venerdì 24 dicembre 2010

Ancora sul Vaticano II: pastorale o dottrinale? Rottura o continuità col passato?

Circa la questione della continuità dei testi conciliari col Magistero precedente della Chiesa, è importante distinguere, come fanno i Papi del postconcilio, negli insegnamenti conciliari un aspetto pastorale da un aspetto dottrinale.
L’idea diffusa che il Vaticano II sia un Concilio solo pastorale è un pregiudizio che denota insufficiente informazione sia dei testi stessi del Concilio come delle spiegazioni che di questi testi sono state date dal successivo Magistero della Chiesa, è una tesi che fa comodo ai modernisti, i quali relativizzano il fatto dottrinale riducendo tutto a "pastorale", cioè a modernismo e fa comodo anche ai lefevriani per aver modo di sottrarsi al dovere di accettare le dottrine conciliari con la scusa che in pastorale la chiesa può sbagliare.
Bisogna dire invece che l’aspetto pastorale del Concilio riguarda il suo intento di recuperare i valori della modernità e di comunicare all’uomo moderno il messaggio evangelico usando un linguaggio adatto ai nostri tempi e comprensibile dall’uomo d’oggi, suggerendo linee di azione e di attività pastorale.
Ma l’insegnamento conciliare non si limita a ciò. Il Concilio, oltre a confermare molti punti di dottrina cattolica, propone su molti punti, come hanno più volte ripetuto i Papi del postconcilio, una più avanzata conoscenza della divina rivelazione, o in modo diretto e immediato o in forma indiretta e mediata.
Il testo conciliare, nella prima parte della famosa "nota previa" al Segretario del Concilio Mons.Pericle Felici, dice bensì che il Concilio non intende proporre esplicitamente nuove definizioni dogmatiche; ma questo non toglie che di fatto, come lascia intendere chiaramente la seconda parte della "nota" e come di fatto è avvenuto - basta per accorgersene un’attenta lettura dei testi col dovuto criterio teologico – il Concilio contenga pronunciati dottrinali in materia di fede o prossima alla fede, sviluppando dottrine precedentemente definite, come per esempio quando definisce l’essenza della Chiesa, della collegialità episcopale, della divina rivelazione, della sacra tradizione o dell’ecumenismo o della libertà religiosa.
Stando così le cose e tornando al problema della continuità, bisogna distinguere il riferimento ai documenti pastorali da quello ai documenti dottrinali. Quando il Papa ci ha ricordato la "continuità nella riforma" fra il Vaticano II e il precedente Magistero, evidentemente si è riferito agli insegnamenti dottrinali e li suppone, giacchè non è pensabile per un cattolico che un Concilio smentisca nella dottrina della fede o prossima alla fede quanto ha detto il Magistero precedente, perché ciò supporrebbe la convinzione ereticale che Cristo, quando ha promesso alla sua Chiesa di assisterla fino alla fine del mondo affinchè non venga meno nella verità, ci ha ingannati.
Indubbiamente la continuità dottrinale va intesa bene. Essa non si limita al fatto di ripetere sempre le stesse formule dogmatiche - è utile anche questo: si pensi solo alla continua ripetizione del Credo che noi cattolici facciamo in ogni Messa domenicale -, ma essa, senza venir meno come continuità, comporta nel contempo uno sviluppo o un progresso nella conoscenza di quelle medesime immutabili verità che Cristo ha consegnato alla sua Chiesa da trasmettere agli uomini (ecco la Tradizione) fino alla fine dei secoli.
Se invece facciamo riferimento agli insegnamenti pastorali del concilio, in questo campo il Magistero non è infallibile, per cui non è proibito al cattolico ben preparato avanzare delle prudenti riserve per non dire critiche a certi indirizzi o modalità di comportamento o di linguaggio pastorale proposti dal Concilio. Io stesso come molti altri cattolici, mentre accolgo con assoluta adesione gli insegnamenti dottrinali, mi sento di dover avanzare delle rispettose critiche a certi orientamenti pastorali, i quali, dopo un’esperienza di quarant’anni, hanno dato prova di ottenere cattivi risultati e sono certamente una delle cause dell’attuale crisi della Chiesa. Dunque sono orientamenti che vanno corretti o abrogati e sostituiti con altri migliori e più saggi.
Per ottenere questo al limite si potrebbe indire un nuovo Concilio, ma può essere sufficiente una correzione di rotta nella pastorale da parte dell’episcopato, oggi ancora troppo legato a quegli orientamenti non più adeguati per non dire dannosi.
Mi riferisco ad un’ormai ben nota mentalità buonista, troppo accondiscendente nei confronti degli errori, delle ingiustizie e degli scandali, ad un certo ecumenismo irenista, opportunista, inconcludente e reticente, ad un rapporto col mondo moderno basato sull’equivoco e il cedimento, ad un linguaggio che a volte può essere strumentalizzato dai modernisti e ad altre cose.
La proposta di Mons. Gherardini di "un’attenta e scientifica analisi dei singoli documenti" prima di "metter mano all’auspicata ermeneutica della continuità", mi sembra dettata – se non interpreto male il pensiero dell’illustre teologo – da una certa pretesa di sottoporre i documenti ad un esame per verificare se questa continuità esista o non esista, quando invece il teologo cattolico deve dar per scontato che esiste, pena la messa in dubbio dell’assistenza dello Spirito Santo, alla quale accennavo sopra, sempre che Gherardini si riferisca, come mi par di capire, ai documenti dottrinali, giacché per quelli pastorali, come ho detto, non esiste l’infallibilità, per cui almeno in linea di principio possono essere criticati o abrogati.
Quanto a ciò che afferma il prof. Corrado Gnerre ("mi sembra che per la prima volta s’invochi da parte del Magistero un’ermeneutica per un atto del Magistero stesso"), in realtà, come dimostra la storia del dogma, la Chiesa è sempre successivamente intervenuta a chiarire, esplicitare o interpretare pronunciamenti precedenti che avevano dato occasione a dubbi, controversie o false interpretazioni. E il postconcilio non fa eccezione. Per questo il riferimento che noi cattolici dobbiamo avere davanti allo sguardo non è l’interpretazione di questo o quel teologo o vescovo o cardinale - neppur il Papa come dottore privato è infallibile -, ma è l’interpretazione ufficiale del Magistero che nel corso di questi quarant’anni è intervenuto moltissime volte ad offrirci la retta interpretazione di singoli passi o documenti, sia per bocca del Papa che degli organi della Curia Romana o con lo stesso Catechismo della Chiesa cattolica o col nuovo Codice di diritto canonico.

(Fonte: P. Giovanni Cavalcoli, Messainlatino.it, 18 dicembre 2010)

C'era una volta l'università italiana, quella che la Gelmini vuol far rinascere

«…C'era una volta l'università italiana: la più bella del mondo, la più antica, la più nobile. Essa poggiava su due pilastri: la separatezza e la cooptazione. Erano gli anni di Enrico Fermi, di Giulio Natta, dei giovani fisici di via Panisperna o dei giovani chimici di via Mezzocannone che tutto il mondo ci ha invidiato.
Signore presidente, quella che era l'orgoglio dell'Italia è oggi una bellezza decaduta. La separatezza è diventata astrazione, estraneità, incomprensione del mondo moderno, dei suoi meccanismi di sviluppo economico, culturale e sociale. La cooptazione è diventata privilegio. Le incrostazioni si sono stratificate, le baronie consolidate, e col passare del tempo si è giunti a un'università pensata in funzione della collocazione dei docenti e non della preparazione degli studenti. Con tutto quello che ne consegue in termini di sprechi o di autentici scandali.
Qualche dato:
- In Italia esistono 95 università, oltre 320 sedi distaccate, ma si laureano meno studenti che in Cile.
- Sono attivi 37 corsi di laurea con un solo studente e 327 facoltà con 15 iscritti. Nel 2001 i corsi di laurea erano 2.444, oggi sono arrivati a 5.500. Negli altri Paesi europei, la media è la metà.
- Le materie insegnate nelle università italiane sono circa 170mila, la media europea è di 90mila.
Come stupirsi dunque se nessun ateneo italiano figura tra le 150 università migliori del mondo?
Abbiamo detto, innanzi tutto ai giovani, che è necessario cambiare. Ed è necessario farlo soprattutto per il loro futuro, introducendo valutazione, merito, concorrenza.
Sappiamo che i giovani tracciano una diagnosi dei mali dell'università molto simile alla nostra. Ma non si fidano del fatto che la strada da noi intrapresa possa davvero migliorare le cose, e ritengono che l'avvio di un percorso nuovo necessiti di finanziamenti in una quantità tale che la situazione del Paese non consente.
Noi rispettiamo questa opinione, quando viene espressa nelle forme di un confronto civile. Ma affermiamo con chiarezza che molte delle tesi che sono state sostenute per contrastare la riforma Gelmini tradiscono una lettura forse disattenta o pregiudiziale della riforma stessa.
Faccio qualche esempio.
Gli studenti dicono che questa legge colpisce i giovani ricercatori e aumenterà il precariato. La verità è che da domani un ricercatore inizierà il suo percorso con un contratto a tempo determinato, e lo inizierà in un momento della vita in cui ancora può spendere energie e tempo per costruire il suo futuro professionale. Fino ad oggi, di norma, si iniziava portando una borsa, e si poteva continuare così anche per vent'anni.
Gli studenti dicono che questa riforma nega il diritto allo studio perché non ci sono i fondi per garantirlo. E invece non solo per la prima volta in Italia gli studenti saranno determinanti per l’attribuzione dei fondi agli atenei, attraverso meccanismi di valutazione che orientino le scelte economiche nella maniera più virtuosa possibile: risorse da utilizzare per le borse di studio, per i prestiti d’onore e non per mantenere cattedre inutili, corsi semideserti, sedi distaccate pletoriche. Va anche detto che nonostante la recrudescenza europea della crisi che richiede ora più che mai fermezza nella tenuta dei conti pubblici, il governo ha mantenuto la promessa: gran parte dei tagli sono stati recuperati, sia sul fronte del funzionamento degli atenei che sul versante degli stanziamenti per le borse di studio e i prestiti d'onore, ai quali con la legge che oggi approviamo verrà affiancato un nuovo "fondo per il merito".
Gli studenti dicono che aprendo i Consigli di amministrazione degli atenei a membri esterni di fatto si privatizzano le università. La verità, invece, è che non solo la presenza di membri esterni nel Cda farà uscire l’Accademia dal quel cono d’ombra che troppo spesso ha consentito l’autoreferenzialità. La verità, soprattutto, è che l'apertura alle energie di non diretta derivazione statale consentirà all'università italiana di attrarre investimenti privati, colmando quel gap che su questo fronte ci vede molto lontani dall'Europa, alla stregua di un Paese da socialismo reale.
Se questa è la situazione, noi siamo fermamente convinti che la riforma Gelmini tracci una strada maestra per invertire la rotta. Una strada che si snoda su tre tappe: la valutazione delle università; il merito e, quindi, il finanziamento proporzionale ai risultati conseguiti; la concorrenza fra i diversi atenei e anche all'interno delle medesima strutture. Una concorrenza che non è conflitto ma collaborazione, perché solo se le tante università italiane riusciranno a competere tra loro diversificando gli ambiti di ricerca e raggiungendo l'eccellenza invece di duplicare gli interessi condannandosi alla mediocrità si potrà sperare che l'università italiana torni ad essere ciò che era un tempo.
Questa legge rappresenta una svolta. Dovrà essere approfondita e anche perfezionata dopo la fase di rodaggio, ma non deve assurgere a simbolo negativo come si sta tentando invece di fare con il contributo irresponsabile di novelli cattivi maestri.
Sappiamo bene che esiste oggi un diffuso disagio giovanile, che affonda le sue radici in ragioni ideali ed economiche. Siamo a pochi giorni dalla fine del primo decennio del nuovo secolo: un decennio che si è aperto con la crisi dell'11 settembre, che ha messo a nudo la fragilità delle nostre radici e della nostra identità; e si è chiuso con la crisi finanziaria del 2008, che ha evidenziato lo scollamento tra l'economia reale e l'economia virtuale.
Il combinato disposto delle due crisi ha conclamato le responsabilità delle precedenti generazioni nei confronti dei giovani di oggi. Dobbiamo dire con chiarezza a questi ragazzi che se oggi si trovano in una situazione di insicurezza è perché le generazioni passate hanno sacrificato il futuro dei loro figli e dei loro nipoti in nome di falsi miti e ideologie fallimentari. E hanno anche ipotecato il loro avvenire alimentando un debito pubblico con cui oggi noi dobbiamo fare i conti. E, operando scelte sconsiderate in ambito occupazionale, hanno reso la macchina dello Stato un apparato pachidermico, al tempo stesso inefficiente e costoso.
Questa realtà è stata a lungo dissimulata sotto una patina di paternalismo, perché ai giovani conveniva dare sempre ragione, e questo ha rappresentato un comodo alibi per non assumersi mai le proprie responsabilità.
È la zavorra di queste scelte sbagliate ad impedirci oggi di investire sulla ricerca e sull'innovazione al pari di altri Paesi; a imporci oggi di dover chiudere innanzi tutto le falle dalle quali si disperdevano fiumi di denaro prima di poterci permettere di riaprire i rubinetti per orientare virtuosamente l'impiego del denaro…».

(Fonte: Gaetano Quagliarello, L’Occidentale, 24 dicembre 2010)

Una meditazione natalizia: contro Babbo Natale

Ma l’onnipresente Babbo Natale, e con lui il misterioso “spirito natalizio” di cui tanto parlano i film che arrivano da oltre oceano, è cristiano? Qualcuno troverà la domanda sconcertante, qualcun altro buffa; qualcuno semplicemente idiota; altri sostanzialmente indifferente e non andranno nemmeno a leggere quel che segue. Per questi ultimi in particolare, il Natale è qualcosa di irrilevante, non li riguarda affatto. Un padre cattolico, però, questa domanda prima o poi se la pone e se la fa anche un cattolico che sia interessato al vero contenuto e significato del Natale.
Allora diamo subito la risposta: sì e no. Sì perché, com’è noto, Babbo Natale non è nient’altro che la trasformazione di un santo cristiano, il vescovo San Nicola. E sì perché incarna valori cristiani, sconosciuti al mondo pagano. Il dono che arriva dal cielo, da un vecchio buono come un padre, è nello spirito del Padre nostro. La bontà stessa, disinteressata, gratuita di Babbo Natale è tipicamente cristiana. Il valore dei bambini e del tornare bambini è un puro figlio del cristianesimo. E il cuore bambino significa attesa. Babbo Natale risponde all’attesa del cuore, a quel desiderio profondo che c’è in ogni uomo e che trova corrispondenza totale nell’annuncio cristiano.
Insomma, Babbo Natale e quello “spirito natalizio” che una volta all’anno porta su questa terra, sono figli di una civiltà cristiana, su questo non c’è dubbio; sono intrisi di cristianesimo.
Ma Babbo Natale, allo stesso tempo, non è affatto cristiano, o meglio, cattolico, come lo era il vescovo San Nicola. È qualcosa che ti lascia a metà. È un bel sogno, una vaga aspirazione che diventa visibile per un po’. Non ha consistenza, non ha carne, e quindi non può proporsi davvero all’uomo con la concretezza di un incontro. È la proiezione piena di desiderio di una meta cui tendere, senza che sia una strada reale da percorrere. Il sogno resta un sogno.
Non a caso in certi film per la famiglia Babbo Natale viene presentato come un essere mitico, che è messo in relazione con un Cupido o una Venere, creature della fantasia umana. Credere a Babbo Natale è un abbandonarsi alla fantasia, all’irrazionale puro. Un tornare a quell’età pagana in cui gli uomini creavano i loro dei. E li creavano buoni o cattivi. Babbo Natale è caciarone e simpatico, ma gli “spiriti del Natale”, come quelli che ci propone Dickens e che tornano in mille varianti diverse, più che ad un sogno assomigliano ad un incubo. In questo caso predomina una visione oscura, inquietante, quasi violenta e vendicativa. Ci risveglia col sudore freddo addosso.
Insomma, o che si abbia a che fare con un pacioccone buono che porta regali, o con una specie di zombie che indica muto una catastrofe futura, sempre di un sogno si tratta. Il giorno dopo il 25 dicembre ci si ritroverà nella vita ordinaria, nel tempo ordinario, nutriti di una breve illusione che è durata solo lo spazio di una notte. Dileguato lo “spirito natalizio”, che ci ha fatti più buoni e cristianamente caritatevoli, bisognerà aspettare il Natale futuro per rifare un pieno d’illusione. E l’uomo resterà con la nostalgia della meta, ma la dovrà mettere da parte, perché non esiste una strada per arrivarvi. Forse dovrà anche confessarsi che è una stoltezza credere che la meta esista davvero, perché, in fondo, tutto è fantasia.
Ecco, in sintesi, cosa c’è di non cristiano, di non cattolico in Babbo Natale e nello “spirito natalizio”. Se c’è qualcosa, infatti, che l’annuncio cristiano supera di slancio è proprio il parto della fantasia umana. L’annuncio del Natale è qualcosa che si muove in una direzione reale. Ai pastori l’angelo dice: “Troverete un bambino in fasce, adagiato in una mangiatoia” (Lc, 2, 12). I pastori andarono e trovarono proprio quello che l’angelo aveva detto loro. Non si parla di sogni, né di creature fantastiche, né di spiriti, ma di un bambino in carne ed ossa da vedere, da toccare, di fronte al quale inginocchiarsi. La scena, quella che conta, quella che costituisce il primo incontro dell’umanità col Dio fatto carne, è di una concretezza, di un realismo, di una banalità sconcertante. I pastori fanno visita alla mangiatoia di Betlemme come si va in un reparto di maternità a far visita al nuovo nato di una coppia di amici. Niente effetti speciali: solo la constatazione di un fatto che si è verificato. Un fatto che costringe a guardare, a porsi in rapporto con una realtà ben diversa dai nostri sogni, con un Tu imprevisto che entra nella storia di ognuno.
Questo è il Natale cristiano. E a questo punto si capisce benissimo che Babbo Natale e tutta la sua mitologia di renne, slitte e pacchi regalo è solo una costruzione posticcia, una vera e propria intrusione, addirittura un tradimento dell’autentico spirito del Natale.

(Fonte: Gianluca Zappa, La Cittadella, 22 dicembre 2010)

AUGURI A TUTTI PER UN SANTO NATALE E UN FELICE ANNO 2011

"Basta con la messa creativa, in chiesa silenzio e preghiera"

La liturgia cattolica vive «una certa crisi» e Benedetto XVI vuole dar vita a un nuovo movimento liturgico, che riporti più sacralità e silenzio nella messa, e più attenzione alla bellezza nel canto, nella musica e nell'arte sacra. Il cardinale Antonio Cañizares Llovera, 65 anni, Prefetto della Congregazione del culto divino, che quando era vescovo in Spagna veniva chiamato «il piccolo Ratzinger», è l'uomo al quale il Papa ha affidato questo compito. In questa intervista, il «ministro» della liturgia di Benedetto XVI rivela e spiega programmi e progetti.
D. Da cardinale, Joseph Ratzinger aveva lamentato una certa fretta nella riforma liturgica postconciliare. Qual è il suo giudizio?
R. «La riforma liturgica è stata realizzata con molta fretta. C'erano ottime intenzioni e il desiderio di applicare il Vaticano II. Ma c'è stata precipitazione. Non si è dato tempo e spazio sufficiente per accogliere e interiorizzare gli insegnamenti del Concilio, di colpo si è cambiato il modo di celebrare. Ricordo bene la mentalità allora diffusa: bisognava cambiare, creare qual cosa di nuovo. Quello che avevamo ricevuto, la tradizione, era vista come un ostacolo. La riforma è stata intesa come opera umana, molti pensavano che la Chiesa fosse opera delle nostre mani, invece che di Dio. Il rinnovamento liturgico è stato visto come una ricerca di laboratorio, frutto dell'immaginazione e della creatività, la parola magica di allora».
D. Da cardinale Ratzinger aveva auspicato una «riforma della riforma» liturgica, parole oggi impronunciabili persino in Vaticano. Appare però evidente che Benedetto XVI la desideri. Può parlarcene?
R. «Non so se si possa, o se convenga, parlare di "riforma della riforma". Quello che vedo assolutamente necessario e urgente, secondo ciò che desidera il Papa, è dar vita a un nuovo, chiaro e vigoroso movimento liturgico in tutta la Chiesa. Perché, come spiega Benedetto XVI nel primo volume della sua Opera Omnia , nel rapporto con la liturgia si decide il destino della fede e della Chiesa. Cristo è presente nella Chiesa attraverso i sacramenti. Dio è il soggetto della liturgia, non noi. La liturgia non è un'azione dell'uomo,ma è azione di Dio».
D. Il Papa più che con le decisioni calate dall'alto, parla con l'esempio: come leggere i cambiamenti da lui introdotti nelle celebrazioni papali?
R. «Innanzitutto non deve esserci alcun dubbio sulla bontà del rinnovamento liturgico conciliare, che ha portato grandi benefici nella vita della Chiesa, come la partecipazione più cosciente e attiva dei fedeli e la presenza arricchita della Sacra Scrittura. Ma oltre a questi e altri benefici, non sono mancate delle ombre, emerse negli anni successivi al Vaticano II: la liturgia, questo è un fatto, è stata "ferita" da deformazioni arbitrarie, provocate anche dalla secolarizzazione che purtroppo colpisce pure all'interno della Chiesa. Di conseguenza, in tante celebrazioni, non si pone più al centro Dio,ma l'uomo e il suo protagonismo, la sua azione creativa, il ruolo principale dato all'assemblea. Il rinnovamento conciliare è stato inteso come una rottura e non come sviluppo organico della tradizione. Dobbiamo ravvivare lo spirito della liturgia e per questo sono significativi i gesti introdotti nelle liturgie del Papa: l'orientamento dell'azione liturgica, la croce al centro dell'altare, la comunione in ginocchio, il canto gregoriano, lo spazio per il silenzio, la bellezza nell'arte sacra. È anche necessario e urgente promuovere l'adorazione eucaristica: di fronte alla presenza reale del Signore non si può che stare in adorazione».
D. Quando si parla di un recupero della dimensione del sacro c'è sempre chi presenta tutto questo come un semplice ritorno al passato, frutto di nostalgia. Come risponde?
R. «La perdita del senso del sacro, del Mistero, di Dio, è una delle perdite più gravi di conseguenze per un vero umanesimo. Chi pensa che ravvivare, recuperare e rafforzare lo spirito della liturgia, e la verità della celebrazione, sia un semplice ritorno a un passato superato, ignora la verità delle cose. Porre la liturgia al centro della vita della Chiesa non è affatto nostalgico, ma al contrario è la garanzia di essere in cammino verso il futuro».
D. Come giudica lo stato della liturgia cattolica nel mondo?
R. «Di fronte al rischio della routine, di fronte ad alcune confusioni, alla povertà e alla banalità del canto e della musica sacra, si può dire che vi sia una certa crisi.
Per questo è urgente un nuovo movimento liturgico. Benedetto XVI indicando l'esempio di san Francesco d'Assisi, molto devoto al Santissimo Sacramento, ha spiegato che il vero riformatore è qualcuno che obbedisce alla fede: non si muove in modo arbitrario e non si arroga alcuna discrezionalità sul rito. Non è il padrone ma il custode del tesoro istituito dal Signore e consegnato a noi. Il Papa chiede dunque alla nostra Congregazione di promuovere un rinnovamento conforme al Vaticano II, in sintonia con la tradizione liturgica della Chiesa, senza dimenticare la norma conciliare che prescrive di non introdurre innovazioni se non quando lo richieda una vera e accertata utilità per la Chiesa, con l'avvertenza che le nuove forme, in ogni caso, devono scaturire organicamente da quelle già esistenti».
D. Che cosa intendete fare come Congregazione?
R. «Dobbiamo considerare il rinnovamento liturgico secondo l'ermeneutica della continuità nella riforma indicata da Benedetto XVI per leggere il Concilio.
E per far questo bisogna superare la tendenza a "congelare" lo stato attuale della riforma postconciliare, in un modo che non rende giustizia allo sviluppo organico della liturgia della Chiesa. Stiamo tentando di portare avanti un grande impegno nella formazione di sacerdoti, seminaristi, consacrati e fedeli laici, per favorire la comprensione del vero significato delle celebrazioni della Chiesa.
Ciò richiede un'adeguata e ampia istruzione, vigilanza e fedeltà nei riti e un'autentica educazione per viverli pienamente. Questo impegno sarà accompagnato dalla revisione e dall'aggiornamento dei testi introduttivi alle diverse celebrazioni (praenotanda). Siamo anche coscienti che dare impulso a questo movimento non sarà possibile senza un rinnovamento della pastorale dell'iniziazione cristiana».
D. Una prospettiva che andrebbe applicata anche all'arte e alla musica...
R. «Il nuovo movimento liturgico dovrà far scoprire la bellezza della liturgia. Perciò apriremo una nuova sezione della nostra Congregazione dedicata ad "Arte e musica sacra" al servizio della liturgia. Ciò ci porterà a offrire quanto prima criteri e orientamenti per l'arte, il canto e la musica sacri. Come pure pensiamo di offrire prima possibile criteri e orientamenti per la predicazione».
D. Nelle chiese spariscono gli inginocchiatoi, la messa talvolta è ancora uno spazio aperto alla creatività, si tagliano persino le parti più sacre del canone: come invertire questa tendenza?
R. «La vigilanza della Chiesa è fondamentale e non deve essere considerata come qualcosa di inquisitorio o repressivo, ma un servizio. In ogni caso dobbiamo rendere tutti coscienti dell'esigenza, non solo dei diritti dei fedeli, ma anche del "diritto di Dio"».
D. Esiste anche il rischio opposto, cioè quello di credere che la sacralità della liturgia dipenda dalla ricchezza dei paramenti: una posizione frutto di estetismo che sembra ignorare il cuore della liturgia...
R. «La bellezza è fondamentale, ma è qualcosa di ben diverso da un estetismo vuoto, formalista e sterile, nel quale invece talvolta si cade. Esiste il rischio di credere che la bellezza e la sacralità del liturgia dipendano dalla ricchezza o dall'antichità dei paramenti. Ci vuole una buona formazione e una buona catechesi basata sul Catechismo della Chiesa cattolica, evitando anche il rischio opposto, quello della banalizzazione, e agendo con decisione ed energia quando si ricorre a usanze che hanno avuto il loro senso nel passato ma oggi non ce l'hanno o non aiutano in alcun modo la verità della celebrazione».
D. Può dare qualche indicazione concreta su che cosa potrebbe cambiare nella liturgia?
R. «Più che pensare a cambiamenti, dobbiamo impegnarci nel ravvivare e promuovere un nuovo movimento liturgico, seguendo l'insegnamento di Benedetto XVI, e ravvivare il senso del sacro e del Mistero, mettendo Dio al centro di tutto. Dobbiamo dare impulso all'adorazione eucaristica, rinnovare e migliorare il canto liturgico, coltivare il silenzio, dare più spazio alla meditazione. Da questo scaturiranno i cambiamenti...».

(Fonte: Andrea Tornielli, Il Giornale, 24 dicembre 2010)

venerdì 17 dicembre 2010

Il Papa: laicisti pericolosi come gli integralisti

L’anno che si sta concludendo è stato segnato «dalla persecuzione, dalla discriminazione, da terribili atti di violenza e di intolleranza religiosa», soprattutto a danno dei cristiani. Ma accanto a questi tragici episodi emerge anche la presenza di «forme più sofisticate di ostilità contro la religione», quelle dei governi laicisti che in certi Paesi dell’Occidente «fomentano l’odio e il pregiudizio» contro il cristianesimo.
Sono forti le parole che Benedetto XVI scrive nel messaggio per la prossima Giornata mondiale della pace, che sarà celebrata il 1° gennaio 2011. Il tema scelto, quest’anno, è «Libertà religiosa, via per la pace». Il Papa attira innanzitutto l’attenzione sulle persecuzioni e sulle gravi violazioni della libertà religiosa in quelle regioni del mondo dove non è possibile professare ed esprimere liberamente la propria religione, se non a rischio della vita o della libertà personale.
«Nonostante gli insegnamenti della storia e l’impegno degli Stati, delle Organizzazioni internazionali a livello mondiale e locale - scrive il Papa - nel mondo ancora oggi si registrano persecuzioni, discriminazioni, atti di violenza e di intolleranza basati sulla religione. In particolare, in Asia e in Africa le principali vittime sono i membri delle minoranze religiose, ai quali viene impedito di professare liberamente la propria religione o di cambiarla, attraverso l’intimidazione e la violazione dei diritti, delle libertà fondamentali e dei beni essenziali, giungendo fino alla privazione della libertà personale o della stessa vita».
Ma Benedetto XVI si sofferma anche sull’ostilità che si va affermando in Occidente, su quelle «forme più sofisticate di ostilità contro la religione, che nei Paesi occidentali si esprimono talvolta col rinnegamento della storia e dei simboli religiosi nei quali si rispecchiano l’identità e la cultura della maggioranza dei cittadini».
Queste forme, spiega il Papa, «fomentano spesso l’odio e il pregiudizio e non sono coerenti con una visione serena ed equilibrata del pluralismo e della laicità delle istituzioni, senza contare che le nuove generazioni rischiano di non entrare in contatto con il prezioso patrimonio spirituale dei loro Paesi».
Nel messaggio Ratzinger afferma anche che «la dimensione pubblica della religione deve essere sempre riconosciuta» e che «le leggi e le istituzioni di una società non possono essere configurate ignorando la dimensione religiosa dei cittadini o in modo da prescinderne del tutto». Questa dimensione religiosa della persona, infatti, non è «una creazione dello Stato» e dunque «non può essere manipolata», dovendo piuttosto ricevere «riconoscimento e rispetto». Ecco perché «anche la società - dice Benedetto XVI - in quanto espressione della persona e dell’insieme delle sue dimensioni costitutive, deve vivere e organizzarsi in modo da favorirne l’apertura alla trascendenza».
Il Papa ribadisce dunque quello che la Chiesa cattolica ritiene essere la vera nozione di libertà religiosa, che «non va intesa solo come immunità dalla coercizione, ma prima ancora come capacità di ordinare le proprie scelte secondo la verità». Una concezione che esclude «la strada del relativismo, o del sincretismo religioso», che sono fenomeni diversi dal dialogo sincero tra le religioni portato avanti nella fedeltà alla propria identità. La vera libertà religiosa, spiega Benedetto XVI, permette di evitare sia il fondamentalismo che il laicismo: «Non si può dimenticare che il fondamentalismo religioso e il laicismo sono forme speculari ed estreme di rifiuto del legittimo pluralismo e del principio di laicità. Entrambe, infatti, assolutizzano una visione riduttiva e parziale della persona umana, favorendo, nel primo caso, forme di integralismo religioso e, nel secondo, di razionalismo». «La società che vuole imporre o, al contrario, negare la religione con la violenza - conclude il Pontefice - è ingiusta nei confronti della persona e di Dio, ma anche di se stessa».

(Fonte: Andrea Tornielli, Il Giornale, 17 dicembre 2010)

giovedì 2 dicembre 2010

Liturgia: Continuità, discontinuità o progresso nella continuità?

In merito alla colletta della Messa di Sant’Alberto Magno, Padre Augé, nel suo blog Liturgia Opus Trinitatis, faceva notare le differenze fra l’orazione del Messale del 1962 e quella presente nel Messale rinnovato. Può essere utile riportarle entrambe:
«Deus, qui beatum Albertum, Pontificem tuum atque Doctorem, in humana sapientia divinae fidei subjicienda magnum effecisti: da nobis, quaesumus, ita ejus magisterii inhaerere vestigiis, ut luce perfecta fruamur in caelis» (Messale 1962);
«Deus, qui beatum Albertum episcopum in humana sapientia cum divina fide componenda magnum effecisti, da nobis, quaesumus, ita eius magisterii inhaerere doctrinis, ut per scientiarum progressus ad profundiorem tui cognitionem et amorem perveniamus» (Messale 1970-2002).
Padre Augé si pone la domanda (è il titolo del post): “Continuità, discontinuità o progresso nella continuità?”. E nel post sembrerebbe optare per la discontinuità: «Ecco un caso tipico in cui i due Messali esprimono due teologie diverse, due “comprensioni” della fede diverse».
Che dietro i due testi ci siano diverse sensibilità, mi pare che non lo si possa negare. Vogliamo chiamare tali “sensibilità” «due teologie diverse, due “comprensioni” della fede diverse»? Non è un problema; lo si può fare tranquillamente. Ma questo significa che ci troviamo di fronte a un caso di “discontinuità”? Non lo credo: quando oggi parliamo di continuità e discontinuità non ci riferiamo tanto alle sensibilità, alle teologie o alle “comprensioni” della fede; ci riferiamo piuttosto alla sostanza della fede stessa. Le teologie possono variare, e di fatto variano, a seconda dei tempi e dei luoghi; esse sono necessariamente condizionate dalla cultura e dalla sensibilità proprie di ciascuna epoca e di ciascun popolo. Ciò che invece non deve mutare è il depositum fidei.
Bene, nella fattispecie, c’è stato un mutamento dottrinale? Direi proprio di no. Nel Messale preconciliare si diceva che Sant’Alberto divenne grande (“Magno”) nel sottomettere la sapienza umana alla fede divina; nel Messale attuale si afferma invece che egli divenne grande nel comporre (= mettere insieme) quelle due virtú. C’è contraddizione fra i due modi di esprimersi? Non mi sembra. Fra i due verbi, ce n’è uno giusto e uno sbagliato? Non direi; entrambi sono corretti. Quale è meglio usare? A questo punto entrano in gioco le diverse sensibilità: un tempo si preferiva affermare — correttamente — che la ragione deve sottomettersi alla fede; oggi si preferisce dire — altrettanto correttamente — che ragione e fede devono armonizzarsi fra loro. Ecco, ho l’impressione che questo caso specifico ci faccia capire molto bene che cosa ha realmente fatto il Concilio Vaticano II: lasciando immutata la dottrina, ha mutato il linguaggio, dal momento che nel frattempo era mutata la sensibilità dell’uomo contemporaneo. Un’operazione, dunque, esclusivamente pastorale.
Che cosa rispondere dunque alla domanda: “Continuità, discontinuità o progresso nella continuità?”. Non so se in questo caso si possa parlare di reale progresso nella continuità. Forse si tratta, molto piú semplicemente, di continuità nell’apparente discontinuità

(Fonte: P. Giovanni Scalese, Blog “Senza peli sulla lingua”, 16 novembre 2010)

Luca era gay... per davvero!

Il gay della canzone di Povia esiste davvero e non è uno qualsiasi. Ballerino a Miami, crocierista per il mondo, frequentatore degli ambienti dell’alta moda a Milano, organizzatore del Gay Pride di Napoli, Luca di Tolve era un attivista dell’Arcigay che si occupava di turismo gay. Un attivista omosessuale convinto, come dice di se stesso in un’intervista rilasciata a Tempi (11/09): “Convinto sì, credevo che quella fosse la mia condizione, irreversibile”. Ed ancora: “Ero un egocentrico, palestrato, schiavo dei locali notturni, ossessionato dai soldi, convinto di provare attrazione unicamente per i maschi e finito nel vortice del sesso compulsivo”. Ciò nonostante, come ormai da tempo è noto, Luca si è sposato con Teresa e sogna di poter avere da lei un figlio.
Questa storia vera, di vita vissuta, ha destato (chissà perché) scandalo e rabbiosa ostilità nella parte più politicizzata del mondo omosessuale italiano. La cosa lascia interdetti. Non è forse da quel mondo che ci giungono di solito le richieste più estreme in nome di un concetto assoluto di libertà personale? Luca di Tolve ha fatto una scelta diversa, non era forse libero di farla? Dell’omosessualità ha dato una lettura un poco differente da quella oggi a la page e maturata sulla propria stessa pelle, non era forse libero di intervenire su questo?
Sono fioccate invece le invettive e le accuse da parte dell’organizzazione di cui pure aveva fatto parte: hanno detto che era stato sottoposto ad un lavaggio del cervello; hanno tirato fuori il concetto equivoco di omofobia per screditare il suo punto di vista e zittirlo. Interpellato dal Giornale (10/08), Luca ha risposto: “Sono una persona in grado di intendere e di volere come lo ero quando ero un gay. La vera violenza è dire che è impossibile uscire dall'omosessualità”. Ed ancora: “Basta con questa accusa di omofobia. Chi discrimina è chi pensa che gay si nasca. La mia scelta ha richiesto coraggio, anche perché non ho dovuto lottare solamente contro le mie abitudini (…) ma rinunciare anche ai privilegi di una società in cui essere gay è trendy e ti serve a trovare un lavoro e a fare soldi più in fretta”.
Purtroppo la lunga consuetudine della più politicizzata associazione omosessuale italiana con i partiti di ispirazione comunista alimenta, evidentemente, delle reazioni violente in stile staliniano: si deve militare senza porsi (e porre) domande; l’omosessualità è condizione che non necessita di ulteriori analisi o approfondimenti; la verità è quella già scritta a lettere indelebili nei sacri testi del movimento e, come per le vecchie verità del marxismo-leninismo, ha pure la pretesa di essere “scientifica”. Peccato che per costoro scientifico sia diventato sinonimo di immobile, indiscutibile, dogmatico...
Ma contro le teorie si ribellano i fatti della vita, e Luca non è solo il personaggio di una canzone, ma uno che ci mette la faccia e paga un prezzo. Racconta infatti a Tempi: “I miei genitori si separarono quando ero piccolo, mio padre se ne andò di casa. Rimasi da solo con mia madre, in un ambiente solo femminile (…) mi sentivo molto rassicurato quando stavo con le donne e spaventato, anche se attratto, dalle figure maschili” Ed ancora: “Avevo tredici anni e nessun padre che mi spingesse a entrare nel ‘gruppo dei maschi’ da cui, invece, venivo respinto perché avevo interessi diversi, perché non ero dei loro, perché non giocavo a pallone come tutti. Questo mondo che pure mi attraeva, al tempo stesso mi spaventava, mi lasciava ai margini, solo. A quell’età questa mia infelicità e, al contempo, la necessità, come tutti, d’affetto, si manifestò in pulsioni omosessuali”.
Trascorsa l’adolescenza, Luca si integra perfettamente nella comunità gay e, da un certo punto di vista, diventa un personaggio di successo… ma allora perché, ad un certo punto, questo desiderio di tirarsene fuori? La risposta è nell’intervista rilasciata al Giornale: “Non ero felice e volevo capire il perché”. Come ciascuno di noi, Luca ricerca una verità e (perché no) una felicità che trascenda il piacere effimero. Non ne aveva forse il diritto? Non ne vale forse la pena? Ci vuole comunque del tempo per capire, racconta infatti: “Ci ho messo cinque anni per realizzare di avere sofferto dell’assenza di un padre, di aver idealizzato i maschi perché li sentivo più forti di me e per cominciare ad incuriosirmi dell’universo femminile”.
Quando Luca era gay era forte il desiderio di trovare un partner ideale, ma dopo i primi momenti di intensa attrazione fisica, dopo la consumazione del rapporto, percepiva che non restava nulla, solo un senso di vuoto che alimentava la notevole precarietà delle relazioni affettive e giustificava un elevato tasso di infedeltà. Le organizzazioni che credono di rappresentare l’universo omosessuale (e non semplicemente i propri iscritti) asseriscono che il frenetico nomadismo sentimentale dei gay è frutto dell’assenza di leggi specifiche sul matrimonio omosessuale… vendono con ciò l’illusione che la politica possa risolvere un problema che ha invece una ragione profondamente relazionale.
Luca non tarda a comprendere quali siano le vere cause della difficoltà a mantenere una relazione stabile e pienamente soddisfacente, lo racconta al Giornale: “Credevo di essere io lo sfortunato che non trovava mai l'anima gemella. Poi mi sono reso conto che attorno a me tutto era impostato in modo frivolo, superficiale, che ero circondato da persone infelici, molti delle quali ossessionate dalla pornografia e dal sesso. E poi la morte: l'ho vista consumarsi negli amici attorno a me e alla fine ho dovuto farci i conti anch'io dopo aver scoperto di essere sieropositivo”.
Sieropositivo… ad un certo punto l’HIV fa breccia nella vita di Luca e lui lo racconta con disarmante sincerità. Chissà quanti di quegli attivisti che si sentono in diritto di esercitar pressioni su altri cittadini perché “si dichiarino” sarebbero capaci di raccontar loro, con sincerità, una cosa come questa? Ma la malattia o la morte sono l’ultima parola per il “mondo”, non certo per il cristiano, e l’incontro con la sofferenza segna una svolta nella vita di Luca (una svolta di cui nemmeno Povia ci aveva mai parlato). Luca riconosce oggi che l’esperienza del dolore lo ha aiutato a non eludere quelle domande fondamentali ed insopprimibili che per tanti anni aveva trovato il modo di nascondere od esorcizzare: le domande sul senso ed il significato della vita.
Impressionante il punto di svolta. Caduto in uno stato di profonda depressione, trova appesa al contatore della luce della sua abitazione una coroncina del rosario. Luca, che si definiva buddista, si aggrappa al rosario con tutte le forze, ripensando al significato che questa preghiera aveva avuto in tempi lontani per i nonni e per sua madre. Racconta di essersi accasciato a terra improvvisamente, alla terza decina di Ave Maria, e di aver avvertito una profonda sensazione di pace. Racconta di aver percepito in quel momento la presenza della Madonna ed una serenità ed una forza interiore mai prima d’allora conosciuta.
Non si affretti a giudicare chi più è avvezzo a ripetere che “tutti siamo liberi e che nessuno deve giudicare”, questo è quanto è accaduto a Luca di Tolve, quanto racconta lui stesso. Vorrei anche dire che questa, in quanto storia di dolore, di ricerca, di conversione, è in verità la storia di ciascuno di noi e pertanto una storia che sfonda i muri dei nuovi ghetti gender-culturali con cui, anche per legge, si pretenderebbe oggi di riclassificare e compartimentare il genere umano (etero, omo, lesbo, trans e quant’altro). Siamo tutti e solo esseri umani, come la storia di Luca ci mostra.

(Fonte: Stefano, La Cittadella, 19 novembre 2010)


Democrazia in pericolo

L’opinionista, in diretta telefonica sulla radio nazionale, tira un sospiro di sollievo e commenta: “Finalmente! Sono vent’anni che ci ha rotto i coglioni!”. Questo signore della comunicazione risponde al nome di Giorgio Bocca (foto). L’oggetto della discussione di altissimo livello giornalistico è, ovviamente, la fine di Berlusconi.
L’analisi è un po’ rozza, un po’ tanto rozza, ma per lo meno dice le cose come stanno: non ne potevano più di Berlusconi. Loro, l’establishment culturale, quello che ha in mano, veramente in mano, i mezzi di comunicazione di massa (si veda il recente connubio Fazio-Saviano, evoluzione chic del più rozzo Santoro-Travaglio), per quasi vent’anni si sono esercitati nello sport del tiro al bersaglio contro questo strano uomo nuovo che aveva fatto irruzione sulla scena politica italiana. Si era all’inizio degli anni Novanta: la sinistra era lì lì pronta per il grande slam. Fatti fuori la DC e il PSI, fatti fuori tanti personaggi, tra cui anche degli innocenti, non restava che il PCI, uscito più o meno miracolosamente indenne dall’epopea di Manipulite. Ma che succede? Che arriva Berlusconi ad intercettare, a calamitare i voti di tutti quegli italiani che di stare sotto la sinistra non ne volevano proprio sapere. E così è cominciata la guerra contro il rompicoglioni.
Da allora sono quasi vent’anni di stress per tutti. Le elezioni, ogni volta, si sono trasformate in una sorta di referendum: Berlusconi sì, Berlusconi no, con il puntuale, inconcepibile (per questi intellettuali di sinistra che capiscono tutto e sanno tutto) successo di mister B, nonostante l’aggressione continua, pianificata, da parte della magistratura e dei mezzi d’informazione, televisione in testa. Tutto inutile: addirittura nell’ultima tornata elettorale gli italiani mandano fuori dal Parlamento la sinistra, quella dura e pura. Si può capire l’astio velenoso e il sospiro di sollievo tirato dal grande Bocca. Ora forse è il momento buono, la fine del grande Nemico.
Stiamo ai fatti: il problema è sempre lui. Il problema di Casini, di Fini, di Bersani, ovviamente di Di Pietro, e di tutti gli scherani di costoro è Berlusconi. Bisogna farlo smettere. Si può fare anche maggioranza col PDL, purchè non ci sia lui. È un circoletto di bambini che non vogliono far giocare quello più bravo di loro, che sennò li infinocchia tutti quanti. Sarà un’interpretazione rozza, ma è precisamente quello che vede l’italiano medio, al quale il personaggio in questione non risulta poi così antipatico, così ridicolo, così inconcludente come quelli della cricca lo rappresentano di continuo. Non so a che punto stia il gradimento di Berlusconi, a livello di sondaggi, ma lo credo sempre abbastanza alto, nonostante le bordate che gli vengono tirate di continuo.
Già: abbiamo un Parlamento che non vede l’ora di sfiduciare una persona che invece ha il gradimento della maggioranza degli italiani. C’è qualcosa che non va, non vi pare? Come non ricavarne l’impressione che nei sacri palazzi si stia consumando una specie di brutto golpe? Si dice a Berlusconi che è ora di dimettersi, ma quest’ora chi l’ha stabilita? Casini? Bersani? Fini? Di Pietro? Non bisognerebbe avere il tatto e la delicatezza di chiederlo almeno agli italiani, se l’ora è scoccata o no?
Troppe cose brutte e strane stanno avvenendo. Come il gravissimo conflitto d’interessi che vede protagonista il Presidente della Camera, il quale va a fare le consultazioni da un Napolitano, stranamente (?) consenziente, nella veste non di neutrale osservatore, ma di parte attiva, direi principale, nella crisi di governo verso la quale stiamo andando. E non c’è nessuno (a parte certi organi di stampa di area) che se ne scandalizzi. Non c’è nessuno nei posti che veramente contano, perché sono tutti occupati da quelli che condividono il giudizio di Bocca.
Il quale ha visto in Berlusconi, in tutti questi anni, un pericolo per la democrazia, un danno per la democrazia. Sarà. Ma intanto ci ritroviamo con un Presidente della Camera che dice e fa cose mai fatte da nessun altro in quella posizione; con una TV interamente occupata da personaggi che fanno dei monologhi senza uno straccio di contraddittorio; con una magistratura invadente e onnipotente grazie a puntuali “fughe di notizie” che appaiono sui giornali; con la prospettiva di un “governo tecnico” che altro non sarà se non l’ennesimo ribaltone alla faccia di chi ha votato.
La democrazia è in pericolo? Sì, ma non quella che intende Bocca. Quella vera!

(Fonte: Gianluca Zappa, La Cittadella, 16 novembre 2010)

L’inverno conciliare. Se il gelo del mondo fosse causato dalle "tenebre" del Vaticano II? Cosa leggere per capirne di più.

Da alcuni anni uno spettro si aggira nel mondo cattolico. Uno spettro che inquieta molti, benché assuma la forma di una semplice e inevitabile domanda: e se la scristianizzazione incalzante dell’occidente fosse anche il frutto di una crisi della chiesa? E se la crisi della chiesa avesse a che fare con il Concilio Vaticano II, con alcuni suoi documenti un po’ ambigui, oppure, quantomeno, con la sua estesa interpretazione?
La domanda, a ben guardare, dovrebbe essere spontanea: non è più possibile infatti non accorgersi del gelo, del buio, della disumanizzazione che ci circonda. Nello stesso tempo non è più lecito non rendersi conto di quanto il sale sia divenuto insipido. Di quanto sia divenuto arduo, anche per chi si sforza di rimanere cattolico, trovare un vescovo del livello di monsignor Caffarra, o di monsignor Negri, o di monsignor Crepaldi; oppure, un sacerdote vivace e appassionato come padre Livio Fanzaga, direttore di Radio Maria; oppure, un semplice parroco di paese che ami la liturgia, il decoro della casa di Dio e il confessionale.
Giustamente monsignor Nicola Bux ha appena dato alle stampe un bel testo intitolato “Come andare a messa e non perdere la fede” (Piemme). Perché il problema non è solo che la fede, fuori, nel mondo, non c’è più, e neppure il fatto che i credenti vengano derisi dagli atei di professione e dai nichilisti di ogni tipo: il problema vero è che questi stessi nemici della fede, come coloro che invece la conservano ancora gelosamente, non trovano nessuno con cui veramente confrontarsi, a cui lanciare in volto i loro dubbi, le loro fatiche, o persino la loro luciferina ribellione. Non è colpa solo dei media il fatto che a rappresentare un pensiero cattolico sul più importante quotidiano italiano sia chiamato il cardinal Martini. Il problema è la scarsità, nella chiesa di oggi, di uomini di Dio, di uomini di fede intelligenti, appassionati; dirò più, dopo tante esperienze personali: di uomini, punto e basta. Ma questa realtà, questo tradimento piuttosto generalizzato, che confonde e avvilisce anche chi vorrebbe stare, con la sua miseria, accanto al Maestro, anche nell’ora del Getsemani, non può non avere una radice, una causa.
All’epoca della Controriforma, gli uomini di chiesa più santi capirono che vi erano da fare due cose: condannare fermamente le eresie di Lutero; riformare la chiesa stessa, ammettendo errori, vizi, tradimenti, viltà di molti… Oggi penso debba accadere la stessa cosa: non si può continuare con il mantra del Concilio Vaticano II “primavera della chiesa”, “profezia” o altre amenità. Se c’è l’inverno, bisogna finalmente accorgersene, e mettersi il cappotto. Ecco perché ritengo una benedizione di Dio, un segno dei tempi, l’opera di stimate personalità della chiesa che si interrogano sul Vaticano II e sulla sua attuazione: penso a “Iota unum” di Romano Amerio, ristampato recentemente; agli scritti di monsignor Mario Oliveri, vescovo di Albenga; a “Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare”, di un insigne teologo come monsignor Brunero Gherardini (con prefazione del neo cardinale Albert Malcolm Ranjith, uomo di fiducia di Benedetto XVI).
Un quadro completo.
Penso, soprattutto, allo straordinario lavoro del professor Roberto de Mattei, “Il Concilio Vaticano II, una storia mai scritta”, edito in questi giorni da Lindau. Si tratta di un volume di oltre 600 pagine densissime, puntuali, in cui finalmente si analizza un grande evento della chiesa, insieme a ciò che lo ha determinato, alle attese, alle delusioni e alla ricezione che ha avuto. Un quadro completo, non ideologico, che senza dubbio mancava e che contribuisce a parer mio a riportare il discorso Vaticano II nel giusto alveo, confutando il mito di un Concilio “superdogma”, sempre e immancabilmente “profetico”. Il Vaticano II, ricorda de Mattei, si auto qualificò come “pastorale” e “fu privo di un carattere dottrinale definitorio”: proprio questa sua caratteristica lo rende soggetto, almeno per alcuni documenti, ché non tutti hanno lo stesso valore, a differenti interpretazioni, che non sarebbero invece possibili per definizioni dogmatiche, di per sé infallibili e irreformabili. Non essendoci qui lo spazio per illustrare un testo così ricco, basti un assaggio: l’autore parte dal pre Concilio, da una crisi che i più avveduti vedevano già in azione. Nota però come la gran maggioranza dei vescovi, invitata a esprimere i propri “vota” in vista del Concilio, avesse chiesto riforme moderate e la chiara comprensione e condanna degli errori del proprio tempo: comunismo e marxismo in primis (e poi esistenzialismo ateo e relativismo morale). Ma i “vota” dei vescovi, anticipa de Mattei, sarebbero stati ostacolati dalle “rivendicazioni di una minoranza”, che in nome dell’“aggiornamento” dimenticò, talora, che l’aspetto pastorale non può finire per soffocare quello dottrinale; che la carità nell’annuncio non significa il silenzio sui mali del presente (vedi il silenzio sul comunismo); che sminuire la Verità, “scandalo e follia”, a causa della sua sapidità, del suo gusto talora amaro e inquietante, non la rende più digeribile e appetibile, ma al contrario, finisce per nasconderne la lucentezza, la bellezza e la forza intrinseca.

(Fonte: Francesco Agnoli, Il Foglio, 2 dicembre 2010)

L’uso estremo di un estremo gesto. Se si strumentalizza anche un suicidio

È stato un «estremo scatto di volontà» quello che ha portato Mario Monicelli a uccidersi? Chi può dirlo? Il suicidio è un gesto troppo tragico, troppo solitario, troppo estremo per poter essere decifrato e definito in modo perentorio e univoco. A questo si aggiunga che anche gli stati d’animo più frequenti nella vecchiaia, nella vecchiaia avanzata, come quella cui era giunto Monicelli, possono essere decifrati nelle loro molteplici valenze solo con estrema difficoltà. Di una cosa sola possiamo essere certi: tutti gli uomini sentono il bisogno di non essere lasciati soli, di non essere abbandonati; gli anziani e i malati più di tutti gli altri. Per questo il suicidio è un gesto sconvolgente, perché di norma chi si uccide lo fa in una situazione di totale e spesso disperata solitudine, attivando nei familiari, negli amici e in genere nei suoi "prossimi" la domanda angosciosa: si sarebbe ucciso se io gli fossi stato vicino?
Ecco perché utilizzare il suicidio di Monicelli come argomento per perorare l’approvazione di una legge eutanasica è scorretto e fuorviante. È scorretto, perché la legge, qualsiasi legge, per sua natura non è chiamata a regolare situazioni estreme, ma standard, ordinarie, normalmente ripetibili, valutabili con fredda pacatezza: non è questa la condizione in cui si trova un suicida, così come non sono queste le condizioni in cui si trovano i malati terminali, gli anziani colpiti da grave disabilità e più in generale i soggetti afflitti da forme depressive gravi, che alterano la volontà e possono attivare desideri patologici di morte, che è doveroso che i medici combattano.
Ma soprattutto è fuorviante pensare che possa davvero essere giusta una legge sull’eutanasia, anche la più severa possibile e immaginabile, quella cioè che legalizzi l’eutanasia solo quando questa fosse espressione dell’autonomia della persona, solo quando fosse richiesta con piena coscienza e adeguata informazione dal malato terminale. Nei Paesi in cui sono state approvate leggi del genere si è ottenuto un solo autentico effetto: quello di burocratizzare il processo del morire, incrinando profondamente la deontologia ippocratica, favorendo l’abbandono dei malati e inducendoli a proiettare sul medico l’immagine inquietante di chi è disposto, e non solo in linea di principio, a porre intenzionalmente termine alla loro vita.
Non è corretto continuare a ripetere, come si fa da parte di tanti, che il medico che pratica l’eutanasia altro non fa che rispettare la volontà del paziente, perché l’esperienza ci dimostra che questo non è vero: a parte il fatto che accertare rigorosamente la volontà dei pazienti terminali è pressoché impossibile, è un dato di fatto che, dovunque si pratica legalmente l’eutanasia, si assiste all’inevitabile e arbitraria dilatazione burocratica di questa prassi, che viene posta in essere anche quando il consenso del malato non può esserci (come nel caso dell’eutanasia neonatale a carico di bimbi malformati) o non può avere alcun valore giuridico e morale (come nel caso dell’uccisione eutanasica di malati di mente o di malati di Alzheimer).
Non è attraverso l’esaltazione di inquietanti legislazioni eutanasiche che va espresso il rispetto che tutti dobbiamo alla memoria di Monicelli. L’impegno per la vita, per la salute, per la cura di tutti i pazienti, anche e soprattutto di quelli inguaribili e di quelli terminali deve esprimersi in ben altro modo: moltiplicando l’impegno sociale, giuridico, finanziario e morale nei confronti di quegli esseri umani che sono i più fragili di tutti: i malati e gli anziani. È indubbio che la malattia e la vecchiaia costituiscano i problemi cruciali non solo del nostro tempo, ma soprattutto degli anni a venire, ma è altrettanto indubbio che a questi problemi le spinte per la legalizzazione dell’eutanasia offrono non una risposta, ma una scorciatoia intellettualmente disonesta.

(Fonte: Francesco D’Agostino, Avvenire, 2 dicembre 2010)

mercoledì 3 novembre 2010

Una battuta entusiasmante che apre la corsa alle urne

L’improvvisa, ma non imprevedibile, uscita di Silvio Berlusconi (parlo dell’uomo, prima che del presidente del Consiglio, trattandosi di dichiarazioni relative a gusti e inclinazioni personali) arriva al culmine di una vicenda che ha drammatizzato la situazione politica in maniera spropositata rispetto alla sostanza dell’episodio. Nel crescendo oratorio, Berlusconi prima avvisa quanti lo ascoltano, e li rassicura: «Non leggete i giornali, vi imbrogliano, non c’è nulla di grave perché hanno male interpretato la mia disponibilità ad aiutare chi abbia bisogno, per una ragazzata com’è nel caso di cui tanto si parla.
Vedrete, finirà nel nulla, essendo una tempesta di carta». Al culmine di questa affermazione, la battuta fulminante, così spontanea da sottrarsi a ogni prudenza imposta al «politicamente corretto»: «Meglio essere appassionato di belle ragazze che gay».
Ma gli è scappata o l’ha fatto apposta? Io mi sono entusiasmato, e sono convinto che, nella battuta, vi siano insieme spontaneità e calcolo. Spontaneità perché quello che Berlusconi ha detto è vero, intendo vero per lui, come per mio padre e per tanti italiani che si sono formati prima della liberazione sessuale, cresciuta all’inverosimile se si pensa alla diversa percezione che si ha dell’omosessualità rispetto a venti o trent’anni fa. Lo stesso Berlusconi, candidamente, chiosa: «È quello che ci hanno insegnato i nostri genitori». Di più, è quello che ci dice la Chiesa, indicando i rapporti fra uomo e donna come base della famiglia e respingendo, senza condizioni, le proposte di legittimazione delle unioni gay.
Berlusconi è nato nel 1936, e sembra voler ribadire il primato della eterosessualità come condizione «naturale». Il dibattito è ancora aperto, ma l’omosessualità è stata per lungo tempo considerata trasgressione o devianza. Un’analoga posizione ha assunto recentemente Rocco Buttiglione parlando di sessualità rispettabile ma sbagliata, di «errore», ovvero di «peccato», arrivando a paragonare l’omosessualità all’adulterio. Nella dottrina cristiana ci siamo.
Berlusconi ha quindi espresso una posizione semplice, e soprattutto personale. Ma non è escluso che ci sia stata intenzione e che, in questo continuo sconfinamento tra questioni pubbliche e questioni private, abbia, con quella battuta, voluto aprire la campagna elettorale. In che senso? Molti hanno visto semplicemente l’atteggiamento omofobo, e hanno osservato che Berlusconi avrebbe commesso l’imprudenza di alienarsi le possibili simpatie del mondo omosessuale coltivato e blandito, persino più che a sinistra, dalla ministra per le Pari opportunità Mara Carfagna. Troppo semplice. In realtà Berlusconi, forse inconsciamente ha indicato uno spartiacque, una scelta di campo per le (prossime) elezioni politiche, che egli afferma di non desiderare: il suo più probabile antagonista, infatti, è Nichi Vendola, paladino dell’orgoglio omosessuale, in maniera altrettanto naturale (anche se, fino ad oggi, più militante) quanto quella manifestata convintamente da Berlusconi con le sue dichiarazioni di orgoglio eterosessuale. Proviamo dunque a ribaltare la situazione senza privilegiare l’una o l’altra in nome dei diritti delle «minoranze» (?). Se Nichi Vendola avesse dichiarato: «Meglio essere appassionati di bei ragazzi che eterosessuali», chi si sarebbe stupito? D’altra parte Berlusconi parlava a un pubblico convenuto a una fiera del ciclo e del motociclo, con molte belle ragazze immagine. Perché dirlo «malato»? Visto l’argomento di cui parlano i giornali da una settimana, egli sta sul pezzo, manifesta la sua natura esuberante, continua a scherzare come quando, nello spirito di Amici miei, fa balenare al capo di gabinetto della Questura che Ruby possa essere la nipote di Mubarak. Puro Adolfo Celi, anche se è Berlusconi più affine all’inarrivabile conte Mascetti di Ugo Tognazzi (ma non ha perso tutto). D’altra parte egli è consapevole di essere come un fenomeno naturale, come un luogo di villeggiatura: da visitare, non da occupare. Come la Grotta Azzurra, come Taormina.
Così Ruby è passata, ha visto ed è andata via. Mentre, in altre situazioni, Elisabetta Tulliani si è insediata, ha occupato la sede vacante ed è rimasta con il fratello e con la famiglia presso il suo prescelto. Berlusconi, diventato libero, dopo la rivolta di Veronica, intende rimanerlo, e ha espresso la propria convinta posizione. Di chi contempla la bellezza femminile. È la posizione anche di Saffo. Mentre Pasolini preferiva i bei ragazzi. Ma la differenza è appunto tra «appassionarsi» ed «essere». La condizione gay impone una diversa visione del mondo che sconfina con l’ideologia. Berlusconi, cristiano, cristianissimo, esprime una visione pagana, di puro piacere, non ideologica. Difficile non condividere quel punto di vista. E se avesse detto: «Preferisco la carne al pesce?». Non diverso da: «Meglio essere appassionato di belle ragazze che gay». Il resto potrebbe essere il copione di una ribellione del compagno di Vendola che scrive a Repubblica dopo aver scoperto che il suo amato lo ha tradito. Scoppierebbe un Vendola-gate?
Allo stato quello che è accaduto in questo giorni, anzi, in questi mesi da Noemi in avanti, attiene alla sfera privata, come la frequentazione di giovani disposti a prostituirsi non ha in alcun modo riguardato il pensiero e l’impegno di Pierpaolo Pasolini. La differenza, rispetto al mondo omosessuale, è il clima di allegria, di divertimento, fin qui frainteso. La vicenda di Ruby, come oggi le dichiarazioni apparentemente scorrette hanno tutto l’aspetto di una burla, di un gioco. E Bersani e Di Pietro soffrono, per questa volta, di non essere fra i protagonisti di questa edizione di Amici miei. Niente di più, niente di tragico. Battute che Achille Campanile avrebbe apprezzato. Ma oggi abbiamo il triste Travaglio.

(Fonte: Vittorio Sgarbi, Il Giornale, 3 novembre 2010)

I tre inciampi della musica liturgica in dialogo con le culture

Io credo, ponderando da anni la questione, che si tenda a fare tre errori o inciampi quando si parla di come la musica si debba inculturare nel mondo di oggi. Sono errori probabilmente fatti in buona fede e sono ovviamente aperti alla discussione. Ma doipo anni di osservazioni e letture mi sembra proprio che almeno per questi tre punti bisognerebbe riflettere più attentamente.
Un primo errore comune è: inculturazione significa ricominciare da capo, significa distruggere la cultura liturgica (e musicale) di provenienza. Ora, non possiamo tacere senza essere poi ingiusti, che il cristianesimo si è sviluppato in determinati contesti culturali che hanno apportato anche tante cose buone e ancora in parte valide per la fruizione del messaggio stesso, anche nella liturgia e nella musica. Perché distruggere tutto? In effetti alcuni esempi veramente buoni di inculturazione della musica liturgica sono proprio la prova che la distruzione non serve a niente, quello che serve è la nuova creazione generata da quello che viene prima e che diviene parte, oserei dire genetica, di questa nuova creazione. Questo passato non è un ingombro, è un’opportunità. Ora, canto gregoriano e polifonia sono stati per secoli il repertorio liturgico della Chiesa cattolica. Possiamo tentare di andare oltre ma non per questo bisogna disprezzarli o considerarli come nemici della “nuova musica liturgica”. Dovrebbero esserne i genitori da rispettare ed amare, non ha senso vergognarsi. Da parte di taluni c’è una furia che oserei dire quasi rivoluzionaria di cominciare sempre tutto da un punto zero, il che mi sembra quanto meno imprudente. Quello che serve non è una rivoluzione, ma una evoluzione. Sempre cercare di fare meglio ma con la consapevolezza di poter vedere più lontano perchè ci vogliamo sedere sulle spalle dei giganti che ci hanno preceduto. Ricordiamo che l’istruzione del 1994 sulla Inculturazione nella Liturgia Romana si chiamava Varietates Legitimae, legittime differenze, variazioni, non distruzioni.
Un secondo errore comune è di tipo più culturale: si identifica come cultura di certe nazioni un determinato repertorio che in realtà è più la cultura creata dai mass media. Quante volte ho sentito cantare anche ai giovani le solite canzoni echeggianti modelli musicali provenienti dalla musica di consumo (che non ha niente di male in se stessa, è il contesto che è sbagliato). Ora, come già avvertiva il Cardinal Ratzinger nel suo libro “Introduzione allo Spirito della Liturgia”, non si può propriamente dire che questa musica sia musica popolare (nel senso espresso dalla Sacrosanctum Concilium al punto 119, espressione del genio di un popolo), in quanto è chiaramente il prodotto di alcune determinate strategie di mercato. Non si può neanche negare che la grande musica del passato non era popolare in senso stretto, essendo il frutto di strategie ecclesiastiche e politiche. Ma quella che credo sia la differenza rilevante è che la musica liturgica del passato non ha mai preteso di essere “popolare”, ma senz’altro era per il popolo. Nasceva come grande arte per essere poi a disposizione di tutti. Bisogna anche fare una osservazione che proviene dalla storia: sappiamo come la causa del movimento ceciliano per la riforma della musica liturgica che influenzerà anche il famoso Motu Proprio di san Pio X sarà il tipo di musica che si sentiva nelle chiese nel XIX secolo, pesantemente influenzata dalla musica operistica. Ma, e questo non si dice spesso, quello era veramente un esempio riuscito di inculturazione. La musica operistica nel XIX secolo era la musica di tutti, poveri e ricchi, permeava il tessuto sociale e culturale. Quindi, prendendo la maniera in cui taluni oggi intendono l’inculturazione, essa doveva essere accettata con tutti gli onori. Ma, pur essendo a volte di fattura tecnica pregiata ed amata da larghi strati del popolo e del clero, non fu poi accettata perchè non si conformava ad alcuni canoni che la musica liturgica dovrebbe possedere e su cui si potrà tornare in seguito. Quindi, questo repertorio fu sostituito da un altro, poco a poco, che si riteneva più consono all’azione liturgica. Sempre in Varietates Legitimae, al punto 19, si chiede che le culture devono essere purificate e santificate nel momento di incontro con la liturgia. Non si prende tutto quello che capita. San Paolo diceva di vagliare tutto e trattenere ciò che è buono, non buttarsi nelle braccia delle mutevolezze umane.
Un terzo errore comune conseguente al secondo è che si fa intendere che tutto debba sempre partire da una supposta base. Ma così non è nel mondo reale. Se si pensa alla rivoluzione informatica, ci si accorge che c’è sempre una elite che in un certo senso orienta e ispira la base. Questa elite comprende i geni che hanno rivoluzionato il modo in cui comunichiamo. Essi orientano la rivoluzione informatica anche aspettandosi possibili insuccessi e fallimenti. Ma la loro creatività e perizia permette l’avanzamento enorme che stiamo vivendo. Lo stesso è per la musica liturgica: l’“elite”, formata dai professionisti, lavorava per il bene di tutti, al servizio di tutti. Invece si è pensato che bisognava eliminare questo elemento intermedio, che una sana inculturazione significasse de-professionalizzare il musicista di chiesa. Doveva essere tutto frutto dello spontaneismo. Ma ricordiamo che queste elite, come del resto quelle informatiche, erano estremamente democratiche. Chiunque poteva farne parte, anche dagli strati più umili del popolo, se possedeva la volontà di applicarsi nello studio e nella pratica musicale. Anche oggi, quando si parla di inculturazione nel campo della liturgia e della musica, si tende a pensare che musica del popolo significa musica che il popolo ascolta. Ma i due concetti possono essere ben diversi. I miei studenti cinesi sono familarissimi con il pop e rap americano ma lo sono pochissimo con la loro cultura musicale di origine. Cosa si inculturerà?
Io fortemente credo che tutti e tre i punti esposti sopra siano stati un travisamento grossolano delle istanze del movimento liturgico. L’inculturazione si intendeva come momento nascente, non come apocalisse di ciò da cui proveniamo. L’inculturazione era impregnarsi nuovamente della tradizione per nuove primavere di fede, non uscire nella notte gelida dell’ignoto ad ogni costo. Quello che i padri ci hanno lasciato non dovrebbe essere vissuto come un peso, ma come una opportunità. Il passato è come il chicco di grano che momentaneamente sparisce per riapparire in nuove creazioni, mutato ma sempre se stesso.

(Fonte: Aurelio Porfiri, Zenit.org, 3 novembre 2010)

giovedì 28 ottobre 2010

Ancora sulla Bibbia Cei: traduzioni edulcorate

Prima lettura della Messa di oggi: Efesini 6,1-9. Finora il v. 5 suonava: «Schiavi, obbedite ai vostri padroni secondo la carne con timore e tremore, con semplicità di spirito, come a Cristo». Una traduzione letterale, abbastanza fedele al testo originale (Οἱ δοῦλοι, ὑπακούετε τοῖς κατὰ σάρκα κυρίοις μετὰ φόβου καὶ τρόμου ἐν ἁπλότητι τῆς καρδίας ὑμῶν ὡς τῷ Χριστῷ). La nuova versione CEI invece ci fa ora leggere: «Schiavi, obbedite ai vostri padroni terreni con rispetto e timore, nella semplicità del vostro cuore, come a Cristo». La nuova traduzione in un punto migliora la precedente: invece di “con semplicità di spirito”, rende, più letteralmente, con “nella semplicità del vostro cuore”. Sembrerebbe dunque che uno dei criteri seguiti sia quello di una maggiore fedeltà al testo originale. E invece, che cosa succede? I “padroni secondo la carne” (che sarà pure un’espressione non usuale nel linguaggio corrente, ma certo di non impossibile comprensione) diventano “padroni terreni”. Si potrebbe discutere sull’opportunità di rimpiazzare quell’espressione “secondo la carne”, così comune nella Bibbia; ma passi (del resto anche la Volgata aveva reso con una certa libertà questo passo: «oboedite dominis carnalibus»).
Ciò che risulta assolutamente incomprensibile è invece l’annacquamento dell’espressione seguente (“con timore e tremore”), che diventa uno slavato “con rispetto e timore”. Notate: il “timore” si trasforma in “rispetto”, ma, al tempo stesso, inaspettatamente si sostituisce al “tremore”. Mi chiedo: perché mettere le mani su una formula fissa, ricorrente nella Bibbia, che semmai andrebbe spiegata, non alterata? San Paolo la usa diverse volte: oltre che qui, in 1Cor 2,3; 2Cor 7,15; Fil 2,12. Giustamente, la TOB (acronimo di Traduction Oecuménique de la Bible) nel presente passo annota: «Espressione biblica che designa una situazione in cui l’uomo impegna la propria esistenza e dove, al di là delle circostanze, si trova alle prese con Dio». In nota a Fil 2,12, spiega: «Coppia di parole già conosciuta nella Bibbia e nel giudaismo, per esprimere la debolezza che si prova di fronte a Dio vivente e santo, che manifesta la sua esigenza attraverso l’obbedienza di Cristo». Nel caso di 2Cor 7,15, sempre la TOB postilla: «Espressione corrente, che esprime l’atteggiamento dell’uomo dinanzi alla grandezza e alla maestà divine…». Se si tratta di un’espressione così comune, in qualche modo “tecnica”, perché modificarla? Meraviglia poi che nel Sal 2,11 (possibile fonte di tale formula) la nuova versione CEI traduce letteralmente: «Servite il Signore con timore e rallegratevi con tremore» (dal che si deduce che il tremore è addirittura compatibile con la gioia).
Qualcosa di simile è accaduto nel vangelo di san Luca (14,26). Finora leggevamo: «Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo». Ora leggiamo: «Se uno viene a me e non mi ama piú di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo». Si dirà: ma questo è esattamente il senso che intende Gesù con quell’espressione. Il passo parallelo di Matteo (10,37) suona infatti: «Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me» (in tal caso, traduzione vecchia e nuova della CEI più o meno si equivalgono). Per l’appunto: Matteo sente il bisogno di sciogliere quell’espressione così ruvida, propria di una lingua priva di sfumature; mentre Luca la lascia così com’è (per rispetto degli ipsissima verba Iesu), lasciando agli interpreti il compito di spiegarla.
Ritengo che il compito del traduttore non possa essere confuso con quello dell’esegeta: al primo è chiesto di rendere in una lingua diversa il testo originale, sforzandosi di rimanervi il più fedele possibile, in modo che i lettori, seppure in un altro idioma, possano assaporare il gusto (se necessario, anche l’asprezza) dell’originale. Il traduttore non può sostituirsi all’esegeta: il compito di interpretare e di spiegare non spetta al primo, ma al secondo. Capisco che talvolta si possano incontrare concetti oggi non politicamente corretti; ma lasciamo che sia l’interprete a edulcorarli, se proprio è necessario. Anche perché le interpretazioni possono variare (e di fatto sono variate) da un’epoca all’altra, a seconda delle mode del momento; il testo, invece dovrebbe rimanere sempre lo stesso. Tradurre troppo liberamente rischia di risolversi non solo in un tradimento dell’autentico significato del testo, ma anche in un tradimento del lettore, che ha il diritto di accostarsi al testo così come esso realmente è stato scritto

(Fonte: Querculanus.blogspot.com, 27 ottobre 2010)

Povera Oriana, tradita dall`eredita`

Domenica sera, lo Speciale Tg1 condotto da Monica Maggioni, ha trasmesso un ricordo di Oriana Fallaci nel quale la sorella Paola ha, tra le altre cose, raccontato i problemi sollevati dal testamento con il quale l’autrice di Insciallah, morta (come noto) senza figli, ha nominato erede universale suo nipote Edoardo Perazzi, uno dei figli di Paola appunto.
E così apprendiamo che anche in casa Fallaci-Perazzi i rapporti si sono irreparabilmente deteriorati per questioni di eredità. Apprendiamo che, per diatribe relative al denaro in senso lato, dalla morte di Oriana, Paola non parla più con suo figlio, Edoardo non ha più rapporti con il fratello Antonio, e via dicendo. Purtroppo, non è né il primo né sarà l’ultimo caso del genere. Fin troppo spesso succede (è successo e succederà) che nelle piccole come nelle grandi famiglie, siano esse ricche o povere, ristrette o allargate, alla morte (o finanche in prossimità di essa) di colui o colei che “tiene”, si finisca ai ferri corti per questioni di spartizione.
Non che all’interno delle famiglie i rapporti siano mai facili, come la cronaca quotidianamente testimonia, e come (con un grado di crudeltà minore e più sfumata) la realtà a noi prossima insegna. Gelosie, ripicche, invidie sono una triste e drammatica costante nelle storie di tanti nuclei.
La lite per l’eredità presenta, però, un grado di squallore in più. Davvero forse si tratta di una delle situazioni più tristi. Più tristi perché quel capitale, quei beni, quei tesori – anche in senso affettivo e metaforico – per cui il de cuius ha vissuto, si è impegnato, ha faticato, invece di divenire fonte di gioia e di felicità per chi rimane, si tramutano in un’arma di odio che ingenera rancori sordi e incomprensioni difficilmente sanabili. Meglio non avere nulla – dice la saggezza popolare. Meglio davvero.

(Fonte: Giulia Galeotti, Piùvoce.net, 27 ottobre 2010)

Mons. Marchetto come il vescovo Romero e don Milani?

Monsignor Agostino Marchetto martire quasi come il vescovo Romero, ammazzato in Salvador dagli squadroni della morte. L’ex segretario del Pontificio consiglio per i migranti, il protagonista delle note accuse al governo, dalle quali più volte il Vaticano aveva preso le distanze, è stato accostato ai preti uccisi dalla mafia, come don Puglisi, o a «profeti» emarginati dall’autorità ecclesiastica come don Milani. Se le parole hanno ancora un senso, non si può non restare stupiti dai contenuti di un articolo pubblicato su migrantitorino.it, il sito web dell’Ufficio per la pastorale dei migranti della diocesi di Torino, che recensendo un libro di Marchetto (Chiesa e migranti. La mia battaglia per una sola famiglia umana, intervista di Marco Roncalli, La Scuola Editrice, 158 pagine, 9 euro), ha accostato la vicenda del prelato dimissionario a quella di preti e vescovi che hanno versato il loro sangue per il Vangelo. Come si ricorderà, lo scorso settembre Papa Ratzinger accettava dimissioni di Marchetto al compimento dei 70 anni. Era stato lo stesso arcivescovo, nel 2009, dopo che per due volte il portavoce vaticano padre Lombardi aveva preso le distanze dalle sue parole, a presentare la rinuncia. Una rinuncia accolta prontamente un anno dopo, lo stesso giorno del compleanno. Ora l’arcivescovo ha sintetizzato il suo impegno sul fronte immigrati nel libro intervista con Marco Roncalli, fresco di stampa, rivelando, tra l’altro, che un documento vaticano su questo argomento è in gestazione da otto anni. E nel recensire il volume, il sito dell’ufficio diocesano di Torino, citando un anonimo redattore di una nota rivista missionaria, ha scritto: «I tempi della Chiesa sono lunghi, si sa. Alcuni tempi non sono di questo mondo. Se (Marchetto) fosse stato un vescovo nel Centro America negli anni 80, lo avrebbero fatto fuori come mons. Romero, che cercava di dare voce ai poveri de El Salvador e gli hanno sparato mentre diceva messa. Il richiamo non è azzardato. In certi parti d’Italia, lo scenario italiano è parimenti truce a quello centroamericano, se ricordiamo la tragica storia di don Puglisi, assassinato dalla mafia. A Roma, invece, i metodi sono decisamente più soft, a base di comunicati sottili, di silenzi e di gesti simbolici ma che centrano egualmente il fraterno bersaglio. Il fuoco amico non colpisce di fronte. Basta ricordare gli ultimi profeti, i don Mazzolari e i don Milani». Il paragone, a mio modesto avviso è un tantino azzardato. Ovviamente monsignor Marchetto non c’entra nulla con questa recensione, e non credo si senta poi così a suo agio con questo accostamento.

(Fonte: Andrea Tornielli, Sacri Palazzi, 24 ottobre 2010)

Belgio: Università di Lovanio l’apostata

Mentre uno dei collegi tra i più esclusivi del mondo, il collegio cardinalizio, si riassesta e riorganizza al proprio interno con 24 nuove entrate tra le quali, a sorpresa, non figurano i nomi di due arcivescovi in sedi d’eccezione – Giuseppe Betori di Firenze e Braulio Rodríguez Plaza di Toledo –, una delle più prestigiose istituzioni cattoliche d’Europa, l’antica Università di Lovanio, sembra voler cedere definitivamente il passo al mondo, al secolo, alla cultura laicista votata all’espulsione della cattolicità dal discorso pubblico. E’ di queste ore la notizia che il rettore del nobile ateneo, Mark Waer, ha detto d’essere intenzionato a espungere una volta per tutte l’aggettivo “cattolica” dalla denominazione dell’università. Si tratta di un requiem clamoroso per una dizione un tempo simbolo di un mondo del quale andare fieri, un addio che assume contorni bizzarri se si leggono le motivazioni che spingono a questo storico passo. Sul banco degli accusati ci sono Roma, il Papa, la curia romana, la sua funzione di watchdog della dottrina cattolica. A detta di Waer, Roma ha superato ogni decenza, ogni limite del consentito. Primo: predica bene ma razzola male, come gli scandali della pedofilia nel clero sembrano dire. Secondo: è retrograda, reazionaria, chiusa, come le critiche al Nobel per la medicina, il “papà” della fecondazione in vitro, Robert Edwards, dimostrano.
La Conferenza episcopale belga sembra inerte di fronte alla proposta di Waer. Anche l’arcivescovo conservatore di Malines-Bruxelles e primate del Belgio, André-Joseph Léonard, sembra potere poco o nulla contro quello che la scorsa primavera, davanti alla Pontificia commissione biblica, Benedetto XVI ha definito come l’emergere di una nuova dittatura, “la dittatura del conformismo”. Ha detto: “C’è un conformismo per cui diventa obbligatorio pensare come pensano tutti, agire come agiscono tutti”. E ancora: “La sottile aggressione contro la chiesa, o anche meno sottile, dimostrano come questo conformismo può realmente essere una vera dittatura”. Del resto, molto poco Léonard aveva potuto fare anche contro un altro clamoroso sfondamento della cultura secolarista all’interno della cattolicità: lo sventramento da parte della polizia belga della tomba del prestigioso cardinale Léon-Joseph Suenens alla ricerca di carte segrete che volevano inchiodare “il grande orco”, l’ex primate del Belgio Godfried Danneels ritenuto colpevole di aver offerto copertura a preti pedofili. Fu il primo gesto clamoroso che dimostrò anche una certa arrendevolezza della chiesa. Una chiesa abbandonata a se stessa, a paure un tempo ritenute di poco conto. Léonard, allora, provò ad alzare la voce dicendo che le incursioni della polizia erano scene degne del “Codice da Vinci”.
Ma insieme disse, diplomaticamente, che “la giustizia deve fare il suo corso”. Sono decenni che Lovanio non ha pace. Fondata nel 1425 da Papa Martino V, è stata punto di riferimento dell’intellighenzia cattolica europea. Dopo il Vaticano I venti nuovi l’hanno attraversata, fino all’espulsione della sezione francofona, forzatamente trasferita a Louvain-la-Neuve con l’avallo dei vescovi del paese. Nella vecchia Lovanio l’ala fiamminga ha promosso dottrine incompatibili, soprattutto in campo biomedico, con la morale cattolica. C’è anche chi ha cercato di proporre la legittimità, ai sensi canonici, delle coppie gay. Il tutto con il silenzio delle gerarchie. Stante così le cose espungere l’aggettivo “cattolico” altro non sarebbe che prendere atto di un dato di fatto: Lovanio cattolica non lo è più. Della cosa se n’era accorto, anni fa, anche monsignor Edouard Massaux, “rettore di ferro” di Lovanio fino al 1986. Pochi giorni prima di morire disse: “Rifiuto e proibisco formalmente la presenza ai funerali di una delegazione ufficiale dell’Università di Lovanio che dopo il mio ritiro ha pubblicamente ritenuto di dover prendere le distanze dall’istituzione della chiesa”. Così, tempo addietro Massaux. E oggi? Un colpo, prima o poi, potrebbe venire direttamente da Roma, dalla curia romana, oggi la grande nemica della nuova Lovanio.

(Fonte: Paolo Rodari, Il Foglio, 21 ottobre 2010)

martedì 26 ottobre 2010

Il fascino quotidiano del bene

Lo straordinario successo che sta avendo il film di Xavier Beauvois sui monaci di Tibhirine merita forse qualche considerazione che scavi un po’ in profondità sulle ragioni di un’accoglienza così favorevole. Come mai la critica è rimasta subito colpita e ora gli spettatori - artefici di un passaparola che dilata gli echi positivi che si rincorrono ovunque, a partire dalla laicissima Francia, avamposto delle proiezioni per il grande pubblico - paiono commossi e affascinati? Penso che un elemento tutt’altro che secondario sia stata la capacità del regista di mostrare che una vocazione rara e particolare come quella monastica - vissuta da una esigua porzione dei credenti che professano una fede a sua volta non più maggioritaria - sia in realtà una scelta umanissima, fatta di gesti quotidiani, di limiti e di paure, di ritmi e vicende addirittura quasi banali, di non apparizione, di quotidianità ripetitiva. E sia una scelta operata da persone normalissime, magari profondamente diverse tra loro per cultura, formazione, sensibilità, ceto sociale: persone nelle quali ciascuno si può riconoscere, a prescindere dalla condivisione della medesima fede. Il monachesimo, nelle sue espressioni più genuine, è sempre stato una scelta di controcultura, di volontaria e libera marginalità: non nel senso di un’opzione elitaria, di un consesso esclusivo di puri e duri, ma nel suo voler cercare il senso di ciò che si vive, nell’anelare a tradurre in scelte quotidiane nella loro ordinarietà le convinzioni più profonde che lo animano, nel non lasciarsi condizionare dai comportamenti della maggioranza quando questi si discostassero dalle esigenze evangeliche.
Un fenomeno marginale, dunque, sovente periferico persino rispetto alla chiesa stessa - non si dimentichi la sua natura fondamentalmente non clericale - ma non autoescludentesi: un modo «altro» per essere al cuore dell’umanità, là dove pulsano le energie vitali di ogni convivenza. Oggi, in una società in cui dimensioni come il silenzio, l’interiorità, la discrezione, la condivisione, l’obbedienza a istanze etiche, la ricerca della pace e della solidarietà paiono ignorate se non addirittura irrise, la semplice vita quotidiana di un pugno di uomini può destare nei cuori di chi li incontra - anche solo attraverso lo strumento della finzione cinematografica - una spontanea «simpatia», può richiamare alla memoria desideri sopiti, aneliti a una vita più umana e pacata. Nel devastante dominio dell’apparire, della ricerca ossessiva dell’interesse personale a scapito degli altri e della collettività, della soddisfazione degli impulsi più incontrollati può suonare come una salutare boccata d’aria fresca la semplice testimonianza di chi liberamente decide di tener conto degli altri nel proprio comportamento, di chi accetta di condividere i doni - materiali come intellettuali e spirituali - che possiede, di chi affronta la sofferenza, il dolore e la morte come parti integranti di una vita che vale la pena di essere vissuta. Sovente nasce così una paradossale «simpatia» verso chi si comporta in modo tanto diverso da noi: il suo semplice restare lì, fedele nel poco, fa sorgere una nostalgia profonda per i piccoli gesti quotidiani, il ricordo di come a volte basta uno sguardo, un tocco delicato, una parola sommessa, un pasto preparato con cura per farci riscoprire la grandezza delle nostre vite, l’umile bellezza di vivere non solo gli uni accanto agli altri, ma gli uni con gli altri, solidali nel condividere la comune umanità. Non abbiamo forse bisogno - oggi come sempre, e forse più che mai - di riscoprire l’antico senso della fedeltà alla parola data, dell’onorare gli impegni assunti, dell’alimentare incessantemente di senso i gesti più banali che compiamo ogni giorno per sottrarli all’asfissiante monotonia della routine? Apparentemente saldezza e perseveranza non godono oggi di molto credito eppure, se ci interroghiamo in sincerità, cos’altro ci attendiamo dalle persone che ci stanno accanto? Cos’altro desideriamo se non che le persone amate restino fedeli a se stesse e a noi nel mutare di eventi e stagioni? Forse ci manca la consapevolezza che affinché questo sia possibile è necessaria una dinamica molto più profonda della volubilità cui siamo abituati, dell’affannoso rincorrere nuove prospettive, dell’infantile inseguire l’ultima emozione di un momento: la fedeltà infatti esige una capacità di mutare atteggiamento, di adattarsi alle situazioni che cambiano, di adeguarsi all’altro che accanto a me cresce, cambia, lavora, riposa, soffre, si rallegra, invecchia, muore, in una parola: vive. Credo sia proprio questo uno dei messaggi più eloquenti di «Uomini di Dio», un messaggio non riservato ai monaci né ai cristiani o ai credenti: aver saputo mostrare la quotidianità del bene, le normali umanissime potenzialità che ciascuno di noi porta in sé, la capacità di amare e di essere amati senza calcoli, la possibilità di vivere con dignità anche nell’angoscia e nella paura, il faticoso discernimento su come affrontare situazioni drammatiche, cercando non come venirne fuori a tutti i costi, ma piuttosto come poterle attraversare tutti insieme.

(Fonte: Enzo Bianchi, La Stampa, 24 ottobre 2010)

giovedì 21 ottobre 2010

A servizio della Chiesa, sotto la guida di Pietro

Si direbbe che Mons. Bernard Fellay sia diventato particolarmente loquace negli ultimi tempi: non passa mese che non rilasci qualche intervista. Secondo me fa bene: si tratta di una strategia comunicativa efficace per attirare l’attenzione dell’opinione pubblica. Se non altro, è meglio che parli lui, che per lo meno riesce a mantenere sempre un tono equilibrato, piuttosto che i suoi collaboratori, che ogniqualvolta aprono bocca combinano qualche pasticcio.
Anche nell’ultima intervista, rilasciata a Nouvelles de Chrétienté di settembre-ottobre 2010 (tradizione italiana su DICI), il Superiore generale della FSSPX conferma la sua saggezza e le sue doti diplomatiche. Quando, per esempio, viene interrogato sulle possibili soluzioni all’attuale crisi della Chiesa, risponde che, pur non escludendo una eventuale — “miracolosa” — soluzione istantanea, la via normale non può che essere una soluzione graduale, dimostrando cosí un realismo raro fra i suoi seguaci.
Concordo pienamente con lui, quando indica gli strumenti per il superamento della crisi (nomine episcopali; riforma dell’insegnamento nelle università pontificie; formazione dei sacerdoti nei seminari). Mi permetto di essere, in questo caso, un po’ piú pessimista di lui, che pensa che siano sufficienti dieci anni per raddrizzare la situazione. Non è facile intervenire nei settori da lui indicati. Non è da oggi che si cerca di farlo: Giovanni Paolo II ha impiegato tutto il suo lungo pontificato per dare vita a una nuova generazione di Vescovi. Con quale risultato? Anche ai nostri giorni, tutte le volte che il Papa cerca di toccare certe situazioni, vediamo che cosa succede. Le università pontificie: non sarà facile avviare un nuovo corso, dal momento che le nuove leve vengono formate da quegli stessi professori che si vorrebbe rimpiazzare. Lo stesso dicasi dei seminari, dove i formatori piú tradizionali sono costretti a fare i conti con l’ambiente circostante, per lo piú refrattario a qualsiasi tentativo di “disciplinamento”.
La parte che mi sembra piú interessante nell’intervista è quella centrale, dove si chiede a Mons. Fellay un giudizio sulla conferenza di Mons. Guido Pozzo, Segretario della Pontificia Commissione “Ecclesia Dei”, del 2 luglio 2010 (potete leggerne sul sito della Fraternità San Pietro, a cui la conferenza era rivolta). Mons. Fellay risponde:
«Questa conferenza è l’applicazione molto logica dei principi enunciati nel dicembre del 2005 da Benedetto XVI. Essa ci fornisce una presentazione dell’ecumenismo passabilmente differente da quella che abbiamo ascoltata per quarant’anni… una presentazione mescolata ai principi eterni sull’unicità della Chiesa e sulla sua perfezione unica, sull’esclusività della salvezza. In questo si vede bene un tentativo di salvare l’insegnamento di sempre e contemporaneamente un Concilio rivisitato alla luce tradizionale».
Vede Mons. Fellay che è possibile dare un’interpretazione “cattolica” del Vaticano II? Che non è necessario rifiutare il Concilio per continuare a dirsi cattolici? Monsignore dovrà convenire che la strada indicata da Benedetto XVI, nel suo discorso alla Curia Romana del 2005, è l’unica percorribile; non ci sono alternative, se si vuole venir fuori dall’impasse in cui si trova la Chiesa attuale; non è pensabile che la Chiesa possa “abolire” un Concilio. Mons. Fellay trova, se non pienamente condivisibile, per lo meno “interessante” questa “versione rivista” del Concilio:
«È interessante, nel senso che ci si presenta un nuovo Vaticano II, un Concilio che in effetti non abbiamo mai conosciuto e che si distingue da quello che è stato presentato negli ultimi quarant’anni. Una sorta di nuova pelle! È interessante soprattutto per il fatto che vi si trova condannata con molta forza la tendenza ultra-moderna. Ci si presenta una sorta di Concilio moderato o temperato».
Tutto bene, dunque? No, perché i lefebvriani possono accettare questa nuova interpretazione del Concilio solo come primo passo verso un ritorno sic et simpliciter al pre-Concilio. Per esempio, a proposito dell’ecumenismo, Mons. Fellay afferma:
«Il miscuglio, quantunque interessante, lascia ancora aperte delle questioni di logica sul ruolo che giuocano le altre confessioni cristiane… chiamate, fino a Pio XII incluso, “false religioni”. Si oserà usare finalmente questi termini di nuovo?».
Mi chiedo: che bisogno c’è di tornare a un certo tipo di linguaggio, quando i principi sono chiari? Se c’è una utilità del Concilio, che mi sembra difficile mettere in discussione, è proprio il suo approccio pastorale, tendente, in questo caso specifico, a eliminare certe espressioni di cui non si capisce l’opportunità ai nostri giorni. Possibile che Mons. Fellay non comprenda che possiamo essere autenticamente cattolici, senza dovere necessariamente apostrofare i nostri fratelli acattolici come seguaci di “false religioni” (espressione oltretutto falsa, se applicata a chi appartiene all’unica religione cristiana).
L’altro punto di divergenza sta nella individuazione delle cause dell’attuale crisi della Chiesa:
«Diciamo che una buona parte dei nostri attacchi si vede giustificata, una buona parte di ciò che noi condanniamo viene condannata. Ma se la cosa è condannata, resta la grande divergenza sulle cause. Poiché in definitiva se a proposito del Concilio è stato possibile un tale disorientamento degli spiriti, e a un tale livello, e di una tale ampiezza… ci sarà bene una causa proporzionata! Se a proposito dei testi del Concilio si constata una tale divergenza d’interpretazione, bisognerà bene un giorno convenire che le deficienze di questi testi vi svolgono una parte non da poco».
Certo, prima o poi, un discorso sui testi del Concilio e la loro corretta interpretazione, come chiede Mons. Gherardini, bisognerà pur farlo. Ma mi sembra troppo semplicistica l’analisi di Mons. Fellay: se i testi conciliari hanno prodotto interpretazioni cosí divergenti, significa che quei testi sono in sé stessi deficienti, e vanno perciò corretti. Ragionando in tal modo, si dovrebbe correggere anche il Vangelo, visto che ha dato origine a… tante eresie. Se un testo è passibile di molteplici interpretazioni (e qualsiasi testo lo è), non per questo diventa manchevole; l’importante è darne l’interpretazione corretta. Proprio per questo esiste nella Chiesa un Magistero che ci accompagna in tale sforzo ermeneutico. Che bisogno ce ne sarebbe se tutti i testi su cui si fonda la nostra fede fossero chiari in sé stessi?
Io mi vado sempre più convincendo che i documenti conciliari sono il “massimo” che il Vaticano II poteva produrre; non possiamo chiedergli di piú. Che cosa voglio dire? Voglio dire che il Concilio Vaticano II va “storicizzato”, va inserito nel contesto storico in cui si è svolto; esso non può essere valutato con i criteri odierni. Spesso affermiamo (mi ci metto dentro io per primo) che il Concilio ha provocato la crisi della Chiesa; ormai sono giunto alla conclusione che il Concilio non è la causa, ma l’effetto della crisi. La crisi, nella Chiesa, già esisteva; essa ha radici assai profonde; bisogna andare indietro nei decenni e forse nei secoli. Per lungo tempo si è cercato di arginarla con vari interventi (si pensi alla condanna del modernismo di cento — diconsi cento! — anni fa); ma a un certo punto ciò non è stato piú possibile. In un momento di relativa (forse meglio sarebbe dire: apparente) tranquillità, un Papa pensò bene di dare voce a questo malessere diffuso nella Chiesa; e ne venne fuori il Vaticano II. Se si fosse lasciata mano libera all’ala progressista, ora non saremmo qui a discutere, dal momento che la Chiesa già oggi sarebbe solo un ricordo del passato. Il Concilio riuscí a mediare fra le diverse posizioni e a raggiungere un punto di equilibrio (di qui l’ambiguità di certi testi: solo cosí potevano essere accettati da tutti). Ovviamente dopo il Concilio, l’ala progressista, che era rimasta delusa dalle conclusioni ufficiali del Concilio, tentò di imporre le sue vedute tirando in ballo lo “spirito del Concilio”. Non si può negare che tale tendenza abbia fatto strada nella Chiesa, conquistando posizioni ragguardevoli (fra i Vescovi, nelle università pontificie e nei seminari, appunto). Per fortuna è rimasta sempre la ferma mano di Pietro a guidare la Chiesa e a interpretare correttamente il Concilio (l’interpretazione “cattolica” del Vaticano II non è una invenzione di Mons. Pozzo o di Benedetto XVI, ma è quella che è stata sempre praticata dai Papi in questi anni). Questo i lefebvriani non lo hanno mai capito: hanno pensato che il Papa fosse passato dall’altra parte; e, invece di aiutarlo, hanno cominciato ad attaccarlo. Ora pensano che la storia stia dando loro ragione; che la Chiesa sia salva grazie a loro. No, cari fratelli, la Chiesa è salva grazie alla roccia di Pietro e a tutti quei semplici fedeli che in questi anni, nel silenzio e nell’obbedienza, non si sono mai staccati da quella roccia.
Alla fine dell’intervista viene chiesto a Mons. Fellay «quale ruolo possono svolgere i fedeli legati alla Tradizione in quest’opera di restaurazione». Se mi è permesso rispondere al suo posto, vorrei dire che essi possono svolgere un ruolo fondamentale. A una condizione: a condizione che smettano di pensare a una Chiesa ideale, che esiste solo nelle loro menti, e pongano le loro energie a servizio della Chiesa reale, cosí com’è, con tutti i problemi che essa vive, sotto la guida di colui al quale, solo, è stato affidato il timone della Chiesa.

(Fonte: Querculanus, Senza peli sulla lingua, 20 ottobre 2010)