domenica 27 ottobre 2013

Uno sguardo al passato: si stava meglio quando si stava peggio

Quando si arriva a intravvedere gli ultimi ripidi e faticosi tornanti che portano in vetta, sul traguardo, quando ormai ci succede di pensare sempre più frequentemente alla lunga corsa della nostra esistenza, può capitare di girarsi indietro, e in pochi istanti rivivere la freschezza dei prati erbosi e fioriti della prima gioventù.
Tempi irripetibili quelli degli anni quaranta e cinquanta del secolo scorso! Chi li ha vissuti, li ricorderà – come succede a me - con un groppo di commozione in gola.
La Chiesa aveva allora al timone un papa come Pio XII, che trasmetteva con la sua ieraticità tutta la sacralità e la trascendenza dei misteri di Dio: i modernisti e i “rivoluzionari” c’erano anche allora, ma stavano nascosti e covavano nell’ombra. Il divorzio era ancora lontano; dell’aborto non se ne faceva nemmeno parola; la droga era un problema d’oltreoceano, da fantascienza. L’unica famiglia era quella naturale composta da un padre, da una madre e da tanti figli; di gay, lesbiche, gender, omofobia, neppure l’ombra. I preti, a quei tempi, ci insegnavano il Catechismo del Concilio di Trento e di San Pio X e non la teologia del Vaticano II, enucleata e filtrata attraverso le tesi estremistiche dei vari Rahner, Kung, Congar o… Mancuso! Indossavano la tonaca, studiavano il latino, il greco e la teologia di san Tommaso.
Soprattutto, anche se non accademici, erano indubbiamente dei “santi”, sul serio.
La messa della domenica mattina e i Vespri del pomeriggio riempivano le chiese in ogni ordine di età e di sesso; e poi, sul piazzale antistante, tutti a fraternizzare… Era tutto più semplice e comprensibile. Ci si accontentava di poco.
Per carità, c’erano anche allora dei delinquenti, ladri e impostori, ma erano “ruspanti” e non avevano ancora saturato le istituzioni e la politica…
Forse eravamo retrogradi, non capivano nulla di globalità; eravamo giovani come la nostra Repubblica, portavamo gli zoccoli ai piedi e i pantaloni alla zuava: ma eravamo tanto felici, spensierati e con tanti sani ideali da realizzare. E poi? Poi ci siamo “emancipati”; ci siamo messi al passo coi tempi!!
 
(Ma.La. 28 ottobre 2013)
 

giovedì 24 ottobre 2013

Divorziati risposati. Müller scrive, Francesco detta

“Credo che questo sia il tempo della misericordia”, aveva detto papa Francesco sull'aereo di ritorno dal Brasile, rispondendo a una domanda sulla comunione ai divorziati risposati.
Ma che la “misericordia” predicata da papa Jorge Mario Bergoglio preluda a una revoca del divieto della comunione, come molti avevano arguito, è ormai da escludere.
Il no l'ha calato – visibilmente con l'approvazione del papa – il prefetto della congregazione per la dottrina della fede, l'arcivescovo Gerhard Ludwig Müller, su L'Osservatore Romano di oggi, con un documento di piena riconferma della dottrina della Chiesa cattolica in materia, diffuso contemporaneamente in sette lingue.
Un documento che dedica la sua parte finale proprio a una messa in guardia da un'interpretazione falsa della misericordia: «Attraverso quello che oggettivamente suona come un falso richiamo alla misericordia si incorre nel rischio della banalizzazione dell’immagine stessa di Dio, secondo la quale Dio non potrebbe far altro che perdonare. Al mistero di Dio appartengono, oltre alla misericordia, anche la santità e la giustizia; se si nascondono questi attributi di Dio e non si prende sul serio la realtà del peccato, non si può nemmeno mediare alle persone la sua misericordia».
«Gesù ha incontrato la donna adultera con grande compassione, ma le ha anche detto: Va’, e non peccare più (Gv 8,11). La misericordia di Dio non è una dispensa dai comandamenti di Dio e dalle istruzioni della Chiesa; anzi, essa concede la forza della grazia per la loro piena realizzazione, per il rialzarsi dopo la caduta e per una vita di perfezione a immagine del Padre celeste».
Non solo. Papa Francesco aveva acceso delle aspettative di cambiamento – sempre sull'aereo di ritorno dal Brasile – anche quando si era richiamato all'esempio delle Chiese ortodosse che nel matrimonio “permettono una seconda unione”.
Ma anche qui il pronunciamento del prefetto di dottrina ha chiuso ogni varco: «Oggi nelle Chiese ortodosse esiste una varietà di cause per il divorzio, che sono solitamente giustificate con riferimento alla oikonomìa, la clemenza pastorale per i singoli casi difficili, e aprono la strada a un secondo o terzo matrimonio con carattere penitenziale. Questa prassi non è coerente con la volontà di Dio, chiaramente espressa dalle parole di Gesù sulla indissolubilità del matrimonio. […] Talvolta si sostiene che la Chiesa [cattolica] abbia di fatto tollerato la pratica orientale, ma ciò non corrisponde al vero».
E più avanti: «Anche la dottrina della epichèia, secondo la quale una legge vale sì in termini generali, ma non sempre l’azione umana vi può corrispondere totalmente, non può essere applicata in questo caso, perché l’indissolubilità del matrimonio sacramentale è una norma di diritto divino, che non è dunque nella disponibilità autoritativa della Chiesa».
Un terzo punto su cui il pronunciamento di Müller ha voluto fare chiarezza – anche qui in riferimento implicito a parole del papa malamente interpretate – riguarda “un concetto problematico di coscienza”, utilizzato come lasciapassare alla comunione: «Sempre più spesso viene suggerito che la decisione di accostarsi o meno alla comunione eucaristica dovrebbe essere lasciata alla coscienza personale dei divorziati risposati. Questo argomento, che si basa su un concetto problematico di coscienza, è già stato respinto nella lettera della congregazione [per la dottrina della fede] del 1994. Certo, in ogni celebrazione della messa i fedeli sono tenuti a verificare nella loro coscienza se è possibile ricevere la comunione, possibilità a cui l’esistenza di un peccato grave non confessato sempre si oppone. Essi hanno pertanto l’obbligo di formare la propria coscienza e di tendere alla verità; a tal fine possono ascoltare nell’obbedienza il magistero della Chiesa, che li aiuta a non sviarsi dalla verità circa il bene dell’uomo, ma, specialmente nelle questioni più difficili, a raggiungere con sicurezza la verità e a rimanere in essa (Giovanni Paolo II, lettera enciclica Veritatis splendor, n. 64)».
«Se i divorziati risposati sono soggettivamente nella convinzione di coscienza che il precedente matrimonio non era valido, ciò deve essere oggettivamente dimostrato dalla competente autorità giudiziaria in materia matrimoniale. Il matrimonio non riguarda solo il rapporto tra due persone e Dio, ma è anche una realtà della Chiesa, un sacramento, sulla cui validità non solamente il singolo per se stesso, ma la Chiesa, in cui egli mediante la fede e il battesimo è incorporato, è tenuta a decidere».
In linea generale, il documento del prefetto della dottrina ribadisce «che, in caso di dubbi circa la validità della comunione di vita matrimoniale che si è interrotta, questi devono essere esaminati attentamente dai tribunali competenti in materia matrimoniale».
Ma Müller anche riconosce che in un contesto come l'attuale i matrimoni “invalidi” sono molto numerosi.
Esattamente come aveva fatto notare papa Francesco, sempre sull'aereo di ritorno da Rio de Janeiro, quando ricordò che il suo predecessore a Buenos Aires, il cardinale Quarracino, diceva: «Per me la metà dei matrimoni sono nulli, perché si sposano senza maturità, senza accorgersi che è per tutta la vita, perché lo fanno per convenienza sociale».
Ma se i matrimoni nulli sono in così gran numero, come potranno i tribunali diocesani esaminarli tutti, accertandone giuridicamente l'invalidità?
Müller non pone esplicitamente questa domanda, nel suo documento. Cita però un articolo di Joseph Ratzinger del 1998 ripubblicato su “L'Osservatore Romano” del 30 novembre 2011, nel quale il predecessore di papa Francesco affacciava i pro e i contro di una ipotesi di soluzione: il possibile ricorso a una decisione in coscienza di accedere alla comunione, da parte di un cattolico divorziato e risposato, qualora il mancato riconoscimento di nullità del suo precedente matrimonio (per effetto di una sentenza ritenuta erronea o per la difficoltà di provarne la nullità in via processuale) contrasti con la sua fondata convinzione che quel matrimonio sia oggettivamente nullo.
Si può presumere che il sinodo dei vescovi dell'ottobre del 2014 – al quale papa Francesco ha affidato la questione – esaminerà proprio questa “ipotesi Ratzinger” per innovare in materia, pur nella riaffermazione dell'assoluta indissolubilità del matrimonio.
Nel diffondere in sette lingue il documento di Müller, “L'Osservatore Romano” premette che sulla questione della comunione ai divorziati risposasti “si sono succeduti interventi diversi”.
L'allusione è in particolare a un testo liberalizzatore che è circolato recentemente tra il clero della diocesi tedesca di Friburgo.
Alle tendenze espresse da questo testo, Müller risponde così, nel suo documento: «Alla crescente mancanza di comprensione circa la santità del matrimonio, la Chiesa non può rispondere con un adeguamento pragmatico a ciò che appare inevitabile, ma solo con la fiducia nello Spirito di Dio, perché possiamo conoscere ciò che Dio ci ha donat (1Cor 2,12)». Il matrimonio sacramentale è una testimonianza della potenza della grazia che trasforma l’uomo e prepara tutta la Chiesa per la città santa, la nuova Gerusalemme, la Chiesa stessa, pronta come una sposa adorna per il suo sposo (Ap 21,2).
«Il Vangelo della santità del matrimonio va annunciato con audacia profetica. Un profeta tiepido cerca nell’adeguamento allo spirito dei tempi la sua propria salvezza, ma non la salvezza del mondo in Gesù Cristo. La fedeltà alle promesse del matrimonio è un segno profetico della salvezza che Dio dona al mondo: chi può capire, capisca (Mt 19,12)».
 

(Fonte: Sandro Magister, www.chiesa, 23 ottobre 2013)

 

Papa Francesco: un messaggio “deculturato”?

Come giudicare le modalità del tutto inedite della comunicazione di papa Francesco? Quel suo parlare più con interviste che con encicliche?
Si può ipotizzare che questo papa venuto dalla fine del mondo risenta di quei processi di deculturazione del religioso che vede in campo religioni ormai deterritorializzate e deculturate a causa della globalizzazione e della “network society.” Religioni le quali pongono progressivamente sullo sfondo, fino a farle progressivamente svanire, le complesse mediazioni ermeneutiche storico-culturali in cui esse sono germinate.
È questo un fenomeno che coinvolge ormai anche il cattolicesimo, specie in America Latina, ove si manifestano e prendono sempre più forza movimenti carismatici, comunitari, de-istituzionalizzati, con forme di culto mistico-emozionali, che non sopportano dogmi, apparati, liturgie ordinate, nel nome di un esplicito rifiuto di un cristianesimo europeo-occidentale eccessivamente snervato dal razionalismo post-illuministico, e che sembrano ripetere, in modo quasi concorrenziale, il pentecostalismo carismatico americano che si avvia a divenire nuova religione globale proprio perché culturalmente sempre più neutra.
Se si assume una prospettiva di questo genere, appaiono evidenti le differenze fra papa Joseph Ratzinger e papa Jorge Mario Bergoglio.
Benedetto XVI ha sempre messo in guardia da una deculturazione del cristianesimo che recida i suoi legami col pensiero razionale greco. Come il prometeismo tecnologico produce le patologie della ragione, così la rinuncia al rapporto organico fede-ragione sviluppato dal pensiero teologico conduce a speculazioni arbitrarie e tendenzialmente fondamentalistiche.
Come Benedetto XVI sosteneva nel memorabile discorso di Ratisbona del 2006, è il corretto ragionamento a condurre alla fede, poiché “non agire secondo ragione è contrario alla natura stessa di Dio”. È questo – spiegò – il frutto migliore e imprescindibile dell’ellenizzazione del cristianesimo da parte dei Padri della Chiesa: nella “ratio”, intesa come organo di controllo e di chiarificazione dell’umano, si manifesta la luce divina.
Dio, infatti, “agisce mediante il Logos, che è insieme ragione e parola, una ragione che è creatrice e capace di comunicarsi, appunto, come ragione”. Questa lettura non rappresenta, agli occhi di Benedetto XVI, un’alienazione del messaggio evangelico, tale da confinarlo in un determinato ambito storico-culturale, ma è invece la norma universale da non smarrire per ogni ulteriore sua traduzione in ogni epoca e cultura.
Ogni cultura produce, infatti, una qualche forma di elaborazione teologica del rapporto fede-ragione, e quindi anche un’innata apertura al dialogo, capace di evitare sia le patologie della religione che quelle della ragione.
Papa Francesco, invece, sembra dubitare che la cultura del Logos in cui è maturato il cristianesimo possa ancora rappresentare la forma privilegiata ed universale del suo darsi nel mondo.
Vista la sua provenienza dall’America Latina, che sperimenta da anni un diffuso rifiuto di quel cristianesimo europeo-occidentale che avrebbe eccessivamente introiettato i processi di secolarizzazione, Francesco sembra partecipe di una forma di deculturazione del cristianesimo che privilegia la potenza sorgiva dell’annuncio evangelico depurato dalla gabbia di forme culturali storicamente determinate. La verità cristiana – ha scritto nella lettera a Eugenio Scalfari su “la Repubblica“ dell’11 settembre –  è “l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo e quindi una relazione che si dà a noi solo come un cammino e una vita”.
Al di là dell’enciclica “Lumen fidei”, d’impianto ancora ed esplicitamente ratzingeriano, che ripercorre il canone culturale ellenistico secondo cui ragione e fede reciprocamente si illuminano, è evidente che la forma preferita dell’annuncio evangelico per papa Francesco non è l’enciclica o la lezione, ma piuttosto l’omelia, la lettera, l’intervista.
È lì che il suo discorso sgorga nuovo ogni volta come fosse la prima volta, improntato alla speranza nella grazia di Dio che sempre si manifesta, e non si lascia intrappolare nelle forme dottrinali tradizionali di un cristianesimo che spesso gli sembra assumere le forme di un “gioco intellettuale”, di una “arida casistica morale”, di una “ideologia”.
Più che come maestro, papa Francesco si presenta come testimone di una mistica dell’incarnazione che sollecita a “pensare con la carne e con il cuore ed a pregare con la carne e non con le idee”: così in una sua omelia mattutina a Santa Marta dei primi di giugno.
Per papa Francesco – si veda la sua intervista a “La Civiltà Cattolica“ – l’annuncio dell’amore salvifico di Dio precede (e vanifica?) ogni sicurezza dottrinale, ogni compendio di verità astratte, ogni obbligazione morale e religiosa derivanti da “un tomismo decadente”, e produce invece “un’aura mistica” che non definisce mai i bordi del pensiero, ma invita, secondo quello che a lui appare il vero messaggio ignaziano, alla “sapienza del discernimento che riscatta la necessaria ambiguità della vita”, e apre a una “santità quotidiana” cui tutti possono aspirare.
 

(Fonte: Pietro L. Di Giorgi, Settimo cielo, 19 ottobre 2013)
 

venerdì 18 ottobre 2013

No al proselitismo. Sì alla missione

Nell'udienza generale di mercoledì scorso, in una piazza San Pietro come sempre stracolma, papa Francesco ha insistito ancora una volta su un punto cardine del suo pontificato: il dovere della Chiesa di farsi "missionaria", ossia di "continuare nel cammino della storia la missione stessa che Gesù ha affidato agli apostoli: Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato".
Domenica 20 ottobre sarà la giornata missionaria mondiale, con il relativo messaggio pontificio, nel quale si legge tra l'altro: "La missionarietà della Chiesa non è proselitismo, bensì testimonianza di vita che illumina il cammino, che porta speranza e amore. La Chiesa non è un’organizzazione assistenziale, un’impresa, una ONG, ma è una comunità di persone, animate dall'azione dello Spirito Santo, che hanno vissuto e vivono lo stupore dell’incontro con Gesù Cristo e desiderano condividere questa esperienza di profonda gioia, condividere il messaggio di salvezza che il Signore ci ha portato".
Già numerose volte papa Jorge Mario Bergoglio ha insistito sul fatto che la Chiesa "non è una ONG assistenziale". Nè che fa "proselitismo": pratica da lui bollata nel celebre colloquio con Eugenio Scalfari come "una solenne sciocchezza", che "non ha senso".
Ma ciò non significa per Francesco che la Chiesa debba chiudersi in se stessa e rinunciare a convertire. Tutt'altro. Fin da quando è stato eletto alla sede di Pietro, papa Bergoglio non ha fatto che incitare la Chiesa ad "aprirsi", a raggiungere gli uomini fin nelle loro più remote "periferie esistenziali".
In effetti, l'inaridimento della spinta missionaria è uno dei punti di maggior criticità della Chiesa cattolica degli ultimi decenni.
È una crisi iniziata negli anni del Concilio Vaticano II e aggravatasi negli anni successivi, contro la quale Giovanni Paolo II e poi Benedetto XVI hanno cercato di invertire la rotta. Con scarsi risultati.
Ora ci prova Francesco. Ma prima di vedere quali effetti produrrà il nuovo papa, è utile ripercorrere la genesi della crisi e i suoi sviluppi, dal Concilio a oggi.
È quanto fa in un libro stampato dall'EMI un missionario molto speciale, padre Piero Gheddo (nella foto), 84 anni, del Pontificio Istituto Missioni Estere, che ha compiuto innumerevoli viaggi in tutti i continenti, ha scritto oltre ottanta libri tradotti in varie lingue e in più fu chiamato da Giovanni Paolo II a scrivergli l'enciclica dedicata alle missioni: la "Redemptoris missio" del 1990.
Ma in precedenza padre Gheddo era stato anche uno degli estensori del decreto conciliare "Ad gentes".
Ha registrato nei suoi diari tutte le difficoltà che sia quel decreto, sia la successiva enciclica dovettero fronteggiare, sia in fase di stesura sia nella loro applicazione.
E nel libro egli porta per la prima volta alla luce i retroscena di quella sua doppia avventura.

 
(Fonte: Sandro Magister, www.chiesa, 18 ottobre 2013)

 

giovedì 17 ottobre 2013

Il dovere della chiarezza

Un interessante controcanto laico al colloquio-intervista di papa Francesco con Eugenio Scalfari è apparso il 3 ottobre sul “Corriere del Trentino”, edizione regionale del “Corriere della Sera”.
A farlo è il professor Giovanni Fornero, torinese, coautore assieme a Nicola Abbagnano della “Storia della filosofia” più studiata nei licei e del “Dizionario di filosofia” più consultato nelle università, oltre che studioso particolarmente attento al confronto tra il pensiero laico e il pensiero cattolico,
Intervistato da Annalia Dongilli sotto il titolo “Il dovere della chiarezza” e il sottotitolo “Il dialogo sarà costruttivo se privo delle ambiguità dottrinali”, Fornero non risparmia critiche all’argomentare del papa. In particolare su due punti.
Il primo è là dove Francesco sostiene che nemmeno per chi crede si può parlare di verità “assoluta”, perché, dice, la verità è “relazione”, con ciò dando l’impressione di consentire con il relativista Scalfari.
Ma non è così. Fornero mostra che “il ‘relazionismo’ di Francesco ha poco da spartire con il relativismo di Scalfari”. Il guaio è che “quando i due interlocutori sostengono che la verità assoluta non esiste danno, a questa espressione, significati strutturalmente diversi”.
Il secondo punto che secondo Fornero è “causa di potenziali equivoci” è il discorso sulla coscienza. E spiega:
“Francesco ritiene che si debba obbedire alla propria coscienza e che il peccato c’è quando si va contro di essa. Ascoltare e obbedire alla coscienza, spiega il papa, significa che ‘ciascuno ha una sua idea del Bene e del Male e deve scegliere di seguire il Bene e combattere il male come lui li concepisce’.
“Che cosa intende precisamente Francesco con questa affermazione, che Scalfari ha giudicato una delle più ‘coraggiose’ udite da un papa? Intende forse ciò che il fondatore di Repubblica ha in mente, ossia che il soggetto, nella sua insindacabile interiorità, è fonte del bene e del male? Dubito che le cose stiano veramente così, ossia che il papa intenda legittimare una qualche forma di soggettivismo etico.
“Infatti, la dottrina della Chiesa, di cui Francesco si proclama ‘il figlio’, sostiene che la coscienza non crea il bene e il male, ma li riconosce. Su questo punto il Concilio Vaticano II è esplicito: ‘Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale deve invece obbedire’. Altrettanto esplicita è la ‘Veritatis splendor,’ che respinge la concezione della coscienza come realtà autoreferenziale.
“Tuttavia, poiché Francesco, nel suo empatico sforzo di ’sintonizzarsi’ con l’interlocutore, non si sofferma su questi basilari aspetti della dottrina cattolica, il suo discorso rischia, per certi versi, di essere incompleto e concettualmente ambiguo. Tant’è che esso appare suscettibile d’interpretazioni diverse e persino opposte.
“Inoltre non si capisce bene se il nuovo papa intenda essere ‘rivoluzionario’ anche sul piano dottrinale – come ritiene o auspica Scalfari – o intenda proporre la dottrina di sempre in forme più ‘misericordiose’ e vicine alla sensibilità moderna”.

 
(Fonte: Giovanni Fornero, Settimo Cielo, 3 ottobre 2013)
 

Papa Francesco: Un “messaggio” allo stato liquido

In coscienza devo rompere il coro cortigiano, composto da nomi laici ed ecclesiastici fin troppo conosciuti, che accompagna da mesi gli interventi pubblici di papa Jorge Mario Bergoglio, per segnalare solo alcune delle reiterate approssimazioni in cui cade il suo eloquio.
Nessuno è esente, nel conversare quotidiano e privato e tra pochi, da approssimazioni e forzature, ma non vi è persona che abbia responsabilità di fronte a molti – chi insegna ad esempio – che non adotterà in pubblico altro registro e cercherà di evitare l’improvvisazione.
Ora, invece, abbiamo letto di un papa che esclama: “Chi sono io per giudicare?”, come si può dire enfaticamente a tavola o anche predicando esercizi spirituali. Ma di fronte alla stampa e al mondo un “Chi sono io per giudicare?” detto da un papa stride oggettivamente con l’intera storia e la natura profonda della funzione petrina, dando in più la sgradevole sensazione di un’uscita incontrollata. Poiché papa Francesco ha consapevolezza almeno dei propri poteri come papa, si tratta – qualsiasi cosa volesse dire – di un grosso errore comunicativo.
Abbiamo letto poi nell’intervista a “La Civiltà Cattolica” la frase: “L’ingerenza spirituale nella vita personale non è possibile”, che sembra accomunare sotto la figura liberal-libertaria della “ingerenza” sia il giudizio teologico-morale, sia la valutazione pubblica della Chiesa, quando necessaria, e persino la cura di un confessore o direttore spirituale nell’indicare, prevenire, sanzionare condotte intrinsecamente cattive.
Bergoglio adotta involontariamente qui un luogo comune tipico della postmodernità, secondo la quale la decisione individuale è, come tale, sempre buona o almeno sempre dotata di valore, in quanto personale e libera come si pensa ingenuamente che essa sia, quindi insindacabile.
Questo scivolamento è coperto, non solo in Bergoglio, da formule relative alla sincerità e al pentimento del singolo, quasi che sincerità e pentimento cancellino la natura del peccato e vietino alla Chiesa di chiamarlo col suo nome. Inoltre, che tacere e rispettare quello che ognuno fa perché libero e sincero nel farlo siano misericordia è dubbio: abbiamo sempre saputo che il chiarire, non il nascondere, la natura di una condotta di peccato è un atto eminente di misericordia, perché permette al peccatore il discernimento di sé e del proprio stato, secondo la legge e l’amore di Dio. Che anche un papa sembri confondere il primato della coscienza con una sorta di ingiudicabilità, anzi, di immunità dal giudizio della Chiesa è un rischio magisteriale che non può essere sottovalutato.
Ieri poi, su “la Repubblica” del 1 ottobre, abbiamo letto troppe battute azzardate. Abbiamo appreso che “il proselitismo è una solenne sciocchezza, non ha senso”, come risposta al tema della conversione proposto un poco ironicamente da Eugenio Scalfari. Cercare la conversione dell’altro non è una “sciocchezza”; lo si può fare in maniera sciocca, oppure sublime come in molti santi. Ricordo che i coniugi Jacques e Raïssa Maritain, anch’essi dei convertiti, desideravano ardentemente e operavano per il ritorno alla fede di loro grandi amici.
Poi abbiamo letto che, di fronte alla obiezione relativistica di Scalfari: “Se vi è un’unica visione del Bene, chi la stabilisce?”, il papa concede che “ciascuno di noi ha una sua visione del bene” e “noi dobbiamo incitarlo a procedere verso quello che lui pensa sia il bene”.
Ora, ragionando, se ognuno ha “una sua visione del bene” che deve realizzare, tali visioni non possono che risultare le più diverse, in contrasto e in conflitto spesso mortale, come provano la cronaca e la storia. Incitare a procedere secondo la personale visione del bene è in realtà incitare alla lotta di tutti contro tutti, una lotta strenua, perché compiuta per il Bene e non per l’utile o altro contingente. È per questo che le visioni particolari – anche quelle guidate dalle intenzioni più rette – devono essere regolate da un sovrano, o modernamente dalle leggi, e in ultimo dalla legge di Cristo, che non ha alcuna sfumatura concessiva in termini individualistici.
Forse papa Francesco voleva dire che l’uomo, secondo la dottrina cattolica della legge naturale, ha la capacità originaria, un impulso primario e fondamentale dato (non “suo” particolare, ma universalmente dato) da Dio, di distinguere ciò che è in sé Bene da ciò che è in sé Male. Ma qui si inserisce il mistero del peccato e della grazia. Si può esaltare Agostino, come il papa fa, e omettere che in “ciò che l’uomo può pensare sia il bene” opera sempre anche il peccato? Che ne è della dialettica tra la città di Dio e la città dell’uomo e del diavolo, “civitas” dell’amore di sé? Se il Bene fosse ciò che l’individuo pensa sia bene, e la convergenza di questi pensieri salvasse l’uomo, che necessità vi sarebbe stata della legge positiva in genere, della legge di Dio in particolare, e dell’incarnazione del Figlio?
Sostiene ancora il papa che “il Vaticano II, ispirato da papa Giovanni e da Paolo VI, decise di guardare al futuro con spirito moderno e di aprire alla cultura moderna. I padri conciliari sapevano che aprire alla cultura moderna significava ecumenismo religioso e dialogo con i non credenti. Dopo di allora fu fatto molto poco (!) in quella direzione. Io ho l’umiltà e l’ambizione di volerlo fare”.
Tutto ciò suona come un a priori poco critico: quanto distruttivo “ecumenismo” e quanto “dialogo” subalterno alle ideologie del Moderno abbiamo visto all’opera nei decenni passati, a cui solo Roma, da Paolo VI a Benedetto XVI, ha posto un argine! Il Bergoglio che criticò le teologie della liberazione e della rivoluzione non può non sapere che il “dialogo con la cultura moderna” attuato dopo il Concilio fu ben altra cosa che un garbato “ecumenismo”.
Sorvolo le autoconcessioni del papa a una mediocre polemica antipapale (“i papi spesso narcisi”, “malamente eccitati dai cortigiani”), le battute sul “clericalismo” (che c’entra san Paolo? Giacomo era un clericale?), la concessione affrettata che il “solo” modo di amare Dio sia l’amore degli altri, proposizione che altera Mc. 12, 28-34, e legittima un cristianesimo sociale-sentimentale che da secoli fa così a meno del mistero di Dio.
Papa Francesco si conferma un tipico religioso della Compagnia di Gesù, nella sua fase recente, convertito dal Concilio negli anni di formazione, specialmente da ciò che io chiamo il “Concilio esterno”, il Vaticano II delle attese e delle letture militanti, creato da alcuni episcopati, dai loro teologi e dai media cattolici più influenti. Uno di quegli uomini di Chiesa che, nel loro tono accostante e duttile, nei loro valori indubbi, sono anche i “conciliari” più rigidi, convinti dopo mezzo secolo che il Concilio sia ancora da realizzare e che le cose vadano fatte come fossimo ancora negli anni Sessanta, alle prese con la chiesa “pacelliana”, la teologia neoscolastica e il modernismo laico o marxista.
Al contrario: ciò che quello “spirito conciliare” voleva e poteva attivare è stato nei decenni detto o sperimentato e oggi si tratta anzitutto di fare un consuntivo critico dei suoi risultati, talora disastrosi. Ritengo che la strada per la vera attuazione del Concilio sia stata riaperta dall’opera magisteriale di Karol Wojtyla e Joseph Ratzinger, talora anche contro sensibilità cattoliche ed episcopali alla Bergoglio.
Qualcuno sostiene che Francesco possa essere, in quanto papa postmoderno, l’uomo del futuro della Chiesa, al di là di tradizionalismi e modernismi. Ma il postmoderno che può allignare in lui – come liquidificazione delle forme, spontaneità dell’apparire pubblico, attenzione al villaggio globale –  è di superficie. Con la sua duttilità e i suoi estetismi il postmoderno è poco plausibile in un vescovo dell’America Latina, dove ha dominato a lungo, fino a ieri, nell’intelligencija il Moderno marxista. Il nucleo solido di Bergoglio è e resta “conciliare”. Sulla strada intrapresa da questo papa, se confermata, vedo anzitutto la cristallizzazione del “conciliarismo” pastorale dominante nei cleri e nei laicati attivi.
Certo, se Bergoglio non è postmoderno, la sua recezione mondiale lo è: il papa piace a destra e a sinistra, a praticanti e a non credenti, senza discernimento. Il suo messaggio prevalente è “liquido”. Su questo “successo”, però, non può essere edificato niente, solo reimpastato qualcosa di già esistente, e non il meglio.
Di tale apparire “liquido” sono segnali preoccupanti per chi non sia prono alla chiacchiera politicamente corretta e relativistica della tarda modernità:
a) il cedimento a frasi fatte tipo “ognuno è libero di fare …”, “chi dice che le cose debbano essere così …”, “chi sono io per …”, lasciate sfuggire nella convinzione che siano dialogiche e aggiornate;
b) il mancato controllo da parte di persone di fiducia, ma sagge e colte, e italiane, dei testi destinati a circolare, forse nella convinzione papale che non ve ne sia bisogno;
c) una certa inclinazione autoritaria (“io farò di tutto per …”), in singolare contrasto con i frequenti assunti pluralistici, ma tipica dei “rivoluzionari” democratici, col rischio di imprudenti collisioni con la tradizione millenaria.
In più, resta incongruo in papa Francesco questo prendere iniziative di comunicazione pubblica e questo volersi senza filtri (la sintomatica immagine dell’appartamento papale come un imbuto), che rivelano indisponibilità a sentirsi uomo di governo (cosa più difficile che essere riformatore) in un’istituzione altissima e “sui generis” come la Chiesa cattolica. Le battute del papa su curia e Vaticano lo evidenziano.
Il suo è, a tratti, un comportamento da manager moderno e informale, di quelli che si concedono molto alla stampa. Ma questo aggrapparsi a persone e cose che stanno fuori – collaboratori, amici, stampa, opinione pubblica, lo stesso appartamento a Santa Marta è “fuori” – come se l’uomo Bergoglio temesse di non sapere che cosa fare una volta rimasto solo, da papa, nell’appartamento dei papi, non è positivo. E non potrà durare. Anche i media si stancheranno di fare da sponda a un papa che ha troppo bisogno di loro.
 

(Fonte: Pietro De Marco,Settimo cielo, 2 ottobre 2013)
 

lunedì 14 ottobre 2013

Una ridicola lotta contro la salma di un centenario

È morto, alla bell’età di cent’anni, quell’Erich Priebke che durante la guerra fu ufficiale delle SS e tra gli esecutori della terribile rappresaglia consumata alle Fosse Ardeatine.
Vale la pena ricordare a questo proposito che la tragedia della Seconda guerra Mondiale, immane sotto l’aspetto umano, e immane porcheria quanto a responsabilità di vinti e vincitori, è finita oltre sessant’otto anni fa. Non sono pochi, ma noi siamo un Paese ossessionato dalle ricorrenze, che non ha ancora chiuso la Guerra Civile.
Ed è a questo punto che scatta la gara a chi riesce a fare la peggior figura.
In un Paese civile la circostanza non avrebbe neppure “fatto notizia”. Priebke era uno degli ultimi rottami di un’epoca di follia generalizzata, i cui protagonisti sono ormai quasi tutti, per ragioni anagrafiche, passati a miglior vita.
Ma ecco che scatta l’ossessione e si superano le soglie del ridicolo.
Il Comune di Roma si oppone ai funerali solenni! Che nessuno aveva mai prospettato, sia detto per inciso. La comunità ebraica non vuole nemmeno che la salma di Priebke sia sepolta a Roma. Si dice, e ripeto si dice, che il Vicariato dell’Urbe abbia rifiutato i funerali; ma c’è anche chi dice che finora “non ne ha avuto notizia”, anche perché i funerali vengono organizzati a livello parrocchiale. Prefetto e Questore si mettono all’erta per evitare disordini. Certo, quattro deficienti che si vogliano esibire nel saluto nazista possono sempre esserci, ma che rappresentino un reale ”pericolo per l’ordine pubblico”, suvvia, siamo seri, con qualche celerino e due manganellate li si rimanda a casa… inevitabile mobilitazione generale di tutta la galassia sinistra, a difesa di Roma “antinazifascista”. Inoltre, orrore orrore, i funerali, da tenersi, pare, martedì prossimo, giorno 15, verrebbero a coincidere con l’anniversario della deportazione degli ebrei romani da parte dei tedeschi. Insomma, Priebke ha sbagliato anche la data di morte.
Alt. Fermiamoci un attimo! Signori, ci rendiamo conto che stiamo parlando dei funerali di un vecchio di cento (dicasi 100) anni? Ci rendiamo conto che almeno la morte del “nemico” dovrebbe far cessare l’odio? No, evidentemente c’è chi non se ne rende conto, e cade nel ridicolo.
Il comune di Roma. Il sindaco è il fiero democratico Ignazio Marino. Amen, Roma ne ha sopportate di cose, che non morirà per un quinquennio di Marino. Comunque il signor sindaco rappresenta l’autorità, le istituzioni, la legittimità, eccetera.
Ebbene, una cosiddetta “società civile” che ogni giorno uccide circa 300 suoi figli, che finora, da quando esiste la legge 194 ne ha già uccisi sei milioni, è una società che ha perso ogni moralità, non è abilitata a dar giudizio su nulla e su nessuno. Più in generale, uno Stato nel cui governo siede una donna che, per sua stessa ammissione, ha sulla coscienza l’uccisione di oltre 11.000 bambini, operata nella famosa associazione per delinquere denominata “CISA”, è uno Stato che non ha più moralità. E allora permettetemi di dire che tutto ciò è quantomeno grottesco, un po’ come se che le prostitute lanciassero una campagna per la verginità. Prima almeno cambino mestiere!
Questa “autorità” non ha più alcuna legittimazione ed è un’autorità da subire e da sopportare, almeno finché non si renda necessario ribellarsi, se si considera che rischiamo di avere quanto prima anche in Italia.
In buona sostanza: una “autorità” (o se preferite “le istituzioni”) delegittimata e immorale, che sta portando anche in Italia la legge liberticida e contronatura sulla cosiddetta omofobia, con quale faccia di bronzo pretende impartire lezioni di morale? Questi signori, che oggi pontificano, pensano forse di essere tanto più puliti di Erich Priebke? Ma come potete pontificare su “offesa a Roma”, quando voi offendete ogni giorno la famiglia, la moralità, la natura stessa, l’ordine voluto dal Creatore?
Ma anche l’atteggiamento della comunità ebraica mi pare francamente inopportuno. Quando Riccardo Pacifici dichiara “non vivrei serenamente sapendo che la tomba di Priebke è a Roma”, mi pare opportuno ricordargli che dentro la tomba c’è un morto, non un vivo in grado di nuocere. È possibile che gli ebrei debbano continuare, a settant’anni di distanza, a vivere con l’ossessione dell’Olocausto? Solo alcuni cretini negano che ci sia stato; e per favore non si venga a raccontare che esiste seriamente un rischio di antisemitismo in Italia. Non ci fu un vero antisemitismo nemmeno ai tempi delle famigerate leggi razziali del 1938, non saranno oggi i quattro imbecilli di cui parlavamo sopra, che giocano a fare i nazisti, un vero pericolo. Può essere un pericolo oggi una lapide su cui di sicuro ben pochi verranno a mettere un fiore? L’ossessione della vendetta infinita non giova alla popolarità di nessuno e non è sentimento di giustizia. Se veramente fosse sete di giustizia, che dire allora di tutti i governi europei che si rifiutavano di accogliere gli ebrei che dopo l’editto di Monaco del 1935 iniziarono a lasciare la Germania? Che dire degli Alleati, che non potevano, almeno nell’ultimo anno di guerra, ignorare la realtà dei capi di sterminio, e non mossero un dito? Per favore, cerchiamo di essere seri, consegniamo alla Storia un periodo scellerato e rendiamoci conto che al giorno d’oggi la vita umana è talmente tenuta in nessun conto che non esiste un rischio antisemitismo, bensì un rischio di caos e barbarie totali.
Non diciamo nulla circa i funerali religiosi, perché le notizie in argomento sono tutt’altro che chiare. Il Vicariato dell’Urbe ha detto “di non essere al corrente”, non ha detto che “non vuole” che siano celebrati i funerali di Priebke. Da quanto abbiamo letto, Priebke aveva il permesso di lasciare gli arresti domiciliari per andare a fare la spesa e per andare a Messa. Se ne deduce che fosse cattolico. Si era pentito del suo passato? Solo Dio lo sa, e l’eventuale confessore, che non può certo farne parole con alcuno.
Vedremo; è inutile ragionare su ciò che ancora non è chiaro. Mi limito a notare che in una Chiesa che, ahimè, ha visto Cardinali dare impunemente il Corpo di Nostro Signore a un travestito, dichiaratamente buddista, che si è presentato all’altare in abito da lavoro, in una Chiesa che ha permesso a un Don Gallo di fare cose pazzesche, in una Chiesa in cui assistiamo a scene che di cristiano hanno ben poco, in una Chiesa in tali condizioni, dicevo, è possibile anche che si neghino i funerali per “opportunità politica”, visto che oggi l’applauso del mondo sta conoscendo una grande popolarità.
Ma per la Chiesa possiamo pregare e sappiamo che lo Spirito Santo interviene, con i tempi e i modi decisi da una Saggezza che è – grazie al Cielo – ben superiore alla nostra.
Invece alla pletora di autorità civili, rappresentanti della costituzione, associazioni di cariatidi tipo ANPI (suvvia, non sarò solo io a invecchiare…), difensori della legalità repubblicana, e rappresentanti della comunità ebraica mi sento solo di dire: per favore, riacquistate il senso del ridicolo, se volete che la gente possa ancora prendervi sul serio. È morto un uomo di cento anni e probabilmente la cosa sarebbe passata tra le notizie di second’ordine se non fosse iniziata questa grottesca gara a chi è più antinazista.
Per favore, cerchiamo di essere seri. Parce sepulto. Non sputate su un morto; quell’appuntamento lo abbiamo tutti e sarebbe assai meglio se ognuno si preoccupasse di arrivarci con la propria coscienza a posto…
 

(Estratto da: Paolo Deotto, Riscossa cristiana, 13 ottobre 2013)
 

giovedì 10 ottobre 2013

Il Dio di Eugenio Scalfari

Come sappiamo, nell’ormai nota conversazione a Santa Marta, Scalfari ha esposto al Papa la sua concezione dell’Essere, usando la maiuscola, il che fa capire che questo Essere assoluto e sussistente è il suo Dio, tanto più che da esso “sorgono le forme, gli enti”.
Scalfari si ferma a descrivere questo Essere che a tutta prima potrebbe far pensar all’ipsum Esse per se subsistens di S.Tommaso d’Aquino, il quale però secondo l’Aquinate è purissimo Spirito e somma sapienza, creatore del mondo e niente affatto un essere “caotico” senza intelligenza o intenzionalità, dal quale sorgerebbe a caso il mondo, per quanto possa trattarsi di un mondo umano ed ordinato da leggi e forme.
Dice Scalfari: “L’Essere è un tessuto di energia. Energia caotica ma indistruttibile e in eterna caoticità. Da quell’energia emergono le forme quando l’energia arriva al punto di esplodere. Le forme hanno le loro leggi, i loro campi magnetici, i loro elementi chimici, che si combinano casualmente, evolvono, infine si spengono ma la loro energia non si distrugge. L’uomo è probabilmente il solo animale dotato di pensiero, almeno in questo nostro pianeta e sistema solare. Ho detto è animato da istinti e desideri ma aggiungo che contiene anche dentro di sé una risonanza, un’eco, una vocazione di caos”.
Davanti a questo strano Essere, ci si domanda come fa l’ordine a nascere dal caos e dal caso, come fa la forma a sorgere dall’informe e come fa il pensiero a sorgere dalla materia. Lo so che queste concezioni non sono nuove ad hanno avuto nel passato molto successo; ma resta sempre da obiettare.
Evidentemente qui, sotto l’influsso di un evoluzionismo materialistico e una falsa scienza, manca la logica e il rispetto del principio fondamentale della ragione e della scienza, che è il principio di causalità, per il quale è impossibile che l’effetto (per esempio il pensiero) sia superiore alla causa (per esempio la materia), dato che la causa, per spiegare l’effetto, deve aggiungere all’effetto il fattore nuovo di intelligibilità che serve appunto a rendere intelligibile l’effetto, in modo che così si ha un aumento del sapere, secondo l’esigenza della scienza.
Mancando questo fattore, l’effetto resta inspiegato e la causa resta priva di contenuto, non aggiunge nulla alla conoscenza dell’effetto, ed anzi resta meno intellegibile dell’effetto, fallendo nel suo compito di spiegare l’effetto.
Il Dio di Scalfari assomiglia inoltre curiosamente al dio dei manichei, che, secondo la condanna pronunciata dal Concilio di Braga del 561, sorge “dal caos” (Denz. 457), “senza esser creato da nessuno”, e quindi come principio primo e assoluto, con la differenza che nel caso dei manichei si tratta del “demonio” inteso come dio del male, creatore del mondo fisico.
Ma quando si parla di “caos” si può forse escludere il male? E dunque il Dio di Scalfari principio del mondo fisico e dio caotico, per quanto egli lo chiami col nome divino di Essere che si presenta come assoluto ed originario, come non potrà essere paragonato al dio-demonio dei manichei?
Certo il Papa non s’imbarca in una discussione filosofica con Scalfari, comprendendo che essa avrebbe portato troppo lontano. Si limita ad accennare a come egli intende l’Essere assoluto, in perfetta linea non dico con S.Tommaso, ma con la stessa fede cattolica, con queste ferme e brevi parole, che però dicono tutto e ben si adattano a confutare la tesi di Scalfari, senza con ciò affrontarla esplicitamente. Il Papa definisce così l’“Essere” al quale pensa lui: “Osservo dal canto mio che Dio è luce che illumina le tenebre anche se non le dissolve e una scintilla di quella luce divina è dentro ciascuno di noi”.
Evidentemente la luce è l’opposto dal caos, amico delle tenebre, anche se il Papa giustamente non nega l’esistenza delle tenebre. È un richiamo al Prologo di Giovanni, a quella Luce divina, che “splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno compresa” (Gv 1,5), verbo (katalambano) che può significare sia “accogliere” che “sopraffare”.
L’uomo, inoltre, nella risposta del Papa, non è il vertice di un essere caotico che sale casualmente dal basso della materia, ma al contrario è partecipazione (una “scintilla”) dell’immenso ed infinito Fuoco di Luce che è il vero Dio trascendente e creatore dell’uomo.
Una domanda che poi potremmo farci e che il Santo Padre non si pone, è come salta fuori lo “Essere caotico” dal cogito cartesiano, che, al dire dello stesso Scalfari, sarebbe stata la grandiosa scoperta che lo ha indotto ad abbandonare la fede.
Racconta infatti Scalfari: “Sono stato educato da una madre molto cattolica. A 12 anni vinsi addirittura una gara di catechismo tra tutte le parrocchie di Roma ed ebbi un premio dal Vicariato. Mi comunicavo il primo venerdì di ogni mese, insomma praticavo la liturgia e credevo. Ma tutto cambiò quando entrai al liceo. Lessi, tra gli altri testi di filosofia che studiavamo, il Discorso sul metodo di Descartes e rimasi colpito dalla frase, ormai diventata un’icona, «Penso, dunque sono». L’io divenne così la base dell’esistenza umana, la sede autonoma del pensiero”.
Il Papa non raccoglie lo spunto estremamente interessante, ma risponde con un laconico “va bene”, che non è affatto da intendersi come approvazione di quanto dice Scalfari, ma che è solo una formula di cortesia, un inciso, un prender atto per passare ad altro, limitandosi ad osservare che comunque Cartesio era un praticante cattolico.
Scalfari, dal canto suo, mostra la prudenza di non insistere su questo terreno e passa ad altro, certo secondo il desidero dello stesso Pontefice. Non siamo davanti ad un dialogo filosofico stile dialoghi di Platone, ma semplicemente gli interlocutori sono interessati a fare una specie di giro d’orizzonte su vari argomenti di comune interesse.
Ma ciò non toglie che quanto dice Scalfari sia molto interessante e ci stimoli a chiarire, per quanto ci è possibile, le sue affermazioni, che colpiscono per la loro sincerità, la loro portata culturale e la loro franchezza un po’ audace,  considerando che son fatte alla presenza del Papa.
Il dialogo del Papa con Scalfari ha come perno la questione della modernità in rapporto al Concilio. Da qui i temi come quelli della libertà, della giustizia, della coscienza, della fede, della scienza, della morale, del progresso, della politica, della Chiesa. Nè poteva mancare un accenno alla visione di fondo della realtà.
Sappiamo altresì quanto nei secoli i discepoli di Cartesio che giungono sino all’idealismo tedesco, dal quale poi sorge il marxismo e vengono i moderni totalitarismi, sino alle attuali tendenze idealistiche e modernistiche, tengano a considerare il loro maestro come fondatore e simbolo della “filosofia moderna”, quasi che il cartesianismo sia il novum che arreca finalmente la luce definitiva della verità dopo i lunghissimi tempi bui del medioevo e la notte dell’antichità. La svolta nell’umanità per costoro, anche se si dicono cattolici, non viene da Cristo ma da Cartesio.
In realtà è oggi noto agli storici come Cartesio non fa che riesumare sotto le apparenze di una rifondazione della filosofia e di un’alta spiritualità, il vecchio scetticismo e soggettivismo protagoreo dell’uomo come “misura del reale”, come notò a suo tempo lo stesso Heidegger. Quindi, ben lungi dall’essere il fondatore della modernità, Cartesio è rimasto indietro persino rispetto a Platone, Aristotele, Agostino e Tommaso.
Il cattolicesimo di Cartesio è un cattolicismo di facciata. Maritain sospetta che servisse per eludere la sorveglianza dell’Inquisizione. Di fatto il “cattolicesimo” di Cartesio non hai mai costruito né una solida teologia né una solida morale cattoliche.
Semmai è stato subito captato dai protestanti per il suo soggettivismo, che ben si sposava con quello di Lutero, e le sue opere furono messe all’Indice nel 1663, ma nessuno purtroppo ha preso in seria considerazione questo grave e saggio avvertimento della Chiesa, trascurando il fatto che quando la Chiesa fa un ammonimento in tal senso, non c’è in gioco una particolare dottrina filosofica, ma la purezza stessa della fede.
In realtà il cartesianismo contiene un potenziale dirompente che nei secoli seguenti avrebbe prodotto l’ateismo. Scalfari, perdendo la fede con Cartesio, accolse incautamente questo germe velenoso e se ne lasciò avvelenare. Dall’io fondato in Dio è passato all’io fondato su se stesso e dall’autonomia che è dono di Dio è passato ad un’“autonomia” che si sostituisce a Dio. Immagino il dolore della povera mamma di Eugenio, se ancora era al mondo. Quante madri oggi subiscono questa prova! In nome di che cosa si può tradire l’amore ricevuto da una madre?
Purtroppo Papa Bergoglio nell’osservare che comunque Cartesio continuò ad essere cattolico, non ricorda all’interlocutore che la riforma filosofica cartesiana non ha provocato affatto un avanzamento ma un corruzione della filosofia e di conseguenza della fede, la quale si spegne o è impossibile, quando la luce della ragione è oscurata dal sofisma e dall’orgoglio.
Bisognerebbe che la cultura moderna, dopo le amare esperienze degli ultimi secoli, prescindendo ovviamente dai fatti positivi, si rendesse conto una buona volta che Cartesio non è stato un restauratore o uno scopritore ma un affossatore della ragione.
Non c’è da stupirsi che la ragione cartesiana faccia perdere la fede. Scalfari ha capito benissimo il senso della riforma cartesiana e proprio per questo ha perso la fede. Egli è stato logico nella sua fondamentale avventatezza. Ma era conveniente che il Papa in quella circostanza rinfacciasse a Scalfari una tesi del genere? Non possiamo pretendere neppure da un Pontefice l’abilità dialettica eccezionale che sarebbe occorsa per mettere Scalfari con le spalle al muro. Il Papa se l’è cavata elegantemente, semplicemente citando la sua pura e quasi fanciullesca fede di cristiano nel Dio della Luce. Starà al filosofo tentare una confutazione ed è quello che adesso modestamente cerco di fare.
Come dunque Scalfari è potuto arrivare da Cartesio al suo Essere caotico evolutivo e  panteista? E più in radice, come mai il cogito gli ha fatto perdere la fede dandogli l’ebbrezza di una falsa libertà di pensiero?
Il cogito (=“io penso”), dice Fabro, è un volo (=io voglio). Non è tanto una scoperta o un’intuizione del pensiero, quanto piuttosto un’arbitraria decisione della volontà. Cartesio non è uno che si arrende alla verità oggettiva, ma uno che dice: sulla verità, decido io. Fabro quindi ha ragione a dare questo giudizio.
Si tratta infatti dell’assolutizzazione dell’io che, libero dal reale, diventa l’io che decide liberamente del reale : un io non più davanti alle cose, agli altri, a Dio, ma solo davanti a se stesso in una forma di autoriflessione – quella che sarà chiamata dagli idealisti “autocoscienza” -, quell’io che, come già osservò acutamente il Maritain, scambia il soggetto umano per uno spirito puro che invece di ricavare le conoscenze dai sensi, se le trova immediatamente nella coscienza, un io che diventa così principio unico della certezza ignorando la verità dei sensi e con la pretesa di ricavare dall’ interno di questo io la totalità della verità.
Ecco fondato il soggettivismo. Invece, la vera e sana filosofia moderna è ben altra cosa. Essa è quella che è sorta dalle basi sicure del realismo biblico ed aristotelico-tomista sotto il patrocinio della Chiesa, la quale ancor oggi con il Concilio Vaticano II ci raccomanda il vero progresso della filosofia e della teologia, indicando ancora una volta nell’Aquinate il riferimento per una sana modernità capace di dialogare efficacemente col mondo moderno e di evangelizzare l’uomo d’oggi. Se questo non lo ha detto il Papa, desideroso di passare ad altri argomenti, lo diciamo noi, nella convinzione che il Santo Padre sarebbe perfettamente d’accordo.
Dall’io di Cartesio scappa dunque fuori l’Essere caotico di Scalfari non perché esista un nesso di logico sviluppo tra l’uno e l’altro, ma semplicemente perchè, così almeno penso, Scalfari, sentendosi autorizzato, grazie all’io cartesiano a spaziare liberamente negli orizzonti infiniti del pensiero e a scegliere liberamente nel supermercato delle ideologie moderne, ha trovato congeniale alla sua indole e al suo carattere questo Essere caotico e confuso, tessuto ed energia universale, simile al prana dell’induismo, dal quale panteisticamente sorgono tutte le leggi e le forme sino ai livelli più elevati dell’essere e alla persona umana, insomma un misto delle idee di Monod, Spencer, Darwin, Teilhard de Chardin e Mancuso, un cocktail oggi assai gradito a un vasto pubblico, pensiamo soprattutto ai lettori di Repubblica, il quale, senza mancare certo di basi culturali, è però incapace di operare una sintesi ordinata e decente nel vortice caotico delle più disparate e contraddittorie idee nel confronto attuale tra occidente ed oriente, dall’Africa alla Cina, dall’America Latina all’India.
Ma alfine siamo proprio sicuri che da questo agitato calderone cosmico-ontologico in ebollizione del caos e della casualità, che sembra proporci Scalfari, possa sorgere la limpidezza, l’acutezza e l’oggettività dello sguardo e della libertà della coscienza, responsabile dell’agire, del bene e della felicità del singolo e della società? O ci troveremo in mezzo ad un’immensa ed inestricabile confusione, dove non saremo più in grado, come dice la Bibbia, di distinguere la destra dalla sinistra?
Papa Francesco, con francescana e giovannea semplicità e profondità, oppone al Dio di Scalfari il Dio della Luce e dell’Amore, che lotta contro le tenebre e le vince senza annullarle. Non sarà forse questo il vero Dio al quale Papa Bergoglio vuol convertire l’intraprendente Fondatore di Repubblica?
 

(Fonte: P. Giovanni Cavalcoli, OP, Riscossa Cristiana, 8 ottobre 2013)
 

domenica 6 ottobre 2013

Sorpresa, la Chiesa non è in liquidazione

A seguire in questi giorni stampa e tv, il 4 ottobre sarebbe dovuto essere una sorta di Dies Irae: papa Francesco ad Assisi che fa un gesto eclatante di rottura con il passato, vaticanisti e anche qualche prelato che anticipavano una rinuncia clamorosa a tutte le ricchezze della Chiesa, ovviamente nella Sala della Spoliazione dove era previsto l’incontro con i poveri.
In questi giorni abbiamo letto incredibili anticipazioni di ciò che il Papa sulle orme del “poverello” di Assisi avrebbe detto e fatto. E lo ha letto anche papa Francesco, probabilmente divertendosi un po’, perché vi ha fatto riferimento nel suo discorso a braccio; ma per spiegare che gli oltre mille giornalisti che si erano accreditati per seguire in diretta l’evento storico di un Papa che “mette in liquidazione” la Chiesa, avevano preso una cantonata: la vera ricchezza da cui spogliarsi – ha detto - è la mondanità, ovvero il pensiero del mondo, gli idoli che il mondo propone e che sono un cancro per i cristiani.
E tanto che c’era, nell’omelia della messa celebrata sul piazzale antistante la Basilica inferiore, ha anche fatto a pezzetti quell’immagine «sdolcinata» di san Francesco che va tanto di moda e che, ovviamente, è stata pompata in questi giorni per accostarla anche a papa Bergoglio. «Quel san Francesco non esiste, non esiste» ha invece spiegato il Pontefice, così come non esiste, non è reale l’immagine di un san Francesco ecologista, «una specie di armonia panteistica con le energie del cosmo».
No, l’amore per i poveri, il rispetto del Creato, il desiderio di pace, per papa Francesco hanno un solo nome, Cristo: «Chi segue Cristo riceve la vera pace, quella che solo Cristo e non il mondo ci può dare».  Da qui viene tutto il resto, compreso l’amore per i poveri che è «un tutt’uno con l’imitazione di Cristo». E incontrando i disabili e i poveri, chinandosi su di loro e abbracciandoli, ha fatto vedere cosa intende: i poveri non sono una categoria sociologica, non sono una massa per cui chiedere diritti, sono «la carne di Cristo». E solo per questo si possono e si devono amare.
L’evento dunque c’è stato, ma non quello che si attendeva il mondo. Anzi, ciò che è apparso chiaro è che la Chiesa, corpo di Cristo, è irriducibile al mondo.

 
(Fonte: Riccardo Cascioli, La nuova bussola quotidiana, 4 ottobre 2013)

 

venerdì 4 ottobre 2013

Papa Francesco scomunica un prete favorevole ai matrimoni gay

A leggere i principali media italiani che costantemente distorcono le parole del Pontefice per darne un’immagine tendente a sinistra, si rimarrebbe perplessi nel leggere questa notizia. Ma la realtà è ben diversa da quella che vorrebbero i nostri giornali progressisti: Papa Francesco ha scomunicato il prete australiano Greg Reynolds per le sue posizioni a favore del matrimonio omosessuale e delle donne prete.
La notizia è stata riportata dal National Catholic Reporter di Kansas City ed è stata ieri confermata dal Vaticano che ha dichiarato “Il dossier è stato curato dalla Congregazione per la dottrina della fede, anche se la scomunica è automatica e significa essere fuori dalla Chiesa, ovvero non poter ricevere nessun sacramento. In questo caso la decisione è stata presa per le posizioni del sacerdote che non collimano con la dottrina della Chiesa. Si tratta della prima scomunica del Pontificato di Papa Francesco. Ovviamente il procedimento era iniziato con Benedetto XVI, ma la decisione finale è stata di Papa Francesco
La lettera inviata al prete australiano non riporta ufficialmente le motivazioni della scomunica per eresia, ma l’arcidiocesi di Melbourne ha comunicato all’Australian Associated Press le note posizioni progressiste dell’ormai ex-prete, tra cui spiccavano l’apertura alle coppie gay e il sostegno alle donne sacerdote, che sono la causa della scomunica.
L’articolo del diritto canonico è il 751 “l’ostinata negazione, dopo aver ricevuto il battesimo, di una qualche verità che si deve credere per fede divina e cattolica o il dubbio ostinato su di essa” ed è la condanna più dura che la Chiesa possa esprimere.
Non stupisce il fatto che i media progressisti non diano alcun risalto a questa notizia o addirittura la ignorino completamente: si troverebbero nell’imbarazzo di dover spiegare ai loro lettori che il Santo Padre non segue la linea dettata dalle mode contemporanee che a loro piacciono tanto.

 

(Fonte: Gianni Candotto, Qelsi quotidiano, 26 settembre 2013)

 

Le bizzarre idee del cardinale Ravasi

Ho ritenuto necessario commentare alcuni recenti pronunciamenti di papa Bergoglio (tra i quali una sua lettera a Scalfari) e poi anche di una lettera di papa Ratzinger (quella a Odifreddi) perché si tratta di interventi pubblici dei più alti esponenti della Gerarchia (il papa attuale e il suo predecessore) che logicamente hanno suscitato grande curiosità nell’opinione pubblica generale e acceso dibattito in seno alla comunità cattolica. Con i miei commenti intendevo chiarire, sulla base dei principi fondamentali dell’ermeneutica teologica, che non si trattava di atti del Magistero (ossia di insegnamenti dottrinali formalmente destinati a confermare o a riformare la fede della Chiesa nei suoi contenuti) ma di iniziative pastorali la cui opportunità e la cui efficacia possono non risultare evidenti a tutti i fedeli, ragione per cui qualcuno di loro può anche manifestare il proprio rispettoso dissenso, pur riconoscendo la legittimità delle scelte e la bontà delle intenzioni.
Ora, alla luce degli avvenimenti che sono poi seguiti, ritengo necessario aggiungere che, per questi medesimi motivi,  è del tutto lecito che qualcuno, all’interno della comunità cattolica, manifesti il proprio rispettoso dissenso nei confronti di interviste o dichiarazioni occasionali di qualche prelato della Curia romana, quando si tratti di atti sprovvisti di qualsiasi autorità dottrinale e quando non risulti evidente la loro opportunità e la loro efficacia pastorale. Mi riferisco in particolare al titolare del  Pontificio Consiglio per la Cultura, il cardinale Gianfranco Ravasi, i cui meriti ecclesiali sono riconosciuti da tutti, a cominciare dal papa Benedetto XVI che gli conferì questo incarico, ma che spesso, nella sua ininterrotta produzione di discorsi, articoli, interviste e conferenze, parla della nostra fede cristiana in termini che risultano tanto più sconcertanti per i cattolici quanto più riscuotono consenso e gradimento da parte dei media anticattolici.
Il più recente di questi interventi è avvenuto nel corso di un incontro con giornalisti italiani di primo piano. Secondo quanto riportato dalla Stampa (“Vatican Insider”), «il cardinale Ravasi contestualizza teologicamente gli effetti sull'individuo e la società delle innovazioni tecnologiche», osservando che «la lingua italiana conta 150mila vocaboli mentre i giovani oggi ne usano dagli ottocento ai mille. È mutato il modello antropologico dei nativi digitali, quindi un vescovo che non sa muoversi in questa nuova atmosfera si mette fuori dalla sua missione».
Si resta perplessi di fronte a questo ingenuo entusiasmo tecnologico-giovanile che porta il cardinale a misurare l’efficacia dei vescovi (la cui missione, secondo il Concilio, consiste nella evangelizzazione nella catechesi) sulla capacità di “cinguettare” pochissime parole, tanto più che poi Ravasi ritiene di dover dire, a conferma di ciò, che «Gesù anticipa il linguaggio sintetico dei tweet: "Il regno di Dio è vicino, convertitevi", "Ama il prossimo tuo come te stesso"... Una predicazione folgorante che spinse l'ebreo Kafka a considerare Cristo "un abisso di luce dentro al quale bisogna chiudere gli occhi per non precipitare". Una capacità incisiva di trasmettere il messaggio evangelico…».
Si potrebbe osservare che l’uso degli aforismi è di tutti i libri sapienziali dell’Antico Testamento, e che il Nuovo Testamento non riporta di Gesù solo frasi brevi ma anche lunghi e complessi discorsi (come ad esempio il “discorso sacerdotale” che si legge nel Vangelo secondo Giovanni). Ravasi è un biblista e queste cose le sa bene, ma evidentemente pensa che l’arma vincente nella lotta per farsi ascoltare oggi dagli opinion makers sia il ricorso alla retorica dell’aggiornamento (in questo caso, tecnologico e linguistico).
Io non perderei tempo a commentare discorsi così banali sull’evangelizzazione del mondo di oggi, se non fosse che il cardinal Ravasi, che conosco da tanti anni e del quale leggo sempre gli articoli sul domenicale del Sole –24 Ore, rappresenta una ben precisa ideologia ecclesiastica, quella che io ho analizzato nel mio trattato su Vera e falsa teologia e che consiste nel ridurre tutta la pastorale al problema di come rendere la Chiesa “accettabile” presso gli esponenti della cultura soggettivistica e relativistica, considerati (senza alcuna seria indagine di sociologia della cultura) l’espressione fedele e unica di quel “mondo moderno” cui l’annuncio del Vangelo deve adattarsi.
Esempio di questa ideologia è l’accenno che in quella  stessa occasione Ravasi ha fatto a un tema che gli è molto caro, quello della verità: «La verità è come il diamante: io ne vedo una faccia, solo Dio le vede tutte. Perciò resta valido l'insegnamento attribuito da Platone a Socrate. "Una vita senza ricerca non merita di essere vissuta”. Finché si è inquieti, si può stare tranquilli». A molti queste parole saranno sembrate del tutto innocenti e anche innocue. A me no. Innanzitutto perché, come cristiano, mi dispiace vedere manipolato malamente l’agostiniano “inquietum cor nostrum”, che certamente non è una professione di relativismo. In secondo luogo, come filosofo, non possono non vedere che questo modo di esprimersi è mutuato letteralmente dal “prospettivismo”, teoria  filosofica che in Italia è stata sostenuta da Ugo Spirito, pensatore di scuola gentiliana che finì per tradurre l’attualismo di Gentile (che a modo suo era l’espressione di un “pensiero forte”) in una forma di scientismo fallibilistico, che oggi si ripresenta con il “pensiero debole” di Gianni Vattimo.
E non faccio fatica a vedere nel “prospettivismo” di quel discorso di Ravasi che ho citato or ora la premessa del discorso ancora più sconcertante che il cardinale ha fatto, in un articolo sull’Osservatore Romano, sostenendo che la fede è sempre unita al dubbio, anche nella coscienza di chi si professa cristiano: chi non mette costantemente in dubbio la propria fede smette di cercare la verità. Questo discorso, se preso sul serio (come ha fatto il teologo domenicano Giovanni Cavalcoli in una puntuale ed esauriente nota su Riscossa cristiana) è l’adozione di categorie di pensiero relativistiche, incompatibili con la dottrina cattolica sulla virtù teologale della fede. Io invece penso che non vada preso sul serio ma che si debba pensare (è un obbligo della carità) che il cardinale non si renda conto di quanto tutto ciò danneggi i semplici fedeli cattolici, che invece di essere «confermati nella fede», pensano di essere incoraggiati ad abbandonare le loro certezze e a cercare la verità in qualcosa di diverso, che è sempre “oltre” e “altrove” rispetto alla fede cattolica.
La verità andrebbe cercata nelle categorie di quell’immanentismo moderno che oscilla perpetuamente tra lo scetticismo (pragmatismo, “pensiero debole”, “pensiero post-metafisico”, ermeneutica) e lo gnosticismo (idealismo assoluto, “razionalismo critico”, fenomenologia), disconoscendo in ambedue i casi la verità del realismo metafisico. E nessuna categoria concettuale che escluda la verità del realismo metafisico è compatibile con l’accettazione, e tanto meno con l’interpretazione, del  Vangelo.
In Vera e falsa teologia, discutendo tra gli altri proprio con il cardinal Ravasi, ho mostrato molti esempi di come l’adozione di categorie di pensiero che non rappresentano la recta ratio abbia portato alcuni teologi del nostro tempo a elaborare una serie di interpretazioni dei misteri della fede che alla fine si sono rivelate in contrasto con il significato inequivocabile del dogma. Ciò è avvenuto soprattutto riguardo ai misteri centrali della nostra fede, quello della Trinità di Persone nell’unico Dio e quello della duplice natura, divina e umana, nell’unica persona del Verbo Incarnato. Molti teologi che dipendono dalla dialettica immanentistica di Hegel e di Schelling (uno di essi, in Italia, è Piero Coda)  parlano di Dio come essenzialmente relativo (perché Amore) e di Cristo come unicamente Uomo (perché risultato annullamento di Dio nell’uomo), finendo per favoleggiare di un “Gesù abbandonato da Dio”.
L’appiglio per questa assurda teoria teologica è il grido di Gesù in croce: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15, 33-37), che da quasi un secolo è oggetto di interpretazioni arbitrarie, che tuttora permangono nei discorsi di molti autori, anche se altri teologi più seri e competenti le hanno esaurientemente smentite. È stato detto e ridetto che Gesù in croce recita le prime parole del salmo 22, e che l’usanza  ebraica era di indicare tutto il componimento sacro con le parole dell’incipit. Ora, il salmo termina con una preghiera di commosso affidamento alla protezione divina. La frase di Gesù, anche dal punto di vista testuale, non prova affatto che Egli si sentisse davvero abbandonato da Dio. Oltretutto, continuando a leggere il racconto della Passione, vediamo che Gesù si rivolge al Padre con un personale e ed esplicito atto di affidamento e con il vivo sentimento della sua vicinanza: «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito».
Quanto poi alla verità dogmatica, sappiamo che il Verbo Incarnato è «consustanziale» al Padre e allo Spirito Santo, e che pertanto non ci può essere mai alcuna separazione o allontanamento di una persona divina dall’altra.  Insomma, né il dogma né l’esegesi consentono di parlare di un’assenza di Dio nel momento della morte di Gesù. Eppure, ecco che nell’occasione cui mi riferivo il cardinal Ravasi va a riprendere e fa propria questa assurda teoria: «Cristo sulla croce pronuncia una frase che introduce un elemento che non può essere divino ma che è solamente umano. Infatti, Dio, quando Gesù è sulla croce, è assente, in pratica è l’ateismo salvifico di Cristo». Ma se la salvezza operata da Cristo con il suo sacrificio ha valore assoluto ed efficacia universale proprio perché Egli è Dio (la Chiesa professa che «Dio fatto Uomo è morto in Croce per la nostra salvezza»), parlare di «ateismo salvifico» non ha alcun  senso.
Anche in questo caso devo dire che, essendo Ravasi un autorevole biblista che queste cose le sa bene, il motivo di rifare discorsi così confusionari non può che essere l’illusione di evangelizzare i non credenti concedendo loro tutto, anche la ragionevolezza dell’ateismo. È come se dicesse: siete relativisti? Ebbene lo siamo anche noi cristiani. Dubitate di tutto? Anche noi. Voi, malgrado il vostro proclamato scetticismo, vi dite convintamente atei? Anche noi possiamo dire di professare un ateismo salvifico, quello di Cristo…
Ai non credenti queste concessioni ideologiche piacciono assai. Ai credenti più consapevoli delle ragioni della propria fede piacciono molto meno: sia perché turbano la coscienza dei fedeli, sia perché appaiono del tutto inutili, se non controproducenti, dal punto di vista dell’evangelizzazione. A chi li critica, i fautori del dialogo a ogni costo rispondono con i consueti discorsi astratti sulla carità, l’accoglienza e la condivisione, tirando in ballo la frase di san Paolo, l’Apostolo delle Genti, che è pronto a «farsi tutto a tutti»… Povero Paolo, proprio lui che subì ogni sorta di persecuzione e infine il martirio per la parresia con la quale seppe annunciare a Ebrei e Greci la verità su Cristo che è Dio e che ci ha redenti con la Croce!
Ma poi – aggiungono costoro – non bisogna dar peso alle parole, perché la dottrina, il dogma, non servono a niente nel dialogo con i non credenti: l’unica cosa che serve è mostrare l’intenzione di camminare insieme a chi non vuole prendere in considerazione la possibilità di credere. Lo dice anche la testata di Avvenire, dove viene enunciato il progetto culturale del quotidiano della CEI: «per amare chi non crede»… 
Se queste  sono le buone intenzioni dei dialoganti a ogni costo, devo dire che, volenti o nolenti, tutti i progetti e le iniziative di “dialogo” con i non credenti hanno un significato che corrisponde pienamente a quella funzione della teologia che tradizionalmente si chiama “apologetica”, anche se quasi tutti i promotori di tali azioni rifiutano questo termine come antiquato. Ma, a conti fatti, è pessima apologetica quella che mira a rendere “simpatica” o almeno accettabile la religione cristiana di fronte alla cultura dominante – che mostra sempre rispetto per l’ebraismo, per l’islam e per il buddismo ma mai per il cristianesimo, specie se cattolico – presentandola come una delle tante religioni (come già fanno le scienze umane: antropologia culturale, fenomenologia della religione, psicosociologia, psicoanalisi), oppure come una delle tante forze sociali (agenzie assistenziali, educative o politiche) che promuovono i diritti di gruppi o categorie sociali, il progresso economico, la pace, il rispetto della natura, la lotta contro le discriminazioni eccetera.
Se dunque tante volte mi sono permesso di rivolgere alcune rispettose critiche al metodo apologetico del cardinale Ravasi è perché si tratta, non di atti del Magistero ma di opzioni pastorali che possono essere condivise o criticate a seconda dei criteri (tutti di per sé legittimi) che di volta in volta si vogliano adottare. Tanto più che, notoriamente, altri cardinali di Curia, autorevoli tanto o più di Ravasi, esprimono in pubblico orientamenti pastorali del tutto diversi rispetto a quelli del presidente del  Pontificio Consiglio per la Cultura. Posso citare, per fare degli esempi, il cardinale svizzero Georges Cottier, già teologo della Casa pontificia, e il cardinale americano Raymond Leo Burke, presidente della Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica.
Se costoro la pensano diversamente da Ravasi e lo dicono, significa che si tratta di quelle materie che i teologi medioevali chiamavano quaestiones disputatae, e quindi è legittimo condividere gli orientamenti di Ravasi e criticare quelli degli altri o viceversa. Io, esercitando il diritto di libera opinione che la fede cattolica mi riserva in tali materie,  mi sono permesso di avanzare delle riserve (che possono talora sembrare forti ma sono sempre motivate) nei confronti delle parole del cardinal Ravasi; altri fanno il contrario, e criticano me e quanti la pensano come me. Se i toni saranno sempre pacati e gli argomenti pertinenti, nessun danno ne verrà all’unità e alla carità nella Chiesa. Nessuno si sentirà privato della libertà di opinione, così come nessuno si meraviglierà di non avere, in materia opinabile, l’unanimità dei consensi.
 

(Fonte: Antonio Livi, La nuova bussola quotidiana, 3 ottobre 2013)