mercoledì 30 gennaio 2013

Monastero di Bose, “casa di tolleranza religiosa”, due

Non quante fedi ci son sotto lo stesso cielo, ma quale Dio c’è sopra.
Un’inchiesta, Seconda Parte.

Riprendiamo il nostro viaggio all’interno della Comunità di Bose. L’intento rimane lo stesso della prima parte: non scriviamo per condannare perché non sta a noi farlo. Scriviamo solo per amore di verità. E ribadiamo che ciò che diciamo sulla comunità di Bose – di cui poco ci cureremmo se non avesse pretese di cattolicità – lo affermiamo per evitare che molti cattolici restino confusi da un’esperienza che può certamente dirsi spirituale, ma che ci sembra non possa dirsi, con altrettanta sicurezza, pienamente cattolica. Come nella prima parte, inoltre, è opportuno ricordare che “casa di tolleranza religiosa” non vuole essere una definizione, ma un’espressione paradossale, imperniata sulle parole “tolleranza religiosa”. Non si vuole, perciò, offendere la comunità di Bose, ma soltanto esprimere dei dubbi sulla piena cattolicità della fede che lì si professa.
Scrive Bianchi nella regola del monastero: «Presiedere all’unità significa semplicemente esercitare il carisma dell’unità nella comunità. Chi presiede nella comunità non deve dominare ma solo servire i fratelli. Per questo gli sono essenziali il carisma della saldezza e quello del discernimento. Saldezza per riconfermare i fratelli. Come Pietro, dunque, peccatore come lui, rinnegatore per tre volte di Cristo, egli si convertirà e confermerà i fratelli con la sua saldezza. L’altro carisma è quello del discernimento: con questo si edifica l’unità della comunità».
Dice, dunque, Bianchi: “Saldezza per riconfermare i fratelli. Come Pietro, dunque, peccatore come lui, rinnegatore per tre volte di Cristo, egli si convertirà e confermerà i fratelli con la sua saldezza…”. Ancora una volta i non cattolici vengono messi sullo stesso piano dei cattolici e, peggio ancora, sullo stesso piano di Pietro; anche i non cattolici dunque possono “confermare, riconfermare i fratelli” perché, spiega in sostanza Bianchi, il fratello, non cattolico, nella casa della tolleranza religiosa, peccatore come Pietro che rinnegò Gesù ma poi si è convertito, potrà confermare i fratelli con la medesima saldezza di Pietro…
Siamo al sincretismo più evidente, al soggettivismo puro!
“Convertito” a chi, se ognuno rimane tranquillo nella propria fede, separato nella Chiesa? Se non ci fosse la presenza dei cattolici nella comunità bosiana, non avremmo nulla da obiettare a questa Regola, ma dal momento che ci sono perché questi non dovrebbero seguire direttamente Pietro? Come può un cattolico farsi confermare in una fede che nell’altro confratello è disgiunta dalla fede di Pietro in tutta la sua articolata trasformazione dottrinale e dogmatica bimillenaria?
L’altro carisma, dice Bianchi, è il discernimento e con questo si edifica l’unità della comunità. Ma il cattolico dovrebbe sapere che l’unità della comunità si edifica nella più alta forma della carità che parte dall’adorazione Eucaristica, dall’andare alla Messa – anche ogni giorno, se può – dal correggere il fratello che è in errore e non assecondarlo e dirgli o fargli credere che la sua fede non cattolica è giusta o che va bene così…
Questa forma di carità è particolare perché Nostro Signore Gesù Cristo volle istituire con la sua Chiesa un mezzo sicuro ed efficace per trasmettere la Salvezza. Quando la Chiesa insegna questa Salvezza non intese mai dire che tutti gli altri che non appartengono alla Chiesa siano eternamente dannati o perduti, ma dice che la sola Chiesa di Gesù Cristo ha la potenza di condurre gli uomini alla certezza della salvezza. I mezzi per conseguire l’eterna salute sono quelli ordinari, ma anche quelli straordinari: i mezzi ordinari sono nelle mani della Chiesa e sono i suoi divini sacramenti; quelli straordinari sono nelle mani di Dio e sono quelli che la Chiesa definisce “strade misteriose che conducono a Dio”. Tuttavia anche i mezzi straordinari si muovono in un modo ordinato che ha nella divina Eucaristia, la Santa Messa, il suo principio motore. Importanti sono poi le preghiere della Chiesa e dei fedeli, specialmente il santo rosario.
Scrive a ragione monsignor Antonio Livi: «Come si fa a far amare la Chiesa di Cristo, “colonna e fondamento della verità”, se viene messo in ombra il carisma dell’infallibilità del magistero ecclesiastico, se viene esaltato lo spirito di disobbedienza e la critica demolitrice della legittima autorità stabilita da Cristo stesso? Insomma, non è certo segno di sensibilità pastorale orientare il criterio dottrinale dei propri lettori (per definizione si suppone che siano cattolici) con i discorsi bonariamente eretici di Enzo Bianchi».
Che nella Chiesa vi sia questa salvezza è perciò la carità particolare che il Signore Gesù Cristo ha voluto consegnare ad Essa. [leggi anche qui, “Guai a chi tocca gli intoccabili” di Sandro Magister].
Proprio nel Messaggio della Quaresima 2012 Benedetto XVI ha ammonito: «Il – prestare attenzione – al fratello comprende altresì la premura per il suo bene spirituale. E qui desidero richiamare un aspetto della vita cristiana che mi pare caduto in oblio: la correzione fraterna in vista della salvezza eterna. Oggi, in generale, si è assai sensibili al discorso della cura e della carità per il bene fisico e materiale degli altri, ma si tace quasi del tutto sulla responsabilità spirituale verso i fratelli. Non così nella Chiesa dei primi tempi e nelle comunità veramente mature nella fede, in cui ci si prende a cuore non solo la salute corporale del fratello, ma anche quella della sua anima per il suo destino ultimo. Nella Sacra Scrittura leggiamo: “Rimprovera il saggio ed egli ti sarà grato. Dà consigli al saggio e diventerà ancora più saggio; istruisci il giusto ed egli aumenterà il sapere” (Pr 9,8s)».
Ripetiamo, pertanto, che un conto è la presenza dei non cattolici nella comunità di Bose, altra cosa è la presenza di cattolici, i quali dovrebbero così mettere da parte dogmi e dottrine per non urtare la sensibilità degli altri e, peggio ancora, usare la virtù dell’umiltà per riconoscersi, nella fede, sullo stesso piano dei non cattolici. Questo non né corretto né giusto, ed è l’unica motivazione che ci ha spinto a scrivere questo articolo dettagliato.
Il fatto che il papa incontri Enzo Bianchi, gli stringa le mani, lo benedica, non significa affatto una conferma, come lascerebbe intendere Bianchi per farsi pubblicità.
Ricordiamo tutti il bacio al Corano di Giovanni Paolo II: cosa dovremmo dedurne? che il papa abbia confermato il Corano o l’Islam facendolo diventare “cattolico”? Suvvia! I gesti dei pontefici sono incoraggiamenti che si possono condividere o meno per una pacifica ricerca della verità, ma per un cattolico non bastano.
Noi non siamo “contro” Bose o Bianchi, ma dibattiamo la presenza dei cattolici in questo quadro che non solo stona, ma è incoerente con la fede che professiamo. Il fatto stesso che a Bose non ci siano “monaci islamici”, la dice lunga e chiarisce lo scopo del sincretismo cristiano al quale vuole giungere Bianchi: tutte le fedi cristiane sono uguali! Non è l’Eucaristia che unisce ma il libro, la Scrittura, interpretata da Bianchi.
Per chiarire meglio questo aspetto riporto la lettera del vescovo di Pinerolo, Pier Giorgio Debernardi, che si trova nella prefazione del libro “Preghiera dei giorni” – in uso alla Comunità, pubblicato nel marzo 2011 e scritto da Bianchi - nella quale viene detto: «La Comunità monastica di Bose, fin dal suo nascere, è stata un ponte tra le diverse confessioni cristiane. Continua a esserlo con il suo stile di vita, con l’approfondimento della teologia e della spiritualità ecumenica, con il suo martirologio ecumenico e, soprattutto, con la sua liturgia. La preghiera dei giorni è, infatti, un testo eccellente in cui tutti i cristiani si ritrovano come nella propria casa…».
Perfetto! Nulla da eccepire: siamo d’accordo. Il vescovo dice infatti che la Comunità di Bose è “un ponte tra le diverse confessioni cristiane”, ma proprio qui sta l’ambiguità e la confusione. Se Bose è considerato un ponte tra le diverse confessioni cristiane, il cattolico ospitato verso quale deve andare, dal momento che dovrebbe incarnare in sé la pienezza della Rivelazione che gli è stata tramandata dalla Chiesa medesima e, deve dunque, egli stesso portarla nella comunità di Bose evangelizzando gli altri ospiti? Non si può far loro credere che ognuno stia bene dove sta, che basti adattare una liturgia e un breviario al loro modo di pensare e gestire la fede finendo per mettere la Chiesa cattolica sullo stesso livello delle altre confessioni cristiane.
Non esiste un “martirologio” fatto di persone che hanno combattuto la Chiesa e che possa essere definito “buono” per il cattolico. Parliamo pure fraternamente di queste persone, ma non definendole “martiri”. Lasciamolo a Dio questo giudizio.
Che il testo promosso dal vescovo sia “eccellente” non lo mettiamo in dubbio. Ma cosa se ne fa un cattolico, quando dovrebbe essere invitato a meditare su testi puramente cattolici come quelli di sant’Alfonso M. de Liguori, di san Borromeo, di san Bellarmino, sul “Dialogo della Divina Provvidenza” di santa Caterina da Siena, Dottore della Chiesa o sugli scritti di santa Teresina, di san Giovanni della Croce, sul “Trattato della vera Devozione a Maria” di san Luigi M. Grignon de Montfort ed altri? Questo deve dire un vescovo ad un cattolico, alla lettura di questi testi egli deve invitare i non cattolici; il suo compito è di spingere e sollecitare le pecorelle smarrite ad entrare nell’ovile, che è la Chiesa Cattolica, e non a rimanere dove stanno, offrendo ad esse cibi surrogati.
Scrive a ragione mons. Livi sul metodo di Bianchi: «Nei suoi discorsi la Scrittura non è la Parola di Dio custodita e interpretata dalla Chiesa ma solo un espediente retorico per la sua propaganda a favore di un umanesimo che nominalmente è cristiano ma sostanzialmente è ateo…».
Dice ancora il vescovo Debernardi nella “Lettera”: «Oggi c’è una diffusa esigenza di spiritualità e c’è nel profondo del cuore dell’uomo la nostalgia di Dio. Anche molti giovani che trascorrono giorni di silenzio a Bose trovano nella preghiera liturgica dei monaci una risposta alla loro domanda di senso e di speranza».
Va bene anche questo, è perfetto e siamo d’accordo, ma cosa c’entra con il cattolico?
Tutti abbiamo e proviamo “nostalgia di Dio”, ma il cattolico trova nel Santissimo Sacramento e nelle devozioni alla Vergine Maria e nel culto dei Santi che gli sono propri, quella esigenza spirituale necessaria allo scopo, trova il “silenzio”, se lo vuole davvero. Non è che per trovare tutto ciò egli debba ritrovarsi in un percorso che invece di portarlo avanti finirebbe, inesorabilmente, per allontanarlo dalla prassi liturgica della Chiesa e dalla devozione mariana che è specifica della fede cattolica. Un vescovo dovrebbe appoggiare e sostenere la fede e la pratica della Chiesa e non sponsorizzare un martirologio comunitario dove si venera un Martin Lutero martire o Buddha!
La Comunità di Bose ha la sua ragion d’essere se resterà ciò che è “un ponte tra le diverse confessioni non cristiane”, non in comunione con Roma e, pertanto, indirizzate con lo sguardo verso la comunione con Roma. Infatti, senza parlare di primato vero e proprio, Ireneo e Tertulliano avevano già indicato nella Chiesa romana la via sicura, l’unica, per accertare l’autentica Tradizione Apostolica e garantire la comunione tra le chiese. Perché il problema, diciamolo una volta per tutte, non è in quel “pregare insieme” che è in se buono, ma in quel definire o leggere, o interpretare, o vivere la fede cattolica sullo stesso piano delle altre fedi.
In questo modo, invece, la Comunità di Bose, apparirà sempre più come una “casa di tolleranza”, dove ogni religione trova spazio, se si adopererà in un chiaro sincretismo delle fedi, abbassando la fede cattolica allo stesso livello delle altre, anziché spingere se stessa e le altre confessioni verso quel senso verticale che è proprio della Chiesa cattolica. Certo, anche le Chiese orientali (gli ortodossi) hanno questo senso verticale, ma sono separate da Roma; vogliono, per ora, restare separate da Roma, ma mantenere un dialogo aperto.
Insomma, siamo ad un rapporto continuamente soggettivo della fede, a Bose. Certamente, in una qualche misura, il centro è anche per loro Gesù Cristo, ma spogliato del suo Corpo che è la Chiesa e per la quale la Comunità di Bose ha creato uno spazio oseremo dire intermedio, del tipo “separati non divorziati”, per il quale taluni vescovi non si sono risparmiati in promozioni e benedizioni.
Tuttavia, alla luce di quanto esposto, vogliamo una risposta: ma che c’azzecca il cattolico in qualità di monaco a Bose, se non è egli stesso portatore, evangelizzatore, della verità e dell’unità nella Chiesa?
Ultimamente non si fa altro, in campo ecumenico, che parlare dei preparativi, per il 2017, per i festeggiamenti della riforma di Lutero e la Chiesa è stata invitata agli eventi! In questo contesto siamo rimasti gradevolmente sorpresi dalle dichiarazioni del Presidente del Pontificio Consiglio per la Unità dei Cristiani sul sito della diocesi di Münster. Il cardinal Koch è stato estremamente chiaro: «Non possiamo celebrare un peccato». Così, senza anestesia: «Gli eventi che dividono la Chiesa non possono esser chiamati un giorno di festa».
Ma evidentemente esiste una parte di Chiesa che continua a navigare per conto proprio. Se nel “calendario liturgico” di Bose, chiamato persino “martirologio ecumenico”, Lutero è già commemorato, cosa faranno per il 2017… lo canonizzeranno?
Si è aperto l’Anno della Fede: quando un cattolico parla di questa fede intende quella trasmessa dalla Chiesa, con tutte le dottrine, i sacramenti e i dogmi. È sufficiente non essere d’accordo su una sola parte della dottrina per non essere cattolici ma “cristiani separati”, separati dalla piena comunione con la Chiesa. Mentre si può essere non d’accordo sui modi con i quali si trasmette in diversi ambiti questa fede e si può dialogare e discutere civilmente ed essere tolleranti con le diverse vedute, non si può assolutamente non essere d’accordo con parte della dottrina e poi dirsi cattolici e magari farsi anche testimoni.
«I santi e i beati sono gli autentici testimoni della fede. Sarà pertanto opportuno che le conferenze episcopali si impegnino per diffondere la conoscenza dei santi del proprio territorio, utilizzando anche i moderni mezzi di comunicazione sociale» (Nota con indicazioni pastorali per l’Anno della Fede, della Congregazione per la Dottrina della Fede, 6 gennaio 2012)
Ci chiediamo se il “cattolico-bosiano” intenderà, in questo Anno Fidei, trasmettere ai suoi “confratelli” questa integrità della fede, con un parlare “si, si – no, no”, senza tentennamenti nella dottrina. Come dice il papa nel motu proprio “Porta Fidei”: «È la Chiesa, infatti, il primo soggetto della fede… (…) Come attesta il “Catechismo della Chiesa Cattolica”: “Io credo”: è anche la Chiesa nostra Madre, che risponde a Dio con la sua fede e che ci insegna a dire ‘Io credo’, ‘Noi crediamo”».
Un “crediamo” non in senso generico, non sincretista, ma nel senso cattolico, nel quale la Chiesa è Sposa del Dio incarnato in cui crediamo e noi siamo le membra del Corpo. Questo perché crediamo nella fede della Chiesa con tutto ciò che questo comporta, con tutte le dottrine “pure ed integre, senza attenuazioni, senza travisamenti, senza compromessi”.
Riconosciamo di essere peccatori – e “pure papisti” (come diceva Lutero per disprezzo) – ma bisognosi di Cristo e dei suoi sacramenti per essere salvati, bisognosi del papa, e proprio per questo membra della Chiesa.
Vorrei concludere queste riflessioni non con le mie parole, ma con le parole di un vero teologo, che faccio mie, Padre Giovanni Cavalcoli, O.P., che così fa meditare e riflettere in un recente scritto sul sito internet “Riscossa cristiana”: «Uno dei mali del periodo postconciliare, denunciato molte volte da studiosi attenti alle vicende della Chiesa, è la debolezza delle autorità nel correggere gli errori dottrinali, oggi molto diffusi proprio a causa di questa desistenza dell’autorità, conformemente al simpatico motto popolare “quando la gatta dorme i topi ballano».
Ma la cosa grave è che in questi ultimi anni è avvenuta un’escalation, se così si può dire, in questa inosservanza al proprio dovere da parte dell’autorità: non solo oggi essa tollera la libera diffusione delle eresie mostrandosi priva di vigilanza, pavida e latitante, ma addirittura, qua e là, essa – intimorita dal chiasso dei modernisti che spesso hanno raggiunto posizioni di potere – cede ad un vergognoso rispetto umano. Questo conduce l’autorità non solo a ignorare quei pochi che ancora cercano di correggere gli errori e diffondono e difendono la sana dottrina, ma addirittura a censurali o a perseguitarli in nome di futili pretesti, privi di qualunque fondamento giuridico e di buon senso pastorale.
È un po’ come se il primario di un ospedale, impaurito dalla pressione di medici invidiosi nei confronti di un collega zelante ed attivo, proibisse a questi di curare e lasciasse gli altri a compiere tranquillamente i loro guasti ai danni dei malati.
I modernisti, raggiunte posizioni di potere, sono diventati schiavi di un’arroganza e di una conseguente cecità che li portano ad ignorare le critiche che a loro vengono rivolte dai teologi fedeli alla sana dottrina, al magistero e al papa. Anzi, se reagiscono a queste critiche, facilmente accusano il cattolico fedele di “diffamazione”, mostrando con ciò stesso di abusare delle parole e di ignorare le prescrizioni del diritto, della giustizia e della verità. Ma a loro importa poco, perché si sentono forti e pensano di poter vincere non con la lealtà e la forza del diritto, ma con la prepotenza e la violenza.
Essi abilmente confondono le acque chiamando “diffamazione” quella che può essere un’acuta ed opportuna critica teologica, la quale, per così dire, “scopre i loro altarini” e denuncia le loro truffe. Ciò dà a loro un immenso fastidio, ma poiché, naturalmente, essendo dalla parte del torto, non hanno validi argomenti per difendersi, quando non si chiudono in un sprezzante silenzio, reagiscono con insulti, false accuse e provvedimenti repressivi. Loro che volentieri proclamano il “rispetto del diverso”, la “libertà della ricerca” e il “pluralismo teologico” nonché l’”ecumenismo” e il “dialogo interreligioso”, persino con i “non credenti”.
Si parla tanto di dialogo, ma spesso i grandi maestri del “dialogo”, vittime di grossolani errori filosofici e teologici, non tollerano le minime osservazioni fatte peraltro da teologi dotti, caritatevoli e pienamente fedeli alla buona dottrina ed al magistero della Chiesa. Essi “dialogano” solo con coloro che condividono i loro errori nonché con gli esponenti delle dottrine più strampalate ed anticristiane respingendo sdegnosamente gli avvertimenti, i richiami o le critiche di qualunque genere fatti dai fratelli di fede.
Speriamo che l’Anno della Fede sia occasione per tutti – perché nessuno è infallibile – per una sincera revisione delle nostre idee, per vedere se sono veramente conformi alla sana ragione, alla verità del Vangelo ed alla dottrina della Chiesa, in un rinnovato impegno di approfondimento della verità e di comunicazione di essa all’intera umanità.
 

(Fonte: Tea Lancellotti, Papalepapale, 27 novembre 2012)
 

mercoledì 23 gennaio 2013

Monastero di Bose, “casa di tolleranza religiosa”, uno

Dal cristianesimo al sincretismo. Un’inchiesta, Prima parte.

Nell’articolo ci soffermeremo sul titolo che riconosciamo provocatorio. Non consideratela una definizione, ma solo un’espressione paradossale. E specifichiamo bene cosa vogliamo dire. Scusandoci con gli animi più sensibili - perché, lungi da noi ogni malizia sul concetto profano di “casa di tolleranza”, e lungi da noi l’offendere - il termine “religiosa” che lo accompagna è il vero soggetto del titolo e dell’articolo stesso. Si parla quindi di una casa dove si raccolgono le diverse religioni cristiane non cattoliche, ma il cui fondatore si ritiene un cattolico, e dove la Chiesa viene così messa sullo stesso piano dei cristiani non cattolici. Si parla infatti di quella “tolleranza religiosa” che, a nostro parere e in questo caso specifico, non è più un rispetto della vera fede, ma confusione, non è conservazione della vera fede ma ambiguità: un minestrone di fedi nel quale, in questa “casa di tolleranza religiosa”, l’unica a non essere rispettata è proprio la fede cattolica, insieme alla devozione mariana e alla sensibilità cattolica stessa.
Chiariamo subito che, nel momento in cui questa “casa di tolleranza religiosa” che è in Bose dicesse con chiarezza “guardate che noi non siamo affatto cattolici”, questo articolo cadrebbe immediatamente e tutto ciò che vi è scritto perderebbe il suo senso, ma poiché la Comunità di Bose, insieme al suo fondatore, continua a dirsi “cattolica”, allora l’articolo ha senso ed ha la sua ragione di esistere.
C’è infatti molta ambiguità perché da una parte la Comunità di Bose ci tiene a dirsi “ecumenica” e non prettamente cattolica, ma dall’altra parte, fin dai primi anni, il suo priore ha tenuto molto ad un riconoscimento del suo monastero da parte del vescovo diocesano, naturalmente ottenendolo. E, al tempo stesso, ha tenuto fermo il proposito di restare autonomo e indipendente da Roma. Lui, boss della Comunità, non è prete e si è fatto monaco e priore da se stesso, essendone il “fondatore”, adattando una regola creata a ridosso dello “spirito del concilio” che Benedetto XVI ha condannato con queste parole nel famoso discorso alla curia romana del Natale 2005 quando disse che si era diffusa una convinzione e cioè che: «In una parola: occorrerebbe seguire non i testi del Concilio, ma il suo spirito. In tal modo, ovviamente, rimane un vasto margine per la domanda su come allora si definisca questo spirito e, di conseguenza, si concede spazio ad ogni estrosità. Con ciò, però, si fraintende in radice la natura di un Concilio come tale…».
Non dissimile il discorso che il papa ha fatto al recente incontro con la CEI del 24 maggio, dove ha specificato: «Giovanni XXIII impegnava i Padri ad approfondire e a presentare tale perenne dottrina in continuità con la tradizione millenaria della Chiesa – trasmettere pura ed integra la dottrina, senza attenuazioni o travisamenti – ma in modo nuovo – secondo quanto è richiesto dai nostri tempi –. Con tale chiave di lettura e di applicazione, nell’ottica non certo di un’inaccettabile ermeneutica della discontinuità e della rottura, ma di un’ermeneutica della continuità e della riforma, ascoltare il Concilio e farne nostre le autorevoli indicazioni, costituisce la strada per individuare le modalità con cui la Chiesa può offrire una risposta significativa alle grandi trasformazioni sociali e culturali del nostro tempo, che hanno conseguenze visibili anche sulla dimensione religiosa… (…) Purtroppo, è proprio Dio a restare escluso dall’orizzonte di tante persone; e quando non incontra indifferenza, chiusura o rifiuto, il discorso su Dio lo si vuole comunque relegato nell’ambito soggettivo, ridotto a un fatto intimo e privato…».
Ricapitolando questo primo aspetto: non abbiamo nulla contro la Comunità di Bose. Ognuno è libero di fondare ciò che vuole ed è libero di creare associazioni e gruppi, e non vi è da parte nostra semplice tolleranza, ma anche rispetto e benevolenza soprattutto per gli ospiti non cattolici della Casa-monastero. Ciò che vogliamo far emergere è questa ambiguità del concetto di “tolleranza”, la confusione di una “Casa di tolleranza religiosa”, che pur dicendosi ecumenica (in sé lodevole), in realtà stona molto con quella pretesa di voler insegnare ai cattolici la fede in Cristo e l’interpretazione della Scrittura, rimuovendo il Magistero ecclesiale e pontificio, salvo servirsene solo quando parla a favore della tolleranza, del rispetto e dell’ecumenismo. Insomma, siamo all’ennesimo caso in cui l’allergia alle dottrine della Chiesa Cattolica è evidente, ma dove non si vuole rinunciare a far parte in qualche modo della Chiesa, una Chiesa fatta a propria immagine e somiglianza. Si offre un luogo, Bose, dove se è vero che il senso della comunità è vivo ed animato da tante buone intenzioni, in realtà alla fine si resta «nell’ambito soggettivo, nel quale Gesù Cristo e la Chiesa stessa, vengono ridotti ad un fatto intimo e privato…».
La Chiesa di Gesù Cristo nasce non su un modello, ma si fonda in quel che diciamo essere “Corpo di Cristo” (il Suo Corpo Mistico). Essa è immagine stessa di Cristo Crocefisso e Risorto, due immagini inseparabili, che, con la Parola e l’Eucaristia, genera discepoli, santi, beati, martiri, testimoni, dottori, confessori, ecc…
Per darvi una immagine più chiara di che cosa è la Chiesa prendiamo in mano un Crocefisso (di quelli, artisticamente parlando, validi, espressivi, quasi vivi, che riportano davvero una persona con le sue piaghe, non quelli che vorrebbero solo fartelo immaginare), guardiamolo attentamente per qualche minuto e poi chiediamoci: “Cosa vedo davanti?”. La risposta non può che essere una: “Vedo un corpo martoriato, sofferente, piagato, crocefisso…”. Ecco, questa è la Chiesa cattolica! Essa è un corpo martoriato, perseguitato, piagato dal di dentro come dal di fuori. Nessun membro ne è risparmiato: chi si fonda in questa “immagine” la riflette e a sua volta è in Cristo Crocefisso immagine stessa della Chiesa. Non è un caso che il culto che rendiamo a Dio non è affatto un baccanale mangereccio – o una semplice “cena” come hanno preteso i protestanti eliminando il sacerdozio e la presenza reale – ma è il Sacrificio del Calvario, il cuore pulsante della Chiesa stessa, senza il quale non avremmo alcuna Chiesa, non avremmo alcun priore, nessun sacerdote, né vescovi né papi, non ci sarebbe alcuna comunità, nessun ecumenismo da rivendicare. Lo stesso san Paolo, nel parlare alle prime comunità cristiane, affronta subito l’argomento dell’Eucaristia separandola nettamente dal concetto di una cena qualunque: «Perciò, fratelli miei, quando vi radunate per la cena, aspettatevi gli uni gli altri. E se qualcuno ha fame, mangi a casa, perché non vi raduniate a vostra condanna» (1Cor 11,33-34). Questo capitolo meriterebbe una pagina a parte per quanto hanno insegnato i Padri e la Chiesa intera: a noi basti sapere, per ora, che, ricevere l’Eucaristia, partecipare a questa Messa, è il motore di tutta la nostra attività.
Questa immagine della Chiesa martoriata e crocefissa è quella che chiamiamo “militante”. Così spiega il Concilio di Trento: «Essa è divisa in due parti: la Chiesa trionfante, cioè coloro che godono la beatitudine eterna, e la Chiesa militante, cioè l’insieme di tutti i fedeli che ancora vivono sulla terra… Nella Chiesa militante vi sono due specie di uomini: i buoni e i cattivi. I cattivi partecipano dei medesimi sacramenti e professano la stessa fede dei buoni, ma ne differiscono per la vita e i costumi. Buoni sono quelli i quali sono congiunti e stretti tra loro non solo dalla professione della fede e dalla comunione dei sacramenti, ma anche dal soffio della grazia e dal vincolo della carità». Ci sarebbe molto altro da dire su che cosa è la Chiesa, ma non potendo approfondire il tema in questa sede, ognuno potrà farlo anche personalmente.
Quel che vogliamo dimostrare è che la Comunità di Bose – lungi dal voler somigliare, incarnare, questa immagine di Chiesa – preferisce essere una “Casa di tolleranza… religiosa” fatta a propria immagine. Poiché nel Vangelo – così tanto rivendicato – e nell’insegnamento della Chiesa, non esiste affatto una “chiesa” o comunità cristiana o un monastero di “tolleranza religiosa”, dove la fede della Chiesa è posta sullo stesso piano della fede dei non cattolici.
Un conto è infatti il progredire nell’ecumenismo autentico, nel dialogo che porti i non cattolici a riconoscere la Verità che la Chiesa tramanda e quindi a ritornare nella Chiesa di Cristo, altra cosa è il dare origine ad una Comunità, una “Casa di tolleranza”, nella quale le varie fedi cristiane non cattoliche – che si sono separate proprio perché rigettano le dottrine cattoliche – imparino la falsa dottrina di essere tutte sullo stesso piano della Chiesa e in qualche modo “nella” Chiesa, pur rimanendo fedeli alla propria fede non cattolica.
Non solo ciò è paradossale, ma per un cattolico è proprio un tradimento.
Come abbiamo detto, il titolo dell’articolo è volutamente provocatorio. Esso ha un senso che viene dalla Bibbia e poiché Enzo Bianchi si vanta del suo insegnamento biblico forse è il caso di rammentargli alcuni passi.
Nella Sacra Scrittura il concetto di prostituzione si fonda sull’abuso e sulla perversione della sessualità usata al di fuori della sua utilità originale della procreazione quando l’uomo e la donna, lasciati il padre e la madre, si uniscono in una carne sola per dare origine ad una nuova famiglia e ad una nuova vita. Per questo il matrimonio è uno dei sette sacramenti ed è definito chiaramente quale parte integrante del progetto di Dio sull’uomo, maschio e femmina. Sebbene la prostituzione di tipo pagano venisse spesso tollerata, nella vita di Israele era strettamente condannata o controllata dalla legge (Lv 21, 9).
Si intreccia qui un altro tipo di prostituzione ed è quella che interessa al nostro discorso, quella “sacra”, presente in alcune religioni più antiche, semitiche, oppure praticata già ai tempi dei Sumeri, o registrata nella civiltà babilonese. Nella prostituzione “sacra” s’intrecciano motivi di perversione ancora maggiori di quella “pagana”, e spesso associata ai riti magici, esoterici ed altro… Neppure Israele viene risparmiato da questo genere di prostituzione (cfr. 1Re 15, 12; 2Re 9, 22; Es 34, 16), ma essa fu subito combattuta dai profeti, in particolare da Osea ed Ezechiele. In sostanza, Dio accusa di prostituzione colui che, avvicinato da Lui come figlio, lo abbandona per adorare altri idoli, venerare altre religioni. L’ira del Signore è motivata: «Perché Io sono un Dio geloso» (Es 20, 2-6).
Il profeta Osea ci introduce alla spiegazione di ciò che intendiamo dire con questo titolo; egli è il primo a rappresentare con l’immagine dell’unione coniugale i rapporti del Signore con il suo popolo, dopo l’alleanza sul Sinai, e a qualificare il tradimento idolatrico di Israele non solo come prostituzione, ma persino come adulterio. Prostituzione non era più solo il tradimento fra coniugi, fra marito e moglie, ma era anche quell’abbandonare la Legge (i Dieci Comandamenti nel caso dell’Antico Testamento), quel tradire il Dio “vivo e vero” per sostenere altre religioni, altre fedi. La restaurazione di Israele descritta in Isaia (50, 1; 54, 6-7; 62, 4-5; ecc…) è una riconciliazione di una sposa infedele, così come la descrive anche il Cantico dei Cantici e il Salmo 45, con un Dio, che è Sposo fedele e misericordioso.
Arrivando al Nuovo Testamento, infatti, “ecco lo Sposo” fedele e saggio, Gesù Cristo. L’era messianica viene presentata come uno sposalizio e, per i discepoli, un invito a nozze (Mt 22, 1-14; 9, 15; 25, 1-13; Gv 3, 29). In tutto il Vangelo l’annuncio stesso della Buona Novella mostra che l’Alleanza tra Dio e il suo popolo si è realizzata pienamente, come uno sposalizio. È l’unione indissolubile in Cristo Signore, il cui Corpo, la Sposa, è la Chiesa e dove il talamo è la Croce del Golgota. Questo lo riviviamo nella Messa, dove il germe della nuova vita, la rigenerazione delle membra, è nella sua Morte e Risurrezione; dove nel Battesimo siamo “adottati-rigenerati”; dove nell’Eucaristia (Gv 6) troviamo il nutrimento, e dove nella Chiesa, sua Sposa, troviamo la Parola, il nutrimento, i carismi… E così continua san Paolo (2Cor 11, 2; Ef 5, 25-33; 1Cor 6, 15-17).
«Chi non è contro di voi, è per voi», insegna Gesù in Lc 9. Senza dubbio noi non ci sentiamo di dire di essere “contro” la Comunità di Bose, quanto piuttosto cerchiamo di capire fino a che punto Enzo Bianchi è “per la Chiesa” o fino a che punto la usa, la sfrutta come immagine soggettiva, piegata alla sua immagine di chiesa con la c minuscola.
Siamo memori, però, anche di quest’altro passo del cap. 9 di Mc: «In quel tempo Giovanni disse a Gesù: “Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demoni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva”. Ma Gesù disse: “Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi…”». Ci guardiamo bene dal voler “impedire” ad Enzo Bianchi di dire e di fare ciò che si sente: solo ci consenta di non essere d’accordo con la sua “casa di tolleranza religiosa” con pretese di cattolicità.
Certo, vediamo un’esperienza simile nella Comunità di Taizè, ma almeno qui il cuore della Comunità e degli incontri è Gesù Eucaristia: Gesù è al centro e ciò vale per i cattolici quanto per i non cattolici. L’esperienza a Taizè, infatti, è diretta all’incontro con Gesù Ostia Santa, presente nel tabernacolo.
A Bose, in questa “casa di tolleranza religiosa”, ci si alza alle 4:30 del mattino per pregare non come insegnato dalla Chiesa per le comunità e i monasteri, attraverso un unico breviario comune, ma “su un testo della Scrittura deciso comunitariamente, per sottolineare come sia l’ascolto della Parola l’unica vera fonte della comunione…”. Non ci risulta che la Parola sia “l’unica vera fonte della comunione”. Altrimenti basterebbe questa “lettura” per essere in piena comunione con gli eredi di Lutero. Questo infatti ci rammenta la presuntuosa dottrina del “Sola Scriptura” di luterana memoria.
La nostra non è una religione “del libro”, per quanto esso possa essere sacro. Noi parliamo di una Parola che si è incarnata e resa visibile nel corpo, cioè la Chiesa, e della Scrittura che ne contiene l’insegnamento, il quale deve essere spiegato, interpretato, compreso, tramandato. E questo insegnamento è stato dato alla Chiesa, la quale abilita e dona il mandato a chi può andare poi ad insegnare ciò che “ha ricevuto”. Ciò che unisce la comunità, certamente, è in parte anche la Parola; tuttavia lo è più per quella comunità che ignora la Verità che è contenuta nell’Eucaristia, giacché è la “vera ed unica fonte” che unisce, risana, nutre, guarisce, e parla, è la Parola incarnata, il Verbo fatto carne. Ed è anche fonte di comunione laddove, la comunità riunita, interpreta questa Scrittura con la voce della Chiesa espressa nella viva Tradizione, nei santi, dottori, ecc..
Fin dalle 4:30 del mattino non c’è comunione con la Chiesa, dal momento che la Messa, in questa casa di tolleranza religiosa, non è tollerata affatto, ma sopportata solo la domenica… Alle 6:00 cominciano tre momenti particolari di preghiere e letture varie. Dalle 6:45 alle 7:00 c’è la lettura della regola monastica per la correzione fraterna e per suggerimenti e consigli sull’accoglienza degli ospiti. Dalle 7:00 alle 8:00 un’ora di preghiera personale (non si parla mai di adorazione eucaristica). Alle 8:00 una campana segna la fine del grande silenzio, iniziato alle 20:00 della sera precedente, e viene dato inizio delle ore lavorative. Alle 12:00 si pranza, fraternamente, in silenzio. Alle 14:00 si riprende il lavoro fino alle 17:00. Alle 18:30 si ritorna in preghiera comunitaria. Segue la cena dove si possono scambiare due parole di fraternità. Alle 20:00 inizia il grande silenzio che durerà fino alle 4:30 del mattino seguente.
Lungi dal criticare l’agenda del monastero che, anzi, ci sembra seriamente ben organizzata ed anche di grande aiuto a chi davvero cerca di portare nella propria vita un certo equilibrio tra la vita materiale e la vita spirituale, ciò che ci lascia perplessi è: la fede cattolica dove sta qui? La Messa, il rosario, il Magistero della Chiesa, il “Catechismo della Chiesa Cattolica” – così raccomandato dal papa per le comunità –, le parrocchie, i movimenti, le associazioni, i gruppi ecc? E questa non è una critica, ma una constatazione di fatto: nella “casa della tolleranza religiosa” di Bose l’insegnamento della Chiesa non fa comunione. Da segnalare che, in tutto il programma, non esiste alcun richiamo a tutti e sette i sacramenti, men che meno al sacramento della Penitenza e dell’Eucaristia ed, anche se vogliamo ben sperare che la pratica ci sia, non leggerlo nel programma non è incoraggiante per un cattolico.
C’è una sola Messa, la domenica alle 12:00: quindi a Bose non c’è neppure la pratica dell’Angelus. Non sia mai che si dica, nella casa della tolleranza religiosa, una “Ave Maria”, perché questa porterebbe divisione! Dunque, se questo programma può andare bene per gli ospiti non cattolici o atei, riteniamo che non può andare bene per chi è cattolico. Il cattolico che va a fare esperienza a Bose, infatti, finirebbe per dimenticare la devozione mariana della Chiesa, le pratiche devozionali con cui si realizza nel quotidiano, lo stesso Magistero e – raccomandato dai santi proprio a quanti hanno la vocazione monacale-religiosa – il ricorso quotidiano all’Eucaristia.
Esiste una cappella comune, frequentata da tutta la comunità, nella quale un Crocefisso domina la parete centrale ed un leggio con sopra il libro occupa il centro della stessa, ma non sbagliamo nel dire che il libro viene adorato più del Crocefisso e del tabernacolo. Quest’ultimo, infatti, è posto in una cappella a parte, per gli ospiti cattolici. Una concessione per la quale ringraziamo, ma dove è palese il sincretismo e la superficialità che denota chiaramente una fede più simbolica che sacra e sacramentale della presenza reale di Gesù Ostia Santa, un presenza equiparata al libro.
Certo, il ricorso alla Beata Vergine Maria c’è, ci mancherebbe altro, ma non come insegna la Chiesa. Ed è pure contraddittorio. Questo perché, secondo l’insegnamento di Enzo Bianchi, le loro fonti sarebbero tutte patristiche, e noi non lo dubitiamo questo, ma si fermano alle parole. Ripetono le parole come “letture da meditare”, parole dei Padri senza incarnarle, senza avanzare come ha già fatto la Chiesa. Non a caso viene tagliata fuori tutta la mariologia del Medioevo.
La Chiesa, come sappiamo, si sta sforzando di unificare in qualche modo il calendario dei santi, martiri, ecc… che costituiscono il Calendario Liturgico della Messa nelle due forme, quella ordinaria e quella straordinaria. A Bose, invece, usano un calendario tutto loro. È una specie di “calendario ecumenico” che contempla tutti coloro che nelle altre fedi sono considerati, in qualche modo, già “canonizzati”, senza essere stati “confermati” da Pietro (cfr Lc 22,33).
Non è una critica, ma un altro tassello che prova che a Bose non c’è nulla di cattolico. L’inventore del calendario, definito persino “martirologio ecumenico”, è ovviamente Enzo Bianchi.
Va detto che un calendario liturgico, senza la Messa, non ha neppure senso, visto che la massima espressione per venerare qualcuno è l’offerta dell’unico Sacrificio perfetto. Un conto, infatti, è non poter andare un giorno alla Messa, altra cosa è non mettere la Messa nel calendario liturgico per venerare qualcuno. Così nella “casa della tolleranza religiosa” non si tollera il Calendario della Chiesa, tanto da crearne uno che metta d’accordo tutti. Ma portiamo alcuni esempi.
Il 28 gennaio viene ricordata la memoria di san Tommaso d’Aquino, senza il titolo di santo e dottore, ma solo “presbitero”. Peccato che, nello stesso giorno, viene commemorata Suor Amalie (Augustine) von Lasaulx (1815-1872), della “chiesa” veterocattolica; la quale non solo non è in comunione con Pietro, ma ha nel suo seno il sacerdozio femminile, il divorzio e il matrimonio omosessuale. Leggiamo nel martirologio bosiano: “… la vita della religiosa suor Amalie, superiora all’istituto delle suore borromee, mutò drammaticamente con la dolorosa discussione intorno al nuovo dogma dell’infallibilità, proclamato dalla Chiesa cattolica nel 1870: per Amalie cominciò un tormento interiore che la condusse a confessare di non riuscire a trovare alcuna giustificazione, né nella Scrittura né nella Tradizione, che avvalorasse il nuovo pronunciamento dogmatico, secondo la formulazione espressa al concilio Vaticano I. Sospesa da ogni incarico, essa non accettò di ritrattare pubblicamente la propria posizione e morì sola, povera e abbandonata da tutti, ma convinta nella propria coscienza di essere rimasta fedele all’Evangelo…”.
Il 31 gennaio, a Bose, anglicani e cattolici ricordano la grande figura di san Giovanni Bosco. I luterani ospiti invece venerano Charles Spurgeon (+1892), come “principe dei predicatori” (???), protestante battista e predicatore contro il battesimo ai bambini. Se questo non è sincretismo religioso, dite voi che cos’è!
C’è posto anche per Gandhi; viene venerato il 30 gennaio come “giusto tra le genti”. Il 7 gennaio si ricorda Andreae Jakob, teologo luterano (Waiblingen 1528 – Tubinga 1590); spesso detto Schmiedlein (lat. Fabricius), dal mestiere paterno, o il “secondo Lutero” per l’energia con cui, specialmente come professore e cancelliere dell’università a Tubinga (dal 1561), si adoperò per la diffusione, l’organizzazione e l’unità teologica del luteranesimo.
Il 14 gennaio si ricorda: George Fox (+1691), quacchero in Inghilterra. Secondo il suo pensiero il Cristianesimo era un concetto soltanto interiore, per questo le varie strutture ecclesiastiche ne erano estranee, lo stesso i giuramenti. Fox cercò di diffondere il suo credo nei suoi viaggi, dalla Scozia, all’Irlanda, all’America settentrionale, alla Giamaica, all’Olanda.
Il 19 gennaio: Johann Michael, teosofo (Altdorf, presso Böblingen, 1758 – Sindlingen 1819); contadino luterano, si attribuì una particolare missione profetica dandosi alla predicazione itinerante e sviluppando un sistema seguito dai cosiddetti “micheliani”.
Il 29 aprile, nella sua festa, santa Caterina da Siena così viene degradata dal calendario bosiano: “Caterina da Siena (1347-1380), testimone. Nel calendario romano e in quello anglicano ricorre oggi la memoria di Caterina da Siena, terziaria domenicana e maestra della fede”. Bose ha tolto ogni altro titolo alla Benincasa, tutti i titoli cattolici di Vergine, Dottore della Chiesa, Patrona d’Italia e Compatrona d’Europa. Questo, naturalmente, per rispettare i non cattolici presenti a Bose che avrebbero potuto offendersi. Caterina dunque è solo “testimone”: il resto è un contorno non importante, facoltativo, opzionale. Idem per san Francesco d’Assisi: viene ricordato, ma solo come “testimone”. Per un cattolico è una degradazione e confusione.
Naturalmente, il 30 aprile, a Bose, la memoria liturgica di san Pio V sembra più un incidente di percorso che una autentica memoria. Del resto è messo sullo stesso piano della commemorazione luterana di David Livingstone (1813-1873), sostenitore delle missioni e del commercio nell’Africa centrale.
Interessante anche notare come il 4 maggio ci sia una memoria ai “Martiri inglesi dell’epoca della Riforma” (XIV-XVII sec.). Si legge testualmente nel calendario bosiano: “E moltissimi altri che non conobbero l’onore degli altari, ma che furono vittime della convinzione che l’intera verità fosse appannaggio di un solo gruppo sociale o ecclesiale”. Carini!
A parte il fatto che la Chiesa insegna a commemorare “Tutti i Santi”, anche quelli non saliti agli onori degli altari e che solo Dio conosce, il primo novembre, ma qui si venerano persone che ritenevano colpevole la Chiesa cattolica, in quanto combatteva per la difesa di una verità che sarebbe solo una mera “convinzione” sbagliata… Il calendario di Bianchi, addirittura, aggiunge: “…un martirio in odio a quella fede che ciascuno riteneva nella propria coscienza pienamente conforme agli insegnamenti di Cristo…”. Quindi Bose difende una fede personale, di stampo soggettivo, la cui corretta ecclesialità sarebbe soltanto la sua impostazione sincretista: tutti uguali, tutti sullo stesso piano. Un bel sincretismo delle fedi, quindi: tutti santi, tutti testimoni. L’importante è essere morti per una fede, non importa quale: la memoria di Gandhi è un esempio. Così come è una risposta l’equiparazione della memoria di san Tommaso, di san Pio V, o di un san Giovanni Bosco ad una visione sincretista di tutte le fedi.
E mentre i monaci cattolici a Bose il 21 novembre ricordano la Presentazione di Maria al Tempio, i luterani ivi presenti commemorano Wolfang Capito, detto poi, in italiano, Capitone (†1541), teologo a Strasburgo, il quale conobbe Zwingli, il famoso prete cattolico che rinnegò la divina reale presenza di Gesù nell’Eucaristia e che riformò la Messa togliendole ogni segno sacramentale… Capitone trovò sempre più difficile riconciliare la nuova religione con la vecchia (la Chiesa), e dal 1524 fu uno dei capi della fede riformata, assai intransigente con la Chiesa di Roma, e cercò di unificare gli interessi spirituali ritenendo inutili quelli dogmatici: un vero “amico” del papa, come si vede!
Insomma, non c’è che dire, un calendario soggettivo nel quale tutti i presenti possano essere contenti. Senza dubbio, vi è il massimo rispetto per i non cattolici, questo non lo si può negare. Qui Enzo Bianchi supera se stesso per far contenti “gli altri”: in compenso manca di rispetto alla fede e al calendario liturgico cattolici.
Tutte le feste mariane di devozione mariana non esistono; il rosario non esiste; il 13 maggio non esiste. Non esistono neppure le feste del Sacro Cuore di Gesù e del Corpus Domini, i quali sono stati materia dottrinale, dogmatica e magistrale della Chiesa tanto da avere, nel Calendario della Chiesa, un posto proprio. Viene concesso agli ospiti cattolici bosiani di venerare la Madonna del Rosario il 7 ottobre. Ma il sincretismo non manca neppure quel giorno; gli luterani ospiti a Bose, infatti, possono venerare Heinrich Melchior Mühlenberg (†1787), un evangelizzatore nordamericano che fondò la comunità luterana d’America. Melchior le diede, con la base organizzativa, una tradizione dottrinaria di tipo pietistico tuttora viva, nonché fu il primo uomo a dichiarare che gli ebrei di Filadelfia erano “atei praticanti”.
Il 27 novembre viene commemorato, a Bose, Siddharta Gautama, cioè Buddha. Sì, proprio lui! Ma giustamente nella Casa della tolleranza religiosa, c’è posto per tutti.
Il 18 febbraio è davvero curioso: nella Casa della tolleranza religiosa di Bose si venerano, per i cattolici, il beato Angelico, che del mistero di Maria e della devozione popolare fu l’eccellente e mistico pittore, e, per i monaci luterani di Bose, si commemora la memoria di Martin Lutero, il riformatore…
Un cattolico a Bose deve – essendo ospite – tollerare e stare zitto, non dire nulla su queste inconsistenti commemorazioni. Insomma, a questo punto, possiamo venerare anche Pippo, Pluto, Topolino e – perché no? – anche il povero e sfortunato Paperino… E non si dica che questo esempio è mancanza di rispetto agli uomini citati in questo calendario sincretista, perché la prima mancanza di rispetto è l’aver fatto fuori quel calendario cattolico che con meticolosa pazienza, processi e prove inconfutabili, la Chiesa ha donato alle genti di ogni tempo quale aiuto concreto e vero per convincersi che credere nella Chiesa cattolica è la vera e piena salvezza, è la via giusta per incontrarsi con Cristo, in Cristo e vivere per Cristo.
La mancanza di rispetto alla devozione popolare – che nelle feste mariane trova davvero la vicinanza con la Santissima Madre di Dio e che a Bose non trova posto per evitare di offendere chi non crede nella sua potente intercessione – è una grave omissione che infonde nei bosiani, specialmente se cattolici, un’incompleta formazione, per non dire una formazione anticattolica, uno spirito anticattolico, ma ecumenico, come se “ecumenismo” significhi fondare una “nuova chiesa” fatta da tutte le religioni. La Comunità di Bose, volente o nolente, si pone come il centro indiscusso, verso il quale si piegano i vescovi di turno, ed Enzo Bianchi è il papa indiscusso, o antipapa, di questa “chiesa ecumenica”, ma sul quale nessun vescovo ha imposto le mani, quindi assente della successione apostolica.
Il cattolico trova spazio a Bose, solo se rispetta chi rinnega la sua di fede, e non ne deve parlare, guai! Nello Statuto o Regola troviamo il monito: “Fratello, sorella, l’Evangelo sarà la regola, assoluta e suprema. (…) La comunità esprime la sua volontà, cui sei tenuto, nel consiglio. (…) Non esistono condizioni preliminari, e nulla garantisce in modo assoluto che obbedire al consiglio sia automaticamente obbedire a Dio e all’Evangelo. Pertanto tu ascolterai, e obbedirai alle decisioni emerse con chiarezza nel consiglio della comunità, col concorso di tutti i fratelli che hanno cercato di discernere la volontà di Dio su di te e sulla comunità: concorso di tutti i fratelli con i loro rispettivi carismi che non solo edificano la comunità ma la progettano giorno per giorno”.
Viene da chiedere: «Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutt’e due in una buca? Il discepolo non è da più del maestro; ma ognuno ben preparato sarà come il suo maestro» (Lc 6, 39). Scrive Sant’Agostino: «L’uomo non può aver salute se non nella Chiesa cattolica. Fuori della Chiesa può trovare tutto, tranne la salute: può avere autorità, può anche possedere il Vangelo, può tenere e predicare la fede col nome del Padre e del Figliuolo e dello Spirito Santo, ma in nessun luogo, se non nella Chiesa potrà trovare salvezza» (“Sermone ad Caesariens. Eccl. prebem.”, n. 6). Così “L’Imitazione di Cristo” ci ammonisce, tutti, noi cattolici per primi: «Non dobbiamo credere a tutto ciò che sentiamo dire; non dobbiamo affidarci a ogni nostro impulso. (…) Spesso, quando leggiamo le Scritture, ci è di ostacolo la nostra smania di indagare, perché vogliamo approfondire e discutere là dove non ci sarebbe che da andare avanti in semplicità di spirito. Se vuoi trarre profitto, leggi con animo umile e semplice, con fede. E non aspirare mai alla fama di studioso. Ama interrogare e ascoltare in silenzio la parola dei santi. E non essere indifferente alle parole dei superiori: esse non vengono pronunciate senza ragione…».
I nostri “superiori” sono, nella gerarchia, in comunione magisteriale con il papa, servo dei servi di Cristo, vicario di Cristo in terra, abilitato da Cristo a confermare gli altri nella fede, e almeno questi sono i superiori per un cattolico. Enzo Bianchi predica bene la tolleranza, ma chi sono i suoi superiori? Chi lo ha investito di autorità? Perché come cattolico dovrei ascoltarlo? Perché certi vescovi lo impongono ai cattolici, ma non impongono, per esempio, maestri come sant’Alfonso de Liguori, o san Roberto Bellarmino?
 

(Fonte: Tea Lancellotti, Papalepapale, 23 novembre 2012)
 

giovedì 17 gennaio 2013

L’ignavia di molti cattolici soggiogati dal relativismo

Quell’ideologia che inquina le coscienze degli europei e che determina il disordine sociale, ha colpito e vinto ancora. Solo attraverso la lettura relativista si può comprendere la sentenza della Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione che ha respinto il ricorso di un padre che sosteneva essere «dannoso per l’equilibrato sviluppo del bambino il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale». Per la Suprema Corte, invece, questo sarebbe un «mero pregiudizio»: «Si dà per scontato ciò che invece è da dimostrare – dice la Cassazione – ossia la dannosità di quel contesto familiare per il bambino».
Questa sentenza non crea solo “sconcerto” e non è affatto – com’è stato sostenuto nei giorni scorsi – la conferma di una linea che, nei casi di separazione, tende ad affidare alla madre il compito di educare il figlio. Questo pronunciamento è “creativo” – come molti altri degli ultimi tempi – nel senso che fonda un nuovo diritto: quello di una coppia omosessuale di allevare, di far crescere, di formare, di educare quell’essere umano, che viene concepito e viene al mondo dall’unione tra un uomo e una donna e, in quanto persona, ha diritto di vivere e di avere relazioni nella forma conosciuta in natura. Con un padre e una madre, non con due persone dello stesso sesso.
La nozione dell’essere umano viene così stravolta. Questa sentenza non incide solo sulla Costituzione, com’è stato detto, perché esiste un prius rispetto a qualsivoglia norma di un ordinamento e a qualsivoglia pronuncia giurisdizionale. Massacra il diritto naturale, che viene cancellato, per far posto ad un’ideologia che è intrinsecamente aberrante. Non servono gli studi scientifici – che sono del resto sterminati – per affermare che andare contro il diritto naturale nuoce gravemente a quell’essere umano. E’ sufficiente guardare alla storia del mondo. Si può essere libertari quanto si vuole, ma anche per costoro valgono i principi dell’ordine naturale, così come per gli atei o per gli gnostici. Non sono patrimonio dell’“etnia” cattolica o del cristianesimo in quanto tale. Se quei principi vengono demoliti, non muta una cosa da poco, perché muta l’antropologia umana. Per tutti. Quei principi sono da difendere, costi quel che costi, perché sono scritti nell’anima di ogni essere umano. E’ questa, qui e ora, la testimonianza da dare contro la modernità che disprezza l’essere umano.
Sono in molti coloro che, anche tra i cattolici, al solo fine di accattivarsi le simpatie – anche elettorali – delle lobby omosessuali, si guardano bene dall’introdurre nel dibattito pubblico questa questione. Proprio perché non si ha il coraggio di testimoniare i principi in cui si dovrebbe credere, siamo giunti a questo punto e i principi del diritto naturale muoiono per ignavia e per tiepidezza di coloro che dovrebbero essere i primi a difenderli. C’è chi, da cattolico, afferma che non costituiscono un’urgenza, una priorità e candida al Senato, in Toscana, Alessio De Giorgi, direttore del portale “Gay.it”, il primo italiano a fare un PACS dopo l’introduzione della legge in Francia, il quale ha affermato di voler riuscire a far approvare «il divorzio breve, il riconoscimento dei figli nati all’interno di una famiglia omogenitoriale»e di volersi battere «perché si facciano passi avanti nella lotta all’omofobia, nella fecondazione assistita, nel testamento biologico».
Si tratta di un programma, accolto in quella “lista Monti” che non contiene una sola parola sui valori non negoziabili, ma che pur vede, tra i suoi candidati, autorevoli esponenti del mondo cattolico. Una contraddizione da spiegare, perché se i cattolici vogliono essere in politica “credenti e credibili”, come chiede Benedetto XVI, hanno il dovere di difendere la libertà e la verità. Che non sono un optional, ma costituiscono l’essenza stessa del cristianesimo.
 

(Danilo Quinto, Corrispondenza Romana, 16 gennaio 2013)
 

mercoledì 16 gennaio 2013

Anche il rabbino capo di Roma è contro le nozze "gay"

L'immensa folla che ha invaso le vie di Parigi, domenica 13 gennaio, per manifestare contro la legalizzazione dei matrimoni "gay" voluta dalla presidenza Hollande ha stupito per la varietà della sua composizione.
C'erano cristiani e atei, musulmani ed ebrei, conservatori e progressisti. C'erano anche degli omosessuali. Tutti accomunati dalla difesa della famiglia naturale composta da padre, madre e figli.
Ma l'elemento che più ha impressionato, già prima della manifestazione, è stata la comunanza di visione tra Benedetto XVI e il gran rabbino di Francia Gilles Bernheim, nell'argomentare le ragioni della protesta. "Accuratamente documentato e profondamente toccante": così papa Joseph Ratzinger ha definito il testo scritto dal gran rabbino Bernheim contro il riconoscimento giuridico del matrimonio omosessuale.
Ma non c’è solo il leader spirituale degli ebrei di Francia ad aver manifestato questa contrarietà.
Anche a Roma la guida di quella che viene considerata la più antica comunità ebraica d'Occidente la pensa allo stesso modo.
Lo ha messo in evidenza il portale degli ebrei italiani Moked, entrando in polemica con un articolo pubblicato dal principale quotidiano italiano, il "Corriere della Sera", che lascerebbe intendere – scrive Moked – "che il documento del rabbinato francese costituisca una rara e coraggiosa novità nel quadro di un ebraismo solitamente silente, soprattutto in Italia, sulle grandi questioni civili".
In realtà, tiene a precisare Moked, "l’ebraismo italiano, e con esso il suo rabbinato, è stato silente solo per chi non ha voluto ascoltarlo".
Per comprovare questa affermazione, il portale degli ebrei italiani richiama alla memoria il fatto che "il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni usò oltre cinque anni fa argomenti solidi e parole ben chiare, per alcuni anche troppo chiare, per dire le stesse cose che oggi ci ripete il rav Bernheim".
Il riferimento è a una nota che Di Segni scrisse nel 2007 quando il parlamento italiano discuteva di un progetto di legge sostenuto dal governo di Romano Prodi, poi non andato in porto, in cui si dava riconoscimento giuridico alle coppie di fatto, comprese quelle omosessuali.
Da questo intervento del 2007, oggi tornato di attualità, si ricava infatti che sull’opposizione al matrimonio tra omosessuali la voce del rabbino di Roma è all'unisono con il gran rabbino di Francia e col papa, ferme restando le divergenze – che il portale Moked ribadisce – su altre questioni con forti implicazioni morali come la fecondazione assistita.
Scrive Di Segni nel passaggio centrale della sua nota: "Secondo la Torà gli ebrei devono osservare 613 regole, ma questo non vuol dire che i non ebrei non debbano avere alcuna regola, perché in realtà le hanno anche loro, inquadrate in sette capitoli fondamentali, i cosiddetti precetti Noachidi, legge naturale".
Sono parole che documentano come l’esistenza di una "legge naturale" valida per tutti i discendenti di Noè, cioè per tutti gli uomini, non è una fissazione del papa, dei vescovi e della Chiesa cattolica. Ma, secondo l’autorevole parere del rabbino capo di Roma, è una verità fondamentale anche per l’ebraismo.
E questo ha delle conseguenze anche nella vita pubblica. Scrive Di Segni: "È nostro dovere come ebrei indurre i non ebrei a rispettare le loro regole. Non possiamo rimanere indifferenti al superamento di determinati limiti, acconsentendo per esempio che la legge dello Stato ammetta l’omicidio, il furto, l’incesto" e ora anche le "coppie omosessuali". Quando la società "supera abbondantemente limiti illeciti è nostro dovere opporci a queste scelte".
E conclude: “Questo è ciò che per noi significa modificazione o crisi del modello tradizionale della famiglia. Forse la società circostante si può permettere (fino a un certo punto) di rimodellarsi secondo le modificate condizioni economiche e sociali. Noi no. E allora deve essere chiaro che se facciamo del dibattito sui DICO una bella questione di diritti civili non abbiamo ancora capito niente dei nostri veri problemi. È urgente una presa di coscienza di tutti e della leadership in particolare, e l’inizio di una politica seria sul tema della famiglia”.
 

(Fonte: Sandro Magister, www.chiesa, 15 gennaio 2013)
 

venerdì 11 gennaio 2013

Tra matrimoni "gay" ed elezioni. Può il papa fidarsi di Andrea Riccardi?

Ogni volta che Benedetto XVI parla contro i matrimoni tra omosessuali, puntualmente viene subissato di critiche. Ma l'ultima volta che l'ha fatto, nell'annuale discorso prenatalizio alla curia, non è stato così. Tutti zitti.
A fare da scudo al papa c'era il gran rabbino di Francia Gilles Bernheim, da lui citato a sostegno delle proprie tesi. E tra gli opinionisti avversi nessuno s'è sentito in animo di prendere a bersaglio anche un luminare dell'ebraismo europeo, oltre al capo della Chiesa cattolica.
In effetti, il caso francese sta facendo scuola al di là dei suoi confini, nella battaglia pro e contro quelli che la Chiesa definisce "principi non negoziabili" e di cui è un cardine il matrimonio tra uomo e donna.
Contro la volontà della presidenza Hollande di dare valore di legge ai matrimoni tra omosessuali hanno reagito vivacemente non solo la Chiesa cattolica, guidata dall'arcivescovo di Parigi, ma anche autorevoli esponenti delle altre religioni e del mondo laico, tra cui la filosofa femminista Sylviane Agacinski, moglie dell'ex premier socialista (e protestante) Lionel Jospin, e, appunto, il gran rabbino Bernheim, con un documento di 25 pagine nel quale rovescia ad uno ad uno gli argomenti a sostegno dei matrimoni omosessuali e delle adozioni da parte di coppie dello stesso sesso.
Nel citare il manifesto di Bernheim, Benedetto XVI l'ha definito "accuratamente documentato e profondamente toccante". E con ciò l'ha estratto dal suo contesto francese e l'ha offerto all'attenzione di tutto il mondo.
In Italia, l'invito del papa è stato accolto prontamente dall'intellettuale non credente Ernesto Galli della Loggia, che sul "Corriere della Sera" del 30 dicembre non solo ha riproposto con dovizia di citazioni gli argomenti del gran rabbino mostrandone la consonanza con Benedetto XVI, ma ha scritto di condividerli in pieno e di auspicare che finalmente se ne discuta senza più sottostare all'imperante conformismo a favore dei matrimoni gay.
Galli della Loggia è un intellettuale laico che dal Vaticano è sempre letto con attenzione. Sua moglie, la storica Lucetta Scaraffia, scrive regolarmente su "L'Osservatore Romano" ed è legatissima al suo direttore Giovanni Maria Vian. E infatti il giornale della Santa Sede ha dato grande evidenza a questa svolta del "Corriere", come fosse la simbolica caduta di un muro.
Galli della Loggia non è il primo né l'unico, tra gli intellettuali laici italiani, ad essersi staccato dal coro delle accuse alla Chiesa "oscurantista".
Dopo di lui, il 2 gennaio, sempre sul "Corriere della Sera", anche una psicoanalista di fama, Silvia Vegetti Finzi, ha preso posizione contro le adozioni di bambini da parte di coppie dello stesso sesso.
E prima di lui c'è stato il pronunciamento dei "marxisti ratzingeriani": il filosofo Pietro Barcellona, il teorico dell'operaismo Mario Tronti, lo scienziato della politica Giuseppe Vacca, il sociologo Paolo Sorbi, tutti organici al Partito democratico e in precedenza al Partito comunista e tutti adesso convertiti alla "visione antropologica" di papa Joseph Ratzinger, in difesa della vita "dal concepimento alla morte naturale" e del matrimonio tra uomo e donna. L'ultima loro riunione l'hanno tenuta in dicembre nella sede della "Civiltà Cattolica", la rivista dei gesuiti di Roma stampata con l'imprimatur della segreteria di Stato.
In Vaticano e nella conferenza episcopale temono però che il Pd, al quale i quattro appartengono e che sarà il probabile vincitore delle elezioni politiche del prossimo 24 febbraio, non tenga conto per niente delle posizioni dei quattro e anzi si prepari a sfornare leggi ostili.
Anche una possibile futura presidenza di Mario Monti non tranquillizza le gerarchie. Il suo programma tace del tutto sui principi "non negoziabili".
Né dà garanzie alla Chiesa l'agitarsi a sostegno di Monti di Andrea Riccardi, il fondatore della Comunità di Sant'Egidio, un cattolico che si spaccia per rappresentante esclusivo delle gerarchie ma che in passato è sempre stato inerte e muto tutte le volte che su quei principi c'è stata battaglia.
È indubbio comunque che egli metta ogni giorno a profitto un'apparente investitura da parte delle massime autorità della Chiesa, a cominciare dal papa.
Ma in realtà le diffidenze nei suoi confronti, se non addirittura le avversioni, sono palpabili ai vari livelli della gerarchia, anche se non espresse pubblicamente.
I vertici della conferenza episcopale italiana, da Camillo Ruini ad Angelo Bagnasco, non dimenticano che negli anni passati Riccardi non si è mai speso una sola volta, né con le parole né con i fatti, a sostegno delle battaglie della Chiesa sui principi "non negoziabili", nemmeno in momenti cruciali come i referendum del 2005 sulla procreazione artificiale, o la morte eutanasica inflitta a Eluana Englaro.
In secondo luogo, coloro che conoscono da vicino la Comunità di Sant'Egidio sanno che c'è un campo, quello della famiglia, nel quale i suoi standard non sono affatto impeccabili.
Ha fatto scalpore, alcuni anni fa, la richiesta di riconoscimento di nullità del proprio matrimonio inoltrata al tribunale diocesano di Roma da un membro da 25 anni della comunità, sposatosi con una donna anch’essa della comunità.
Alla richiesta di nullità costui allegò un memoriale. Nel quale mostrava non solo come si fosse sposato “per costrizione”, ma anche come il suo matrimonio forzato fosse parte di una più generale "prassi in uso nella comunità di fidanzarsi con partner indicati dai propri padri e madri spirituali".
Il tribunale diocesano di Roma accolse la richiesta e nella sua sentenza definitiva del 13 dicembre 2006 decretò nullo quel matrimonio.
Tra i membri della Comunità di Sant'Egidio il matrimonio è stato a lungo svalutato come un ripiego, un "rimedio alla concupiscenza". Ed è stato scoraggiato tra loro anche il procreare, all'insegna del motto: "I nostri figli sono i poveri". Non stupisce che poi siano risultati frequenti le separazioni e i divorzi.
A chi era al corrente di ciò ha quindi fatto impressione che al ministro Riccardi, fondatore e leader da sempre della comunità, fosse affidata nell'ultimo governo italiano anche la delega a occuparsi dei problemi della famiglia.
Ma ancor più ha lasciato interdetti che sull'altra sponda del Tevere, in Vaticano, la presidenza del pontificio consiglio per la famiglia fosse affidata, nel giugno del 2012, al vescovo Vincenzo Paglia, anche lui esponente di spicco della Comunità di Sant'Egidio e per molti anni suo assistente ecclesiastico: gli stessi anni nei quali l'autore del memoriale sopra citato scriveva che "il prete che ci sposò non ci preparò al sacramento né ci confessò, ed erano anni che non ci confessavamo".
Un altro elemento di forte attrito con le gerarchie della Chiesa, in particolare con la diplomazia vaticana, è l'attivismo internazionale della Comunità di Sant'Egidio.
L'ultimo caso di dissidio ha avuto come protagonista ancora una volta Riccardi.
Lo scorso 26 novembre, proprio mentre in Egitto esplodeva la rivolta contro il regime dittatoriale imposto dal presidente Mohammed Morsi, Riccardi ha tenuto una conferenza al Cairo, nell'università di Al-Azhar, che è stata tutta un inno alla democrazia, a suo dire trionfante in quel paese: “Sono molto contento – ha detto Riccardi – che oggi ci sia un Egitto democratico, forte non solo del prestigio della sua storia millenaria e del suo posto tra le nazioni, ma anche del prestigio della libertà. L’Egitto ha una storia di tolleranza. Ma oggi questi aspetti della vita sociale e della storia sono maturati e realizzati in un regime pienamente democratico con istituzioni parlamentari ed elettive. Questa democrazia è nuova ma, d’altra parte, ha radici antiche. In particolare si nota in Egitto e nel mondo arabo un forte rapporto tra la politica democratica e l’islam”.
Riccardi ha eletto a faro di libero pensiero anche l’università nella quale parlava: “Parlo in un luogo alto come l’università di Al-Azhar che, anche in tempi difficili, è stata sempre un faro di religione e di cultura. Anzi qui, ad Al-Azhar, si è sempre creduto che la pratica e lo studio della fede producessero cultura. Al-Azhar, nei secoli, non solo ha conservato la fede, ma ha anche mantenuto viva la cultura con l’umanesimo”.
Accanto a lui c’era il grande imam di Al-Azhar, Ahmed Al-Tayyeb, uno che Riccardi conosce bene, per averlo avuto ospite più volte nelle parate multireligiose organizzate ogni anno dalla Comunità di Sant’Egidio.
Al-Tayyeb è colui che attaccò furiosamente Benedetto XVI per la sola colpa di aver pregato per le vittime della strage nella chiesa copta di Alessandria d’Egitto, alla fine del 2010.
In quell'occasione Al-Tayyeb troncò ogni rapporto tra l'università di Al-Azhar e la Santa Sede.
E oggi lo strappo rimane aperto. Lo ha confermato il cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del pontificio consiglio per il dialogo interreligioso ed ex ministro degli esteri della Santa Sede, in un'intervista a "L'Osservatore Romano" dello scorso 4 gennaio: "Anche quest'anno il dialogo con Al-Azhar si è interrotto per scelta dei nostri partner musulmani".
Ma tra il grande imam e Riccardi, lo scorso 26 novembre, è stato tutto un abbraccio. Meraviglie della decantata "diplomazia parallela" di Sant'Egidio.
Va aggiunto che Riccardi, oggi impegnatissimo nella campagna per le elezioni politiche del prossimo 24 febbraio, non ha mai brillato come procacciatore di voti.
Alla vigilia del conclave del 2005 fece un incessante lavoro di lobbying tra i cardinali, per contrastare la candidatura di Ratzinger e spingere quella di Dionigi Tettamanzi, all'epoca arcivescovo di Milano. Ma al primo scrutinio nella Cappella Sistina raccontano che Tettamanzi rimediò solo due voti.
 

(Fonte: Sandro Magister, www.chiesa, 10 gennaio 2013)
 

Riflessioni sulla canonizzazione della Levi Montalcini

Non fosse che l’amore per la cronaca, non ci si può esimere dal riportare gli elogi elevati nel mondo cattolico in morte di Rita Levi Montalcini. Ma la cronaca, come sempre accade, è impietosa poiché contro i fatti non valgono gli argomenti. E i fatti dicono che quei cattolici che si sono lanciati nell’elogio della scenziata appena scomparsa appaiono, quanto meno, disorientati. Bastava tacere, e invece no. Lucio Romano, Presidente nazionale dell’Associazione Scienza & Vita, emanazione della Conferenza Episcopale Italiana, ha preferito parlare: «La scomparsa di Rita Levi Montalcini rappresenta una grande perdita per la scienza italiana e internazionale (…) Ne ricordiamo l’autorevolezza scientifica e l’instancabile impegno civile e personale per il Paese (…) La sua incessante testimonianza del valore della scienza continuerà ad essere esempio e sprone per i giovani che si impegnano per una ricerca al servizio dell’uomo».
Per non essere da meno, padre Federico Lombardi, portavoce della Sala Stampa Vaticana, parlando della Levi Montalcini ha detto: «Figura eminente non solo per gli altissimi meriti scientifici ma anche per l’impegno civile e morale che l’ha resa persona esemplare e ispiratrice nella comunità italiana e internazionale». Viene da chiedersi se davvero si può definire Rita Levi Montalcini, prima donna a far parte della Pontificia Accademia delle Scienze, una «persona esemplare». Esemplare è ciò che si deve imitare per la sua perfezione. Nel linguaggio della Chiesa, esemplare è un santo. Ma la cronaca è la cronaca, ed ecco che cosa dice a proposito di questa scienziata «esemplare» anche per tanti cattolici.
Prima di lanciarsi negli elogi, bastava leggere i giornali per scoprire che Rita Levi Montalcini «ha coniugato ricerca scientifica e impegno civile. Si pensi al suo apporto nelle battaglie per il divorzio, l’aborto, gli anticoncezionali. E ancora per contrastare leggi confessionali come la 40». E ancora: «Accanto alla carriera di accademica e ricercatrice, Rita Levi Montalcini si è sempre distinta anche per le sue battaglie in favore delle donne. Negli anni ‘70 partecipò attivamente alle iniziative per la regolamentazione dell’aborto e rinunciò ad avere un marito e una famiglia per dedicarsi completamente alla scienza. Portò avanti anche progetti per aiutare le donne africane ad emanciparsi». Un’emancipazione che, evidentemente, comprendeva le categorie dell’ «aborto gratuito, sicuro e garantito» che si accompagna alle politiche degli organismi internazionali maltusiani.
Secondo la «esemplare» scienziata, uno strumento di emancipazione femminile è ad esempio la RU486, a proposito della quale il 25 novembre del 2009 Rita Levi Montalcini dichiara: «Penso molto bene di questo farmaco. Conosco colui che l’ha scoperto, è venuto da me e posso dire che i risultati sono straordinari». Secondo il premio Nobel la pillola abortiva Ru486 «ha dato risultati straordinari». «Come Associazione Luca Concioni si legge sul sito di Radicali Italiani all’indomani della dipartita della studiosa l’abbiamo avuta accanto in tanti appelli nazionali e internazionali, è stata esempio e testimonianza di quanto occorresse la voce di scienziati autorevoli a sostegno delle iniziative per la libertà di ricerca scientifica». Quando in Italia venne indetto il referendum contro la legge 40 del 2004 per renderla ancora più permissiva, Rita Levi Montalcini spiegò che sarebbe stato «un dovere di tutti votare quattro sì». La considerava «una legge ingiusta e immorale».
Capitolo Eutanasia. In un’intervista rilasciata al “Corriere della Sera”, la Levi Montalcini concluse che «nessuno ha il diritto di sopprimere la vita», per poi aggiungere: «L’eutanasia potrebbe essere concessa, sempre e soltanto nella fase terminale di malattie che provocano gravi sofferenze, in seguito a processi degenerativi o neoplastici senza speranza di guarigione. Sono favorevole all’eutanasia soltanto per la propria persona attraverso un testamento “biologico” stilato, a norma di legge, in pieno possesso delle proprie facoltà mentali, nel quale si dichiari che qualora non si fosse più in grado di possedere le facoltà di intendere e di volere, una commissione di medici esperti può porre fine alle gravi sofferenze o a una vita priva di capacità cognitive».
Aborto legale, aborto chimico, Fivet, eutanasia: le tesi di Rita Levi Montalcini sono indiscutibilmente tutte pro-choice e anti-vita. Tesi a corollario delle quali si possono citare altre perle poco esemplari. «Qualche anno fa racconta Umberto Veronesi l’ex ministro dell’Istruzione Letizia Moratti decise per la scomparsa di ogni accenno al darwinismo dai programmi delle scuole medie. Firmammo insieme (a Rita Levi Montalcini) un appello con altri scienziati perché ci si ripensasse. E vincemmo». «Sono atea», ha spiegato l’«esemplare» scienziata. «Non so cosa si intenda per credere in Dio».
L' embrione non è una persona. E ancora: L' embrione può considerarsi o no una persona umana? «No, assolutamente no», è la risposta secca di Rita Levi Montalcini. Il premio Nobel per la Medicina chiarisce che «l' embrione non è una persona umana, è un ammasso di cellule indifferenziate per cui per parlare di persona bisogna, quanto meno, che sia avvenuta la differenziazione». Stesso discorso vale, anzi a maggior ragione, per l' ovulo fecondato. «Si può iniziare a parlare di persona umana - spiega con precisione la studiosa del cervello umano - dopo il quattordicesimo giorno, vale a dire quando è avvenuta la differenziazione, anche se c' è bisogno ancora di molto tempo per la formazione completa e il funzionamento del sistema nervoso centrale». Quindi, stando alla conoscenza biologica, «è sbagliato porre l' inizio della vita umana al concepimento, sarebbe un colpo alla legge sull' aborto e alla stessa scienza». (Corriere della Sera, 12 giugno 2002, Pg.2).
E, coerentemente, ha voluto esequie civili e la cremazione del suo corpo. Si può definire autorevole scientificamente una persona che chiama “farmaco” la RU486, definito da Jérôme Lejeune «pesticida umano»? Si può definire «esemplare» una persona che si è battuta per divorzio, aborto legale, fecondazione artificiale, eutanasia? Si può definire «instancabile impegno civile» un’azione che contraddice il diritto alla vita in tutti su tutte le frontiere della bioetica? Insomma, cronaca. Banalissima, impietosa cronaca: di un disastro dottrinale.
 

(Fonte: Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro. Corrispondenza Romana, 8 gennaio 2013)
 

giovedì 10 gennaio 2013

L’abate di Einsiedeln e la “cenere” della Chiesa

È membro della Conferenza Episcopale Elvetica, che pare appoggiarlo. Per questo che a fare certe affermazioni sia mons. Martin Werlen, il cinquantenne abate benedettino di Einsiedeln, nel Cantone di Schwytz, in Svizzera, fa ancora più scalpore e crea ancora maggior confusione. Ciò che scrive nel suo opuscolo dal titolo Scoprire la brace sotto la cenere – ripreso nell’edizione on line del quotidiano cattolico francese “La Croix” , è sconcertante: ad esempio, ritiene sia giunta l’ora che i battezzati ed i cresimati di una Diocesi vengano coinvolti «in maniera adeguata» nella nomina del loro Vescovo. Il che significherebbe, nei fatti, introdurre una forma rivoluzionaria di “democraticismo” all’interno della Chiesa.
Di più, significherebbe colpire Pietro, visto che il Codice di Diritto Canonico al Canone 377 comma 1, precisa con chiarezza come sia «il Sommo Pontefice»a nominare «liberamente i Vescovi»o a confermare quelli che siano «stati legittimamente eletti». E proprio al Santo Padre mons. Werlen suggerisce con disinvoltura di cambiare consiglieri e rimpiazzare i Cardinali con uomini e donne provenienti da ogni parte del mondo, da convocarsi ogni tre mesi per un periodo sperimentale di cinque anni. Non essendo questi costretti a dire o tacere alcunché «per timore di porre a rischio la propria carriera», ritiene che possano per ciò stesso suscitare «un nuovo dinamismo nel governo della Chiesa». Con altrettanta insistenza mons. Werlen chiede di rivalutare i Sinodi episcopali, purché “sganciati” dal controllo romano sull’esempio del Vaticano II, afferma, e con un’ansia di cambiamento tesa a far emergere il «nuovo». Come se nel deposito della fede, non ci fosse già tutto…
Altra “trovata” dell’abate: smontare il celibato dei preti. «Noi siamo riusciti a presentare la sequela di Cristo nel celibato in modo tale da farla sembrare una legge», lamenta. Dimenticando forse come ancora il Codice di Diritto Canonico, al Canone 277 comma 1, preveda per i chierici «l’obbligo di osservare la continenza perfetta e perpetua per il Regno dei Cieli». Le tesi dell’abate di Einsielden si scontrano frontalmente anche col Catechismo della Chiesa Cattolica che al n. 1579 spiega come i ministri ordinati conservino «il celibato “per il Regno dei Cieli” (Mt 19,12)», per «consacrarsi con cuore indiviso al Signore», donandosi «interamente a Dio ed agli uomini».
La stessa Sacra Scrittura attribuisce a chi non sia sposato il compito di preoccuparsi «delle cose del Signore, come possa piacere al Signore» (I Cor 7,32). Ed anche per i divorziati risposati suggerisce di seguire l’esempio degli ortodossi, che non li escludono dalla Comunione, approccio ha precisato l’abate mai condannato dalla Chiesa Cattolica. Che, tuttavia, pur non mettendo becco in casa altrui, è molto chiara in casa propria, laddove nel Catechismo della Chiesa Cattolica specifica al n. 1650: «La Chiesa non può riconoscere come valida una nuova unione, se era valido il primo matrimonio. Se i divorziati si sono risposati civilmente, essi si trovano in una situazione che oggettivamente contrasta con la Legge di Dio. Perciò essi non possono accedere alla Comunione eucaristica, per tutto il tempo che perdura tale situazione. Per lo stesso motivo non possono esercitare certe responsabilità ecclesiali. E questo non per arbitrio, bensì seguendo la Sacra Scrittura: “Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio contro di lei; se la donna ripudia il marito e ne sposa un altro, commette adulterio”(Mc 10, 11-12)».
Ma mons. Werlen incalza, facendo intendere come anche sulla questione del “gender” la Chiesa sia, a suo giudizio, «maldestra ed impotente». E debba anzi farsi più «femminista», poiché farebbe «sempre fatica col «sì» alla donna», dimenticando completamente come, ad esempio (ma è solo un esempio…), nella Lettera alle donne del 29 giugno 1995 il Beato Giovanni Paolo II non esitò a parlare di «genio femminile», specificando come la Chiesa ne veda «in Maria la massima espressione».
Ma come e attraverso chi l’abate svizzero è giunto a tali conclusioni? I nomi sono i soliti. Da una parte l’anagrafe lo rende figlio del cosiddetto “spirito” del Concilio Vaticano II. Dall’altra lui stesso afferma d’aver tratto spunto nello scrivere quest’opuscolo da una frase del Card. Carlo Maria Martini, quando disse in un’intervista: «Io vedo nella Chiesa d’oggi così tanta cenere freddatasi sulla brace che spesso un sentimento d’impotenza m’opprime». Da qui mons. Werlen trarrebbe spunto per definire «drammatica»la situazione della Chiesa, accusata di scarsa «creatività» e di aver tirato «il freno a mano»al punto da poter presto essere cancellata «con le sue istituzioni». Accusa i vertici di disobbedienza: «La disobbedienza deplorata dalla Chiesa ufficiale è spesso la conseguenza della disobbedienza dei suoi rappresentanti».
Stupisce che il suo opuscolo sia già giunto alla terza edizione ed in pochissimo tempo. Ancor più stupisce che secondo quanto riportato dal “National Catholic Reporter” il neo-eletto Presidente della Conferenza Episcopale Elvetica, mons. Markus Büchel in carica dal primo gennaio , dopo aver letto il testo, abbia espresso gratitudine all’abate di Einsielden, elogiandolo per essersi fatto carico «di questioni urgenti», per aver delineato «i problemi in modo chiaro»e per aver avanzato «possibili soluzioni». Tutto questo sarebbe di «stimolo per discussioni alquanto necessarie nella Chiesa»e corrisponderebbe ad una sua «personale preoccupazione». Ciò, ad indicare come plausibilmente mons. Werlen non agisca da libero battitore, bensì intercetti e faccia propria la linea di tendenza di un’importante Conferenza Episcopale centro-europea. L’abate invita a «scoprire la brace, che dona la vita, e vuole, ancora oggi, ardere». Di certo, non vi riuscirà opponendosi alla Tradizione, unica fonte certa e preziosa per non smarrire la retta via. L’unica in grado di riattizzare davvero il fuoco della fede.
 

(Fonte: Mauro Faverzani, Corrispondenza Romana, 8 gennaio 2013)