domenica 29 giugno 2008

Il card. Vallini, successore di Ruini come Vicario di Roma

L'incarico al cardinale Agostino Vallini quale nuovo Vicario di Roma e' stato affidato “tenendo conto della sua esperienza pastorale, maturata dapprima quale Ausiliare nella grande Diocesi di Napoli e poi come Vescovo di Albano; esperienze a cui egli unisce provate doti di saggezza e di affabilità”. Lo ha detto il Papa nell'udienza che ha tenuto questa mattina in Vaticano ricevendo gli Officiali del Vicariato di Roma per il congedo del cardinale Camillo Ruini da Vicario generale per la diocesi capitolina. Il Pontefice ha rivolto il suo augurio al card. Vallini, nominato contestualmente Arciprete della Basilica di San Giovanni in Laterano e Gran Cancelliere della Pontificia Università Lateranense. “La incoraggio - ha detto Benedetto XVI - ad esprimere in pienezza il Suo zelo pastorale e Le auguro un sereno e proficuo ministero, nel quale “sono certo” potrà avvalersi della costante e generosa collaborazione dei Vescovi ausiliari e di tutti i sacerdoti, i religiosi e i laici che lavorano nel Vicariato di Roma. Approfitto anzi di questa felice circostanza, cari fratelli e sorelle, per manifestare a tutti voi, che operate negli uffici centrali della diocesi, la mia viva riconoscenza e il mio incoraggiamento a fare sempre meglio, per il bene della Chiesa che e' a Roma”.
Il Card. Vallini, dal canto suo, ha affermato nella prima intervista concessa alla Radio Vaticana da vicario di Roma: “Per conoscere la realtà di Roma ho bisogno di un periodo di noviziato”, nel quale “chiederò aiuto a tutti, a cominciare dal vicegerente, dai vescovi ausiliari, dai prefetti, dai sacerdoti”. “Chiederò consiglio - ha aggiunto - al Cardinale Ruini, che conosce molto bene la realtà. Dopo di che insieme al Consiglio episcopale vedremo come muoverci, sottoponendo al Santo Padre le scelte che sarà opportuno prevedere”. Quanto alla necessaria collaborazione con le autorità civili, per Vallini “la Stella Polare è la dottrina del Concilio” che chiede “rapporti di collaborazione leale, sincera e di un comune impegno per il bene comune”. “Lo vediamo - ha aggiunto - anche camminando per la strada: c'è tanta gente che soffre. In questo senso la dimensione della Caritas, che per noi non è l'elemosina o l'occasionale aiuto, ma è un'espressione dell'amore di Gesù, paziente nella vita delle persone, dei fratelli sofferenti, sarà un punto sul quale continueremo, come sempre Roma ha fatto, in modo molto lodevole”. Nell'intervista, Vallini ha poi espresso nuovamente “gratitudine” a Benedetto XVI per la fiducia ma anche “trepidazione”, perché, ha spiegato, “Roma è una grande Diocesi ed è la Diocesi in cui è vescovo il Romano Pontefice: collaborare dunque al fianco del Papa, certamente chiede una maggiore attenzione e responsabilità. Spero di mettercela tutta”. Soffermandosi infine sulle indicazioni ricevute dal Papa, Vallini, ha spiegato che il richiamo affinché la Diocesi si mobiliti per far fronte all'emergenza educativa, “dal punto di vista pastorale si traduce innanzitutto nel bisogno di una più attenta, articolata e profonda evangelizzazione. Poi - ha elencato - ci sono gli altri aspetti che riguardano una pastorale familiare, la pastorale giovanile e il collegamento anche con le istituzioni civili, con altre agenzie formative, come oggi si usa dire, cioè luoghi formativi dove agire in sinergia, per quanto pastoralmente ci sarà possibile, è un dovere per il bene dell'uomo”.
Nel giorno del suo addio da vicario del Papa (27 giugno 2008) il Cardinale Camillo Ruini saluta i sacerdoti di Roma, insieme con i religiosi e i laici della Diocesi, e li definisce “compagni di una bella avventura”. “È con sentimento di grandissima gratitudine, e con qualche emozione, che prendo la parola oggi davanti a Vostra Santità, per ringraziarla della fiducia tanto generosamente accordatami in questi anni”, ha detto Ruini, solitamente freddo nelle sue pubbliche apparizioni, al momento di salutare il Pontefice, che lo ha ricevuto in Vaticano con il suo successore, il Cardinale Agostino Vallini. “Mi permetta, Santo Padre, di rinnovare davanti a lei l'espressione della mia profonda, vivissima riconoscenza ai vescovi, ai sacerdoti, ai religiosi e alle religiose e ai tanti laici che hanno operato con me in questi anni e che ora sono qui con noi”, ha detto Ruini. “Sono stati per me, molto prima che dei collaboratori, degli amici, e se mi è consentita un'espressione un po' scherzosa, dei compagni di una bella avventura”, ha quindi affermato il porporato romagnolo visibilmente emozionato.

Il Papa e il Patriarca aprono l’anno paolino

"In un mondo in cui la menzogna è potente, la verità si paga con la sofferenza".
Così il Papa aprendo nel pomeriggio l’Anno PaolinoMaestro delle genti, apostolo e banditore di Gesù Cristo: così il Papa ha definito San Paolo, durante i Primi Vespri della solennità dei Santi apostoli Pietro e Paolo. Nel pomeriggio, Benedetto XVI ha presieduto una solenne cerimonia nella Basilica di San Paolo fuori le mura e, nell’occasione, ha aperto ufficialmente l’Anno Paolino, indetto per celebrare i due millenni dalla nascita dell’Apostolo delle genti. Al rito, ha partecipato anche il Patriarca ecumenico Bartolomeo I, insieme ai Delegati delle altre Confessioni cristiane. L’accensione della “Fiamma Paolina”, che arderà fino al giugno 2009, e l’inaugurazione della “Porta Paolina”: con questi due gesti solenni, Benedetto XVI ha aperto ufficialmente l’anno dedicato a San Paolo, nato duemila anni fa a Tarso, nell’odierna Turchia. Ma il tempo non ne ha logorato la figura e l’importanza: “Paolo – ha detto il Papa nella sua omelia – non è per noi una figura del passato, che ricordiamo con venerazione”. Egli ci parla, invece, ancora oggi, attraverso la sua fede: “La sua fede è l’esperienza dell’essere amato da Gesù Cristo in modo tutto personale; è la coscienza del fatto che Cristo ha affrontato la morte non per un qualcosa di anonimo, ma per amore di lui – di Paolo – e che, come Risorto, lo ama tuttora, che cioè Cristo si è donato per lui. La sua fede è l’essere colpito dall’amore di Gesù Cristo, un amore che lo sconvolge fin nell’intimo e lo trasforma. La sua fede non è una teoria, un’opinione su Dio e sul mondo. La sua fede è l’impatto dell’amore di Dio sul suo cuore. E così questa stessa fede è amore per Gesù Cristo”. “Uomo combattivo che sa maneggiare la spada della parola – ha aggiunto Benedetto XVI – Paolo non ha cercato un’armonia superficiale”. Ha cercato la verità: “La verità era per lui troppo grande per essere disposto a sacrificarla in vista di un successo esterno. La verità che aveva sperimentato nell‘incontro con il Risorto ben meritava per lui la lotta, la persecuzione, la sofferenza. Ma ciò che lo motivava nel più profondo, era l’essere amato da Gesù Cristo e il desiderio di trasmettere ad altri questo amore. Paolo era uno colpito da grande amore, e tutto il suo operare e soffrire si spiega solo a partire da questo centro”.Libertà è un’altra delle “parole-chiave” per comprendere l’attualità di Paolo, ha continuato il Santo Padre, perché “Paolo era libero come uomo amato da Dio che, in virtù di Dio, era in grado di amare insieme con Lui”. Ma la libertà basata sull’amore di Dio, ha continuato il Papa, è legata alla responsabilità “in modo inscindibile” e non va intesa come “pretesto per l’arbitrio e l’egoismo”: “Chi ama Cristo come lo ha amato Paolo, può veramente fare quello che vuole, perché il suo amore è unito alla volontà di Cristo e così alla volontà di Dio; perché la sua volontà è ancorata alla verità e perché la sua volontà non è più semplicemente volontà sua, arbitrio dell’io autonomo, ma è integrata nella libertà di Dio e da essa riceve la strada da percorrere”.Benedetto XVI si è poi soffermato sull’incontro tra Cristo e Saulo sulla via di Damasco. “Perché mi perseguiti?”, chiede il Signore, ed in quel “mi”, ha detto il Papa, “è contenuta l’intera dottrina sulla Chiesa come Corpo di Cristo”: “Cristo non si è ritirato nel cielo, lasciando sulla terra una schiera di seguaci che mandano avanti «la sua causa». La Chiesa non è un’associazione che vuole promuovere una certa causa. In essa non si tratta di una causa. In essa si tratta della persona di Gesù Cristo, che anche da Risorto è rimasto «carne». (…) Egli ha un corpo. È personalmente presente nella sua Chiesa, «Capo e Corpo» formano un unico soggetto, dirà Agostino”. Benedetto XVI ha quindi evidenziato un altro tratto della figura di Paolo: il suo ruolo di evangelizzatore, legato indissolubilmente alla chiamata alla sofferenza per Cristo. “In un mondo in cui la menzogna è potente, la verità si paga con la sofferenza. Chi vuole schivare la sofferenza, tenerla lontana da sé, tiene lontana la vita stessa e la sua grandezza; non può essere servitore della verità e così servitore della fede. Non c’è amore senza sofferenza – senza la sofferenza della rinuncia a se stessi, della trasformazione e purificazione dell’io per la vera libertà. Là dove non c’è niente che valga che per esso si soffra, anche la stessa vita perde il suo valore”.La sofferenza, ha concluso il Papa, rende Paolo “credibile come maestro di verità, che non cerca il proprio tornaconto, la propria gloria, l’appagamento personale, ma si impegna per Colui che ci ha amati e ha dato se stesso per tutti noi”. Poco prima del termine della cerimonia, Bartolomeo I ha rivolto la sua parola ai presenti, ricordando che “la radicale conversione e l’annuncio apostolico di Saulo di Tarso hanno “scosso” la storia nel senso letterale del termine ed hanno scolpito l’identità stessa della cristianità”. Fondamentale, quindi, ha concluso il Patriarca ecumenico, celebrarne la memoria nella Basilica a lui intitolata: “Questo sacro luogo fuori le Mura è senza dubbio quanto mai appropriato per commemorare e celebrare un uomo che stabilì un connubio tra lingua greca e mentalità romana del suo tempo, spogliando la cristianità, una volta per tutte, da ogni ristrettezza mentale, e forgiando per sempre il fondamento cattolico della Chiesa ecumenica”. (Isabella Piro, Radiovaticana, 28 giugno 2008)

sabato 21 giugno 2008

L’Irlanda e l’Unione Europea: un “no” che dovrebbe far riflettere seriamente i cattolici

Il no dell’Irlanda al nuovo progetto di Unione Europea (53,4% contro il 46,6%) ha un eloquente significato, che va considerato in tutti i suoi aspetti. C’è chi afferma che 4 milioni di irlandesi, meno dell’1 per cento della popolazione del continente, non possono bloccare la volontà di 497 milioni di cittadini europei. La verità è però un’altra, sottolineata dal Presidente ceco Vaclav Haus: i politici europei hanno permesso ai cittadini di esprimere la loro opinione in un solo Paese in Europa, e in questo Paese sono stati bruscamente contraddetti.
I pianificatori dell’Europa unita, consapevoli del fatto che qualsiasi trattato europeo sarebbe stato rigettato dagli elettori, hanno deciso di evitare di sottoporglielo. Anziché interpellare direttamente l’opinione pubblica, ventisei Stati membri dell’Unione hanno scelto di approvare il Trattato in Parlamento (diciotto Paesi lo hanno già ratificato).
L’Irlanda è l’unico Paese ad avere indetto un referendum, perché a ciò era obbligata da una sua recente legge. Ma il referendum irlandese ha confermato lo iato esistente tra “Europa reale” e “Europa legale”. Ogni qual volta i cittadini europei sono chiamati alle urne per esprimere il loro giudizio sulle istituzioni comunitarie, le rifiutano con decisione. È accaduto con i referendum del maggio-giugno 2005 in Francia e in Olanda, e si è ripetuto il 13 giugno in Irlanda. «Gli elettori europei – ha scritto Fausto Carioti su “Libero” (14 giugno 2008) – si dividono in due categorie: quelli che hanno bocciato i trattati europei e quelli ai quali è stata negata la possibilità di bocciarli».
I risultati di queste consultazioni elettorali rivelano l’esistenza di una forte divaricazione tra il sentimento popolare e il “potere senza volto” dei “piani alti” di Bruxelles. Lucio Caracciolo ricorda il perfido motto di uno dei “padri” dell’Europa, Jean Monnet: «l’essenziale non è sapere dove andare, ma andarci» (Il trionfo dell’euronoia, “La Repubblica”, 14 giugno 2008). Le strade per raggiungere la meta sono tortuose, ma gli “eurocrati” non rinunciano al progetto di dissoluzione degli Stati nazionali avviato dal Trattato di Maastricht del 1992.
La bocciatura irlandese non è però un semplice “incidente di percorso” ma una brutale battuta d’arresto. Il Presidente della Commissione Barroso ha ammesso che non esiste un “piano B” per aggirare il no dell’Irlanda, anche perché il Trattato di Lisbona rappresentava già un “piano B”, rispetto alla Costituzione Europea bocciata dai referendum del maggio 2005.
Francia e Germania si ripropongono ora come le “locomotive” di un’Europa a più velocità, ma il cammino appare impervio. La data del 1 gennaio 2009, prevista per l’entrata in vigore del Trattato, è irrimediabilmente saltata e non sarà facile approntare nuove soluzioni, almeno a breve termine.
Quanto è accaduto offre un’importante conferma del fatto che niente è irreversibile nella storia, se esiste una ferma volontà di resistenza.
In Irlanda, come già era accaduto in Francia e in Olanda, l’intero establishment si è schierato per l’approvazione del Trattato: i due principali partiti, quello al Governo, e l’opposizione di Sinistra; i sindacati e gli industriali; tutti gli organi di informazione. Eppure una attiva minoranza, guidata da vivaci associazioni come la Irish Society for Christian Civilisation, è riuscita a dar voce all’opinione pubblica, inceppando il meccanismo, montato dai tecno-burocrati e mutando così il corso della storia europea.
Va aggiunto che la principale ragione per cui il nuovo progetto europeo è stato rifiutato è dovuta ai suoi contenuti palesi, e non ai suoi aspetti criptici e farraginosi. Lo ha visto bene il senatore Marcello Pera che ha sottolineato come il no irlandese al Trattato è «l’inevitabile reazione alla cancellazione delle radici cristiane dalla Costituzione e alle eurodirettive, prive di legittimazione democratica, che stravolgono le legislazioni nazionali sui temi bioetici (…). I cattolici irlandesi si sono ribellati ad un’Europa che nella Costituzione mette al bando Dio per orientare verso l’anarchia del relativismo le legislazione nazionali sui temi eticamente sensibili (adozioni ai gay, eutanasia, aborto, “provetta selvaggia”)» (“La Stampa, 14 giugno 2008).
Nel Trattato di Lisbona assume forza giuridica obbligatoria la Carta dei Diritti fondamentali, varata nel dicembre 2000 a Nizza, che costituisce il cuore della nuova costruzione europea. Nella Carta di Nizza, condannata da Giovanni Paolo II pochi giorni dopo la sua promulgazione, non c’è solo il rinnegamento formale delle radici cristiane dell’Europa.
Nell’articolo 21, per la prima volta in un documento giuridico internazionale, l’“orientamento sessuale” è riconosciuto come fondamento di non-discriminazione, mentre due altri articoli del nuovo Trattato sul funzionamento dell’UE, il 10 e il 19, ribadiscono lo stesso principio. Questi articoli traducono in termini giuridici la cosiddetta teoria del gender, che distingue il sesso fisico-biologico dalla tendenza sessuale o “identità di genere”. La sessualità, in questo modo, diventa non un dato di natura, ma una scelta “culturale”, puramente soggettiva. L’art. 9 della Carta dei Diritti di Nizza dissocia inoltre il concetto di famiglia da quello di matrimonio tra un uomo e una donna, aprendo la porta alle unioni omosessuali e alle adozioni di bambini da parte delle coppie “gay”.
La Carta conferisce inoltre ai cittadini la possibilità di ricorrere contro le legislazioni nazionali, con il rischio di creare un meccanismo per cui, attraverso i ricorsi dei cittadini e le sentenze della Corte di Giustizia europea a cui essi adiscono, si arrivi a determinare una giurisprudenza comunitaria che esautori le legislazioni nazionali. I singoli possono tutelare i diritti loro garantiti dal Trattato appellandosi alla Corte di Giustizia, le cui sentenze si applicano direttamente all’interno degli Stati membri. La sovranità degli Stati sarebbe progressivamente liquidata a colpi di sentenze dei Tribunali europei.
Se il Trattato di Maastricht, con l’introduzione dell’euro, ha voluto dare all’Europa una costituzione economica, con il Trattato di Lisbona, stiamo passando non ad una costituzione politica, ma ad una costituzione giuridica, fondata sui nuovi diritti postmoderni, diametralmente opposti ai “principi non negoziabili” a cui tanto spesso si è richiamato Benedetto XVI.
(Roberto de Mattei, Corrispondenza Romana n. 1047 del 21 giugno 2008)

Per una più completa informazione riportiamo di seguito il testo integrale dell’intervista rilasciata dal sen. Marcello Pera a “La Stampa” del 14 giugno 2008 sulla bocciatura del referendum irlandese del Trattato Europeo. «È la vendetta cristiana, la storica risposta dei credenti all’Europa senza Dio».
Il no irlandese al trattato di Lisbona è «l’inevitabile reazione alla cancellazione delle radici cristiane dalla Costituzione e alle eurodirettive, prive di legittimazione democratica, che stravolgono le legislazioni nazionali sui temi bioetici», attacca il senatore teocon del Pdl, Marcello Pera.
«Questa UE è morta perché stata abbandonata dai popoli e ora solo Benedetto XVI può dare un’identità al vecchio continente – sostiene l’ex Presidente del Senato e co-autore del libro papale Senza radici: Europa, relativismo, cristianesimo, Islam – Il cattolicissimo popolo d’Irlanda ha avvertito l’estraneità di un’Europa burocratica e astratta che nega duemila anni di cristianesimo».
D. Perché la cattolica Irlanda affossa l’UE?
R. «Siamo di fronte al suicidio di una Costituzione troppo lontana dai popoli e dalle società europee. Sta crollando un’architettura barocca con espressioni bizantine indecifrabili per gli stessi parlamentari e ignote ai cittadini. È l’ineluttabile implosione di un mostro gigantesco e privo di significato che impone restrizioni, rispetto di patti, vincoli, parametri astrusi ma poi lascia soli i Governi sulla sicurezza e l’integrazione. I cattolici irlandesi si sono ribellati ad un’Europa che nella Costituzione mette al bando Dio per orientare verso l’anarchia del relativismo le legislazione nazionali sui temi eticamente sensibili (adozioni ai gay, eutanasia, aborto, “provetta selvaggia”)»
D. Una rivolta cristiana ai “senza Dio” di Bruxelles e Strasburgo?
R. «La legislazione bioetica in Paesi cattolici come l’Irlanda e l’Italia viene importata dall’Europa e sfugge al controllo democratico. Delle corti europee che decidono della nostra vita nessuno sa nulla, non hanno rapporto con la popolazione. Sono organismi di giustizia che legiferano in modo troppo autonomo sulla base di testi ignoti e le loro decisioni piombano sulle nostre teste. Ormai sono il cavallo di Troia per introdurre all’interno degli Stati la gran parte della legislazione bioetica. Dell’Europarlamento nessuno conosce la funzione. È eletto ma non è terreno di scontro politico, non è niente. L’intera UE è una costruzione complicata, remota, ostile che incombe sulla gente scegliendo tutto sulla vita umana dal concepimento alla fine naturale. E poi non riesce a proteggermi dal vicino di casa».
D. È colpa della “cacciata” di Dio dalla Costituzione?
R. «Sì. Il giorno infausto in cui ha deciso programmaticamente di eliminare Dio, l’Europa si è condannata all’inesistenza, cioè ad essere priva di un popolo, di una storia, di un’identità europei. Senza Dio l’Europa non si unifica. Lo hanno ben capito gli irlandesi, tradizionalmente attenti alle leggi e gelosi della loro insularità. Oggi sprofonda un’Europa atea, nemica che esibisce il volto minaccioso di veti inconcepibili, impone medicine amare, pretende di azzerare i valori non negoziabili. Adesso l’ipocrisia è finita: l’UE ha fallito. Anche in Italia serve il coraggio di dire “no,basta” e ricominciare da un’altra parte».
D. Da dove?R. «Dai temi etici posti da Benedetto XVI, l’unico grande leader di statura e livello europei. Solo Papa Ratzinger può unificare l’Europa. In assenza di un’adeguata classe politica, Benedetto XVI è diventato il vero punto di riferimento dei popoli e l’autentico artefice dell’identità europea. In Irlanda e altrove la gente segue lui. Da Benedetto XVI i cittadini europei traggono identità, dai politici il nulla. Per questo seguono il Papa e affossano l’UE. L’Unione ce l’ha con la Chiesa (e con coloro che su questioni come l’omofobia e il riconoscimento giuridico delle coppie di fatto ne condividono la posizione) perché è la punta avanzata del laicismo europeo. È sull’odio contro la Chiesa e l’apostasia del cristianesimo che oggi si basa l’Europa».

venerdì 20 giugno 2008

Mons. Fisichella, nuovo Presidente della Pontifica Accademia Pro Vita

Benedetto XVI ha nominato nuovo Presidente della Pontificia Accademia per la Vita monsignor Rino Fisichella, Vescovo titolare di Voghenza, Rettore Magnifico della Pontificia Università Lateranense, finora Ausiliare della Diocesi di Roma, elevandolo alla dignità di Arcivescovo.
Il Santo Padre ha infatti accolto la rinuncia presentata da monsignor Elio Sgreccia, per raggiunti limiti d’età (ha compiuto 80 anni).
Nato a Codogno, nella diocesi di Lodi, il 25 agosto 1951, monsignor Fisichella è stato ordinato sacerdote il 13 marzo del 1976; eletto alla Chiesa titolare di Voghenza e nominato ausiliare di Roma il 3 luglio 1998, è stato ordinato Vescovo il 12 settembre 1998.
Già professore ordinario di Teologia fondamentale presso la Pontificia Università Gregoriana, è uno dei teologi italiani più affermati a livello internazionale. E' inoltre consultore della Congregazione per la Dottrina della Fede e membro della Congregazione delle Cause dei Santi.
La Pontificia Accademia per la Vita è stata creata da Giovanni Paolo II con il motu proprio Vitae mysterium dell'11 febbraio 1994.
Il suo compito specifico è quello di “studiare, informare e formare circa i principali problemi di biomedicina e di diritto, relativi alla promozione e alla difesa della vita, soprattutto nel diretto rapporto che essi hanno con la morale cristiana e le direttive del Magistero della Chiesa”.
Mantenendo la sua caratteristica di organismo di studio e di ricerca, in collaborazione con esperti in tutto il mondo, essa si impegna a promuovere una nuova cultura della vita con l'organizzazione di Congressi su tematiche di particolare rilevanza, con la produzione di pubblicazioni approfondite e documentate e con il confronto sincero e franco con le diverse istanze scientifiche, antropologiche, giuridiche ed etiche.
L'importanza ricoperta al giorno d'oggi dalla bioetica, ha spiegato monsignor Ángel Rodríguez Luño, membro di questa Accademia, in un articolo pubblicato da "L'Osservatore Romano" (18 giugno 2008), giustifica che il Presidente della Pontificia Accademia per la Vita abbia d'ora in poi la dignità di Arcivescovo.
II questo modo, ha detto, si mette in evidenza "il suo importante servizio e la fiducia che il Papa nutre nei confronti di questa istituzione che è espressione dell'impegno della Chiesa per la promozione e la difesa della vita di ogni uomo, creato a immagine di Dio".
Dato il grande e importantissimo lavoro che l’attende, grazie alla pressante attualità della materia di cui dovrà occuparsi, formuliamo a Mons. Fisichella i nostri migliori auguri di buon lavoro, assicurandogli la nostra costante preghiera.

E De Sica disse all’Unità: «Non giro “Don Camillo”»

A cent’anni dalla nascita e a quaranta dalla morte, il contrordine-compagni su Giovannino Guareschi (nella foto) può ora dirsi completato: dopo la rivalutazione delle opere letterarie arriva anche - con un saggio di Tatti Sanguineti - quella della loro trasposizione cinematografica. Insomma i film con Peppone e don Camillo, da sempre amatissimi dal pubblico ma un po’ schifati dai cinefili, entrano nel salotto buono della critica. Benissimo. C’è solo da rallegrarsene.Però c’è qualcosa di molto italiano, in questa riabilitazione postuma. C’è una rimozione della memoria, c’è una retorica che vorrebbe far credere che così si è sempre pensato, e che non c’è nessuno che dovrebbe chiedere scusa. Ieri la Cineteca di Bologna, che ha promosso il libro di Sanguineti e altre iniziative su Guareschi e il cinema, ha diffuso un comunicato in cui si dice così: «Ci voleva l’ottimismo del cinema italiano di quegli anni per produrre Peppone e don Camillo».Eh no. Ma quale «ottimismo del cinema italiano». Ma quale «ci voleva». Il cinema italiano del dopoguerra, quello del neorealismo e della commedia all’italiana, con Guareschi non volle avere nulla a che spartire. Lo disprezzò, lo evitò come un turpe monatto. La Cineteca di Bologna è certamente in buona fede, ma quelle parole sono il frutto di una disinformazione ormai affermatasi come verità ufficiale. I fatti sono diversi. I fatti dicono che non si trovò un solo regista italiano disposto a girare un film su don Camillo. Il primo a essere interpellato, alla fine degli anni ’40, fu Alessandro Blasetti, che inizialmente accettò con entusiasmo, ma poi si rese conto che mescolarsi con quel «reazionario» di Guareschi sarebbe stato sconveniente, e declinò l’invito. Fu chiamato Mario Camerini - che poi, nel 1972, avrebbe diretto Don Camillo e i giovani d’oggi - ma anche lui non se la sentì di passare per anticomunista. Anche De Sica fu interpellato: proprio De Sica, il quale, secondo il saggio di Sanguineti, a Guareschi si sarebbe poi segretamente ispirato per Umberto D.: ebbene, De Sica non solo rifiutò, ma si sentì in dovere di farlo sapere a tutti, tramite l’Unità. La vicenda è ben ricostruita nel libro Giovannino Guareschi: c’era una volta il padre di don Camillo e Peppone (Piemme, pagg. 255, euro 14,50) di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro. I quali aggiungono alla lista dei fuggitivi Luigi Zampa, che «solo all’idea di mischiarsi a quel bifolco reazionario di Guareschi disse che non ci pensassero nemmeno».Si dovette andare all’estero, per trovare un regista. Fu il francese Julien Duvivier a girare i primi due film, Don Camillo (uscito nel 1952) e Il ritorno di don Camillo. E in quale clima, li dovette girare. Duvivier - con grande dolore di Guareschi, che avrebbe voluto ambientare il film nella sua Bassa parmense - trovò nella provincia di Reggio Emilia il paese adatto, Brescello, il quale aveva l’essenziale caratteristica di avere municipio e chiesa nella stessa piazza. I comunisti di Brescello non trovarono nulla di strano che nel loro paese si girasse un film, e anzi molti di loro vi parteciparono come comparse, e perfino con ruoli non del tutto secondari: Saro Urzì - per dirne uno - interpretò il Brusco, e più tardi sarebbe diventato sindaco del paese. Ma nonostante l’accondiscendenza del popolo comunista locale, il Partito creò un caso nazionale. Ai compagni della sezione di Brescello si contestò di lavorare al servizio della reazione clerico-fascista, e la questione ebbe il suo epilogo in un’affollatissima assemblea al Teatro Municipale di Reggio Emilia il 4 ottobre del 1951. I funzionari del partito Renzo Bonazzi e Mario De Micheli lessero il capo d’imputazione. Fu Guareschi stesso a sciogliere la tensione con una battuta: «Voi mi accusate, ma io sono riuscito a fare qualcosa di impossibile, qualcosa che ha del miracoloso: io sono riuscito a rendere simpatico un comunista».
Quello era il clima in cui in Italia accolsero i film su don Camillo. Anche se il «no» dei registi italiani fu probabilmente provvidenziale perché Duvivier realizzò due capolavori. Provò Gino Cervi nel ruolo di don Camillo e Guareschi medesimo nel ruolo di Peppone: poi, quando si accorse che Giovannino come attore non era un granché, ebbe l’intuizione di far fare il sindaco a Cervi e di chiamare dalla Francia Fernandel. Mai cocktail fu più riuscito. Quei film ancora oggi commuovono noi che li vedemmo da bambini e - misteriosamente - anche i nostri figli, che in teoria di quegli anni nulla dovrebbero sapere. (Michele Brambilla, Il Giornale, 20 giugno 2008)

Cattolici in rivolta: Europa contro la famiglia

«I famosi Dico, le adozioni alle coppie omosessuali, il matrimonio tra persone dello stesso sesso... Tutto ciò che crediamo di aver chiuso fuori della porta del nostro Paese rischia di rientrare ora dalla finestra dell’Europa». È l’allarme che lancia la professoressa Marta Cartabia, docente di Diritto costituzionale all’università di Milano-Bicocca, curatrice di un corposo saggio intitolato “I diritti in azione” (Il Mulino).
La studiosa, in sintonia con l’«Association pour la Fondation Europa» (Afe) e con varie realtà del mondo cattolico lancia l’allarme per quello che definisce il rischio di «colonialismo giurisdizionale», vale a dire l’invasione, a suon di sentenze delle corti europee, degli ambiti spettanti alle Costituzioni nazionali.
«Teoricamente -spiega la studiosa - l’Europa non dovrebbe intervenire in tema di diritto familiare e questo è sancito anche in un protocollo al Trattato di Lisbona. Ma questi argomenti ritornano attraverso altre vie, ad esempio le direttive anti-discriminazione o le sentenze delle corti europee».
Nel primo caso, si nota l’attivismo dell’Agenzia per i diritti fondamentali di Vienna, che, come dichiarato neanche troppo velatamente dal suo direttore, il danese Morten Kjaerum, non si limita soltanto a combattere la giusta battaglia contro le discriminazioni nei confronti degli omosessuali nel mondo del lavoro, ma considera «discriminatorio» il fatto che i gay non possano sposarsi o adottare bambini.
«Le direttive antidiscriminazione – afferma la professoressa Cartabia – una volta inserite nel diritto europeo diventano il volano per la richiesta di equiparazione delle coppie gay alla famiglia». Per quanto riguarda invece il caso delle sentenze, basta ricordare quella della Corte europea per i diritti dell’uomo, che all’inizio di quest’anno ha condannato la Francia per aver rifiutato a una lesbica l’autorizzazione ad adottare un bambino (del quale, peraltro, la compagna convivente della ricorrente non aveva alcuna intenzione di occuparsi), stabilendo un risarcimento per danni morali di 10mila euro. O il caso della sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, che lo scorso aprile, pur non potendo in realtà intervenire su temi previdenziali, ha dato ragione a un omosessuale tedesco che vi si era rivolto per ottenere la pensione di reversibilità del compagno scomparso, reversibilità non prevista dalle unioni civili in Germania.
«Non c’è dubbio -denuncia Giorgio Salina, presidente dell’Association pour la Fondation Europa -che la convergenza di deputati europei appartenenti a diversi gruppi politici, gli inter-gruppi gay e lesbiche e analoghe organizzazioni europee determinano una forte pressione relativista nelle varie istituzioni». Accade inoltre, continua Salina, che «le varie Corti internazionali, incluse alcune Corti costituzionali nazionali, assumano le reciproche sentenze e le risoluzioni del Parlamento europeo quali fonti del diritto, accumulando giurisprudenza. Si tratta di un metodo surrettizio di legiferare attraverso la magistratura aggirando le competenze riconosciute alle varie istituzioni».
Nelle scorse settimane, la ministra del Lavoro del governo di Parigi, Rachida Dati, in prospettiva dell’imminente presidenza francese del Consiglio dell’Unione, ha affermato: «Il presidente Sarkozy e il governo francese intendono porre il tema dell’adozione di un diritto di famiglia comune nell’Ue, e ciò per evitare onerosi contenziosi in occasione della libera circolazione dei cittadini nei Paesi membri».
Invocare un’uniformità sul diritto familiare significa aprire la questione del matrimonio e dell’adozione per gli omosessuali. Il Trattato di Lisbona, che regola il funzionamento delle istituzioni comunitarie, recepisce anche la Carta dei diritti fondamentali, rendendola vincolante. Non è un caso, fanno osservare Cartabia e Salina, che quel documento «sia aperto a diverse interpretazioni dei diritti relativi all’antropologia umana. Basti ricordare che l’articolo 9 cita il diritto a sposarsi e separatamente il diritto a formare una famiglia». Proprio il tentativo di alcune forze di procedere per via legislativa in sede europea, nel disinteresse generale, potrebbe far rientrare nel nostro Paese concezioni di famiglia diverse da quella sancita nella nostra Costituzione. (Andrea Tornielli, il Giornale, 11 giugno 2008)

La bandiera dell'Arcobaleno: sincretismo o pace ?

Che il cuore dell’uomo aspiri alla pace è una delle constatazione che chiunque osservi la propria esperienza elementare può fare. Tuttavia lo spettacolo tragico a cui assistiamo giornalmente sembra smentire categoricamente tale assunto. È altrettanto evidente infatti che il conflitto è sempre in agguato per i più svariati motivi: un pezzo di terra da condividere, degli affetti comuni, risorse primarie da utilizzare. Le cause seconde dei conflitti sono molteplici e talvolta non individuabili. Alla base di tali cause tuttavia, ve n’è una: l’autosufficienza. La Chiesa cattolica per descrivere tale situazione ha formulato il dogma del peccato originale. La pace o la guerra dipendono dal cuore dell’uomo.
Sin dall’Antico Testamento, gli ebrei avevano individuato una serie di norme, sintetizzate in modo grandioso nel decalogo, che tenessero conto della complessità della natura umana: sia nella sua dimensione verticale, nel rapporto con il Trascendente, che in quella orizzontale, nel rapporto con il prossimo. Una serie di pesi e contrappesi garantivano un certo equilibrio. Tuttavia, la sostanziale novità fu apportata da Gesù Cristo, il quale pur attingendo a pieno dalla tradizione antico-testamentaria, rinnovò nella sostanza il decalogo, spostando l’attenzione sull’aspetto centrale della vita dell’uomo: il bisogno di sentirsi amato e di amare. Gesù arrivò a concepire addirittura, cosa assolutamente assente nelle altre tradizioni religiose, l’amore per i nemici.
Infatti questa affermazione rivoluzionaria viene considerata l’anima “della nonviolenza cristiana, che non consiste nell’arrendersi al male – secondo una falsa interpretazione del "porgere l’altra guancia" (cfr Lc 6,29) – ma nel rispondere al male con il bene (cfr Rm 12,17-21), spezzando in tal modo la catena dell’ingiustizia. Si comprende allora che la nonviolenza per i cristiani non è un mero comportamento tattico, bensì un modo di essere della persona, l’atteggiamento di chi è così convinto dell’amore di Dio e della sua potenza, che non ha paura di affrontare il male con le sole armi dell’amore e della verità” (Benedetto XVI, Angelus del 18 febbraio 2007).
Tutto ciò comporta il pagamento di un prezzo: il sacrificio di sé. È la dinamica che ha portato il Signore Gesù alla morte in croce; il suo sacrificio, offerto una volta per tutte, riassume in sé i sacrifici, piccoli o grandi che siano, degli uomini di ogni tempo. Simbolo evocativo di una umanità pacificata è quindi la croce, non qualsiasi croce, ma quella di Cristo.
La teosofia
Quanto premesso ci serve per postulare una domanda: come mai uomini di Chiesa, laici o chierici che siano, hanno per tutti questi anni ostentato la bandiera arcobaleno e non la croce, come simbolo di pace? Sarebbe interessante interrogare uno per uno coloro che, forse anche inconsapevolmente, hanno affisso sugli altari, ingressi e campanili delle chiese lo stendardo arcobaleno. Tuttavia qualche risposta, per loro conto, potremmo ipotizzarla, richiamando alla memoria la lunga litania degli eventi in cui la chiesa avrebbe brandito la croce come simbolo di sopraffazione, e chiesto successivamente in modo inequivocabile perdono per le manchevolezze dei suoi figli: crociate, caccia alle streghe, roghi di eretici, la lista si potrebbe allungare all’inverosimile. Qui però, taluni dimenticano che la storiografia più aggiornata ha ridimensionato quanto la propaganda anticlericale, soprattutto ottocentesca aveva orchestrato ad arte. Tuttavia per non sottrarsi ad eventuali obiezioni, resta il fatto incontrovertibile che non è il simbolo della croce in sé stesso ad aver bisogno di essere emendato quanto piuttosto gli atteggiamenti degli uomini che, guardando a tale segno possono ritrovare motivo di conversione.A questo punto diventa necessaria un'altra domanda: questi uomini e donne di chiesa sanno qual è l’origine della bandiera della pace? Molti probabilmente no. Altri, pur sapendo non se ne preoccupano più di tanto. Altri ancora hanno trovato in questo simbolo la rievocazione dell’episodio biblico del diluvio universale.
In realtà, le origini della bandiera della pace vanno ricercate, nelle teorie teosofiche nate alla fine dell’800. La teosofia (letteralmente “Conoscenza di Dio”) è quel sistema di pensiero che tende alla conoscenza intuitiva del divino. Essa è sempre stata presente nella cultura indiana, mentre nell'Occidente è rintracciabile negli scritti di Platone (427-347 a.C.), dei neo-platonici, come Plotino (204-270). La moderna versione ha preso forma dalla Società Teosofica, un movimento mistico, esoterico, spirituale e gnostico fondato nel 1875 da Helena Petrovna Blavatsky, più nota come Madame Blavatsky.
La dottrina
Il programma della Società, ispirato alle dottrine orientali dell'induismo e del buddismo, era riassunto nei seguenti tre scopi: 1) Formare un nucleo di fratellanza universale dell'Umanità, senza distinzione di razza, credo, sesso, casta o colore; 2) Incoraggiare lo studio comparato di religioni, filosofie e scienze; 3) Investigare le leggi inesplicabili della natura e dei poteri latenti nell'uomo. La teosofia ha rappresentato un vero momento di rottura con le tradizioni religiose che dominavano precedentemente in Occidente, e ha permesso a molte filosofie e religioni indiane di divenire negli anni popolari in Europa e Stati Uniti.
Tali principi di fondo si sono combinate con alcune pratiche come il vegetarianismo e lo sviluppo delle facoltà paranormali. la dottrina della Società Teosofica è contenuta nei due principali libri della Blavatsky, Iside svelata e La dottrina segreta.
Il suo pensiero potrebbe essere riassunto nei seguenti punti:
Coscienza universale ed individuale: gli eventi accadono per leggi che soggiacciono ad un Paradigma Universale (paragonabile al concetto di Dio, o di Logos, detto del Sole o cosmico), che impregna tutto di coscienza.
Gnosticismo dualista (coscienza e materia): gli esseri umani hanno un proprio “se stesso più elevato” divino ed immortale, cui possono rivolgersi con la preghiera, ma essi devono operare per collegare la propria natura con quella divina, altrimenti periranno (principio della negazione dell'immortalità personale).
Reincarnazione e trasmigrazione dell'anima: concetto preso dall'esoterismo buddista con la variante che i teosofici non credono nella regressione: l'uomo non può reincarnarsi in un animale o in una pianta. Egli dovrà invece reincarnarsi almeno ottocento volte, secondo un disegno determinato dal Karma, il ciclo del destino.
Concezione settenaria dell'universo, dell'uomo e della civiltà umana: gli elementi essenziali sono monadi che discendono attraverso sette piani di progressiva materializzazione, durante i quali si è formata l'umanità, ritornando poi, in ascesa attraverso sette fasi di evoluzione: sthula-sarira (il corpo fisico), linga-sarira (il corpo astrale), prana (il respiro della vita o corpo mentale), kama (il desiderio o corpo intuitivo), manas (la reincarnazione), buddhi (lo spirito universale), e atman (il sé cosmico e divino). Esistenza dei Maestri segreti (mahatma), esseri perfetti dotati di grande saggezza e di potere mistici, che hanno completato il ciclo delle reincarnazioni, e che possono aiutare a raggiungere il massimo livello di evoluzione.
Il New Age
Le analisi culturalmente più sofisticate riconducono il New Age alla categoria del revival, "movimento di risveglio", ben nota agli storici delle religioni soprattutto in ambito anglo-americano. Benché, fra i gruppi cristiani, siano spesso proprio i pentecostali ad attaccare nel modo più virulento il New Age, considerandolo un fenomeno diabolico, non mancano studiosi che propongono un’analogia fra il New Age e il pentecostalismo. A partire dai primi anni del secolo XX il pentecostalismo si presenta come movimento di risveglio di un mondo protestante ampiamente inaridito e sclerotizzato, così il New Age si pone come movimento di risveglio, nell’area culturale di lingua inglese, non più del mondo cristiano ma del mondo laico se non laicista. Anche questo ambiente - la cui organizzazione culturale era largamente affidata alle logge massoniche e alla più discreta, ma non meno importante, influenza della Società Teosofica - si trovava, a partire dagli anni intorno alla Seconda guerra mondiale, in uno di quegli stati di freddezza e di aridità che producono così spesso nella storia i fenomeni di revival.
Gli ambienti massonici e teosofici, in particolare, denunciavano una preoccupante incapacità di interpretare i tempi e di svolgere il consueto ruolo di organizzazione culturale, pur non avendo, naturalmente, perduto le loro diverse capacità di influenza sociale e politica. Nel mondo teosofico il disagio si era tradotto in una serie di scismi, il più rilevante dei quali - almeno nel mondo di lingua inglese - era stato promosso da Alice Bailey, nata nel 1880 e scomparsa nel 1949. Proprio Alice Bailey - che aveva soggiornato ad Ascona, presso quel luogo di incubazione di molte idee del New Age contemporaneo che era stato il Monte Verità - aveva cominciato negli anni’20 a utilizzare l’espressione "New Age" nel senso attuale; quest’uso era diventato corrente fra i suoi discepoli negli anni’40. Alice Bailey morì nel 1949 senza vedere l’"evo nuovo" che aveva enigmaticamente annunciato.
Visione della realtà
Specifico della mentalità New Age consiste nel non avere nessuna visione del mondo e nessuna dottrina, ma nel predicare la libertà più assoluta In realtà, ciò è vero solo teoricamente, perché il New Age non potrebbe avere nessuna unità se le opinioni diverse che vi si manifestano non coesistessero su una trama di fondo che presenta una serie di elementi comuni.
La questione della verità
Potremmo riassumere tale questione con un slogan: non esistono verità assolute. Espressa in questi termini, la premessa sarebbe tutt’altro che nuova: il relativismo è antico come la filosofia, se non come l’umanità decaduta. Tuttavia esistono diverse forme di relativismo, e il relativismo del New Age si specifica per il suo carattere volontarista. Ciascuno può, letteralmente, creare il proprio mondo, e ciascun mondo soggettivamente creato avrà la sua verità, non meno "vera" - e non meno "falsa" - rispetto a quella del mondo creato da un altro.
L’uomo
La visione dell’uomo del New Age si riassume nello slogan dell’attrice Shirley MacLaine - che da anni svolge il ruolo di missionaria internazionale del New Age attraverso libri, film e programmi televisivi - : "Noi siamo Dio". Più esattamente al fondo di ognuno di noi si trova una scintilla divina, che è la stessa energia cosmica universale in una delle sue molteplici manifestazioni, fra cui - peraltro - non possono essere istituite gerarchie. L’uomo-Dio del New Age è da una parte onnipotente; tale onnipotenza si rivela, da un altro punto di vista, come onnidipendenza, se si considera il ruolo preminente che hanno nel New Age la reincarnazione e l’astrologia.
Il Cristo
Il New Age parla anche volentieri di una realtà che chiama "il Cristo" ma - seguendo tutta una tradizione esoterica e gnostica - ha cura di distinguere "il Cristo" da Gesù di Nazareth come personaggio storico. Gesù non era "il Cristo", o almeno non lo era in modo diverso da Buddha o da chiunque sia in grado di entrare in contatto con la scintilla divina che porta dentro di sé. È questa scintilla, propriamente, che costituisce "il Cristo" come principio divino all’interno dell’uomo.
La morale
Altro tema del New Age è il rifiuto della nozione di peccato - considerata insuperabilmente dogmatica e in ogni caso tipica della superata Età dei Pesci, visto che la nuova era è quella dell’Acquario - e la sua sostituzione con la nozione di malattia. Il New Age non nega che esistano nel mondo comportamenti inadeguati - è sufficiente considerare l’orrore che gli ispirano i comportamenti anti-ecologici -, ma li ascrive a limitazioni fisiche o psichiche che possono essere assimilate alla malattia o a forme di "dipendenza" possibili da superare tramite le numerose forme di terapie e di recovery così largamente disponibili nell’ambiente del New Age.
Conclusione
Questa breve panoramica di due delle più insidiose visioni della realtà che stanno condizionando la cultura dominante occidentale ci è stata utile per inquadrare in una adeguato contesto di pensiero il successo che ha avuto il simbolo per eccellenza del pacifismo mondiale, non escluso buona parte del mondo cattolico: la bandiera della pace.
Diverse sono le versioni sull’origine di questa bandiera. Una di queste è riconosciuta ad Aldo Capitini (fondatore del Movimento Nonviolento) che nel 1961 la usò per "aprire" la prima Marcia per la Pace Perugia-Assisi. Un’altra segnala che la sua origine risale al racconto biblico dell'Arca di Noè e che quindi è un simbolo cristiano a tutti gli effetti. Un’altra ancora spiega che la bandiera arcobaleno è il simbolo della città di Cuzco, capitale dell'impero Incas. Fu scelta, dall'imperatore del tempo, perché in quella vallata ogni volta che pioveva si formavano degli arcobaleni brillantissimi. Dalla Francia arriva la spiegazione che quel vessillo è il simbolo del movimento delle cooperative francesi creato intorno al 1920. Un'altra viene fatta risalire al 1950, la bandiera fu utilizzata in America come simbolo della pace dalle associazioni pacifiste e nonviolente. Altri dicono che sia stata “inventata” dal filosofo Bernard Russel nel 1956 in Inghilterra.
Tra tutte queste ipotesi spicca la tesi secondo la quale la bandiera arcobaleno1. è il simbolo dei movimenti di liberazione omosessuali. Sono diversi i siti web gay che rivendicano la proprietà della rainbow flag. Questa si differenzia dalla cosiddetta bandiera della pace principalmente per l'assenza della scritta PACE, ma anche perché la disposizione dei colori è speculare (il rosso è in basso nella bandiera della pace, in alto in quella dei gay), e infine perché la bandiera della pace prevede sette strisce di colore al posto di sei. La bandiera arcobaleno fu disegnata da un artista di San Francisco, Gilbert Baker, nel 1978, su richiesta della comunità gay locale in ricerca di un simbolo (a quei tempi il triangolo rosa non era ancora diffuso). Baker disegnò una bandiera con 8 strisce (successivamente sei) colorate: rosa (per il sesso), rosso (per la vita), arancio (per la guarigione), giallo (per il sole), verde (per la natura), turchese (per l'arte), indaco (per l'armonia) e viola (per lo spirito). Infatti questa bandiera sventolò per la prima volta a San Francisco nella marcia del Gay pride del 25 giugno 1978.
Comunque al di là di chi sia stato il primo ad ostentare tale simbolo resta il fatto incontestabile che si presenta come il più adatto a rappresentare un idea, oggi molto in voga, secondo la quale non ci sarebbe alcuna verità assoluta: tutte le opinioni hanno la medesima dignità e quindi meritevoli di spazio. Secondo questo tipo di idea per esempio è possibile mettere sullo stesso piano partiti politici o gruppi culturali che rivendicano, legittimamente, la difesa della dignità della donna, e gruppi, come è accaduto recentemente in Europa, che rivendicano la depenalizzazione dei reati di pedofilia. Si tratta ovviamente di aberrazioni possibili solo all’interno di una mentalità relativistica come quella che caratterizza le nostre società occidentali.
La bandiera arcobaleno è una valida sintesi per rappresentare questo sincretismo; infatti l’arcobaleno nel New Age rappresenta il passaggio dall’umano verso il super-uomo divino. Sul ponte dell’arcobaleno (nel senso induista: Antahkarana) avviene l’unione di Atman e Brahman, dell’uomo singolo e dell’Energia cosmica (Dio). L’unità quindi è raggiungibile attraverso una sintesi, un’armonia e una tolleranza globale fra le diverse filosofie, ideologie e religioni. Così la pace sarà possibile. Pertanto " va considerato nel modo più severo l'abuso di introdurre nella celebrazione della Santa Messa elementi contrastanti con le prescrizioni dei libri liturgici, desumendoli dai riti di altre religioni" (Congregazione per il Culto divino e la disciplina dei Sacramenti, Istruzione Redemptionis Sacramentum, n 79 ).
Il ricorso a quelle filosofie orientali, che estrapolate dal loro contesto storico- sociale- economico-religioso e ben sintetizzate dalla New Age, si inserisce perfettamente nel contesto occidentale, preoccupato di marginalizzare il discorso sulle sue autentiche radici, finisce per assumere come categoria fondamentale il relativismo etico imponendo al mondo culturale politico sociale e religioso una nuova forma di “dittatura”. (Agenzia Fides 20/6/2008)

martedì 10 giugno 2008

Gad Lerner sulla Chiesa cattolica: opinioni tendenziose.


Per chi non l’avesse ancora capito, ecco un ulteriore esempio del pensiero poco obiettivo di Gad Lerner, un individuo il cui aspetto a volte contratto da una smorfia dolorosa, lascia intuire, a farci attenzione, un animo altrettanto irregolare e psicologicamente problematico. Riportiamo letteralmente: «Non mi piace l’Angelus domenicale del Papa proiettato sui maxi-schermi di piazza Duomo, a Milano, oltretutto su iniziativa unilaterale del sindaco Letizia Moratti, che non ha ritenuto neppure opportuno interpellare l’arcivescovo di quella cattedrale. Perché la sua è una manifestazione politica, che ha ben poco a che fare con la devozione.
Parto da un dettaglio marginale — l’esempio milanese — per dirvi il senso di falsità che avverto in tutta la disfida dell’Università La Sapienza, e il male che sta facendo alla chiesa stessa per prima. Non mi piace il clima di lesa maestà costruito intorno a Benedetto XVI. Colui del quale i credenti cattolici lo riconoscono vicario in terra, Gesù di Nazareth, affrontò rischi maggiori di qualche sberleffo goliardico o di una contestazione anticlericale.
Né l’Italia né il mondo hanno bisogno oggi di una chiesa trionfatrice attraverso l’esibizione di forza numerica, come l’ha convocata in Piazza San Pietro il cardinale Ruini, quasi occorresse lavare un’onta subita. Posso dire, anche se non sono battezzato, che ci vedo assai poco di evangelico in questo abusare del ruolo ecclesiale in chiave ossequiosa e gerarchica?
L’Avvenire, che ha letteralmente nascosto in pagina interna, tra mille eufemismi, la giornata mondiale di penitenza saggiamente promossa dal Papa per chiedere scusa dello scandalo dei preti pedofili, esulta quotidianamente della frattura inferta allo schieramento laico. È vero. La novità è che una parte dell’intellighenzia laica converge in materia di difesa della vita e di morale familiare sul punto di vista della dottrina cattolica. Non solo. Un sistema politico frantumato guarda con appetito a quel 5% di voti che la Conferenza episcopale italiana (Cei) può ancora spostare di qua o di là: scatenandosi in un inseguimento della porpora, a prescindere da alcuna coerenza nella fede o tanto meno nella condotta di vita.
Temo che la componente oggi egemone nella Cei abbia accolto quella frattura tra l’intellighenzia laica e l’ossequio politico neoclericale come un dono della provvidenza. Poco importandole l’autenticità del senso religioso, e relegando in secondo piano la fede come testimonianza.
Per questo, credo che il ritorno alla tradizione, fino a questa specie di nostalgia per il Papa-re, manifesti una debolezza e non certamente una forza rinnovata della chiesa.
Non mi turba affatto lo spazio recuperato in tutto il mondo dalla religione nel discorso pubblico, e anche nell’argomentare politico. Ma allora dico ai miei amici cattolici impegnati nel sociale e in politica: cosa aspettate a protestare contro questo modo strumentale di intendere la religione? Non è forse il contrario della carità cristiana? Di che cosa avete paura? Perché lo dite solo sottovoce?».
Che ne dite? Penso ce ne sia abbastanza per concordare che il bravo Lerner ha perso un’ulteriore occasione per starsene zitto.
Sparare sentenze, spesso, come è successo, anche al "vetriolo", su argomenti che non gli sono congeniali, rischia di rivelare la sua incapacità di formulare un giudizio sereno e imparziale sul mondo cattolico in genere e sulla persona del Papa in particolare. A questo punto non riesce poi così tanto inspiegabile il fatto che le sue, perché no?, "farneticazioni", al pari di tante altre, siano ospitate su “Nigrizia” (febbraio 2008), un periodico “missionario cattolico”, molto sensibile sul sociale che, anch’esso dimentico di tempi migliori, accoglie e rilancia volentieri espressioni molto avanzate del dissenso cattolico: in una parola le teorie di quei rappresentanti della moderna “intellighenzia” catto-laicista, la cui “missione” sembra essere quella di contestare (talvolta anche di demolire), a qualunque titolo e a qualunque costo, il magistero della Chiesa cattolica, Papa in testa. (mario, 10 giugno 2008)

Famiglia Cristiana attacca Veltroni sulla “pagliacciata” del “Gay pride”


In un editoriale che apparirà sul prossimo numero in edicola, Famiglia Cristiana definisce “una pagliacciata” il Gay Pride di Roma, dove “gli insulti alla Chiesa e al Vaticano” si sono sprecati. Il destinatario delle critiche del settimanale cattolico non e' però la manifestazione degli omosessuali, quanto il leader del Pd, Walter Veltroni, che ha mandato un suo rappresentante al corteo della capitale. Veltroni “fatica” - secondo la testata dei Paolini - a capire l'importanza dei cattolici e della loro sensibilità. “Non ha neppure balbettato una critica alla Bonino che ha dato del patetico al Papa, ma al tempo stesso si fa rappresentare da un suo ministro-ombra alla pagliacciata del Gay Pride di Roma, dove gli insulti alla Chiesa e al Vaticano si sprecano”, si legge nell'editoriale. “Ma i cattolici democratici non erano co-fondatori del Pd?”, si chiede provocatoriamente la rivista. (Petrus, 10 giugno 2008)

giovedì 5 giugno 2008

La pornografia: un male da debellare nella società malata di sesso

Il Santo Padre Benedetto XVI, ricevendo in udienza i partecipanti al Congresso promosso dall’Università Lateranense in occasione del 40° anniversario dell’Enciclica Humanae Vitae di Paolo VI, ha affermato: “Se l’esercizio della sessualità si trasforma in una droga che vuole assoggettare il partner ai propri desideri e interessi” allora ad essere minacciata è “la dignità della persona umana”. Tant’è vero, aggiungiamo noi, che i crimini a sfondo sessuale nella nostra società occidentale sono in vertiginoso aumento. Stranamente, però, non si afferma che la causa principale di tale situazione è il grande boom della pornografia.
Al contrario oggi si afferma a gran voce e impunemente che la colpa di tutte le perversioni, di tutti i delitti a sfondo sessuale, dello sfruttamento della prostituzione e della violenza sulle donne, in poche parole di tutto ciò che è collegato alla pornografia, è da addebitarsi unicamente alla Chiesa, per la sua totale “chiusura” mentale, per le devastanti “insicurezze” inoculate negli individui, fin dalla loro più tenera infanzia, attraverso i suoi continui autoritari e coercitivi “no”.
Questa è l’ultima, in ordine di tempo, brillante trovata, proposta e convintamente difesa dalla cultura laica, impersonata questa volta dal Prof. Pietro Adamo docente di Storia Moderna e autore del libro “Porno di massa”; da un Riccardo Schicchi imprenditore storico del porno italiano, dal sorriso sempre più beota; e infine dalla pornodiva Milly D’Abbraccio, a cui i segni inesorabili del tempo celavano impietosamente i tratti di una possibile bellezza; tutti e tre ospiti di riguardo nella trasmissione Exit di Ilaria d’Amico di “La 7”, peraltro in certi momenti, anche in questa occasione, decisamente squallida sia per i contenuti che per il modo di proporli. Decisamente nessun contributo positivo si è potuto cogliere da tale inchiesta pseudo giornalistica; neppure dagli interventi di chi ne aveva più titolo, l’interlocutore clericale (un Don Mazzi “scaciato” e arruffato più del solito), che si è guardato bene dal protestare decisamente di fronte a tanta stupidità gratuita.
Certo, il problema del porno esiste: è sotto gli occhi di tutti. Sempre più frequentemente, e neanche più tanto sottilmente, la pornografia si infiltra prepotentemente nella pubblicità e nei mezzi di comunicazione di massa, in particolare nelle hot line, nei siti pornografici di Internet, nei film hard, nelle riviste a luci rosse. Il consumo pornografico inizia spesso già nell’età puerile e interessa la grande maggioranza dei ragazzi tra i dieci e i quattordici anni. I fumetti pornografici sono abituali nei bambini dai sette anni in su, e negli ambienti culturalmente più poveri, rappresentano quasi sempre l’unica lettura extra-scolastica. Spesso i figli leggono di nascosto i giornali osceni e vedono le cassette pornografiche dei loro genitori immaturi.
Oggi, per la stragrande maggioranza degli europei la pornografia è un fatto pacifico, quasi naturale; non è per nulla sentito come un problema sociale, come manifestazione di un grave disagio morale.
Ciò che preoccupa maggiormente in questo fenomeno è che intorno alla pornografia vi è un forte consenso ideologico: essa è quasi universalmente accettata perché corrisponde ad una concezione della vita e dell’uomo fondamentalmente di stampo neo-pagano.
Una ideologia che trova le radici nel 1939 in quel Wilhem Reich autore della “Rivoluzione sessuale”, in cui proclamava il diritto all’amore come puro incontro di sessi, puro gioco, pura ricerca del piacere fine a se stesso, come principio rivoluzionario alla base di una nuova società. Il Reich parla esplicitamente del sesso (con i corollari di contraccezione e aborto) come di un diritto inalienabile, della distruzione della famiglia tradizionale come strumento di battaglia per la trasformazione sociale. I gruppi dell’estrema sinistra, dei radicali, degli anarchici e le potentissime lobby omosessuali si rifanno fondamentalmente a questo autore.
Dobbiamo renderci conto che il fenomeno pornografico del XXI secolo è radicalmente diverso dal passato: la pornografia c’è sempre stata (vedi i dipinti ritrovati nel lupanare dagli Scavi archeologici di Pompei), ma oggi è ben diversa: non solo per quantità e diffusione (basti pensare a Internet che satura sistematicamente le caselle di posta elettronica con pubblicità a sfondo sessuale), ma anche e soprattutto per il castello ideologico che la supporta. Al di là del nudo integrale, proposto ormai in tutte le salse e in tutte le occasioni, oggi sono molto più preoccupanti le motivazioni e le teorie che avallano il fenomeno pornografico: proponendo infatti il consumo del loro prodotto come un fatto di crescita culturale, di progresso sociale, di maturità individuale basata sull’esercizio della libera volontà di ciascuno (cfr. in proposito le farneticazioni di Schicchi e della D’Abbraccio), i pornografi riescono brillantemente a mascherare le loro reali intenzioni, mirando piuttosto al conseguimento di ingenti profitti economici, smisurate ricchezze, provenienti da un mercato in continua espansione, che non richiede alcun investimento importante e alcuna seria preparazione professionale.
La radice concettuale della moderna pornografia trova quindi in Reich la sua chiave interpretativa, laddove egli afferma che tutti i mali della storia derivano dalla repressione sessuale, di cui unica responsabile ovviamente sarebbe la Chiesa Cattolica, con i suoi tabù e divieti nei confronti di una vita felice e appagante, vissuta in pienezza, liberi da condizionamenti morali e sessuali di qualunque tipo.
Le gravi derive che ciò comporta sono facilmente intuibili: libera sessualità intesa come personale autodeterminazione di usare a piacimento del proprio corpo e del corpo altrui; uso prettamente meccanico del corpo, come ampliamento dell’esperienza umana; negazione di qualsiasi responsabilità derivante dal vivere una serena e normale sessualità (matrimonio, fedeltà, apertura alla procreazione); equiparazione dell’attività sessuale ad un qualunque altro bisogno fisiologico naturale, disconoscendo qualunque forma di libera scelta, e arrivando in tal modo alla giustificazione di qualunque forma di violenza per soddisfarlo. La pornografia è un mostro insaziabile: il suo consumatore ha bisogno di dosi sempre più massicce in termine di stimoli sessuali e questo spiega tutte le aberrazioni cui fa ricorso, non ultima la pedopornografia, sia etero che omo.
La nuova (a)moralità del pornofilo è costituita dunque da tutta una serie di perversioni nelle quali egli non riesce più a scorgere il dramma, l’artificioso, l’abnorme, il tragico e a volte anche il ridicolo. La sua mente non è più in grado di avere la reale percezione della persona che gli sta di fronte, sia essa uomo, donna, bambino, poiché la loro vera immagine viene automaticamente annullata e sovrapposta da un’altra immagine virtuale, l’immagine pornografica, quella distorta e maniacale che domina e schiavizza la sua mente.
Concludendo: come si combatte la pornografia? Con le pseudo inchieste giornalistiche che ammiccano ad essa, esibendola in dosi massicce, oppure per mezzo di una sana educazione al pudore, a un rinnovato senso di Dio, al rispetto verso se stessi e gli altri, come il Santo Padre Benedetto XVI ed i suoi predecessori hanno sempre ribadito?.
“In una cultura sottoposta alla prevalenza dell’avere sull’essere - ha ricordato recentemente il Papa -, la vita umana rischia di perdere il suo valore. Se l’esercizio della sessualità si trasforma in una droga che vuole assoggettare il partner ai propri desideri e interessi, senza rispettare i tempi della persona amata, allora ciò che si deve difendere non è più solo il vero concetto dell’amore, ma in primo luogo la dignità della persona stessa”. Ecco allora, conclude, che come credenti abbiamo il dovere di reagire, di ribellarci a siffatte impostazioni del problema, che risponde più alla ricerca di profitti economici che alla salvaguardia morale della nostra società; per questo non possiamo permettere a nessun costo che il dominio e la strumentalizzazione della tecnica mediatica abbiano ad inficiare la “qualità dell’amore autentico e la sacralità della vita”. (mario, 4 giugno 2008)

A che serve la FAO?

Suite a cinque stelle per combattere la povertà
Se la FAO non esistesse, ogni anno 1.188.493 persone eviterebbero la morte per fame. Tanti sono infatti gli individui che potrebbero campare, con almeno 1 dollaro al giorno per 12 mesi, ove i 433.8 milioni del budget annuale della Food and Agricolture Organization andassero ai bisognosi, invece che alimentare questo inutile ente dell'Onu. Moltiplicato per i suoi 63 anni di esistenza, gli individui sulla coscienza della FAO sfiorerebbero i 75 milioni. In compenso migliaia di professional dell'agenzia continuano a condurre una vita da sogno, coccolati in una babele di sprechi e privilegi a spese dei Paesi donatori e di quello ospitante, cui spetta il conto della logistica: l'Italia. Fedeli al vero motto del carrozzone umanitario. Non "Food for all" ma "Food for Fao".
Qual è il più grande organismo per gli aiuti alimentari delle Nazioni Unite con sede a Roma? La risposta pare scontata: la FAO. Invece no. L'agenzia in prima linea nella lotta contro la fame è il World Food Program, con base sempre nella capitale (via Viola). Esso dispone del doppio dei dipendenti FAO (8000 contro 4000), e di un budget annuale 7 volte tanto (2.9 mld di $). Alimenta 73 milioni di persone in 78 Paesi. Mentre la mission della FAO è in sostanza informare sui bisogni della popolazione. Una specie di enorme ufficio studi, di cui il WFP non è l'unico clone. Anche in campo agricolo esiste un'agenzia specializzata dell'Onu, l'IFAD, che raccoglie fondi per i contadini denutriti. E ha un bilancio pari a un terzo di quello FAO. La sede? Ancora Roma, via Del Serafico.
Che ci fanno casse di Champagne, delicatessen, capi firmati e profumi alla page nei sotterranei del quartier generale FAO alle Terme di Caracalla, tra i poster di africani morenti? Sono solo una parte dei prodotti offerti a prezzi super-politici ai 400 dirigenti, nel market "Commissary" situato al primo piano interrato. Lo spaccio, in virtù dell'extraterritorialità, sarebbe riservato ai diplomatici. Ma lo scambio di tessere è pratica comune. Come il reselling. Completano il carnet per i 2500 impiegati la boutique al ground floor (con sconti del 40% e schiccherie senza marchio FAO), un distributore interno con benzina sottocosto, una banca, un presidio medico con ambulanza, una fermata "privata" del metrò.
Già nel '94 il neo direttore Diouf lanciò la "grande riforma" per ridurre i mostruosi costi dei dipendenti. Un esercito di consulenti, collaboratori, personale a contratto e associato, diviso tra infiniti comitati, sezioni e sottosezioni. Con quote fisse riservate senza merito agli originari di culture dalla scarsa produttività. Ciò che non cala mai sono però gli stipendi. Un archivista di basso livello (P1) guadagna come il manager di una media azienda. Coordinatori P3 e Senior commodity specialist sopra i 100.000 euro. Nel 2007 Diouf ha rilanciato l'inefficace riforma con le stesse parole di 13 anni prima. Creando la paradossale figura del controllore dei controllori.
I lavori dentro le sedi FAO non finiscono mai. Pareti, pavimenti, mense, negozi, sale conferenza, sistemi elettrici, strumenti informatica e video. Tutto è in perenne rifacimento. Gli appalti se li aggiudicano le solite aziende amiche. Ma certamente sarà un caso. A far la parte del leone nel bilancio dei donors, le voci Amministrazione e Strutture, Politiche direttive ed Emolumenti, che da sole si mangiano quasi due terzi del budget. Tanto paga Pantalone. Alla cooperazione sul campo restano le briciole.
Per i delegati dei Paesi poveri il Food Summit nella città eterna è una vacanza pagata a 5 stelle. Verranno pure a chiedere l'elemosina, ma per farlo si piazzano financo nella suite reale dell'Hotel Parco dei principi. Dove dispongono dello stretto necessario: salone privato da 200 mq, 2 cucine autonome per pranzi luculliani, idromassaggio e bagno turco computerizzati, tigri in bronzo in scala reale, lampadari d'oro e stoviglie d'argento.
In virtù dei passaporti diplomatici i dipendenti FAO possono acquistare le auto più prestigiose dai concessionari romani col 40% di sconto e assicurarle RCA per un tozzo di pane. Sono immuni dalle multe e godono di un regime esent-iva anche su arredi e beni di consumo. La "Casa Gazette" è zeppa di annunci merceologici col marchio Diplomat sales o Trattamenti speciali FAO. Lo consente l'art. 13 dell'accordo Italia FAO del 1951, che equipara l'esenzione fiscale dei funzionari a quella dei diplomatici d'ambasciata in tempi di guerra. Una nota interpretativa dell'allora ministro Andreotti estese nell'86 i privilegi pure agli italiani in servizio alla FAO.
Ai figli dei dipendenti l'agenzia paga collegi per super-ricchi da 12.000 euro l'anno, a un passo dal Colosseo. Ad esempio sulle rette di frequenza del St. Stephen's di via Aventina, mamma FAO rimborsava il 75% della retta. Ad attendere i pargoli un campus di tre acri in stile Usa, con campi da tennis, spazi per danza e pattinaggio su ghiaccio, art studios e mediacenter. La FAO Coop, inoltre, organizza per i dipendenti più di 50 corsi, dal tango allo yoga, dalla dama al golf. Per i saggi finali li porta al Carnevale di Viareggio. Due le palestre interne. Ma i più gettonati sono i corsi di teatro: agli appassionati del palcoscenico si insegna il metodo FeldenKrais.
Lavorare stanca, specie al computer. Per le schiene dei cari dipendenti la FAO crea un dipartimento onde studiare postazioni più comode.
Quando i fondi anti-povertà si perdono in mille sprechi, in FAO girano il conto agli stessi Paesi da assistere. Finanziando l'avvio del progetto per poi lasciare l'onere a un altro Paese del 3° mondo, un filo meno in crisi, ma a sua volta beneficiario delle campagne di donazione. Geniale.
Fra gli Stati "assistiti" figurano anche i 33 membri del Sids, i "Microstati isolani in via di sviluppo", tra cui, udite, udite, Bahamas, Maldive, Seychelles, Barbados, Mauritius, Fiji, e l'emirato del Bahrein. Peccato che in questi paradisi oltre a non esserci la fame non c'è neppure l'agricoltura. E gli Ogm? Se vi si ricorresse in modo massiccio la fame nel mondo sparirebbe. Ecco perchè la priorità della FAO è rammentarne ai governi i presunti rischi. Ma l'etica non si mangia. (Francesco Ruggeri, Libero, 4 giugno 2008)

Risotto, mousse e Pinot grigio. L'abbuffata contro la fame
Vol au vent alla mozzarella, crema di gamberetti, ragôut de veau e mousse in tutte le salse: al formaggio e al limone con sciroppo di lampone. I capi di Stato e i vertici della Fao riuniti ieri a Roma non riescono a risolvere il problema della fame nel mondo da decenni, ma questo non rovina il loro appetito né gli leva il gusto dell'abbuffata. Cinque portate, ce n'è in abbondanza per tutti: sotto a chi tocca. E pazienza se il menù stride come una bestemmia col tema chiave della kermesse. Esaurite le chiacchiere e sfilato tutto il carosello delle buone intenzioni, la fame ha iniziato a farsi sentire anche ai vertici del Pianeta, che ieri erano concentrati nella sede della Fao, in viale Aventino. E tutti i capi di Stato e di governo sono sciamati in sala da pranzo a dare requie allo stomaco, loro che possono. Con manicaretti da grand gourmet . E pazienza se i tre quarti della popolazione mondiale non ha mai visto una sogliola neanche in cartolina. Ai big del mondo ieri la Fao offriva pasta a la crema di zucca e gamberetti come primo piatto. Introdotto da un antipasto di vol au vent con mais e mozzarella. Oggi, invece, mousse di formaggio bianco al forno, come entrée, e pasta all'insalatina di campo con pomodori pachino. Domani invece, menù all'italiana: tortine rustiche alle zucchine e risotto alla parmigiana. Alla faccia di chi la carne non la vede nemmeno di domenica, la Fao ai potenti la serve ogni giorno. Carne a volontà, di tutti i tipi e per tutti i gusti. C'era ieri: involtini di vitella con pachino. C'è oggi: straccetti di manzo. Ci sarà domani: stufato di vitellone alle verdurine (piselli e carote). Con supplemento di contorno: patate fritte. Un piatto alla Mc Donald's, si dirà, che chiunque può permettersi. Ma vuoi mettere le pommes de terre sautées? Contorno anche ieri e oggi, ovviamente. E burro a go-go: epinards à la romaine , che è un modo chic di dire spinaci burro e parmigiano. E fagiolini al burro. Mentre il prezzo degli alimentari nei Paesi poveri è spinto all'insù dall'uso dei cereali per la produzione di biocarburanti, i grandi della Terra pontificano satolli sulla fame del mondo, a spese della Fao, cioè degli Stati che la finanziano. Ogni giorno cinque portate: antipasto, primo, secondo, contorno e dolce, naturalmente. Milioni di bambini nel mondo non sanno nemmeno cosa vuol dire la parola dessert. Ma di certo ieri non mancava sulla tavola dei big intercontinentali. Ai poveri del mondo la Fao consiglia di sfamarsi con gli insetti, ma ai loro presidenti offre Salad de fruit , versione francese della macedonia, che è stata servita con palline di gelato alla vaniglia. Ananas al gelato è la variante di oggi. Mentre domani il menù prevede come dessert mousse au citron avec sauce aux framboise (mousse al limone con sciroppo di lamponi). Il tutto innaffiato da vini di qualità. Ogni giorno un vino diverso. Ieri bianco: Orvieto classico Poggio Calvelli del 2005. Oggi nero D'Avola 05 Cabernet Altavilla della Corte. Domani Pinot grigio Trentino del 2007. Prima di sedersi a tavola, ha fatto scalpore il divieto di accesso al vertice Fao imposto ad Ahmad Rafat, vicedirettore di Aki-Adnkronos international. Al giornalista ieri è stato fisicamente impedito l'accesso al palazzo Fao come «persona non gradita», con il ritiro dell'accredito e del pass. Molto probabilmente Rafat, che è anche membro dell'esecutivo di "Information, Safety & Freedom" (un'associazione italiana che si occupa di libertà di informazione in tutto il mondo), sconta il duro appello lanciato nei giorni scorsi affinché sia ricordato ovunque che in Iran è in atto una feroce repressione dei diritti umani e civili. Alla sua richiesta di spiegazioni, l'addetto alla sicurezza gli ha detto che la sua presenza non era gradita «per qualche delegazione», senza voler precisare quale. Stando ad alcune voci raccolte dal vicedirettore dell'Adnkronos international, la sua presenza non sarebbe stata gradita alla conferenza stampa del presidente iraniano. «Se fosse vero», protesta Rafat, «non è ammissibile che Ahmadinejad possa dettare legge in Italia». (Barbara Romano, Libero 4 giugno 2008)

Lezioni per battere il “tabù” dello spinello

L’Italia, con Malta, è ormai l’ultimo paese europeo in quanto lotta alla droga. Non siamo riusciti a diminuire i consumi, e neppure a rallentare i ritmi di incremento.I rapporti dell’Onu, e dell’Osservatorio europeo sulle droghe, hanno ripetutamente deplorato i nostri risultati. Di fronte allo sterile agitarsi dei nostri politici, che unici al mondo ancora dibattono se la cannabis faccia o no male, qualche preside ha lanciato un’idea: diamo la parola in classe ai drogati cronici.È successo a Treviso, dopo la scoperta di collette in classe per i fondi per l’acquisto di spinelli. Undici ragazzi dai 16 ai 19 anni sono stati denunciati per detenzione e spaccio di droga, trenta sono stati segnalati in prefettura come assuntori abituali, due portati direttamente in comunità.L’operazione «Zero in condotta» ha coinvolto liceo classico, scientifico, magistrali, scuola di recupero, e università. Era nata dopo qualche controllo prima delle gite scolastiche, in cui gli agenti avevano trovato di tutto, ma soprattutto hashish. «Fumiamo tutti», hanno dichiarato tranquillamente ragazzi e ragazze. I giovani raccontano che i professori non hanno mai parlato in classe dei danni della droga. Ha detto uno dei rappresentanti degli studenti: «La droga è uno dei tabù che ci sono a scuola, come la politica. I professori e i presidi ci dicono: ”non fatelo, sennò viene il cane antidroga”, mai: non fatelo perché vi fa male».Eppure le grandi organizzazioni internazionali, a cominciare dall’Organizzazione mondiale della sanità, gli Istituti nazionali per la salute, come l’Istituto superiore di sanità in Italia o quelli di Francia, Inghilterra, Spagna, Olanda (paesi quanto mai liberali), hanno da tempo documentato i danni fisici e psichici della cannabis, che, soprattutto quando assunta già prima dei 15 anni, aumenta enormemente i rischi di psicosi o schizofrenia.Psichiatria e neuroscienze di tutto il mondo hanno accuratamente documentato tutto, da tempo. Allora perché i «prof», come li chiamano tra l’affettuoso e il derisorio gli allievi, non ne parlano? Molti perché non hanno mai letto niente di serio e aggiornato in materia; molti perché, come appunto denunciano i ragazzi, considerano «il fumo» un tabù: sociale, politico, di costume. Parlarne male è considerato «politicamente scorretto», antiquato, bigotto; tutte cose temute dai «prof» che cercano soprattutto l’alleanza e la complicità coi ragazzi. Soprattutto, però, li obbligherebbe a informarsi prima, uscendo dai sentieri battuti dei luoghi comuni. Allora ecco la proposta del preside Otello Cegolon, dirigente dell’Istituto magistrale Duca degli Abruzzi di Treviso. «I giovani non conoscono la portata reale del danno. Portiamo allora nelle classi i drogati cronici, che facciano vedere ai ragazzi cosa producono le sostanze che prendono con tanta leggerezza».Il preside pensa ai drogati di roba pesante, che, certo, forniscono testimonianze sconvolgenti. Ma, come hanno spiegato i maggiori psichiatri italiani, a cominciare da Giovanni Battista Cassano, fin dal 2001, i normali reparti di psichiatria si sono ormai riempiti, da anni, anche di consumatori di cannabis e amfetamine che, oltre a fornire oltre l’80% dei futuri acquirenti di cocaina ed eroina, trasformano gli adolescenti, in Italia come altrove (ma peggio che altrove, perché non hanno informazioni sui rischi) in pazienti psichiatrici.Mettiamo dunque questi nuovi folli in cattedra a raccontare la loro esperienza. Rimedieranno al vuoto informativo dei professori troppo conformisti nei confronti della leggenda rosa delle droghe «buone». (Claudio Risé, Il Mattino di Napoli, 2 giugno 2008)

Il neo Ministro Giorgia Meloni: “Pronta ad accogliere ogni suggerimento della Chiesa per migliorare il mondo dei giovani”

Ha la grinta di una veterana e l’entusiasmo di una novizia. Parliamo di Giorgia Meloni (nella foto), neo Ministro delle Politiche Giovanili del Governo Berlusconi IV, esponente di Alleanza Nazionale e proveniente da una brillante esperienza come Vice Presidente della Camera dei Deputati.
Ecco cosa afferma in una recente intervista sul compito della Chiesa nell’educazione giovanile.
D. Ministro, come vive questa nuova esperienza di Ministro delle Politiche giovanili?
R. “Con grande e giusto senso di responsabilità. Ho un compito ingrato, quello di occuparmi dei giovani, ma mi sento pronta ad affrontare un’avventura stimolante e avvincente“.
D. Quali sono, a Suo avviso, i problemi principali dei giovani in Italia?
R. “Limitarsi alla disoccupazione sarebbe sbagliato, anche se il problema esiste ed è grave. Vorrei soffermarmi, piuttosto, sui valori, su quel vuoto esistenziale che accompagna la gioventù moderna. È indispensabile motivare i ragazzi con buoni esempi, con iniezioni di coraggio e di civiltà. I primi a dover aprire la strada sono, naturalmente, gli adulti e, perchè no?, la stessa classe politica”.
D. Cosa può fare la Chiesa cattolica per alleviare il cosiddetto disagio giovanile?
R. “Dall’alto del suo importante e autorevole Magistero, la Chiesa, Madre e Maestra, può davvero giocare un ruolo importante. Non dimentichiamo che essa, non a caso, diffonde valori quali la rettitudine, la solidarietà, l’obbedienza. Non ho dubbi, penso che la Chiesa ci sarà di grande aiuto. Come Ministro delle Politiche Giovanili, accetterò quindi volentieri ogni suggerimento e non scarterò alcuna indicazione proveniente dal mondo ecclesiastico”.
D. Qual è la Sua opinione sul relativismo morale imperante?
R. “La penso come Benedetto XVI, e sono fermamente contraria alla cosiddetta dittatura del relativismo, quel farsi portare qua e là da correnti di pensiero debole che non aiutano in alcun modo gli individui e la società. Non è bella un’etica fai da te, e credo sia indispensabile che i giovani siano orientati ad apprendere valori morali universali, proprio come quelli che diffonde la Chiesa. Non si può vivere come se non si dovesse mai morire! Mi batterò con tutte le mie forze per trasmettere questo messaggio ai giovani e per combattere ogni forma di relativismo morale”. D. Ministro, in conclusione: ha fiducia nel Magistero di Papa Benedetto XVI?
R. “Certamente. Il Santo Padre, anche per quanto riguarda il mondo giovanile, rappresenta l’autorità morale più qualificata. Lo considero una stella polare e merita ogni rispetto e considerazione per quanto fa in favore dei giovani. Lo apprezzo molto, davvero”.
(Bruno Volpe, Petrus, 2 giugno 2008)

Cosa c’è dietro la sparata di D’Alema sulla Chiesa

Per uno che si chiama Massimo non è facile ammettere l’esistenza di Dio (almeno nella forma monoteista). È quasi un controsenso, deve aver pensato D’Alema che, infatti, si definì “ateo” fin dai suoi primi giorni di scuola non partecipando alle lezioni di religione. Come il bambino saccente della battuta di Walter Fontana che rispose a chi gli chiedeva se credeva in Dio: “Beh, credere è una parola grossa: diciamo che lo stimo”.
Anche quello di D’Alema col Padreterno infatti è un rapporto da pari a pari, da collega. Per questo – come si è appreso ieri dai giornali – D’Alema ha ritenuto di impartire qualche lezione al Papa sul come rappresentare gli interessi dell’Altissimo nelle vicende politiche italiane.
Eppure … Proprio il recente convegno dalemiano su “religione e politica” nasconde una inquietudine personale che – per quanto mi riguarda – osservo da tempo. Un’ansia religiosa nascosta, ma bruciante e qualche volta commovente. Per capire la quale occorre entrare nel “personaggio D’Alema” per cui io confesso una spiccata simpatia. Trovo interessante proprio l’apparenza di antipatia e arroganza dietro cui si nasconde l’uomo, con la sua complessità, la sua intelligenza e il suo spleen.
L’esordio politico del “Leader Massimo” fu fantastico ed emblematico. Infatti il piccolo D’Alema, figlio di un autorevole parlamentare del Pci, come rappresentante dei “Pionieri” scrisse da solo e tenne in pubblico, davanti a Palmiro Togliatti, un discorso così dotto che il capo comunista ammirato sentenziò: “se tanto mi dà tanto questo farà strada”. Secondo una versione apocrifa riportata da Edmondo Berselli avrebbe anche detto: “Ma quello non è un bambino, quello è un nano”. Intendendo “enfant prodige”.
In effetti fu un leader precoce. Purtroppo però c’è sempre qualche intoppo che impedisce al mondo di riconoscerlo per quello che è (o almeno giudica equanimemente di essere): un vero gigante del pensiero (politico). Che impartisce lezioni pure a Condoleeza Rice.
La natura introversa di questo statista “dei due mondi” causa la sua proverbiale ruvidità. Pur con i suoi modi bruschi però non perde occasione per regalare all’umanità il pane della sapienza (politica) che in effetti mastica assai. Ma la gente, si sa, è ingrata. Invece di mostrare riconoscenza per il fatto di venire maltrattata da cotanto ingegno (pedagogico), i più prendono cappello e lo scansano come antipatico strafottente. Lui che invece è solo sincero. Anche i suoi gesti di amicizia vengono spesso fraintesi. Per esempio al tempo del primo governo Prodi, dopo un forum all’Espresso, uno scherzoso D’Alema disse a Rinaldi e a Pansa: “Vedi, Pansa è un bravissimo giornalista, solo che di politica non capisce un…, peggio di lui c’è solo Prodi”. Il premier non la prese benissimo. Un’altra volta, al telefono, parlando sempre con Pansa e con Rinaldi, definì affabilmente Veltroni e Prodi come “i due flaccidi imbroglioni di Palazzo Chigi”. Ma aggiunse: “se lo scrivete smentirò”. Infatti appena lo scrissero lui smentì, intuendo quanto è facile che una gioviale espressione d’amicizia venga fraintesa o strumentalizzata dai maligni.
Certo, D’Alema va interpretato. Non è facile cogliere in un ceffone un attestato di stima. Eppure quando definisce Giulio Tremonti “un pensatore neoconservatore, peraltro modesto”, non dà solo prova di una solida “autostima” (come ritiene Berselli), ma – paradossalmente – anche di notevole invidia intellettuale, riconoscimento che riserva a pochissimi. La cosa dovrebbe inorgoglire il ministro dell’Economia. Peccato che i sentimenti di D’Alema non siano di immediata comprensione.
Se ci si ferma all’apparenza si può scambiare una sua nota battuta (“capotavola è dove mi siedo io”), per un segno di arroganza. È chiarissima invece, seppur lieve, l’autoironia e l’incertezza esistenziale, quella che in una delle sue rare confessioni personali gli faceva indicare in “Lezioni di piano” il film della sua vita (una sorprendente predilezione che rivela un animo molto sensibile alla bellezza e al mistero).
Il disincanto sulle umane sorti lo induce a giudizi autoironici che sfiorano la spietatezza: “La sinistra è un male che solo la presenza della destra rende sopportabile”. Queste considerazioni sono alla base della sua notevole disinvoltura tattica. È capace di stabilire le alleanze più impensabili. Anche se il tipo è solidamente fedele alle proprie idee. Sebbene passi alla storia per le polemiche sulla barca a vela o sulle scarpe, è uno dei pochi che ha osato sfidare di persona, a viso aperto, in un auditorium fiorentino, una rumorosa platea di nemici girotondini senza arretrare di un passo. Mostrando una stoffa da leader che pochi hanno (anche se – va detto – come premier non ebbe lo stesso coraggio politico e deluse).
Da quel fronte giacobino fu bersagliato di critiche anche quando presenziò alla canonizzazione del fondatore dell’Opus Dei, in piazza San Pietro. Sulle colonne del “Paìs” lo scrittore Antonio Tabucchi lo attaccò per le sue dichiarazioni, in quanto D’Alema aveva riconosciuto “la forza della fede di ramificarsi che ha la Chiesa in tutte le sue espressioni, nei suoi movimenti, nei suoi uomini, nelle sue donne”.
Altri attacchi gli toccarono quando, da presidente del Consiglio, fece visita in Vaticano a papa Wojtyla, con famiglia al seguito. Perciò sorprende che oggi lo stesso D’Alema diffidi la Chiesa dall’avvicinarsi al governo. A suo dire cederebbe “alla tentazione del potere” facendo sì che “il peso politico dei cattolici si indirizzi da una parte per ottenere in cambio la tutela giuridica di principi e valori, come aborto o fecondazione, perché diventino leggi imposte a tutti colpendo la laicità dello stato”. Che significa leggi imposte? Una legge approvata dalla maggioranza dal Parlamento è imposta? E che faceva D’Alema quando come premier visitava il Papa o presenziava alla suddetta canonizzazione? Cercava Dio o un rapporto politico? O forse entrambi? E quando, nel 1990, andò in piazza San Pietro con Veltroni e Formigoni ad ascoltare l’Angelus, grato per la sua opposizione alla prima Guerra del Golfo?
Sembra che la Chiesa debba e possa occuparsi di politica solo se fa comodo alla Sinistra. Questo sì che è asservirla. Naturalmente in ciò che D’Alema ha detto ieri c’è pure del giusto, anche quando presume di impartire una lezione al Papa dicendo: “La tentazione del potere è demoniaca e sempre, nella storia della Chiesa, è stata all’origine di misfatti”. Penso che Benedetto XVI concordi. Sennonché il pulpito non è dei migliori, essendo stato D’Alema un dirigente del Pci, parte di quel movimento comunista internazionale che sulla natura demoniaca del potere la sa lunga. Così è anche curioso che D’Alema rinfacci i “misfatti” della Chiesa “di cui Giovanni Paolo II ha dovuto chiedere perdono”, venendo da quel comunismo internazionale che non ha chiesto perdono di nessuno dei misfatti compiuti (specialmente contro la Chiesa).
È strana questa sinistra. Domenica sull’Unità, il giornale più anticristiano su piazza, è apparso un alto lamento di Vincenzo Cerami intitolato “Cristianesimo”. Denunciava la fine della solidarietà nella nostra società. Diceva: “Il cristianesimo in Italia è al lumicino. È ormai palese. Oggi qui da noi con l’aria che tira metterebbero san Francesco in galera… L’Italia ha dimenticato che Gesù è stato inchiodato alla croce proprio perché aveva scelto i poveri in spirito”.
Ma chi ha cancellato Cristo dall’anima del Paese? Recentemente la Sinistra ha pure osannato il suo Piergiorgio Odifreddi per il libello “Perché non possiamo essere cristiani”, dove si legge che il cristianesimo è “una religione per letterati cretini” ed “è indegno della razionalità e dell’intelligenza dell’uomo”. E poi si lamentano che è scomparso il cristianesimo? Non dicevate che è un bene che scompaia? D’Alema che ne dice? (Antonio Socci, Libero, 27 maggio 2008)