Germanista, filosofo, teologo, musicista, amante di Mozart, fin dalla sua fanciullezza nella natia Lucerna, Hans Urs von Balthasar palesò queste sue inclinazioni, maturate in un ambiente cristiano dalla viva fede. Coronò la sua gioventù entrando nel 1929, a ventiquattro anni, nella Compagnia di Gesù. La sua ascendenza teologica così passò per i grandi nomi ed esempi di vita di Erich Przywara, Jean Daniélou, Henri-Marie de Lubac.
Rigorosamente formatosi alla scuola della patristica, lentamente la sua fama lo fece annoverare fra i grandi teologi mitteleuropei. La sua originale sintesi teologica, per piccoli passi e con difficoltà, si fece strada con le prime pubblicazioni fin dal 1925, ma gli causò anche grandi ombre di sospetto. Tanto da essere stato uno dei grandi assenti del concilio Vaticano II, insignito però nel 1984 del Premio Paolo VI.
Ebbe lo sguardo lungo, ma insieme fisso su quel microcosmo che è la persona umana e la sua intelligenza, lamentando la realtà in cui viveva. «Non si vuol credere se non a ciò che si comprende con la propria umana sapienza, a ciò che rientra nelle proprie categorie anche le più sublimi: ciò che le oltrepassa, la sapienza di Dio, appare irrazionale».
Proprio prendendo la mosse da una falsa ragionevolezza, von Balthasar non esita ad affermare «oggi non c’è più una persona ragionevole che preghi; l’era della contemplazione è passata, ora c’è l’azione: l’uomo non assume soltanto l’amministrazione del suo mondo, ma anche di se stesso, e fa di sé ciò che vuole».
In questa postura origina la deriva che non sa più riconoscere nella storia e nell’esistenza storica di ciascuno un dato irrevocabile: il patto. Cioè il «duplice impegno di Dio per l’uomo e dell’uomo per Dio», che non è frutto di iniziativa umana, ma che «poggia sulla iniziativa unilaterale di Dio formulata nel suo appello e nella sua promessa ad Abram». Patto sempre connesso al centro della sua riflessione con il vero mistero «quello della Croce e della sua presenza reale nella Chiesa di tutti i tempi per mezzo dello Spirito».
La ricerca del teologo svizzero fu innervata da un interrogativo che suscitò risposte precise e mai dismesse, «chi è il cristiano?», e che si può sintetizzare in poche parole: «Uno che impegna la propria vita per i fratelli, perché egli stesso è debitore della vita al crocifisso. Ma che cosa può dare seriamente ai fratelli? Non soltanto cose visibili; il suo dono — ciò che è stato dato a lui stesso — affonda nelle cose invisibili di Dio».
Nel 1947 von Balthasar uscì dalla Compagnia di Gesù per poter seguire l’Istituto San Giovanni e l’omonima casa editrice fondata con Adrienne von Speyr di cui fu padre spirituale.
Nel 1952 dette alle stampe Abbattere i bastioni, in cui sosteneva che la Chiesa doveva sgretolare le mura che la rinchiudevano e aprirsi al mondo contemporaneo. Fu un atto rivoluzionario che incontrò notevoli difficoltà da parte della mentalità degli uomini di Chiesa. Ma questa colluvie, giunta fino al punto di interdirgli l’insegnamento nelle Facoltà cattoliche — come non ricordare anche il suo maestro de Lubac che passò, con onore, per la stessa strettoia e amò ancora di più il mistero della Chiesa? — fu una sorta di sigillo perché promanava da una sua riflessione, teologica e resa vita esistenziale. «Se la Chiesa è l’albero cresciuto dal piccolo granello di senapa della croce, quest’albero è destinato a produrre a sua volta granelli di senapa, e quindi frutti che ripetono la forma della croce, perché proprio alla croce devono la loro esistenza. Producendo frutti, la Chiesa ritorna alla propria origine».
Ancora una volta von Balthasar ribadisce le sue intuizioni. Se «la bellezza è l’ultima parola che l’intelletto pensante può osare di pronunciare, perché essa non fa altro che incoronare quale aureola di splendore inafferrabile, il duplice astro del vero e del bene e il loro indissolubile rapporto», il luogo rivelativo è il Crocifisso, il dramma del Dio-Uomo che si offre, nella storia, perché chi a Lui si rivolge possa riconoscervi la forza per passare, testimoniando la fede, attraverso il proprio martirio.
Viene così confermata l’irriducibile alterità dell’identità del cristiano rispetto al mondo, cui peraltro deve aprirsi e con cui deve collaborare, sempre avendo davanti a sé il regno di Dio che non è di questo mondo. La vita si consuma in una lotta in cui non mancano sofferenza e notte ma in cui brillano, come luce, speranza e gioia.
Bellezza donata nella Rivelazione che diventa una calamita che attira e incendia la fede, riconoscendo la gratuità, segno preciso dell’agire di Dio verso l’umanità: senza conoscere la Bellezza non è possibile conoscere la verità e il bene.
Il Lògos è amore, gloria e splendore, che von Balthasar ritrova nella Scrittura, sempre letta nell’ottica della figura di Cristo e il drammatico evento della Croce, della kènosis che prelude un evento ancora più grande e definitivo: solo il Risorto rivela l’amore salvifico totale.
La morte della persona umana e dell’Uomo-Dio su cui tanto rifletté, pervase la sua ricerca teologica che continuava a dimostrare come la persona non fosse Dio. «Così noi moriamo arrivando a Dio, giacché Dio è vita eterna. Come l’avremmo toccato altrimenti che con la morte?».
Solo in questo varco, ineluttabile e silente nella nostra coscienza, ma che bisogna portare a voce piena, la persona umana si riconosce e riconosce Dio. «La morte nella nostra vita è il pegno che noi attingiamo l’oltrevita. La morte è la riverenza della nostra vita, la cerimonia dell’inchino davanti al trono del Creatore».
Non è lo sguardo ingenuo che non trasale o non si impenna dinanzi alla sconfitta della vita. È lo sguardo che buca il tempo «poiché la più profonda essenza degli esseri è fatta di lode, di servizio e di riverenza, che essi devono al loro Creatore, una goccia di morte si trova commista in ogni momento dell’essere. Ma poiché tempo e amore sono così intrecciati, essi amano anche il loro morire, e la loro esistenza non rifiuta il tramonto. E anche se la piccola singola vita si angustia, e l’oscura volontà dell’ego si erge contro la morte, l’esistenza stessa, la corrente profonda del mare che la fa salire e scendere riconosce la sua padrona e si piega volentieri». Non come lo schiavo costretto all’inflessibile volere di un padrone dominatore ma come servo che abbia sperimentato un amore più grande: «Giacché un presentimento, in essa, sa: esiste autunno unicamente perché si prepara una primavera, e volentieri accetta di inaridire in questo mondo ciò che porta la promessa di fiorire in Dio».
Il 26 giugno 1988 il grande teologo si accommiatò dalla storia degli uomini, dalla storia del pensiero filosofico, dalla Bellezza che aveva percepito in solitudine silente, solo due giorni prima di essere insignito della dignità cardinalizia che avrebbe sigillato la sua sofferta vicenda con il riconoscimento della Chiesa.
Fu un ultimo atto di kènosis, accettata e amata. «Così muore in Dio e in Dio risorge la creatura. Andiamo entusiasti dentro la luce, ne siamo attirati ed ebbri!».
(Fonte:
Cristiana Dobner, Osservatore romano, 26 giugno 2013)