martedì 19 ottobre 2021

Cattolici e politica, l'errore di partire dall'antropologia


L'ex parlamentare Eugenia Roccella, in un suo articolo su Il Foglio, analizza la situazione politica dei cattolici e fa delle proposte per uscirne. Esattamente contrarie a quanto affermato dall’arcivescovo Giampaolo Crepaldi, inaugurando la Scuola Nazionale di Dottrina sociale della Chiesa organizzata dalla Bussola e dall’Osservatorio Cardinale Van Thuân.

 L'ex parlamentare Eugenia Roccella, in un suo articolo su Il Foglio di giovedì scorso 14 ottobre, analizza la situazione politica dei cattolici e fa delle proposte per uscirne. Vale qui la pena prenderle in esame perché tali proposte sono esattamente contrarie a quanto affermato dall’arcivescovo Giampaolo Crepaldi la sera dello stesso giorno (leggi qui una sintesi) inaugurando la Scuola Nazionale di Dottrina sociale della Chiesa organizzata dalla Bussola e dall’Osservatorio Cardinale Van Thuân [iscrizioni ancora aperte, clicca qui].

Roccella dice: se il mondo diventerà post umano, allora sarà anche post cristiano. Crepaldi dice: se il mondo diventerà post-cristiano, allora sarà anche post-umano. Roccella dice ai cattolici che “bisogna inserirsi nei guasti della nuova antropologia” e non creare “sette spaventate” e “circoli chiusi e asfittici”. Crepaldi, invece, dice che bisogna tirarsi fuori dall’attuale sistema, creare una nuova società civile cattolica non per chiudersi nel piccolo perimetro ma per ricominciare a parlare di politica a partire dalla fede, ossia per esprimere politici cattolici e non cattolici politici.
Roccella mette al centro la questione antropologica, come questione di ragione, e da lì vuole risalire alla questione teologica, come questione di fede. Crepaldi mette al centro la questione teologica e da lì vuole scendere alla questione antropologica. Per dirla con Augusto Del Noce: “il processo deve andare dalla fede alla ragione”, perché, come scriveva Gilson: “la ragione non basta alla ragione”.

Benedetto XVI, che Eugenia Roccella cita, ha più volte denunciato che il problema è la questione antropologica, ma ha anche sempre detto che la ragione ormai estenuata, giunta ad essere solo capace di misurare quantitativamente e non più a leggere qualitativamente la realtà, non si riprenderà da sola, se non con l’aiuto della fede.
Quanto al tentativo del cardinale Ruini di dire ai cattolici politici di militare pure nei vari partiti ma poi di convergere in Parlamento sulle leggi connesse con la questione antropologica, può dirsi fallito non solo perché tale convergenza non è mai avvenuta ma anche perché nel frattempo si sono molto diradati gli stessi cattolici politici.

La causa di ambedue questi esiti negativi è la presunzione di vedere allo stesso modo la questione antropologica quando ormai non si vedeva nello stesso modo nemmeno la fede cattolica. È quindi assurdo pensare di ricostruire una presenza cattolica partendo dalla questione antropologica, ad essa si arriverà dopo aver ricostruito una unità di fede e, soprattutto, dopo essersi chiariti che la fede cattolica può produrre razionalità politica. Cosa questa molto lontano dall’essere condivisa ormai da una grande parte della stessa teologia cattolica ufficiale e dalla nomenclatura ecclesiastica.

Roccella sbaglia nell’attribuire alla proposta Dreher dell’opzione Benedetto la scelta delle “catacombe” e la costruzione di uno spirito di setta. Anche l’arcivescovo Crepaldi ha fatto una proposta similare a quella di Dreher ma, come anche Dreher del resto, si è premurato di precisare che queste nuove realtà di una presenza politica cattolicamente coerente che si vedono nascere qua e là motivate dalla voglia di uscire dal sistema, avranno un futuro se sapranno continuare a pensare anche in universale, sia in senso politico che in senso ecclesiale. Ma rimanendo dentro il sistema la cosa diventa impossibile.

Il vescovo Crepaldi coglie una dimensione che, mi sembra, sfugga ad Eugenia Roccella. Si è consolidato un sistema istituzionale, politico, culturale, dei grandi media, della scuola pubblica, dei sindacati, degli iper-finanziati think-thank nazionali e internazionali che si chiude a riccio e reagisce con forza quando qualcuno vuole essere un politico cattolico. Quando invece uno si limita ad essere un cattolico politico, non legando la sua politica alla sua fede essenzialmente ma solo accidentalmente, nessun problema … basta metterlo a suo agio nel sistema con il criterio del male minore da preferire ad un male maggiore, e così accetterà tutto con la coscienza in pace. Purtroppo a questo sistema sembra essersi legata anche gran parte dei vertici della Chiesa.

Da qui nasce – e il vescovo Crepaldi ne ha ben parlato – una notevole voglia di “tirarsi fuori” non per scendere nelle catacombe, ma per ricostruire qualcosa di coerentemente nuovo, non per lasciare la politica a se stessa ma per poterla condizionare in modo coerente. Esperienze di questo genere stanno nascendo senza fare molto rumore, ma con impegno.

Una dimostrazione evidente dell’esistenza del sistema è proprio la politica vaccinale e del green pass. Perfino i sindacati hanno accettato il ricatto del potere per poter lavorare, in assenza di qualsiasi emergenza. Roccella sbaglia un’altra volta quando interpreta – anche lei come tanti altri, purtroppo – la resistenza cattolica alla vaccinazione impositiva e al green pass ricattatorio come espressione di “minoranze esagitate” che ella assimila addirittura all’individualismo narcisistico de “il corpo è mio e le gestisco io”. Collegamento inaccettabile perché, come spesso si è detto su queste pagine (vedi qui), lo scopo di questa resistenza cattolica è proprio di ribadire la necessità dell’indisponibile, che Roccella concorda essere la cosa principale che oggi viene a mancare.

 

(Fonte: Stefano Fontana, LNBQ, 17 ottobre 2021

Cattolici e politica, l'errore di partire dall'antropologia - La Nuova Bussola Quotidiana (lanuovabq.it)

  

lunedì 30 agosto 2021

"Il vero politico cristiano mantenga salda la fede: senza identità si cede al populismo dei sondaggi". Intervista a Mons. Rino Fisichella.

La vera lezione cristiana di Forza Italia, quella indicata da Silvio Berlusconi nell'intervento di ieri sul Giornale, è che nessuno sia abbandonato. Forza Italia non può non dirsi cristiana; il cristianesimo è stata la più grande rivoluzione della storia, trascinando dietro sé i suoi valori fino ad oggi. In primis il valore assoluto della persona, la sacralità di ogni essere umano, che arriva da Dio. Sul tema dell'identità cristiana, delle sfide ancora aperte in una società sempre più relativista e di come vivere l'autenticità cristiana nella vita politica, sociale ed economica del nostro Paese e dell'Europa, interviene monsignor Rino Fisichella, fine teologo, presidente del Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazione.

Quanto è difficile oggi testimoniare l'autentica identità cristiana?

«Ogni momento storico presenta le sue aspirazioni e le difficoltà. Il momento che viviamo non viene meno a questa condizione dialettica. Certo, stiamo vivendo un fenomeno culturale di profondo rinnovamento che porta con sé un cambiamento dei paradigmi a cui eravamo abituati. Ritengo che ancora adesso non si stia prendendo in seria considerazione il fenomeno della cultura digitale. Utilizzo volutamente il termine cultura perché il digitale non sono solo strumenti, ma è una vera cultura che sta cambiando il nostro linguaggio e per conseguenza i comportamenti e i valori di riferimento. Il cristiano non è estraneo a questo movimento. Si tratta di comprendere se lo subisce passivamente o se almeno ne prende coscienza e per quanto può essere possibile è in grado di orientarne il cambiamento. Non si può negare che parlando di identità si tocchi una problematica soggetta a diverse interpretazioni. Per un cristiano, comunque, il riferimento all'identità non è primariamente in rapporto alla propria condizione culturale e sociale, ma alla fede. Più di dieci anni fa ho scritto un libro dal titolo Identità dissolta in cui raccoglievo alcuni pensieri in proposito. Non ho cambiato idea. Il cristiano oggi non ha piena consapevolezza della propria identità perché non conosce i contenuti fondamentali della propria fede. È in atto una forma di dissoluzione che non permette più di comprendere i reali punti di riferimento normativi perché il forte relativismo culturale ha inciso anche nell'impatto con la fede e la morale. Il problema che si pone quindi non è tanto la condanna o meno dell'attuale momento storico, ma se e come è ancora possibile incidere per restituire una forte identità ai cristiani.

Quali sono i valori «non negoziabili» che esprimono l'identità di un cristiano? E come è possibile viverli nella politica e nella società di oggi?

«È necessario comprendere con coerenza l'espressione valori non negoziabili. I valori quando sono tali non possono essere negoziati perché cesserebbero di essere tali. L'espressione è entrata per la prima volta in un documento di Benedetto XVI che indicava il comportamento dei cattolici nella vita politica dei loro rispettivi Paesi. In questo contesto possiede tutto il suo significato. Viene chiesto infatti a quanti si impegnano in politica la coerenza con il proprio ideale di vita. Si deve riconoscere però che la politica vive in contesti di pluralismo culturale e quindi se da una parte un politico cristiano ha bisogno di mantenere salda la sua identità di fede, dall'altra deve essere capace della necessaria mediazione. Impegno estremamente delicato che richiede intelligenza e cultura. Spiace vedere politici cristiani che spesso hanno idee confuse in proposito e mancando di una convinta identità cedono al populismo dei sondaggi. Quando si fanno leggi che hanno una valenza etica bisogna anche avere la consapevolezza che nel giro di pochi anni si creano comportamenti consequenziali».

Si riferisce ad alcuni valori in particolare?

«Non si può negare che si sia modificato il concetto di famiglia, di coppia, di natura e della stessa vita. È davvero paradossale ai nostri giorni di conclamata democrazia assistere al dominio di un pensiero unico di matrice relativista che privo di dialogo smette di essere un pensiero. Rimangono solo le urla sguaiate di quanti conquistano presenze televisive imponendo il loro mediocre punto di vista. Un cristiano sa che la sua identità va coniugata anche con il senso di appartenenza a una comunità. Identità e appartenenza si coniugano insieme altrimenti si sfaldano i rispettivi contenuti. È evidente che oggi il senso di appartenenza alla Chiesa sia alquanto liquido, debole e ognuno lo modella a proprio piacimento a scapito della comunità che cessa di essere tale e diventa uno dei tanti gruppi. L'identità cristiana è modellata dalla fede in Gesù Cristo, il Figlio di Dio che ha rivelato il mistero della vita divina fatta di amore. Questo amore che giunge fino a dare la vita per tutti è il cuore dell'agire cristiano. All'identità cristiana comunque appartiene in forma determinante la speranza. La certezza cioè di guardare al futuro sapendo che il bene vince sempre sul male».

Il Papa ha più volte sottolineato che l'identità cristiana deve essere molto forte, così da darne anche testimonianza. È così?

«Da decenni si è teorizzato nell'ambito del pensiero filosofico il pensiero debole. Se la ragione diventa debole ne scaturisce che la fede si indebolisce, la politica pure e a cascata si indeboliscono le istituzioni facendo crollare il senso di responsabilità. È una condizione che non può essere sottovalutata pena la condanna al primato dell'indifferenza e dell'individualismo che ormai sono sempre più dilaganti».

E cosa può fare la Chiesa?

«Dovremmo fare un serio esame di coscienza per comprendere dove ha portato quella sofferenza. Mi sembra che la delegittimazione del pensiero a cui si assiste per un discutibile primato dell'azione sociale porti a un ulteriore indebolimento di una debolezza della fede e della sua testimonianza già vistosa. La testimonianza ha certamente un'efficacia ma se non è accompagnata da un'intelligenza che ne sappia esprimere le ragioni, rimane sterile e può essere confusa con una generica solidarietà. Sono colpito dal fatto che un santo come Giorgio La Pira abbia creato la messa dei poveri e oggi assistiamo alla sola mensa dei poveri. Uno slittamento che non è solo semantico».

La Chiesa è ancora in grado di contribuire all'universalizzazione dei valori, salvaguardando la propria identità?

«Per definizione i valori sono universali e riguardano tutti nessuno escluso. Noi cattolici siamo per natura universali. Come scriveva un antico autore: Ogni patria straniera è la loro patria e ogni patria è a loro straniera. Noi obbediamo alle leggi ma con il nostro comportamento dovremmo superare le stesse leggi. È l'insegnamento che in queste settimane sta dando Papa Francesco con le sue catechesi sulla Lettera ai Galati. Per noi, tutto ciò che è buono, vero e degno di essere amato viene da Dio e in qualunque cultura si trovi appartiene a noi. La nostra storia è colma di esempi che mostrano quanto impegno sia stato messo per creare consenso. Certo, non sono mancati neppure esempi che riportano a situazioni di violenza ma leggerli oggi senza alcun senso storico porta a notevoli fraintendimenti. Noi dovremmo essere nel mondo con la stessa funzione che l'anima ha nel corpo».

 

(Fonte: Serena Sartini, il Giornale.it, 30 agosto 2021)

"Il vero politico cristiano mantenga salda la fede: senza identità si cede al populismo dei sondaggi" - ilGiornale.it

 

mercoledì 21 luglio 2021

Una bufera scuote la Chiesa: cosa svela l'ordine del Papa


Tra tradizionalisti e progressisti, la Chiesa si trova di fronte a un'altra grande prova dopo la decisione del Papa sulla Messa in rito antico

 

Il ridimensionamento della Messa in latino è un caso e la bufera era prevedibile. La contesa non è solo liturgica: la Chiesa cattolica vive un momento in cui alcune distanze siderali, peralto preesistenti, si manifestano continuamente e in maniera sempre più dura. Due visioni contrapposte, con tutte le loro sfumature, che possono essere notate anche solo a livello comunicativo.

In realtà, i progressisti non stanno esultando più di tanto. Dopo la mossa del Papa, prevale il silenzio nella "sinistra ecclesiastica". Nessuno spumante stappato, insomma, ma un'esultanza strozzata che può avere comunque un suo particolare significato. Perché il sommerso attorno al rito antico, al netto degli atteggiamenti pubblici, è già tutto sulla scena e si è depositato in anni di polemiche ecclesiologiche.

Traditionis Custodes - questo il nome del "Motu proprio" di Francesco - è per i tradizionalisti la più classica delle gocce capaci di far traboccare un vaso considerato ricolmo da tempo. Interpretare la reazione della "destra ecclesiastica" è più semplice. Per i conservatori è in atto ciò che le avvisaglie avevano raccontato con anticipo: più o meno da quando papa Francesco è stato eletto sul soglio di Pietro. Il tam-tam sulla imminente crisi del Messale romano ha origini pluriennali: questo - dicevano certi ambienti tradizionalisti - sarà il pontificato che depennerà la cosiddetta "Messa tridentina". O comunque la sconvolgerà - insistevano - per come la conosciamo. Da destra, sempre per semplificazione, erano anche certi che questi sarebbero stati gli anni della "Messa ecumenica", dell'ordinazione dei laici, delle diaconesse e così via.

Forse la verità risiede nel mezzo. Il Papa non ha dato seguito alla rivoluzione in cui la sinistra ecclesiastica continua a sperare. Su questa storia del vetus ordo, tra chi legge la scelta del Pontefice come una legittima e necessaria limitazione e chi invece ne fa un dramma, ce ne passa. Ma la polarizzazione interessa tutta la Chiesa cattolica ed è risalente nel tempo.

Le reazioni

Il Summorum Pontificum di Benedetto XVI - Motu proprio diventato forse anche più rappresentativo delle sue iniziali intenzioni - era definito "sotto attacco" prima ancora che Jorge Mario Bergoglio ragionasse sulla normativa. Tanto che durante questo pontificato sono nate iniziative, blog ed eventi a vario titolo che sembravano mettere le mani avanti su un'imminente smobilitazione normativa.

La fase odierna è quella in cui la "destra ecclesiastica" rivendica la ragione. Nel contempo, se i progressisti sorridono, lo fanno tacendo. Chissà perché. Poi si rincorrono le voce come quella rilanciata dal blog Campari e De Maistre secondo cui il Motu proprio di Bergoglio sarebbe opera di ambienti precisi: viene chiamata in causa l'ipotesi dell'Ateneo di Sant'Anselmo. I retroscena troveranno ulteriore spazio.

Cattolici, i tradizionalisti non conoscono crisi vocazionale

La querelle sul rito antico non è certo finita. Il mantra tradizionalista è che il Motu proprio dell'Emerito deve essere difeso. E anche se l'ondata dei contrari alla mossa del Papa non è ancora stata organizzata, non possono essere escluse iniziative plateali. C'è chi pensa anche a una maggiore partecipazione, con qualche forma di protesta, al pellegrinaggio annuale del Summorum Pontificum che ha caratura internazionale. Nel comunicato del coordinamento nazionale si legge la parola "resistenza".

Ce ne sono tanti altri, ma quel termine può raccontare un obiettivo, che poi è quello di non riporre nel dimenticatoio il rito antico. Di fare in modo, insomma, che la mossa del Papa non significhi "cancellazione", come tanti critici scrivono in queste ore.

I perché della mossa di Francesco

Molti si interrogano su cosa abbia spinto Sua Santità a muoversi in questo modo. C'è chi pensa che Francesco abbia fatto bene. E che dunque sarebbe giusta la riforma della possibilità di celebrare secondo il Messale romanoestendendo le facoltà decisionali dei vescovi ed introducendo l'obbligo di costituire parrocchie ad hoc.

È il caso del religioso Rosario Vitale, che sostiene che Bergoglio abbia agito con giudizio per almeno due ragioni:"La prima perché ritengo sia giusto che la Chiesa abbia un rito unitario, che faccia risaltare, per citare le parole del Santo Padre, 'la comunione anche nell'unità di un solo Rito'". Dopodiché - annota Vitale - è la ratio stessa del Summorum Pontificum del papa emerito che sarebbe ormai passata in secondo piano: "Non sussiste più la ragione per cui Giovanni Paolo II con il documento Ecclesia Dei e Benedetto XVI con il Summorum Pontificum avevano permesso il ritorno al vetus ordo, che come sappiamo era quello di arginare lo scisma messo in atto da monsignor Lefebvre all'indomani del Concilio. Per cui - conclude il religioso - la decisione del Santo Padre mi trova pienamente d'accordo".

Quella scure di papa Francesco Chiuso l'istituto tradizionalista

Insomma, la questione dei lefebvriani - cui Francesco era sembrato persino vicino durante alcune fasi di questo pontificato - non sarebbe più di attualità secondo alcuni sostenitori della mossa del Papa. Dunque ben venga il nuovo Motu Proprio, tenendo conto dell'ubbidienza che chi è consacrato deve sempre perseguire nei confronti del Santo Padre.

Le "distorsioni" su cui è intervenuto papa Francesco

Francesco, nel normare il vetus ordo, ha anche citato alcune "distorsioni" liturgiche. Chi e come ha distorto le indicazioni sulla Messa antica dettate dal pontefice polacco e da quello tedesco? Perché Bergoglio nel presentare Traditionis Custodes cita quelle "distorsioni"? Vitale sul punto è lapidario: "Non possiamo parlare di errori liturgici perché l’uso del messale edito nel 1962 è stato permesso dai documenti che prima ho citato - premette - , tuttavia c’è da dire che la facoltà che nacque con lo scopo di ricucire uno scisma venne ben presto interpretata da molti come possibilità per tornare a rispolverare il vetus ordo. Vi fu certamente un errore di valutazione, e anche sotto questo punto di vista un abuso".

San Giovanni Paolo II e Benedetto XVI avrebbero dunque assecondato l'utilizzo del Messale romano con il fine esclusivo di evitare eccessive fughe verso la Fraternità San Pio X. Non solo: il terzultimo ed il penultimo pontefice avrebbero, con l'Ecclesia Dei e con il Summorum Pontificum, tentato di costruire un "ponte" con i lefebvriani. Quasi come se la Messa antica costituisse un segno imperituro di dialogo verso chi aveva deciso di percorrere strade alternative dopo il Concilio Vaticano II.

Un membro Cei attacca la Messa di Ratzinger

L'ex pontefice non è intervenuto sul punto. E sarebbe stato clamoroso il contrario. Hanno tuttavia detto la loro due cardinali considerati "conservatori", ossia il cardinal Raymond Leo Burke e l'ex prefetto della Dottrina della Fede, Gherard Ludwig Mueller. Il porporato americano, come si legge sul blog di Aldo Maria Valli, ha parlato di "durezza" in relazione al Motu proprio di Francesco. Il "principe della Chiesa" teutonico, come si apprende da Katolisch.de, sarebbe parso invece critico nei confronti della riforma del Papa gesuita. È la dimostrazione di come la preoccupazione di quei fedeli che si sbracciano dopo l'annuncio della rivoluzione sia condivisa anche da alcuni alti-ecclesiastici.

Quelle "ferite riaperte" dal Motu proprio di Francesco

Padre Federico Pozza dell'Istituto Cristo Re di Firenze premette di aver letto il Motu proprio soltanto due volte. Questo però consente comunque al monsignore di notare come Traditiones custodes intervenga "per disciplinare la celebrazione della Santa Messa secondo il Messale del 1962 da parte dei sacerdoti diocesani che hanno scoperto l'uso più antico del Rito Romano dopo il Motu proprio Summorum Pontificum di papa Benedetto XVI". La riforma sanerebbe dunque una sorta di gap normativo. "L'intervento del 2007 - spiega però don Pozza - poneva fine ad un'inutile guerra liturgica in seno alla Chiesa, e questo nuovo provvedimento potrebbe riaprire ferite che si stavano risolvendo". Le ferite che, secondo alcuni, Joseph Ratzinger aveva risanato proprio attraverso il suo di Motu sulla cosiddetta tridentina.

Perché oggi tutti riscoprono la grandezza di Ratzinger

Ma oggi Benedetto XVI non è più il vertice della Chiesa cattolica. E Traditionis Custodes ha suscitato i commenti più disparati. Tra questi, appunto quello del cardinal Burke, che ha parlato di "durezza". Cosa ne pensa monsignor Federico Pozza? "Dal tenore del Motu proprio e dalla lettera che lo accompagna - afferma l'ecclesiastico- , effettivamente il nuovo testo normativo parte da una visione molto pessimistica dei cattolici legati a questa legittima e mai abrogata espressione liturgica".

Il dato secondo cui la riforma di Bergoglio intervenga con estrema decisione è dunque condiviso. Poi la speranza, almeno tra coloro che vorrebbero continuare a celebrare secondo il vetus ordo: "L'esperienza, in generale, di questi ultimi 14 anni è stata ricca di bei frutti spirituali e pastorali. Certamente - chiosa Pozza - è auspicabile che le Congregazioni romane tengano conto di questi frutti e che non mortifichino i fedeli che con spirito di reale comunione ecclesiale hanno scoperto i tesori spirituali dei libri liturgici anteriori alla riforma del 1970". La sensazione è che in tanti, pur tenendo conto delle indicazioni del Santo Padre, continueranno a celebrare il rito antico.

 

(Fonte: Francesco Boezi, Il Giornale.it, 21 luglio 2021

Una bufera scuote la Chiesa: cosa svela l'ordine del Papa - ilGiornale.it

 

 

sabato 17 luglio 2021

Non solo la Messa antica, viene cancellato Benedetto XVI


Con il Motu proprio che fa fuori il vetus ordo, papa Francesco cancella lo sforzo di Benedetto XVI di costruire lo sviluppo della Chiesa nella continuità con la Tradizione, di evitare che il Concilio Vaticano II venisse inteso come una rottura.

 

Il cardinale Sarah aveva appena detto pochi giorni fa che il motu proprio Summorum pontificum con cui Benedetto XVI aveva nuovamente permesso la celebrazione secondo il messale di Giovanni XXIII del 1962 (il vetus ordo missae risalente a San Pio V) era il capolavoro del suo pontificato. Ieri, però, questo capolavoro è stato cancellato dal nuovo motu proprio Traditionis custodes di Francesco. È logico pensare che con esso sia stato cancellato anche Benedetto XVI, il quale però non rappresentava e non rappresenta solo se stesso. Ad essere stato cancellato, quindi, è molto di più anche di Benedetto XVI.

A leggere le spiegazioni che papa Francesco comunica ai vescovi di tutto il mondo nella Lettera personale che accompagna il motu proprio, si coglie subito che i motivi profondi che avevano indotto papa Ratzinger a ripristinare la messa antica, considerandola forma straordinaria dell’unica lex orandi della Chiesa romana, non vengono nemmeno ricordati. Può essere che non siano stati compresi, come può essere che si siano voluti nascondere per imporre l’idea della “continuità” tra questo motu proprio e il Summorum pontificum.
Francesco, infatti, propone ai vescovi la tesi secondo cui le stesse preoccupazioni che avevano animato Giovanni Paolo II e Benedetto XVI nelle loro disposizioni che liberalizzavano il rito antico sono anche quelle che ora animano lui nell’eliminarle. Questa spiegazione ha del rocambolesco, evidentemente, e le presunte deviazioni che secondo Francesco si sarebbero realizzate in questi anni dalle stesse attese dei due santi pontefici e che lo avrebbero indotto ad abolire le loro disposizioni in continuità con le loro motivazioni lasciano molto perplessi.

Secondo Francesco le motivazioni con le quali (soprattutto) Benedetto XVI aveva ripristinato il rito antico erano solo pastorali e volevano evitare una frattura nella Chiesa, accontentando una piccola frangia di fedeli appassionati al rito antico. Ma una simile spiegazione del Summorum pontificum è gravemente insufficiente e, possiamo dire, molto superficiale. Si sarebbe trattato di dare un “contentino”, di gettare un osso al cane. Nelle intenzioni di Benedetto XVI sul ripristino del vetus ordo c’era molto di più, in particolare c’era la grande questione della Tradizione.

Come è possibile che oggi sia illegale quanto era obbligatorio ieri? Qualsiasi istituzione che faccia questo – diceva e scriveva Benedetto XVI -  ridicolizza se stessa e si condanna all’insignificanza. Ciò che vale oggi, infatti, potrà non valere domani. Siccome la lex orandi coincide con la lex credendi, ripristinare col Summorum pontificum il rito di Pio V aggiornato da Giovanni XXIII significava ridare aria alla Tradizione e ribadire che la Chiesa non ri-comincia mai da zero. Non era la questione – come ritiene invece Francesco – di un residuo gruppo di fedeli nostalgici, esteticamente legati a certe formule, fuori della storia e che bisognasse accontentare perché non facessero troppo chiasso. In ballo c’era molto di più. Francesco cancella Benedetto XVI, prima ancora che con il nuovo motu proprio Traditionis custodes, con questa ridicola sottovalutazione di quanto stava dietro a quel suo “capolavoro”, come disse il cardinale Sarah.

Le aperture al vetus ordo di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI erano sì per l’unità della Chiesa, ma non perché intendessero racimolare qualche sparuto passatista per ricondurlo all’ovile, ma perché riproponevano l’enorme impegno di costruire l’unità della Chiesa sulla Tradizione, ossia su cosa la Chiesa è, è sempre stata e sempre sarà. Cosa impossibile da fare con le rotture col passato e con i “nuovi paradigmi”. Specialmente con le rotture liturgiche che sono sempre rotture dogmatiche, altro che pastorali.  

Papa Francesco cancella Benedetto XVI perché cancella il suo sforzo di costruire lo sviluppo della Chiesa nella continuità con la Tradizione. Questa era la lettura che egli dava del Vaticano II, il quale doveva essere letto nella tradizione della Chiesa e non come un nuovo dogma o un nuovo inizio. Questa era la lettura che egli dava dello sviluppo della teologia morale, che, aprendosi a nuove istanze, non poteva rinunciare al giusnaturalismo cattolico, ossia all’esistenza di un diritto naturale e di una legge morale naturale. Questa era la lettura che egli dava del dialogo interreligioso che non poteva fare a meno dell’annuncio di Cristo unico Salvatore. Questa era la lettura che egli dava perfino della Dottrina sociale della Chiesa, che non doveva essere divisa con un muro tra forma preconciliare e postconciliare. Si può dire che Benedetto XVI non sia riuscito in tutto e che vari aspetti di questo suo lavoro siano rimasti incompiuti, ma il lavoro non può essere negato.

Il nuovo motu proprio non si limita ad abrogare il Summorum pontificum, ma si propone anche di eliminare per morte lenta il fenomeno della messa antica. Il divieto di nuovi gruppi e l’impossibilità che i futuri sacerdoti ne apprendano la celebrazione, indicano una diagnosi eutanasica. Poiché però, come si è detto, questa non era solo una questione strettamente liturgica, si condanna a morte tutto quanto il suo ripristino aveva comportato. Cancellare il Summorum pontificum significa cancellare Benedetto XVI e questo vuol dire cancellare tutto il suo lavoro. Significa ricominciare da zero, peraltro sostenendo di farlo in custodia della tradizione.

 

(Fonte: Stefano Fontana, LNBQ, 17 luglio 2021)

https://lanuovabq.it/it/non-solo-la-messa-antica-viene-cancellato-benedetto-xvi

  

venerdì 9 luglio 2021

Concita, l'Orbanofobia e il giornalismo cialtrone


Le agenzie riportano la notizia della lussuosissima villa estiva fattasi costruire dal leader turco Erdogan, ma la celebratissima giornalista di Repubblica, Concita De Gregorio, presa da furore anti-sovranista legge Orbàn e scrive un articolo durissimo contro il presidente ungherese e i suoi amici sovranisti europei. E quando corregge, fa anche di peggio.... Psicopatologia del giornalismo di regime.


Un errore può capitare a tutti, ci mancherebbe. Soprattutto in questo mestiere: la fretta, la difficoltà di risalire alla fonte originaria della notizia, il correttore automatico maligno, omonimie che ingannano, e così via, il rischio di una scivolata è sempre dietro l’angolo. Ma ci sono errori ed errori: a volte strappano un sorriso, a volte dimostrano come la superficialità sia purtroppo una malattia professionale dei giornalisti, a volte rivelano l’ignoranza del singolo giornalista. Ma ci sono anche errori molto più preoccupanti perché sono l’indice di un furore ideologico che ha reso il giornalismo – parafrasando von Clausewitz – la continuazione della guerra con altri mezzi. Oggi è evidente che il giornalismo italiano è dominato da questi “baroni” della notizia per cui la realtà è un optional: finché serve per dare in testa al nemico da eliminare, o per sostenere il regime, bene; altrimenti i fatti si inventano, si distorcono, si insinuano e tanto peggio per la realtà. Fino a rendersi ridicoli.

Come è accaduto ieri alla celebratissima editorialista di Repubblica Concita De Gregorio che, nel suo curriculum vitae, vanta anche la direzione dell’Unità, trasmissioni Rai (ovviamente sul Tre) e tanti libri. Nel suo blog su Repubblica “Invece Concita” (che è anche rubrica cartacea del quotidiano romano) ha deciso di commentare una notizia che apparentemente le dava la possibilità di colpire duramente, tanto per cambiare, i vari politici sovranisti europei. «Guardo le immagini aeree della nuova residenza estiva del leader ungherese Viktor Orbàn….».

Una spesa di 62 milioni di euro, 300 stanze, un palazzo lussuosissimo: quale ghiotta occasione per sparare sul sovranista e fare la morale a questi «miliardari che fanno politica» e sbattono la loro ricchezza in faccia a quei poveracci del loro popolo che dicono di difendere. E come foto per l’articolo non poteva mancare Salvini che stringe la mano a Orbàn, che oltretutto odia l’Italia (secondo Concita). E infatti perché non ricordare, tanto per dare l’idea della cattiveria e perversione del leader ungherese, che Orbàn pose anche il veto alla Ue sul Recovery Fund, quei soldi di cui l’Italia ha tanto bisogno?

In realtà quel veto non riguardava il finanziamento all’Italia ma era una difesa contro i tentativi della Ue di condizionare i fondi europei con l’ingerenza nella politica nazionale ungherese. Ma lasciamo stare, e la pensi Concita come vuole su Orbàn. 

Ma il problema è che la notizia cui fa riferimento Concita non riguardava affatto Orbàn, ma il leader turco Recep Tayyip Erdogan, che si è fatto costruire questa villa nella località di Marmaris, sulla costa egea meridionale della Turchia.

Un granchio clamoroso quello di Concita: era scritto Erdogan, ha letto Orbàn, nomi che faranno pure rima ma non si somigliano neanche un po'. Solo con il furore ideologico e una patologia ossessivo-compulsiva si può spiegare l’errore. Concita vede il diavolo Orbàn dappertutto e sente il bisogno irrefrenabile di attaccarlo a mezzo stampa. Un caso evidente di Orbanofobia, forse uno specialista potrebbe esserle d’aiuto. 

Ma non c’è solo un problema psicopatologico. Dopo diverse ore e – immaginiamo – numerose segnalazioni di lettori meno sprovveduti dei giornalisti (a proposito: grazie al lettore Giorgio Stambazzi che ci ha segnalato il caso), Concita invece di cancellare l’articolo e chiedere scusa per un episodio professionalmente gravissimo, ha cercato di mettere una toppa che è anche peggiore del buco.

Intanto ha provato a far finta che nella versione originale per puro caso (chissà come) ci fosse scritto Orbàn invece di Erdogan, ma l’articolo fosse chiaramente riferito a Erdogan: «In una prima versione di questo articolo – scrive Concita in calce - il nome di Orbàn ha preso il posto di quello di Erdogan erroneamente. Me ne scuso con i lettori e gli interessati».

Una menzogna pietosa e vergognosa. In realtà si trattava di un articolo congegnato per dare in testa a Orbàn e ai suoi amici europei, che in fretta e furia ha cercato di riadattare a Erdogan, tanto la critica ai vizi dei miliardari in politica può andare bene per chiunque. Curiosamente Concita mantiene scandalizzata anche la parte in cui nota che «mentre la signora Erdogan invita la popolazione a ridurre le porzioni nei piatti per non sprecare cibo e risparmiare il marito spende 62 milioni di euro…». Frase identica a quella della prima versione in cui però era la moglie di Orbàn a predicare il pauperismo alimentare. Possibile che entrambe, per coincidenza, dicano le stesse cose?

No, infatti. Invece proprio pochi giorni fa è stata effettivamente la signora Emine Erdogan a fare un discorso pubblico suggerendo alcuni modi per evitare lo spreco di cibo, suscitando peraltro molte critiche. Ma si trattava di un evento inserito nella campagna “Preserve your food, protect your table” (Conserva il tuo cibo, proteggi la tua tavola) lanciata dalla FAO, l’agenzia Onu per il cibo e l’agricoltura. Ma Concita di questo non si era accorta: aveva letto Orbàn e via come una furia, avrebbe accusato la moglie anche se il presidente ungherese fosse stato single. Così, per puro caso, nella nuova versione la frase regge, anche se decontestualizzata.

Ma il meglio arriva alla fine. Perché volendo mantenere che lo scambio Orbàn-Erdogan era una sorta di refuso (ma allora la foto dell’articolo?), Concita ha mantenuto intatto il pezzo originario. Solo che proprio questo svela la cialtronata. Infatti, dopo aver censurato Erdogan e lo sfoggio di «regge di non reali», troviamo le frasi finali che non c’entrano assolutamente nulla con Erdogan e la sua villa: «Nel manifesto dei sovranisti europei firmato da Meloni e Salvini figurano anche la francese Le Pen, lo spagnolo Abascal, il polacco Kaczynski e Orbàn», con quel che ne segue riguardo Orbàn e il Recovery Fund.

Non credo servano molti altri commenti. Eduardo de Filippo sarebbe stato molto sintetico al proposito. Però ricordiamoci sempre che questi signori sono gli stessi che pretendono di dare lezioni di giornalismo e di etica a tutto il popolo.


(Fonte: Riccardo Cascioli, LNBQ, 9 luglio 2021)

Concita, l'Orbanofobia e il giornalismo cialtrone - La Nuova Bussola Quotidiana (lanuovabq.it)

 

 

lunedì 7 giugno 2021

Il cattolico ombra, vittima della cultura che respiriamo


Vi sono persone che sono cattolici in potenza, cattolici ombra. Il fattore che li ha ingannati è la cultura, intesa come ambiente (dis)valoriale in cui siamo immersi. L’aria mefitica che respirano è la stessa che respiriamo noi. Quindi, non vanno guardati con commiserazione, nessuno si senta al sicuro.

 

Vi sono persone che sono cattolici in potenza, cattolici ombra. Ossia persone a cui manca tanto così per esserlo e non se ne rendono conto. Facciamo un esempio tra molti. Prendiamo una coppia che, dopo un po’ di anni di convivenza, si è sposata in chiesa perché «il matrimonio in comune è tristissimo e poi così facciamo contenti i genitori». Lui è lei professano un ateismo di fatto: nessuna frequenza ai sacramenti – in primis alla messa domenicale – nessun momento dedicato alla preghiera né alla formazione cristiana. Ciò nonostante, il loro bagaglio di valori umani è ricchissimo: assolutamente fedeli l’uno all’altra, crescono i figli in modo serio e responsabile, molto generosi con tutti, amici sinceri di molti, professionisti onesti e scrupolosi, hanno un giudizio sulla realtà molto assennato, oggettivo e maturo, sono sensibili al dolore e alla difficoltà altrui, coltivano una propria interiorità sebbene tutta umana. A volte cercano il silenzio, ma mai esplicitamente Dio. E infatti il buco nero nelle loro vite è proprio la mancanza assoluta di un afflato trascendente: a Dio non pensano quasi mai, se non in caso di grave necessità, rasentando quasi la superstizione. Se parli loro di Dio magari ti dicono anche che ci credono – nelle forme più minimali escono con la frase «credo che ci sia qualcosa dopo la morte» - ma Dio sta alle loro esistenze come la luce del sole sta alla cecità.

Se Dio, comunque, è ancora un concetto per loro potabile, perché in fondo modellabile secondo il comodo immaginario di ciascuno, appare invece indigeribile la figura della Chiesa che, ai loro occhi, è solo una società a delinquere, piena di pedofili e gelosa custode di privilegi che Dio – tirato fuori all’occorrenza dalla cantina delle proprie coscienze – condannerà senz’appello nell’Aldilà. Insomma vivono tutto ciò che riguarda la religione come una sovrastruttura inutile, come un formalismo senza un suo senso pratico, come una zavorra lasciata sulle loro spalle da genitori ancora un poco debolmente credenti, ma che hanno abbandonato per strada da tempo, fin dall’adolescenza.

Lo ammettiamo, a leggere questa descrizione parrebbe che più di cattolico ombra dovremmo parlare di cattolico morto e sepolto. Ma a ben guardare con gli occhi della speranza cristiana non è così. Il santo non si edifica senza l’uomo, le virtù teologali sono lettera morta senza le virtù cardinali. Vero è che queste ultime acquisiscono pieno significato alla luce delle prime, ma naturaliter l’uomo può essere giusto, forte, prudente, temperante, etc. Ciò che vogliamo dire è che molte persone intorno noi – in realtà tutte - hanno la stoffa per diventare autentici cattolici, ossia, ancor meglio, santi. La materia prima è ottima, seppur inquinata da tante scorie che ammorbano l’aria che tutti noi respiriamo. Le potenzialità sono elevate e per esprimerle occorre partire dalle loro qualità umane. La loro umanità è una promessa di santità.

Un aspetto fondamentale da tenere in considerazione e che regala molta speranza è poi il seguente. Queste persone in realtà non conoscono davvero cosa sia la vera fede, la vera Chiesa. Rifiutano ciò che non conoscono. Questo è accaduto almeno per due motivi. Da una parte hanno appreso dai media dottrine spacciate come cattoliche, ma che cattoliche non sono: la Chiesa odia i gay, si possono salvare solo i battezzati, le donne valgono zero nella Chiesa, etc. E poi si sono lasciati infinocchiare con le solite storielle spazzatura: i veri preti sono solo quelli che fanno i missionari in Africa perché gli altri in realtà si sono fatti prete per arricchirsi o per far carriera, i Vangeli li hanno scritti gli uomini, mica Dio et similia.

Luoghi comuni che poi si autoalimentano seguendo un moto perpetuo. Su altro fronte, forse ancor più di frequente, costoro hanno fatto spessissimo incontri disastrosi con laici e uomini di Dio incoerenti e/o con idee confuse. Dunque ne sono usciti con le ossa rotte, cioè o scandalizzati – quante mancanze di carità di noi cattolici dobbiamo registrare – o guastati nelle idee tanto che spesso hanno in testa una immagine della fede e della Chiesa che non corrisponde al vero. La speranza a cui si faceva cenno prima è data dal fatto che con queste persone, la cui bontà d’animo non ha permesso all’ideologia dominante di infettare tutte le fibre del loro cuore, è possibile dialogare e ragionare per far comprendere loro come stanno in realtà le cose, che la Chiesa non ha mai detto X, Y, Z e che ciò che loro dicono e credono su questi argomenti coincide, almeno nella sostanza, con ciò che insegna la Chiesa stessa.

Il fattore che in buona sintesi ha ingannato questi nostri fratelli è la cultura, intesa come ambiente (dis)valoriale in cui siamo immersi. Se con la macchina del tempo riuscissimo a trasportare nel passato queste stesse persone e a permettere loro di compiere il proprio cammino di crescita umana non in questi ultimi decenni, ma ben prima, ecco che pochissimi di loro avrebbero ad esempio scelto la convivenza o avrebbero inteso il matrimonio in chiesa come un grazioso complemento alle loro nozze o avrebbero disertato le messe domenicali e i confessionali.

Avrebbero agito come Dio e la Chiesa comandano perché, in contesti ben più cristiani di quelli odierni, sarebbe parso loro una scelta chiaramente e ovviamente buona. Come oggi costoro non si questionano molto sulla bontà del divorzio per i matrimoni falliti e della convivenza per verificare la validità della vita a due, così ieri – anzi: l’altro ieri – queste stesse persone non si sarebbero di certo interrogate sulla irragionevolezza del divorzio e della convivenza. È il brodo culturale in cui sono stati immersi ad averli inconsapevolmente infettati, ad averli orientati in modo impercettibile e acritico verso scelte che loro stessi – fossero vissuti mezza generazione prima – non avrebbero mai compiuto. Dunque il grado di responsabilità di queste persone, umanamente ricche, sì esiste, ma forse in grado infimo, proprio a motivo dell’influenza fortissima che la cultura esercita su tutti noi.

Anche per questo ultimo motivo possiamo poi dire che tutti noi siamo cattolici in pectore Dei. Nessuno si senta a posto, arrivato, compiuto solo perché ha le idee chiare sulla comunione ai divorziati risposati e sul suicidio assistito. L’aria mefitica che respirano i nostri fratelli che spesso, senza carità, guardiamo con commiserazione o scandalizzati è la stessa che respiriamo noi. Quindi nessuno si senta al sicuro, già salvato. Ricorriamo spesso ai sacramenti, alla preghiera, alle opere di carità, al Magistero di sempre, allo studio, alla vigilanza, le uniche mascherine che ci permettono di filtrare le impurità presenti in questa nostra atmosfera che si chiama cultura.

 

(Fonte: Tommaso Scandroglio, LNBQ, 7 giugno 2021

https://www.lanuovabq.it/it/il-cattolico-ombra-vittima-della-cultura-che-respiriamo

 

giovedì 6 maggio 2021

Malascienza. L’impostura di Lucifero

 


L’ultimo libro di Emilio Biagini, ex accademico che conosciamo per la sua trilogia "Il prato alto" sulla storia dell’Austria a partire dal Pleistocene. Ora punta il dito contro la "Malascienza. L’impostura di Lucifero". E gli impostori dello Scientismo: parti delle scienze naturali sono esposte a pesanti condizionamenti di lobbies che mirano a dirigere il mondo secondo i loro piani

 

«Avevano cominciato col dire che l’universo è eterno, in modo da poter fare a meno del Creatore. Avevano cominciato col dire, e insistono pure, che l’evoluzione darwiniana è provata al di là di ogni dubbio. Avevano cominciato col dire che l’ambiente è delicato e in pericolo per colpa dell’uomo, e continuano a dirlo. Avevano cominciato col dire, e dicono ancora, che sulla Terra siamo troppi...».

Inizia così l’ultimo libro di Emilio Biagini, ex accademico che conosciamo per la sua trilogia  Il prato alto sulla storia dell’Austria a partire dal pleistocene. Ora punta il dito contro la Malascienza. L’impostura di Lucifero (Solfanelli, pp. 568, €. 32). E gli impostori dello Scientismo: «Non chiamateli atei: tutti hanno un “dio” da adorare. Infatti idolatrano se stessi, la natura, gli animali, i propri vizi, il diavolo, il “grande architetto”; tutto idolatrano, tutto adorano, eccetto Dio». Costoro «invocano quello che chiamano “la scienza”, credendo di poter dimostrare che la Parola di Dio è “sbagliata”, e loro, invece, “sanno”». Ma attenzione: «Tale è la loro fragilità che una sola Ave Maria (detta liberamente e senza obbligare nessuno) in un’austera (si fa per dire) aula universitaria, basta a scatenare reazioni scomposte, travasi di bile, interrogazioni parlamentari e striscianti scuse del “magnifico” (si fa per dire) rettore».

La loro guerra parte da lontano, lontanissimo. «Dai loro frutti li riconoscerete», dice il Vangelo. Ma a loro non interessa; sgonfiato un mito eccone un altro. «Ecco le blaterazioni della scuola di Francoforte, che, in previsione del fallimento marxista, propugnò l’estensione della lotta di classe ad ogni possibile relazione: “vietato vietare”, femminismo, gender, terzomondismo, indigenismo, ambientalismo, animalismo, veganesimo, piantismo». Razzismo, new entry. Poi, per sicurezza, «berciarono: “Tutto è relativo! Tutto è relativo!” Chi altro poteva riuscire se non loro? Se le loro ardite elucubrazioni avevano fallito, significava che nessuno era in grado di “riuscire”». Il comune denominatore? «L’odio verso tutto ciò che è ordinato, naturale, normale. Vietato usare la stessa parola “normale”, perché sarebbe “discriminatoria”». Ma è il solo denominatore, perché neanche tra loro si amano.

«La doppia elica del Dna fu dimostrata per la prima volta mediante diffrattografia ai raggi X dall’ebrea inglese Rosalind Franklin, morta di cancro nel 1958, a trentotto anni, per eccessiva esposizione ai raggi X stessi, ma il merito della scoperta toccò invece a James Watson e Francis Crick, che avevano visto la foto ai raggi X della struttura ad elica ottenuta dalla Franklin e presentarono l’idea, ottenendo il Nobel per la medicina nel 1962». Ma sono tutti così? No: «La forzatura dei dati scientifici è praticamente impossibile nelle scienze esatte, in matematica, in fisica, in chimica, ma parti delle scienze naturali sono esposte a pesanti condizionamenti di lobbies che mirano a dirigere il mondo secondo i loro piani, ed è più difficile smascherare le frodi: casi classici sono l’evoluzionismo darwiniano e l’ambientalismo. Le cosiddette “scienze umane”, poi, sono l’arena dove si contorcono idre a dieci teste d’ogni forma e colore». E poi, «un odio isterico, ossessivo, livido, maniacale, contro la Chiesa». Piccoli uomini, «gli scientisti lanciano vibranti esaltazioni del metodo scientifico, in difesa della “dignità della scienza”, cioè la loro dignità, i loro seggioloni, i loro stipendi, i loro viaggi a spese dei contribuenti». Ogni tanto qualcuno cade e viene divorato dagli altri Uruk-hai, ma subito ricominciano con l’inseguimento agli Hobbit.

 

(Fonte: Rino Camilleri, LNBQ, 3 maggio 2021)

Malascienza. L’impostura di Lucifero - La Nuova Bussola Quotidiana (lanuovabq.it)

 

 

lunedì 3 maggio 2021

Povera Italia!


 Non è grave che un cantante di canzonette si creda in grado di pontificare su tutto. È grave che ci sia chi lo considera un interlocutore. Stiamo davvero grattando il fondo…


 Come sarebbe bello se ognuno facesse, possibilmente bene, il proprio mestiere. Invece in questi giorni ci siamo dovuti sorbire l’ennesima commediola da Paese allo sfascio.

Un signore che si fa chiamare Fedez, che si occupa di canzonette – con le quali ha fatto un sacco di soldi – ricoperto di tatuaggi da far invidia a molte tribù primitive, non da oggi è convinto di essere anche un “opinionista”, una sorta di guida di pensiero.

Quando si fanno i milioni si può essere ciò che si vuole, soprattutto se si è perfettamente integrati nel Sistema. Del resto, se non si è integrati, è assai difficile fare i milioni.

Lo stesso Fedez, se non sbaglio, qualche tempo fa si era esibito anche nel dare pareri di tipo teologico. Adesso, a riprova di quanto sia un disciplinato ingranaggio del sistema, si occupa anche di difendere a spada tratta il ddl Zan, quello che vuole fare degli aderenti LGBT una categoria superiore, degna di tutela particolare e assolutamente incriticabile.

Questo tatuatissimo opinionista ha le basi culturali, giuridiche e filosofiche, per affrontare l’argomento? Che domanda sciocca! Ormai le opinioni le danno quelle che una volta si chiamavano “soubrette” (oggi non so come si chiamino), i cantanti, magari anche i calciatori. La necessità di capire qualcosa delle cose di cui si parla è stata ampiamente superata. Forse era un retaggio di bieco fascismo.

Questo signore tatuato ha fatto non so che polemica con la Rai che, pagandolo per fare uno spettacolo, pretendeva di dargli delle indicazioni circa il fatto di non straparlare troppo.

Il signore tatuato – e qui siamo davvero al surreale – ha rivendicato la sua libertà “di artista”. “Artista”, si noti bene. Che nostalgia di un Edoardo Bennato che cantava “Sono solo canzonette”. Boh!

E poi leggo che un altro signore, questo senza tatuaggi, anzi, lui è profondo, pensoso e molto molto colto, di nome Enrico Letta, che è tornato precipitosamente da Parigi per salvare l’Italia, assumendo la segreteria del PD e spiegandoci che senza lo “ius soli” saremo rovinati, questo signore senza tatuaggi, dicevamo, ha assunto d’ufficio la difesa del tatuato e ha espresso addirittura “gratitudine” al signor Fedez (quello tatuato). Seguono poi le prese di posizione di altri giganti del pensiero politico, da Di Maio, a Conte, eccetera.

Mamma mia, ma a che livello siamo scesi?

Un canzonettista che pontifica, dei “politici” (si fa per dire), che pretendono di guidare il Paese e si mettono a discutere con il canzonettista.

E se ognuno tornasse a fare il proprio mestiere – ammesso che ne abbia uno – non sarebbe meglio?

 

PS: ho letto che il signore Fedez ha donato molti quattrini per la cosiddetta “emergenza covid”. È stato generoso e ciò va a suo onore, comunque il fatto in sé stesso non vuol dire niente. Nei ruggenti anni del proibizionismo, uno dei più generosi benefattori, sempre pronto a fare ingenti donazioni a orfanotrofi, ospedali e strutture di assistenza era un certo signor Alphonse Gabriel “Al” Capone, detto Scarface. Interessante, vero?

 

(Fonte: Michele Majno, Il nuovo Arengario, 2 maggio 2021)

Povera Italia – Il Nuovo Arengario

 

venerdì 16 aprile 2021

PRETI SENZA TONACA: Per due come noi

 


Non sono certo nella condizione di insegnare a un prete a fare il prete, ma posso insegnare qualche cosa a un prete che vorrebbe fare il marito. Ad esempio ascoltarsi la canzone di Brunori Sas Per due come noi, che tra l'altro è uno dei pochissimi recenti capolavori della canzone italiana perché fissa nel granito non l'amore a 20 anni - troppo facile -, ma quello dopo 20 anni, ma questi sono problemi miei. 

Nel ritornello dice: "Non confondere l'amore e l'innamoramento che oramai non è più tempo". Don Riccardo Ceccobelli è l'ultimo della schiatta dei sacerdoti che lasciano la tonaca utilizzando un'intervista in esclusiva al Corriere come pretesto per insegnare ai cattolici che è la Chiesa a dover rivedere le sue dure regole sul celibato e non semmai loro a doversi interrogare sul loro strappo.

A lui, con tutto il rispetto umano, ma anche la franchezza del battezzato dico che dalla sua intervista traspare proprio una immaturità di fondo. E lo dico da padre e marito quale indegnamente sono, sapendo di attirarmi le prediche delle prefiche che «l'amore è amore» e quegli altri che «quando c'è l'amore c'è tutto» (e no, direbbe, Troisi, quella era la salute). Ma anche quelli che «chi sei tu per giudicare». 

Liberissimo di appendere la tonaca al chiodo e di portare in tribunale i libri contabili della parrocchia, se tutto resta nella riservatezza della propria storia. Ma quando si lascia la tonaca per una donna (per una donna, non per amore, per una donna), guarda caso la notizia viene sempre sbandierata sui giornali come se si avvertisse la necessità di continuare a fare la predica al popolo di Dio e spiegargli quanto sia imbecille a non capire e a non accettare. Ecco, in questi casi, e questo è il caso, sento puzza. E allora, esprimere una critica è possibile. 

Non giudico ovviamente lei, Dio me ne scampi, ma giudico la facilità con la quale, a 42 anni - appena un anno in meno di me - attraverso il più diffuso quotidiano d'Italia cerca di spacciare l'abolizione del celibato come battaglia di bandiera, quando altro non è che una sconfitta personale portata avanti con l'immaturità dei sentimenti che si annidano nella mentalità del mondo che ormai è penetrata dentro la Chiesa fino a riplasmarla. 

Un'immaturità di sentimenti, reverendo, perché nell'intervista lei parla di «emozioni», di «benessere al telefono», di «uscite mano nella mano da fidanzati» non ancora fatte, di futuri emozionanti «pranzi dai genitori». Ma amare non sono le farfalline nello stomaco. Amare è la ragione che confina il cuore nel suo recinto pulsante per un bene più grande. Una ragione che si fa programma di vita, vocazione, che si costruisce passo dopo passo nella conoscenza, nel sacrificio e nel rispetto reciproco. E che trova nell'altro non un salto nel buio, non solo un volto, ma il Volto, il cui sguardo da sostenere è difficile perché rimanda ogni volta allo sguardo di Chi per noi si è fatto carne e poi vittima. 

Questo è l'amore: un costante e eterno sguardo nell'Altro, che cresce nella fatica e nella consapevolezza che «i due saranno una sola carne» che a me fa sempre tanta tenerezza e spavento e ricorda, appunto, quel «perché ci vuole passione/dopo vent'anni a dirsi ancora di sì/e stai tranquilla sono sempre qui» della canzone di prima.

Sicuramente il suo vescovo avrà vagliato con saggezza tutte le strade, però, don Riccardo, parliamoci chiaro: le auguro di trovare davvero la sua strada, che può essere quella del matrimonio o anche del ritorno alla vita consacrata, ma solo dopo aver chiarito dentro di sé, e non a un cronista, che l'amore che cerchiamo per noi è sempre riflesso dell'Amore di Cristo. Questo dalla sua intervista non traspare, anzi traspare molto egoismo dei sentimenti e credo sia una mancanza che prima o poi dovrà interrogarla. 

Un'ultima cosa: se dovesse scegliere la via a due, però, sappia che dovrà rinunciare alle prediche, perché quelle saranno prerogativa della sua dolce metà.

 

(Fonte: Andrea Zambrano, LNBQ – Fuori Schema, 14 aprile 2021)

 https://lanuovabq.it/it/per-due-come-noi

 

 

giovedì 18 marzo 2021

Cuccagna farmaceutica: l’Ema, agenzia europea che autorizza la vendita delle medicine, è finanziata all’84% da Big Pharma


Il professor Silvio Garattini, 90 anni, fondatore dell’Istituto Mario Negri, sostiene da tempo che «la metà dei farmaci è inutile, una pillola su due è inutile». Il motivo? «Di uno stesso principio attivo, esistono sul mercato decine di prodotti farmaceutici, che di diverso hanno solo l’etichetta. Tutto questo non serve per curare i malati, bensì per gonfiare i profitti delle aziende farmaceutiche». Un esempio? Una ricerca scientifica pubblicata dal British Medical Journal ha appurato che il 65% dei farmaci oncologici, solitamente tra i più costosi, non sono stati introdotti a beneficio dei malati, bensì per quello dei bilanci di Big Pharma. Ma chi controllo questo mercato?

In Italia, l’Aifa (Agenzia italiana del farmaco) ha il compito di stabilire il prezzo delle medicine che le aziende farmaceutiche vendono al Servizio sanitario nazionale. Un prezzo segreto, tale per una clausola imposta da Big Pharma agli Stati europei, così da rendere impossibile l’unificazione del prezzo dello stesso medicinale perfino nei paesi con la stessa moneta, l’euro (vedi ItaliaOggi di ieri). Al di sopra dell’Aifa, con un potere maggiore, c’è l’Ema, l’Agenzia europea per le medicine, trasferita da Londra ad Amsterdam dopo la Brexit: il suo compito è di autorizzare, o vietare, l’immissione sul mercato europeo di ogni singolo farmaco. Dunque, un potere decisivo enorme.

Purtroppo, si tratta di un potere circondato da ombre e sospetti inquietanti. Basti sapere che il budget 2020 dell’Ema, su un totale di 358 milioni di euro, è coperto per 307 milioni (84%) da contributi delle case farmaceutiche e appena per 51 milioni da fondi dell’Unione europea. Dati scovati e pubblicati da Mario Giordano nel suo bel libro (Sciacalli, virus, salute e soldi; Mondadori). Numeri che dimostrano come, nel settore farmaceutico Ue, il controllato (Big Pharma) controlli di fatto il controllore (Ema), e ne influenzi ogni singola decisione sui farmaci da immettere sul mercato europeo.

Grazie ai milioni versati, infatti, Big Pharma ha il privilegio di partecipare alle riunioni dell’Ema tramite un proprio avvocato. Per legge, le valutazioni dell’Ema su un nuovo farmaco devono basarsi su tre parametri: sicurezza, efficacia, qualità. Il che è il minimo. Ma se un farmaco è il doppione di un altro precedente, è davvero necessario? Ebbene, questa domanda è inutile porla durante le riunioni dell’Ema. «Io ci ho provato», ha raccontato a Giordano un ex membro dell’Ema. «Alzavo la mano e chiedevo: siamo sicuri che questo nuovo farmaco sia necessario? Aggiunge qualcosa di nuovo? Cura meglio degli altri? Ogni volta l’avvocato delle aziende farmaceutiche, sempre presente alle sedute, mi bloccava: la legge non prevede questa valutazione». E ovviamente l’aveva vinta.

Non è dunque un caso se in venti anni l’Ema ha autorizzato 975 nuovi farmaci, mentre quelli bocciati ogni anno si contano sulle dita di una mano (cinque nel 2018). Con 36 amministratori e 890 dipendenti, l’Ema è un carrozzone europeo che ha fatto discutere più volte, soprattutto per la scarsa trasparenza. Nel 2018, causa Brexit, la sua sede è stata trasferita ad Amsterdam, che ebbe la meglio su Milano solo grazie a un sorteggio di cui, stranamente, furono smarriti i documenti. Ma qualche mese dopo, grazie a ItaliaOggi e a un mio articolo basato sulle e-mail di alcuni dipendenti Ema, si scoprì che Amsterdam aveva bluffato, in quanto non disponeva di una sede adeguata, mentre Milano aveva il Pirellone già pronto.

Ripensamenti? Contropiede del governo italiano? Zero. Così il comune di Amsterdam, con la connivenza dei burocrati di Bruxelles, ha avuto tutto il tempo per costruire una sede nuova di zecca in periferia, dove l’Ema si è trasferita con calma, ma a caro prezzo. L’Alta corte di giustizia inglese ha infatti condannato l’Agenzia Ue del farmaco a pagare fino al 2039 l’affitto che aveva stipulato per la sede di Londra con un primario gruppo immobiliare, il quale non ha voluto saperne di rescindere il contratto di leasing. E la stampa inglese ha quantificato il costo totale della sentenza per l’Ema tra 470 e 574 milioni di euro, somma di gran lunga superiore al suo budget annuale.

Per questo sarà davvero interessante scoprire, tra qualche tempo, da quale tasca usciranno i milioni per fare fronte alla condanna: se ne farà carico il bilancio Ue 2021-27, tuttora in discussione, oppure le aziende di Big Pharma, in cambio dei soliti favori? Mario Giordano ha calcolato che le prime dieci aziende farmaceutiche nel mondo fatturano 408 miliardi di euro l’anno, tre volte il prodotto interno dell’Ungheria, 250 volte il pil del Gambia. La risposta su chi pagherà, potete scommettere, verrà di conseguenza. Il che non toglie che la cuccagna farmaceutica europea continui a essere un problema politico molto serio, dove Big Pharma conta più degli Stati sovrani e della stessa Ue, così che i suoi profitti contano più della tutela della salute dei cittadini europei: questione resa ancora più urgente dalla pandemia Covid-19, ma ignorata colpevolmente da governi e giornaloni in tutta l’Unione europea.

 

(Fonte: Tino Oldani, Italia oggi, 4 settembre 2020)

Cuccagna farmaceutica: l'Ema, agenzia europea che autorizza la vendita delle medicine, è finanziata all'84% da Big Pharma - ItaliaOggi.it

 

 

mercoledì 10 marzo 2021

Il caso Bose rivela l'ambiguità di Roma

Tra Enzo Bianchi da una parte e il suo successore a Bose e il Papa dall'altra, si è aperto un contenzioso senza esclusione di colpi. Ma a lasciare sconcertati è che nulla si sappia dei fatti all'origine del provvedimento vaticano. Come è già accaduto in tante altre occasioni durante questo pontificato.

 La dura battaglia che oppone il fondatore della Comunità di Bose Enzo Bianchi al suo successore Luciano Manicardi è l’ennesima dimostrazione della distanza che esiste in questo pontificato tra la retorica della trasparenza e della giustizia e la realtà fatta di opacità e arbitrio. Così Enzo Bianchi è l’ennesimo caso di personaggio che passa dalle stelle alle stalle, dalla manica di papa Francesco al pubblico ludibrio, in un batter d’occhio e senza che venga mai spiegato il perché.

La vicenda è nota: dopo le dimissioni da priore della comunità di Bose (diocesi di Biella) e la elezione del successore Luciano Manicardi nel gennaio 2017, sono ben presto circolate voci sulle difficoltà di rapporti tra vecchio e nuovo corso nella singolare comunità monastica, che rappresenta un esperimento ecumenico ed è composta sia da uomini che da donne. Il conflitto è venuto allo scoperto con la visita apostolica inviata dalla Santa Sede nel dicembre 2019 e poi con il decreto del 13 maggio 2020 con cui il segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin – con approvazione del Papa -, intimava a Enzo Bianchi di allontanarsi definitivamente da Bose.
Successivamente identificata in una casa in Toscana di proprietà della comunità di Bose la destinazione di Bianchi, la situazione è però rimasta in stallo e Enzo Bianchi non si è mai mosso dall’eremo nel terreno della comunità di Bose dove già risiedeva.

La situazione è poi esplosa nei giorni scorsi quando prima il Papa è intervenuto direttamente nella vicenda confermando, alla vigilia della partenza per l’Iraq, il decreto del maggio 2020. E poi con il comunicato di Enzo Bianchi del 5 marzo in cui racconta la sua verità accusando il suo successore di non aver rispettato gli accordi raggiunti con la segreteria di Stato vaticana riguardo alle condizioni del suo trasferimento; e in pratica di volerlo buttare in mezzo alla strada impedendogli anche la vita monastica lontano da Bose.

I toni, da una parte e dall’altra sono molto duri, e costituiscono certamente un ottimo spunto di riflessione sul significato della fraternità (altro concetto tanto predicato a parole quanto disatteso nei fatti), ma non è principalmente questo il motivo per cui ci interessiamo alla “guerra di Bose”. È anche noto che siamo stati sempre molto critici verso questa esperienza monastica e in particolare nei confronti di Enzo Bianchi che tanti danni, con la sua predicazione eterodossa e il suo potere mediatico, ha provocato nella Chiesa italiana e non solo. Non è quindi la simpatia nei suoi confronti o nei confronti dell’esperienza di Bose che ci muove ad interesse.

Quello che invece ci colpisce è la rapidità con cui è passato da favorito del Papa a reprobo. Ricordiamo le tante occasioni in cui è stato ricevuto da papa Francesco, i cui gesti pubblici sottolineavano la grande stima per Enzo Bianchi. Nominato consultore del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani già nel 2014, fino almeno al giugno 2017 è stato indicato come possibile nuovo cardinale ad ogni avvicinarsi di Concistoro; poi, ancora nel 2018 è stato nominato dal Papa uditore dell’Assemblea generale del Sinodo dei vescovi sui giovani. Quindi l’improvvisa caduta in disgrazia e l’invio della visita apostolica con tutto quel che ne segue.

Che tutto sia riconducibile al dissidio circa l’esercizio dell’autorità nella comunità di Bose – come dicono i comunicati ufficiali – è francamente poco credibile. La durezza delle sanzioni contro colui che è il fondatore della comunità si possono spiegare soltanto con accuse molto gravi. La mancanza di trasparenza legittima ovviamente qualsiasi tipo di speculazione sulle vere ragioni, cosa che non è giusta nei confronti né della comunità cristiana, che ne è scandalizzata, né di Enzo Bianchi, che non ha la possibilità di difendersi. Se cose gravi sono state commesse è giusto che si apra un processo canonico, come tante volte è stato detto a parole.

Ha giustamente notato il vaticanista Sandro Magister, che a inquietare è il ricorso al “decreto singolare” approvato dal Papa “in forma specifica”, ovvero uno strumento canonico per comminare una pena in modo definitivo e inappellabile. Strumento che con questo pontificato sta diventando una consuetudine, aprendo a una forma di esercizio arbitrario del potere.

Del resto le carriere fulminanti e le altrettanto rapide cadute in disgrazia, tipiche delle rivoluzioni e dei regimi, sono una caratteristica consolidata anche di questo pontificato. I casi dei cardinali Theodore McCarrick e Angelo Becciu sono i più clamorosi: puniti pubblicamente senza che si sia mai arrivati a una verità stabilita davanti a una regolare corte o commissione. In questo modo però rimangono nell’oscurità il sistema e le reti di complicità che hanno portato i singoli ad essere protagonisti di abusi sessuali o di episodi di corruzione.

Un uso così personalistico e arbitrario della giustizia fa nascere il sospetto che si voglia sacrificare una persona – garantendosi così anche gli applausi del popolo a cui è consegnato il colpevole – per salvare il sistema e continuare ad andare avanti come solito. Se si vuole essere davvero credibili nella lotta agli abusi e alla corruzione, ci vuole ben altra trasparenza. Cominciare con Bose non sarebbe male.

 

(Fonte: Riccardo Cascioli, LNBQ, 10 marzo 2021)

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