modi e i soggetti interessati).
Dove l’incoerenza del discorso raggiunge i vertici della più volgare dialettica ideologica è quando Bianchi tesse le lodi della «tolleranza islamica», da contrapporre all’intolleranza dei cristiani, sia di Oriente che di Occidente. Senza preoccuparsi di distinguere l’espansione militare degli Arabi da quella dei Turchi, senza accennare alle persecuzioni di cristiani e di ebrei iniziate già con Maometto, Bianchi racconta questa favola: «Al tempo della conquista musulmana i cristiani del Medio Oriente hanno aperto le porte delle loro città agli arabi che portavano libertà di culto e affrancavano dalle angherie economiche del governo imperiale cristiano. La convivenza di cristiani, ebrei e musulmani nel corso del medioevo islamico ha fatto fiorire momenti di cultura straordinari, come nel mondo sufita, che conosco bene». Allargando il discorso, aggiunge: «L'islam è una religione di pace e mitezza con una mistica di forza pari a quella cristiana».
Ecco di nuovo la voluta confusione dei termini propriamente religiosi, con l’intenzione di riconoscere in ogni religione – e anche al di fuori di ogni religione, come prima ha detto – valori umanistici. Bianchi sa bene che la parola “mistica”, in un contesto religioso cristiano, ha il significato di unione di volontà e di affetti con Dio Uno e Trino, e non è mai possibile senza la fede nel Verbo Incarnato; al di fuori di questo contesto la parola “mistica” non ha il medesimo significato religioso, soprattutto se la divinità di  Cristo viene negata e la Trinità viene considerata una corruzione blasfema della vera nozione di Dio. E non ne parliamo nemmeno se di tratta della mistica che si pretende di riscontrare nel pensiero panteistico (neoplatonismo) o addirittura ateo (buddismo, induismo).
Passando poi dalla  mistica alla violenza, e volendo ripartirne equamente la colpa a cristiani e islamici, Bianchi espone la teoria aberrante della pari verità e della pari falsità di tutti i cosiddetti “libri sacri”, che andrebbero interpretati alla luce – guarda un po’ – della morale umanistico-atea: «Se nel Corano ci sono testi di violenza, non sono molto diversi da quelli che troviamo nella Bibbia e che ci fanno inorridire. La lettura integralista della Bibbia può rendere integralisti quanto quella del Corano. L'esegesi storico-critica delle scritture, cui il cristianesimo è approdato con fatica e subendo terribili condanne dell'autorità ecclesiastica, è il primo passo di un lungo cammino che aspetta anche i musulmani. Nel frattempo servono ascolto, dialogo, seri studi universitari per dissipare la propaganda ideologica che attecchisce sull'ignoranza: non è vero che l'islam è una religione della violenza e della jihad, affermarlo serve solo a giustificare la nostra nei suoi confronti».
Insomma, nel cristianesimo non ancora riformato da Bianchi c’è solo violenza, ipocrisia e/o ignoranza. E la colpa dell’ignoranza va attribuita all'«autorità ecclesiastica» (san Pio X?) che avrebbe ostacolato con «terribili condanne» la lotta dei teologi illuminati (i modernisti?) per liberare i fedeli dall’interpretazione integralistica della Scrittura. Così Bianchi conferma il suo progetto di graduale eliminazione di tutti quegli aspetti di verità soprannaturale che sono propri della Chiesa cattolica, a cominciare dall’ispirazione divina della Scrittura e dal carisma dell’infallibilità conferito da Cristo al Magistero, che della retta interpretazione della Scrittura è garante (contrariamente a quanto pretende Lutero con la dottrina del “libero esame”)... 
Eliminata la verità di Dio creatore e autore della legge naturale; eliminata la verità di Cristo, unico «Salvatore dell’uomo», e quindi la verità di Dio uno e trino; resta da eliminare – per finire di togliere al cristianesimo la sua dimensione soprannaturale - la verità di Maria «Madre del Redentore». E Bianchi, per denigrare il culto mariano (inviso ai protestanti e quindi considerato da Bianchi un ostacolo sulla via dell’ecumenismo), non esita a tirare in ballo il vecchio tema della misoginia nella Chiesa cattolica: «Si dice sbrigativamente che certi musulmani siano ancora nel medioevo. Ma il velo completo per le suore di clausura è stato abolito solo nel 1982. È molto recente la presa di coscienza della pari dignità della donna e dell'uomo nel cristianesimo, che non ha ancora nemmeno il linguaggio per esprimerla. La soggezione delle donne agli uomini è un retaggio scritturale nell'islam, ma è presente anche nelle nostre scritture: san Paolo afferma che le donne non devono assolutamente parlare nell'assemblea della chiesa e devono stare a capo coperto. Di nuovo, serve una rilettura storico-critica di tutti i libri sacri, per scorgerne l'intenzione e non le forme. Nella chiesa c'è buona volontà ma poi della donna si hanno immagini irreali: il modello di Maria, vergine e madre, che non può essere il riferimento per una promozione della donna nella chiesa; l'idea, insinuata per moda, che la Madonna sia più importante di San Pietro, idea insipiente come dire che la ruota in un carro è più importante del volano... Non siamo ancora capaci di prendere sul serio l'uguaglianza indubbia tra uomini e donne. Il cammino per la chiesa è ancora lunghissimo perché ovunque ci sia un esercizio di comando restano gli uomini, mentre le donne sono confinate al servizio umile».
Indubbiamente Bianchi sogna (assieme a Hans Küng) una riforma della Chiesa cattolica che la porti ad assomigliare alle comunità protestanti, con donne-sacerdoti e donne-vescovi. Ma per i cattolici dotati di buon senso e di autentico sensus fidei questo non è un bel sogno, anzi è un incubo. Ho letto tanti commenti di laici che sul web hanno espresso la loro indignazione di fronte alle assurdità teologiche di Bianchi nel suo ultimo intervento pubblico. Trascrivo uno qualsiasi di questi commenti: «Le monache di clausura sapevano che, consacratesi a Cristo, avrebbero fatto anche la scelta del velo. Purtroppo le donne islamiche vengono costrette in quanto donne, e non è loro scelta quella di portare il velo. La Bibbia dice cose che prese alla lettera sono peggio del Corano? Bianchi dimentica che siamo cristiani cattolici. Che la nostra non è una religione del libro, che Cristo è Dio incarnato che ha portato quelle novità che hanno spazzato via le regolette molto care ai Farisei. Che c'è il Vangelo... Di che cosa parla quest'uomo? La Madonna è meno importante di San Pietro? Maria è l'unica creatura nata senza peccato originale, San Pietro era un peccatore, poi pentito e scelto per fondare quella Chiesa che Bianchi pare non amare. Stiamo parlando di due livelli diversi, non vedo classifiche, non ci ho pensato mai».
Aggiungo, per completezza, che il culto dovuto a Maria è basato su dogmi fondamentali della verità cristiana. Bianchi non ignora il concilio ecumenico di Efeso (anno 351), dove la Madonna è stata proclamata “theotokos”, ossia “madre di Dio”. Ma a Bianchi non interessano i dogmi, anzi vorrebbe eliminarli tutti uno per uno. Io, se qualche volta volesse ascoltare, gli ricorderei che anche il Vaticano II, che per lui è “il Concilio”, l’unico, ha confermato la dottrina di sempre sul culto mariano nel capitolo ottavo della costituzione dogmatica Lumen gentium. E gli farei anche notare che, se si ostina a non accettare gli insegnamenti di san Giovanni Paolo II sul culto mariano e sul ruolo della donna nella Chiesa (vedi la Mulieris dignitatem), potrebbe almeno rispettare la grande devozione mariana di Francesco, il papa del quale egli si presenta come legittimo interprete.  
Concludo allargando il discorso. Come i lettori della Nuova Bussola Quotidiana sanno bene, sono anni che io denuncio inutilmente le assurdità teologiche di Enzo Bianchi. Ho detto e ripeto che materialmente sono indubbiamente eresie, anche se formalmente non hanno la dignità di un discorso eretico, perché sono solo strumenti dialettici di una politica ecclesiastica a favore della lobby umanistico-atea. Lui, imperterrito, continua a pontificare, forte dell’appoggio istituzionale di chi è a capo di quella lobby e dell’appoggio mediatico della cultura “laica” (così si suole dire per non dire “massonica”).
Il bello è che nemmeno lo stesso Bianchi è stato capace di contraddire le mie critiche alla sua falsa teologia, ad esempio quando gli facevo notare che parlava di Cristo come di una creatura, negandone esplicitamente la divinità (del resto lo ha imparato dal suo maestro Walter Kasper, il quale lo ha imparato a sua volta da Karl Rahner). Ogni volta che ha replicato alle mie critiche teologiche, Bianchi non ha saputo dire altro che in Vaticano lo stimano e lo nominano consulente di questo o di quello, e che i vescovi italiani lo chiamano continuamente a parlare ai fedeli delle loro diocesi, eccetera. Cose che sono vere (purtroppo!) ma nulla hanno a che vedere con le mie critiche, che non sono rivolte alla persona ma alle sue dottrine, e sono teologicamente ineccepibili, perché fondate sulla fede e sulla logica (l'una e l'altra cosa insieme).
Bianchi si è sempre comportato come Bruno Forte, Gianfranco Ravasi e tanti altri che di fronte alle mie critiche teologiche (cfr il mio trattato su Vera e falsa teologia) non tentano nemmeno di confutarle ma si accontentano di mostrarmi orgogliosamente le loro insegne episcopali o cardinalizie. A me non resta che pregare, mentre continuo a consigliare tutti di non prendere per magistero quello che Magistero assolutamente non è.

 
(Fonte: Antonio Livi, La nuova bussola quotidiana, 14 settembre 2015
http://www.lanuovabq.it/it/articoli-enzo-bianchilumanista-ateo-getta-la-maschera-13816.htm

 

Matrimonio, Concubinato, Verginità

La complessa e grave questione del rapporto uomo-donna emerge oggi tra i temi morali ed antropologici di maggior interesse ed ovviamen-te ci coinvolge tutti, credenti e non credenti. Il tema è di enorme complessità ed ha numerosi agganci e presupposti nella religione, nella spiri-tualità, nella psicologia, nella sociologia, nella politica, nel diritto, nell’economia e nella storia.
In questa situazione in evoluzione, che suggerisce e denota un mutamento del costume, stanno emergendo alcuni valori, ma si stanno anche rafforzando e stanno aumentando il loro influsso false concezioni della sessualità, che mettono a repentaglio, sotto la parvenza del progresso e della libertà, non solo il buon ordine della società, ma le stesse sorgenti della vita umana, atteso il fatto che esse dipendono dal corretto uso della sessualità.
Voglio qui limitarmi a un breve raffronto tra i tre aspetti del rapporto uomo-donna indicati dal titolo, al fine di approfondire la realtà misteriosa di questo rapporto, che è fondato sull’originaria volontà di Dio, quando ha creato la coppia umana stabilendone per sempre le ca-ratteristiche essenziali, le leggi e le finalità.
Ma a questo piano originario è succeduto quello di Gesù Cristo, sempre in nome del Padre; Cristo ha restaurato il piano del Padre compromesso dal peccato originale, ed ha innalzato la coppia umana alla dignità di figli di Dio, in vista della risurrezione escatologica.
Cominciamo dal Genesi. «Non è bene che l’uomo sia solo: facciamogli un aiuto simile a lui». «Maschio e femmina li creò». «L’uomo si unirà alla sua donna e i due saranno una sola carne». «Crescete e moltiplicatevi». «Non divida l’uomo ciò che Dio ha unito».
Innanzitutto i sessi sono due e solo due, ben definiti da caratteristiche psicofisiche, che, nella loro collaborazione reciproca, rendono possibile la riproduzione della specie e si completano a vicenda anche ai fini della pienezza e completezza dell’essere umano aperto alla socialità.
È esclusa quindi, come contraria alla natura umana e alla volontà divina, una concezione e una pratica della sessualità come genere (gender) indeterminato, suscettibile di più differenze specifiche, dipendenti dall’intervento tecnico e della libera scelta dell’uomo.
In secondo luogo, non si dice: «Non è bene che gli uomini siano soli, tranne alcuni, che potranno vivere meglio da soli e quindi al di fuori dell’unione uomo-donna». Il progetto genesiaco dell’uomo non conosce il voto di verginità, ossia la vita religiosa, che comparirà solo con l’esempio e l’insegnamento di Cristo sull’uomo e la donna.
La socialità umana, a differenza della socialità angelica, dove il sesso non esiste, non può essere scissa dal rapporto uomo-donna. La coppia umana, appartenente al regno animale (nefesh), benché animata da un’anima spirituale (rùach), è ben distinta dagli angeli (elohìm), che sono puri spiriti. Ed a maggior ragione da Dio stesso, sommo Spirito.
In terzo luogo, non si dice neppure che il rapporto uomo-donna debba essere esclusivamente finalizzato alla procreazione, ma, nel capitolo 2, si prospetta come fine della dualità maschio-femmina il compito di superare la solitudine o l’isolamento, per realizzare la socialità e l’amore. Vediamo di chiarire queste cose.
In questo quadro l’idea della verginità è totalmente assente, anzi sembra formalmente escluso. Infatti Lutero si appoggiava sul Genesi per sostenere che la pratica della verginità è contraria alla natura umana così come Dio l’ha creata e sarebbe originata da un influsso del platonismo nella Chiesa. Vediamo cosa può esserci di vero in queste idee di Lutero e dove invece egli sbaglia. Cominciamo quindi col chiederci da dove trae origine la pratica della verginità.

Origine dell’ideale della verginità
Ai tempi di Lutero non si avevano in Europa le conoscenze che abbiamo oggi sulla spiritualità dell’estremo Oriente e sugli influssi da esso esercitati in passato sull’Occidente. Tuttavia Lutero intuì indubbiamente una parte di verità in questa questione, parlando con disprezzo del cristianesimo “platonizzante”, anche se poi questa polemica divenne un pretesto per arrendersi davanti alle difficoltà che incontrava nell’esercizio della castità. Da qui, al fine di giustificarsi, la sua negazione in toto della vita religiosa[1], ignorando le sue basi evangeliche, lui, che si considerava contro Roma il riscopritore della verità del Vangelo.
Diciamo allora che l’ideale dell’astinenza sessuale come via di perfezione ed ascesa all’Assoluto era già perseguito da molti secoli in India, ma ispirato da un’antropologia di tipo panteistico spregiatore del corpo, e quindi mediante un ascetismo, che, sulla base di una concezione sovraccarica dello spirito umano, e nel contempo di un’idea della materia come principio del male, mirava ad un autopotenziamento ascetico e magico dell’io spirituale[2] ed alla sua liberazione dal corpo, in nome dell’appartenenza e del ritorno dello spirito umano (atman) allo Spirito assoluto (Brahman)[3], dopo la caduta dello Spirito e dallo Spirito nella schiavitù della materia.
Lo Spirito appare all’uomo come materia e resta ingannato e spaventato: si tratta di scoprire che la materia è pura apparenza e illusione e che la vera ed unica realtà è lo Spirito. Come recita un proverbio indiano: “ciò che sembra un serpente, in realtà è una corda”.
Questa concezione grandiosa e apparentemente sublime poteva suscitare interesse tra i cristiani per tre motivi: primo, l’ammissione di un Assoluto spirituale, eterno, infinito ed onnipotente, origine e fine di tutte le cose; secondo, l’uomo, spirito nel mondo, dotato di volontà ed assetato di Assoluto e di liberazione; terzo, la convinzione che l’uomo è una scintilla divina staccatasi in passato dal Fuoco eterno e caduta in questo mondo di tenebre, miserie e sofferenze, e quindi l’esigenza di liberazione, di recuperare il proprio Io assoluto e di tornare nella propria condizione originaria, lasciando il corpo e il mondo del male. L’uomo o l’“anima” sembrava potersi paragonare al Figlio di Dio, che esce dal Padre, entra nel mondo, si trattiene in esso e lo lascia per tornare al Padre[4].
Esistevano però due gravi impedimenti a che questa visione potesse essere assunta integralmente. Primo, la concezione di Dio non come un Tu trascendente creatore del mondo dal nulla, ma come Uno-Tutto, Io assoluto, universale e cosmico, del quale l’io umano e il mondo sono la manifestazione o apparenza empirica contingente.
Classiche sono al riguardo le immagini della goccia sprizzata dall’onda dell’oceano, la quale ricade confondendosi con l’acqua dell’oceano o della scintilla gettata dal fuoco e che ritorna nel fuoco, oppure l’immagine dell’Intero che si frantuma e si ricompone. Tale sarebbe il rapporto dell’anima con Dio.
Secondo, l’uscita o la caduta da Dio o di Dio stesso, ma tutto in fondo avviene in Dio. Dio comunque entra nel mondo (avatàr) sotto apparenze mondane (maya), mondo opposto allo spirito, ossia lo Spirito cade nel mondo del male, dal quale l’asceta (yoghi), puro spirito, intende liberarsi, il che vuol dire liberarsi, mediante le successive reincarnazioni, dal mondo della materia, che è appunto il mondo del male.
È evidente come verrà vista la realtà della differenza sessuale: non come componente essenziale in sé buona della natura creata da Dio, destinata a risorgere dopo la morte, ma come elemento contingente ed accidentale, destinato a estinguersi con la morte.
E sarà altresì evidente che cosa diventa in questa visuale l’unione o comunione fra uomo o donna, comporti o non comporti l’unione sessuale: niente affatto un’unione finalizzata alla procreazione, intesa come benedizione divina, ma considerata con disprezzo come moltiplicazione dei corpi e quindi del male e degli infelici, anche se tale moltiplicazione viene tollerata dal saggio ai fini della riproduzione della specie e quindi della possibilità data agli individui ― puri spiriti ― di raggiungere l’ Assoluto.
Ma in questa visuale la saggezza sta nell’estinguere, come direbbe Schopenhauer, grande ammiratore della sapienza indiana, con la “noluntas” questa “volontà di vivere”, per prender coscienza di essere l’ Assoluto. Superare la “rappresentazione” per diventare la “Volontà”.
Qualcosa di questa visione dualista probabilmente penetrò in Grecia già con Pitagora e Parmenide, fu mitigata da Platone e Plotino, e influenzò l’ascetismo monastico con Origene. La ritroviamo nella tradizione monastica dissidente orientale, come per esempio al Monte Athos, l’accesso al quale è proibito non solo alle donne, ma anche agli animali di sesso femminile.
Tale visione comparve in tutta la sua forza con i catari del secolo XIII in Francia[5], provenienti o discendenti dai bogòmili dell’Ungheria, a loro volta eredi del manicheismo persiano, figlio del dualismo gnostico indiano.
Nel campo del sesso, la morale catara oscilla fra il rigorismo di un’astinenza sessuale disumana, al lassismo bestiale di ogni aberrazione sessuale, in quanto per i catari non esistono leggi morali naturali, dettate da Dio, che disciplinino il rapporto uomo-donna, dato che secondo loro tale rapporto riguarda quel piano coartante, contingente e passeggero della corporeità, nel quale si è costretti a vivere nella vita terrena, le cui modalità concrete sono soggette alla libera decisione dei singoli, che nella libertà dello spirito cercano l’unione con Dio.
Anche qui il principio-guida è quello della purezza (katharòs, puro) dello spirito libero dall’esperienza sensibile: un qualcosa che ricorda stranamente l’ideale kantiano della ragion pura, essa pure sul piano pratico ligia a un dovere assoluto superiore e indifferente al piano delle tendenze e delle inclinazioni sensibili, dove pure sembra che la ragion pratica si astenga per principio dall’ordinare o legiferare o assegnar finalità naturali o razionali al rapporto uomo-donna.
Contrariamente all’etica evangelica, che pone l’origine del male nel peccato e quindi nello spirito (vedi la tematica del “cuore”), il dualismo puntava accentuatamente sulla prospettiva di liberarsi dal “corpo di morte” affinché l’anima, libera dal corpo, potesse volare in paradiso. Da qui la pratica della cremazione.
Ancora con San Francesco, il cui meraviglioso legame con Santa Chiara del resto è noto a tutti, il corpo è “frate asino”. Non pare qui di rintracciare il corpo “tempio dello Spirito Santo”, del quale parla San Paolo. Ancora con Santa Caterina, dovere della donna è di essere “virile”, mentre il “piacere femminile” è il sinonimo della lussuria. E gli esempi nella storia della spiritualità cristiana si potrebbero moltiplicare fino ai nostri giorni.

Per una giusta visione della sessualità
È chiaro che in questa impostazione c’è la giusta esigenza di mortificare le cattive tendenze sensibili e di dominare le passioni carnali. Ma restava che, almeno in una certa formazione corrente, soprattutto dei giovani e delle religiose, la preoccupazione per la castità assumeva un tono esagerato. Tanto che, come sappiamo, “purezza” è diventata sinonimo di castità, come se la purezza non debba essere una qualità di ogni virtù in quanto tale.
Dovrebbe essere evidente che ogni virtù deve essere pura. La castità era la “bella virtù”, come se le altre non fossero belle e non ce ne fossero di più belle. La “purezza di cuore”, alla quale ci esorta Gesù, ancora era la castità, mentre in realtà il “cuore” per il Vangelo non è la radice solo della castità, ma di tutte le virtù; così succedeva che virtù in se stesse più importanti, come l’umiltà, la giustizia, la mitezza, la prudenza, il coraggio, la misericordia, la sapienza, la carità rischiavano di apparire in sott’ordine. Ancor oggi in confessionale si sentono degli anziani accusarsi di “cattivi pensieri”, intendendo con ciò mancanze alla castità.
Ma il problema sotteso a queste idee era che l’esercizio dell’atto sessuale comportasse una contaminazione, una corruzione, una macchia. Da qui l’idea che l’integrità, la bellezza, la perfezione, l’ immacolatezza è la verginità, senza tener conto del fatto che le facoltà che Dio ci dà, sono fatte per essere esercitate – “si unirà alla sua donna” – e che quindi da un punto di vista naturale, una facoltà inutilizzata non può essere più perfetta della medesima nel suo esercizio.
Osserviamo che corruzione sarà semmai un cattivo uso o esercizio o funzionamento della facoltà, ma non può essere la sua semplice e normale attuazione secondo la sua naturale finalità. O, per esprimerci con Aristotele, l’atto è superiore e più perfetto della potenza. Non ha senso ipotizzare che una potenza inattuata sia cosa migliore della medesima regolarmente attuata. Per usare il linguaggio evangelico, i talenti ricevuti da Dio vanno fatti fruttare, se non vogliamo subire il castigo minacciato dal Vangelo.
Anche il piacere procurato dall’atto sessuale non è spregevole in se stesso, ma solo se quest’atto è o contro natura[6] o compiuto fuori dall’ordine morale. Il piacere normalmente è un bene conseguente alla soddisfazione di un bisogno o all’attuazione di una tendenza naturale.
L’animale si sente attratto dal piacere, come del resto accade anche a noi. L’animale sano, cercando il piacere, compie istintivamente l’atto vitale naturale ad esso collegato. Noi invece, in linea di principio, benché possediamo anche noi l’istinto, però lo possiamo dominare, per cui, per esempio, avvertiti dalla ragione o dalla coscienza che l’atto non è lecito, possiamo, in linea di principio, resistere alla tentazione, ossia alla spinta irragionevole dell’istinto, in quanto dotati di libero arbitrio.
Così in noi non accade sempre che l’attrattiva sensibile ci conduca al vero bene, perché purtroppo il peccato originale ha creato in noi una ricerca del piacere, indipendentemente dal fatto che l’oggetto o il fine collegato sia moralmente buono. A noi possono piacere anche tendenze morbose o moralmente cattive. Per questo, per sapere cosa è bene e cosa è male, non basta sempre in noi l’impulso della passione, ma occorre ragionare.
Così si spiega l’esistenza del peccato sessuale: l’atto o l’oggetto appare un bene, perché è piacevole al senso. Per questo, non è sempre di immediata intuizione il perché un certo atto sessuale sia male, in quanto siamo portati a credere che ciò che piace è sempre bene.
Si tratta allora di scoprire la preminenza del bene onesto, bene intellegibile, bene della ragion pratica – quello che Kant chiamava “dovere” – sul bene dilettevole, legato alla tendenza sensibile. È questo, in fin dei conti, il bene che ci deve interessare e guidare come esseri ragionevoli o, come diceva San Tommaso, agere secundum rationem.
Così la ragion pratica può sapere che in realtà quel piacere che ci attrae non è un vero bene, ossia un bene onesto, perché quel piacere non ci stimola, nell’ipotesi, a mettere in pratica la legge morale. Da qui l’obbligo di seguire la retta ragione, mancando al quale, l’azione diventa peccaminosa.
Dalla Bibbia, comunque, il piacere sensibile è paragonato al piacere spirituale, addirittura alla stessa gioia divina, di Dio puro Spirito, che evidentemente non ha sesso. È importante, per questo, avere un concetto analogico del piacere, collegando quello sensibile a quello spirituale. Questo è il modo di evitare sia il rigorismo che il lassismo, sia Origene che Pannella.
Infatti Dio è il creatore di ogni forma e grado del piacere. Sta all’uomo saper godere di un piacere onesto, fisico o spirituale che sia. Chi obbedisce a Dio, che conosce la via della nostra felicità, in barba a Nietzsche e a Freud, sa godere la vita dell’al di qua e quella dell’al di là. Gli altri vivono male quaggiù e alla fine vanno all’inferno.
Così il profeta Isaia osa rappresentare l’amore di Dio per Israele ad un amore dello sposo per la sposa, e trattandosi di sposo e sposa, non si può evidentemente non pensare al piacere sessuale: “Come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te” (62, 5). Non ovviamente che Dio goda sessualmente; ma Egli, tuttavia, come creatore del sesso, contiene virtualmente ed eminentemente (virtualiter et eminenter) anche il piacere sessuale nella Sua infinita Essenza, così come la causa contiene in sé l’effetto.
Dio ha creato tanto il piacere fisico quanto quello spirituale, i quali, nella sua volontà originaria, dovrebbero essere congiunti. Il che non toglie che possano esistere scelte di vita, come la verginità, nelle quali, al fine di una maggiore libertà ed esperienza dello Spirito, il soggetto rinuncia al piacere sessuale, soprattutto in considerazione del fatto che nella vita presente la carne si oppone allo spirito: “Se il tuo occhio ti scandalizza, toglilo”. Si potrebbe però anche dire: “Se non ti scandalizza, puoi tenerlo”.

Influsso del dualismo nel cristianesimo
Il lettore ha ben capito che la maniera dualista, citata sopra, di esaltare la verginità, non era quella giusta. Eppure è in certa misura presente, almeno nel modo di esprimersi, anche nei Padri e nei Dottori della Chiesa, soprattutto in mariologia e nell’apologia della vita religiosa.
È stata l’introduzione dell’etica di Aristotele nel pensiero cristiano nel XIII secolo, operata, come è noto, da San Tommaso d’Aquino, a porre le basi per una sana etica sessuale, veramente conforme alla Scrittura. Bisogna dire al riguardo che Lutero, accusando Aristotele di essere nemico della Scrittura, non ha capito nulla.
Certo, Aristotele non è un teorizzatore della verginità, che del resto Lutero odiava, e tuttavia l’etica di Aristotele, che congiunge la coscienza della legge naturale con quella della debolezza della natura umana, costituisce la vera premessa per il giusto concetto di verginità.
La Chiesa, dal canto suo, già dai primi secoli, definì come verità di fede la superiorità della verginità sul matrimonio, che era stata negata da Gioviniano, che pertanto San Tommaso, per questo motivo, considera eretico[7]. Purtroppo questa eresia è risorta negli anni del post-concilio, sotto pretesto che il Concilio sottolinea l’uguaglianza di tutti i battezzati davanti a Dio. Eppure, il medesimo Concilio in più luoghi ribadisce questa verità[8].
Questa superiorità è data dal fatto che, mentre il matrimonio, per quanto possa essere una vocazione alla santità, ha una finalità, quale la procreazione, limitata ai confini della vita terrena, la verginità, pensiamo al rapporto tra persone consacrate di diverso sesso[9], costituisce sin da adesso un segno ed un esempio della futura umanità della risurrezione, allorché l’amore degli sposi continuerà, anche se avrà condotto a termine la sua funzione procreativa.
Dobbiamo dire pertanto che la verginità consacrata è superiore al matrimonio, ma non nel senso falso, già visto, che solo alla verginità corrisponda lo stato di integrità e purezza della natura; altrimenti, per logica conseguenza, saremo costretti a dire che l’atto sessuale è impurità e corruzione, ma nel senso che essa costituisce una più alta manifestazione della vita secondo lo Spirito.
Probabilmente la concezione dualista fu nota a San Paolo, come sembra risultare da alcune espressioni da lui usate, che hanno un vago sapore di questo genere, come la lotta tra lo “spirito” e la “carne”, la “liberazione dal corpo” (Rm 7,24), il “far morire le opere del corpo” (Rm 8,13), il desiderio di essere “sciolto dal corpo” (Fil 1,23), il passaggio dall’“uomo animale” all’“uomo spirituale”. Le “opere della carne” sono una serie di vizi (Gal 5,19).
Indubbiamente l’ideale della verginità compare col Nuovo Testamento. Il Battista è vergine. Vergine è Giovanni Apostolo, l’intimo di Gesù. Vergine è la Madre del Signore. Vergine è Gesù stesso. Non c’è dubbio che Gesù è il fondatore della vita consacrata cristiana. Gesù propone l’ideale di “alcuni che si fanno eunuchi in vista del regno dei cieli”.
Tuttavia nell’etica evangelica, per quanto austera e spiritualistica, non troviamo i duri accenti contro il corpo e la carne, che sono presenti in San Paolo. Per Gesù, “il Figlio dell’uomo mangia e beve”. Mostra un grande rispetto per la donna, persino per le peccatrici. Egli è premuroso della salute fisica del prossimo, che restaura con numerosi miracoli. Inaugura la sua missione partecipando ad un pranzo di nozze. “Possono gli amici dello sposo digiunare mentre lo sposo è con loro?”. All’Ultima Cena consacra il suo Sangue, seguendo l’uso del banchetto pasquale, al terzo calice. Quindi c’era stata una buona bevuta. Riferendosi all’Eucaristia, Sant’Agostino esclama: “Caro te excaecaverat? Caro te sanat!”.
In Gesù c’è certamente il tema della rinuncia: “se il tuo occhio ti scandalizza, toglilo”; ma mai mostra disprezzo per il corpo o loda il desiderio di lasciare il corpo. I discepoli devono sì essere al riparo dal male, ma nel mondo. Il male, ossia il peccato, non viene dal di fuori, dal mondo materiale, ma dal cuore, dallo spirito, dalla malizia della volontà. Il mondo è cattivo in quanto è sotto il segno del peccato; ma in se stesso è buono e creato da Dio.

Il matrimonio
Per il Vangelo, come per la Genesi, il corpo, maschile e femminile, non è affatto cattivo, tanto è vero che deve risorgere. Questo tema, del resto, come è noto, è presente anche in San Paolo; il che ci fa capire, nonostante alcune sue punte pessimiste ed antifemministe, la perfetta aderenza dell’Apostolo alla dottrina di Cristo e che i suoi attacchi contro il corpo o la carne nulla hanno a che vedere con il dualismo indiano e significano semplicemente il rifiuto del corpo, non in quanto tale, ma in quanto schiavo del peccato. “Corpo di morte” non vuol dire che il corpo procura la morte, ma che il corpo, ferito dal peccato, è mortale.
L’atto sessuale fisiologicamente normale è sempre genericamente buono, anche se non è detto che lo sia sempre dal punto di vista morale. È moralmente cattivo e quindi peccaminoso, quando viene esercitato, sotto la spinta della concupiscenza, fuori o prima del matrimonio, e allora si ha la fornicazione, e in special modo in quell’unione o convivenza moralmente illecita tra uomo e donna, che si chiama “concubinato”: una convivenza che può avere l’apparenza della convivenza legittima, ossia il matrimonio, senza essere tuttavia un vero e completo matrimonio.
Peggio ancora è la convivenza di due soggetti dello stesso sesso, perché lì non si trasgredisce solo la finalità spirituale dell’unione uomo-donna, ma si compromette la stessa funzione fisiologicamente normale del sesso. Il che naturalmente non esclude il dovere di trattare con rispetto anche queste persone. Ma non è qui il luogo per sviluppare questo delicatissimo argomento.
Il vero matrimonio è un patto o contratto cosciente, libero e volontario, socialmente e giuridicamente riconosciuto, tra un uomo e una donna fisiologicamente sani e normali, in sufficienti condizioni economiche, che si piacciono e si amano, col quale davanti a Dio essi si impegnano per sempre (indissolubilità), secondo un amore esclusivo (monogamia) ad essere una cosa sola, nella fedeltà reciproca, nella buona e nella cattiva sorte, aperti alla generazione ed alla educazione della prole ed al bene della società, aiutandosi a vicenda nell’acquisto della virtù. Come si sa, Cristo ha elevato a sacramento, ossia a mezzo di salvezza, questo contratto naturale.
Il matrimonio poligamico concesso dal Corano suppone una grave disistima per la donna e contrasta con il progetto biblico “la sua donna”, ossia “ad ognuno la sua”, e quindi una sola[10], principio, questo, legato alla reciprocità uomo-donna. Questa reciprocità, si badi bene, non si giustifica solo in rapporto ad una conveniente educazione della prole, ma è radicalmente[11] richiesta dalla pienezza dell’essere umano, che per sua essenza è stato creato con questa propensione e questo bisogno.
Come è risaputo, tutto ciò non impedisce le seconde nozze. Il che vuol dire che solo in cielo sarà superato l’elemento dell’esclusività, ma non evidentemente nel senso musulmano a briglia sciolta, perché la doppia relazione celeste è fondata su due successive nozze monogamiche regolarmente contratte sulla terra.
Il bisogno di un partner, che tanto è sentito e a volte tormenta i giovani, non è tanto il bisogno di sfogare l’istinto sessuale, quanto quello di avere una compagna per la vita. È la voce del Genesi che si fa sentire, anche se il giovane non ha mai letto la Bibbia e un giorno si farà sacer-dote o religioso.
Il che ovviamente non vuol dire che ognuno riesca o possa avere il suo partner, si tratti o non si tratti del matrimonio[12]. Resta tuttavia che ciò è richiesto dalla pienezza di umanità dell’individuo, come per esempio nel caso del peso corporeo, che, in linea di principio, come dicono i medici, dovrebbe essere tanto di quanto egli supera il metro: 70 kg per 1m e 70.
Il che naturalmente non vuol dire che anche i grassi e i magri non possano andare in paradiso. Non trovare una donna che faccia al caso proprio come amica o come sposa, può essere una sofferenza; ma non bisogna farne una tragedia. Né bisogna credere che ciò possa essere il segno che Dio ci vuole o alla vita religiosa o a quella sacerdotale. Anche qui infatti, più che mai, occorre instaurare un rapporto onesto e fruttuo-so e una sana confidenza fra i sessi, senza venir meno agli impegni assunti.
D’altra parte bisogna evitare l’avidità dei musulmani con l’ accumulo o collezione delle mogli, come se si trattasse di far collezione di automobili. L’esperienza della partnership non può limitarsi al campo delle relazioni che prevedono il rapporto sessuale e non è impossibile, anzi è auspicabile avere più amicizie nell’altro sesso.

Il perché della verginità
Poniamoci a questo punto alcune domande relative al valore della verginità: da dove trae Gesù l’idea di proporre “ad alcuni” l’obbiettivo della vita religiosa? Che senso gli dà? Non c’è dubbio che nel frangente della natura umana decaduta dopo il peccato originale, Gesù rappresenta la volontà del Padre, ma una volontà di emergenza, una specie di “pronto soccorso”, non l’originaria volontà che comunque resta sostanzialmente valida e un giorno tornerà in vigore.
Gesù, come si esprime Egli stesso, viene a restaurare ciò che il Padre ha voluto “al principio”. Egli, per mandato del Padre, viene a rimediare ai danni conseguenti al peccato originale e ad innalzare la coppia umana ad uno stato di grazia, la figliolanza divina, ignoto nello stato di innocenza originaria.
Nel fondare la vita religiosa, e in particolare con l’esaltazione della verginità consacrata, Cristo si propone tre fini: primo, mostrare la nuova vita secondo lo Spirito; secondo, favorire una maggior dedizione alla vita spirituale, con una migliore vittoria sulla concupiscenza; terzo, far vedere al mondo come la verginità sia un precorrimento della vita eterna.
Con la venuta di Cristo, il comando genesiaco che l’uomo come tale, quindi ogni uomo, è fatto per unirsi alla sua donna, viene in qualche modo condizionato e limitato. Non tutti sembrano chiamati a questa unione, ma alcuni sembrano essere chiamati ad esser “soli”, ossia l’uomo senza la donna e viceversa. Non dunque l’unione, ma la separazione. Una separazione cautelativa – vedi la tradizionale “clausura” – in vista di una più profonda unione spirituale. Una separazione che non dice ostilità, ma amore.
C’è insomma la possibilità per alcuni, “ai quali è dato di capire questo discorso”, di “lasciare tutto per Lui” e quindi di praticare l’astinenza sessuale, il cosiddetto “voto di castità” in vista di una maggiore perfezione: “se vuoi essere perfetto”.
In ogni caso, è chiaro che per la riproduzione della specie, non è necessario né sarebbe possibile che tutti si dedichino al compito riproduttivo. Tutti invece, per quanto a loro è possibile e a seconda delle circostanze, devono poter vivere una sincera reciprocità con l’altro sesso, in vista di un fecondità spirituale al servizio della società e della Chiesa.
Il rapporto uomo-donna costituisce la forma più radicale ed originaria della socialità umana. Per riempire la solitudine dell’uomo, Dio non crea un altro uomo, ma la donna. Il che vuol dire che il fine dell’esser donna, prima ancora che la riproduzione della specie e quindi il matrimonio, è quello di garantire all’uomo la sua piena umanità e l’apertura al rapporto sociale. Non esiste tra due esseri umani un rapporto così intimo e confidenziale, così stretto e saldo, quale quello che può essere realizzato tra l’uomo e la donna.
Due maschi assieme possono realizzare sul piano sociale, politico e culturale grandi imprese, che restano alla storia; ma nessuna opera umana vale tanto quanto vale l’amore, dove la donna è maestra impareggiabile, come dice la sposa del Cantico: “le grandi acque non possono spegnere l’amore, né i fiumi travolgerlo”[13].
Per questo, in tutte le mistiche dell’umanità l’amore tra l’uomo e la donna è il simbolo dell’unione dell’anima con Dio, la massima opera che una creatura umana può fare. Lo stesso rapporto tra il Figlio e il Padre è mediato dallo Spirito Santo, che è lo Spirito dell’Amore.
Che cosa dunque chiede Gesù con la rinuncia al matrimonio? Significa forse una rinuncia alla socialità? Niente affatto. Cristo, con la proposta della vita religiosa, non intende affatto far ritornare l’uomo allo stato di solitudine precedente la creazione della donna, perché tale stato, per esplicita volontà del Padre, è male. Invece Gesù propone un nuovo e migliore rapporto uomo-donna, prefigurativo del rapporto escatologico alla risurrezione finale, il quale, nella pratica della verginità, è fecondo di una generazione spirituale, che edifica la Chiesa, inizio in terra del regno di Dio. Lasciando tutto per Cristo, uomo e donna, i consacrati ricevono già da adesso il centuplo, in mezzo a tribolazioni, e il premio nella vita futura.

La vita nuova donata da Cristo
Siccome il rapporto uomo-donna, nel piano divino, è sostanzialmente un rapporto d’amore (“una sola carne”) e un rapporto di coppia (“la sua donna”), e l’amore continuerà nella futura risurrezione, ci si può domandare se anche in paradiso, benché sia cessata l’opera della generazione, almeno per alcuni, soprattutto per le coppie coniugali, sarà presente il piacere sessuale, come espressione dell’amore.
La Scrittura indubbiamente ci presenta la gioia della vita futura, che, data la presenza del corpo, non potrà non avere aspetti fisici, non solo come gioia spirituale, ma anche con immagini tratte dai piaceri terreni. Isaia parla per esempio di un banchetto con “cibi succulenti e vini eccellenti” (25, 6), quando sappiamo che in paradiso l’alimentazione non sarà più necessaria. Ma l’unione uomo-donna, a parte la procreazione, esprime anche l’amore e l’amore non verrà mai meno. Così pure la gioia dello stare assieme a tavola può essere distinta dall’atto del nutrirsi. Si può mangiare anche da soli. Il banchetto allora vuol rappresentare la gioia della compagnia e dell’amore reciproco.
Non sembra convincente la tesi di chi dice che, siccome godremo di una gioia spirituale somma, non sentiremo la mancanza di quella fisica. Questo è un discorso che sa di platonismo. Giacché allora potremmo chiederci che senso ha la risurrezione del corpo e perché Dio ci ha dato la facoltà di godere con i sensi.
È vero che il piacere fisico vale assai meno di quello spirituale e tuttavia questo non può sostituire quello. Posso infatti dire: è vero che provo molto più piacere a leggere San Tommaso che a bere un bicchiere di coca-cola. Ma la lettura di Tommaso, benché calmi la mia sete di verità, non può sostituire la coca-cola.
D’altra parte è innegabile il valore altissimo della verginità così esaltato dal Vangelo. Ma si può obiettare che siccome Dio è creatore del piacere fisico, nella visione beatifica e nell’unione con Lui il piacere fisico può essere virtualmente contenuto e presente in quello spirituale.
Siamo davanti ad un mistero, circa il quale il Magistero della Chiesa non ci dà chiarimenti. Quello che ci ha detto di recente con San Giovanni Paolo II è che vi sarà l’amore fra uomo e donna. Ma come sarà l’aspetto fisico e sensibile di questo amore, non lo sappiamo.
È terreno aperto alle indagini ed alle ipotesi teologiche. L’ importante è non sconfinare al di là di ciò che la Chiesa insegna, negando per esempio o mettendo in dubbio, alla maniera gnostica del platonismo o dell’induismo, la differenza sessuale oppure cadendo nell’edonismo islamico.
Anche la teoria del gender, che ammette altre forme sessuali oltre a quelle naturali dell’uomo e della donna, è evidentemente incompatibile con una sana escatologia, oltre che naturalmente con le norme dell’ etica sessuale.
Inoltre, per fare una qualche luce su questo mistero, possiamo usare, con prudenza e sobrietà, immagini, preferibilmente quelle bibliche[14], tratte dall’amore come è vissuto quaggiù, togliendo ciò che vi è di cattivo, sconveniente e caduco, e mantenendo il buono, il conveniente e il permanente.
Ma separare convenientemente e chiaramente questi due aspetti contrari è cosa assai difficile; il che, del resto, non ci deve sorprendere, trattandosi di una condizione di vita trascendente, di tale sublimità e misteriosità, che si comprendono le parole dell’Apostolo: “quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano” (1Cor 2,9).
Nell’Eden il Padre aveva voluto l’armonia e la complementarità reciproca tra uomo e donna; ad ogni uomo la sua donna e viceversa, nella fedeltà e nell’amore reciproci, su di un piano di parità e di mutuo rispetto, nell’apertura alla procreazione. Ma se è misteriosa questa condizione primitiva, ancora più misteriosa e sublime è quella escatologica.
Quello che adesso ci è chiaro, anche perché ne facciamo esperienza, è che il peccato originale ha spezzato questa armonia e ha reso l’uno nemico dell’altra. L’uno adesso vuol sfruttare l’altra, trasformata in puro strumento di piacere. L’uno si isola dall’altra e non si cura dell’altra. L’uno si chiude all’altra, lo teme e ne diffida come da una tentazione. I due si divertono a illudersi e a lusingarsi a vicenda. L’uno diventa ostacolo all’altra nella ricerca di Dio, oppure l’uno pretende di sostituire Dio per l’altra. Scomparsa l’esclusività dell’amore, i due si tradiscono a vicenda.
Scompaiono la serietà e la perseveranza dell’amore, che diventa superficiale, una semplice avventura, schiavo della volubilità, degli umori e dei sentimenti del momento. L’uomo opprime e violenta la donna: questa lo seduce e lo inganna col suo fascino stimolando la sua concupiscenza, che spesso è irresistibile e lo porta a cercare soddisfazione anche nell’adulterio o in atti diversi da quelli normali o in rapporti diversi da quello con la donna.
L’inclinazione e la necessità del matrimonio tuttavia restano, e Cristo viene a restaurare la sua bellezza elevandolo alla dignità di sacramento. L’atto coniugale non è soltanto aperto alla generazione, non è solo espressione d’amore ed incentivo all’amore, ma è anche rimedio alla concupiscenza per quei soggetti che non riescono a controllarsi. L’unione degli sposi, secondo l’insegnamento di San Paolo, viene a simboleggiare, a rappresentare e a partecipare dell’unione stessa tra Cristo e la Chiesa.
La reciprocità uomo-donna non esaurisce il suo significato nei limiti della vita presente, come potrebbe sembrare a qualcuno, considerando che la riproduzione della specie, alla quale mira il matrimonio, termina con la vita presente.
Invece dobbiamo dire e ripetere che la futura risurrezione dei corpi significa che ognuno di noi risorgerà col suo corpo determinato dal suo sesso. Chi quaggiù è stato maschio risorgerà maschio; chi è stato donna, risorgerà donna.
Pertanto il detto di Gesù “saranno come angeli” riferito alla domanda circa le sorti del matrimonio alla risurrezione, va inteso nel senso che non vi sarà più aumento numerico della specie, ma non che non ci sarà un qualche rapporto tra uomo e donna, in quanto questo rapporto non è solo finalizzato alla generazione, ma deve anche esprimere la per-fezione finale della persona e dell’amore reciproco, il quale evidente-mente è destinato a durare in eterno.
Cristo dona ai coniugi delle risorse soprannaturali, che, vissute nella comunione ecclesiale, li sostengono e li confortano nel compimento dei loro doveri. Resta comunque che la pratica matrimonio e l’edificazione di una famiglia si presentano oggi più che mai, in una società scristianizzata come la nostra, mete difficilissime, spesso realizzabili solo parzialmente.
Oggi la questione è questa: la Chiesa deve continuare come un tempo a dire: o matrimonio o nessun legame, oppure potrà legalizzare a precise condizioni e dovute garanzie, certe unioni dove c’è la buona volontà, ma l’incapacità oggettiva riconosciuta di compiere tutti i doveri del matrimonio? Ecco la questione del rapporto tra matrimonio e concubinaggio.

Concubinaggio e matrimonio
Il parlare che oggi si fa di “coppie conviventi” è un eufemismo ipocrita, col quale si cerca di celare uno stato o un atto peccaminoso sotto apparenze innocue, come purtroppo oggi accade in diversi casi, come per esempio il parlare di “interruzione della gravidanza” per l’aborto, di “gay”[15] per gli omosessuali, di “pedofili” (=“amanti dei bambini”) per i pederasti, di “eutanasia” (= buona morte) per la soppressione dei malati o di “eugenetica” o “pulizia etnica” per il genocidio.
A questo punto io dico scherzando che anche noi frati siamo dei “conviventi” e per di più dello stesso sesso. In morale è molto importante la lealtà del linguaggio e l’attenzione all’aspetto formale, ossia al motivo o alla ragione dell’atto, più che all’atto stesso preso nella sua materialità.
Altrimenti non comprendiamo perché un medesimo atto dal punto di vista materiale debba essere lecito in un caso e peccaminoso in un altro. Unirsi a una prostituta può essere un atto fisiologicamente normale come l’unione tra marito e moglie. Perché nel primo caso la cosa non è lecita, mentre lo è nel secondo?
Lo stesso dicasi per la verginità. Non è affatto detto che il semplice non esercizio della facoltà sessuale sia una virtù. Può essere causata da frigidità o da malattia mentale o da pregiudizi rigoristi o da impotentia coeundi. È solo uno speciale tipo di astinenza sessuale, dettato da quei nobilissimi motivi che abbiamo visto, che merita la nostra lode e la nostra ammirazione.
Quanto al concubinaggio – detto eufemisticamente “convivenza” – esso vorrebbe evidenziare o esaltare l’amore a prescindere dalla generazione. Esso pertanto sembrerebbe a tutta prima avere qualche somiglianza con l’unione escatologica. Eppure c’è un abisso.
Infatti, a parte il fatto che a questa coppia non interessa assolutamente la visione beatifica, tanto che potrebbe starsene anche all’inferno come i danteschi Paolo e Francesca, la visione beatifica invece è la somma gioia comune della coppia escatologica, per cui in essa l’amore è pienezza e purificazione finale dell’autentico amore, sostanzialmente spirituale, vissuto qui in terra.
Viceversa, l’amore concubinario è misero egoismo e sfruttamento reciproco, magari posteriori ad adulterio, sulla base del più smaccato edonismo, salvo che non si tratti forse a volte di unione sincera, ma che per vari motivi, culturali, psicologici, sociali, ambientali od economici, la coppia, libera da legami precedenti, non se la senta o non sia oggettivamente (e quindi senza colpa) in grado di affrontare una vera e propria unione coniugale, con tutti i pesi, le adempienze, gli impegni e gli obblighi che essa comporta.
Comunque, il peccato o vizio del concubinaggio sta insomma nel fatto che esso non si fonda, né si mantiene su di un’unione spirituale tra i due orientata a Dio, né si alimenta con un rapporto sincero e continuo con Lui, ma dello sfruttamento dell’uno sull’altro, sulla base del piacere o di interessi o finalità disonesti[16]. Questo modo lussurioso ed empio di realizzare il rapporto uomo-donna è contrario alla dignità umana e la degrada al livello delle bestie.
Il concubinaggio può possedere, tuttavia, qualche elemento del matrimonio, senza però realizzarlo in pienezza, ed anzi eventualmente danneggiandolo o screditandolo con dottrine false, soprattutto in relazione l’osservanza delle norme etiche dell’unione coniugale e delle finalità della vera unione uomo-donna.
È noto come anche oggi e forse più che mai siano diffuse idee contro il matrimonio, la famiglia e la verginità, in quanto le leggi della Chiesa in questa materia sono ritenute oppressive. Da qui i movimenti cosiddetti “radicali”, che si autodefiniscono così perché ritengono di andare alla “radice” dell’esistenza umana, dalla quale trarre il criterio e la forza della sua liberazione dalle pastoie medioevali della Chiesa.
La dottrina del gender si inserisce in questo quadro. L’idea di fondo è che non esiste una natura umana fissa, determinata ed uguale per tutti, ma ciascuno è libero di foggiare la propria natura individuale con le mutevoli decisioni della sua libera volontà. Queste idee sono oggi diffuse dai rahneriani.
A ciò si aggiunge un elemento di epicureismo, per il quale non è il piacevole che si fonda sull’onesto, ma è l’onesto che dipende dal piacevole. L’effetto di questa concezione è che la regola dell’agire non è più l’onesto, ma il piacere, non importa il contenuto dell’azione.
Come i catari, i radicali, non ammettono una legge morale naturale riguardante il sesso, ma lo considerano come qualcosa di contingente, di opinabile e di manipolabile, a diposizione della volontà del singolo, ma con la differenza che, mentre i catari relativizzavano il sesso per godere nell’al di là – poveri citrulli! – , Pannella e la Bonino, ben più saggi, lo relativizzano per goderne nell’al di qua.
È evidente in queste idee, l’intento di sostituire il concubinaggio al matrimonio, continuando a chiamarlo “matrimonio”, sempre con quel linguaggio ipocrita, che ho segnalato. Ora, ciò non vuol dire che certe forme di concubinaggio, a certe condizioni, non possano essere legalizzate e tollerate. In tal caso certamente non le chiameremmo più con questo nome, ma le si potrebbe chiamare “unioni civili”, sicché il matrimonio sarà sempre un’unione civile; ma non necessariamente un’unione civile sarà matrimonio.
Anche lo Stato dovrebbe fare questa ragionevole distinzione, per il suo stesso bene; ma è chiaro che la Chiesa si riserva comunque il diritto di farla, anche indipendentemente dal linguaggio usato dello Stato. Essa infatti non potrà mai rinunciare al suo concetto di matrimonio, che non è altro che il contratto naturale elevato a sacramento, condannando nel contempo il concubinato, che continuerà a chiamare col suo nome, perché alla Chiesa non piacciono gli equivoci e le scappatoie, ma usa il linguaggio del suo Signore, che è “sì, sì, no, no”. Faccia lo Stato, dal canto suo, quel che crede meglio nel suo concetto di matrimonio.
La legge civile può peraltro permettere convivenze che, per scusanti, attenuanti o motivi recepibili, non riescono a osservare in pienezza tutti gli obblighi essenziali del matrimonio, a patto che anch’esse possano e vogliano dare il loro contributo al bene comune. L’unione civile può essere dissolubile. Il divorzio civile dal matrimonio religioso per la Chiesa continua ad essere canonicamente nullo.
La grave questione che si pone oggi è se la Chiesa ritiene di prendere in considerazione queste forme di matrimoni imperfetti o incompleti, in quali casi e a quali condizioni. Attendiamo fiduciosi una risposta orientativa ed efficace dai nostri pastori sotto la guida del Santo Padre.
Perché ho inserito il discorso sulla verginità in un tema così scabroso? Perché dobbiamo aver fiducia che anche le unioni più sciagurate sono pur sempre unioni di esseri umani, che comunque posseggono quella coscienza morale, che non può mai estinguersi del tutto, né quindi possono perdere del tutto quella stima dell’amore fra uomo e donna, che nella vita consacrata viene vissuto nella luce della verginità. La misericordia di Dio toglie la distanza infinita tra il peccato e la grazia.

NOTE
1.- E.Denifle, Lutero e luteranesimo nel loro primo sviluppo, Desclée,Lefebvre &C. Editori, Roma 1905.
2.- Cfr. Yoghi Ramacharaka, La suprema sapienza, Fratelli Bocca, Milano 1950; L.Gardet, Espe-rienze mistiche in paesi non cristiani, Edizioni Paoline 1960; Mahendranath Sircar, Hindu mysticism according to the Upanishads, New Delhi 1974; Daniel Acharuparambil, La spiritua-lità dell’induismo, Edizioni Studium, Roma 1986; L.Gardet-O.Lacombe, L’esperienza del sé. Studi di mistica comparata, Editrice Massimo, Milano 1988; René Guénon, Introduzione ge-nerale allo studio delle dottrine indù, Adelphi Edizioni, Milano 1989.
3.- Cfr. O. Lacombe, L’Absolu selon le Vedanta, Vrin, Paris 1937.
4.- La rappresentazione della morte come un “tornare al Padre”, oggi diffusa, apparentemente così pia e sublime, in realtà riflette questa mentalità panteistica, confondendo il cristiano con Cristo.
5.- Cfr. il trattato cataro-manicheo De duobus principiis, edizione critica a cura di A. Dondaine, OP, Istituto Storico Domenicano di Santa Sabina, Roma 1939; Anne Brenon, I Catari. Storia e destino dei veri credenti, Nardini Editore, Firenze 1990.
6.- Ossia deforme ovvero difettoso rispetto all’integrità o alla finalizzazione procreativa fisiologica.
7.- Sum.Theol., II-II, q.152, a.4.
8.- Perfectae caritatis, n.5; Lumen Gentium, nn.42, 44.
9.- Cfr. il mio libro La coppia consacrata, Edizioni Vivere In , Monopoli (BA), 2008.
10.- “Una sola è la mia colomba”, Cant 6,8. Cristo ha una sola sposa, anche se oggi certi ecume-nisti scriteriati parlano di una molteplicità di “chiese”.
11.- Qui abbiamo il vero radicalismo, non quello di Pannella e della Bonino.
12.- Questa reciprocità si nota anche in molte coppie di santi religiosi. Basti per tutti l’esempio di San Francesco e Santa Chiara.
13.- Cant 8,7.
14.- Per esempio il Cantico dei Cantici. Uno spunto può esser dato dal c.2 del Genesi, che si limita a parlare dell’unione uomo-donna, mentre il c.1 è superato, in quanto tratta della riproduzione della specie.
15.- Non so immaginarmi quanto gli omosessuali siano gioiosi. L’orgoglio è una falsa gioia, che nasconde il vuoto interiore.
16.- Esistono per esempio coppie dedite alla diffusione di dottrine ereticali, al terrorismo o ad altri generi di attività criminose.
 

(Fonte: Giovanni Cavalcoli, Isola di Patmos.com, 25 agosto 2015)
http://isoladipatmos.com/wp-content/uploads/2015/09/GIOVANNI-CAVALCOLI-OP-MATRIMONIO-CONCUBINATO-E-VERGINITA.pdf