giovedì 25 settembre 2014

Giustizia e misericordia. Una critica al libro del Card. Kasper

In un recente articolo apparso in www.chiesa il Padre Serafino Lanzetta manifesta alcune osservazioni critiche al libro del Card. Kasper “Misericordia. Concetto fondamentale del Vangelo – Chiave della vita”.
Dato che il libro di Kasper tocca alcuni temi teologici e morali di grande importanza e attualità, ho ritenuto bene riprendere e sviluppare le sagge annotazioni dell’illustre teologo francescano.
Innanzitutto dobbiamo condividere l’idea di Kasper che il tema della divina misericordia è una grande medicina per guarire dall’ateismo, ma non per il motivo addotto da Kasper, secondo il quale Dio non castiga ma usa solo misericordia, per cui, dopo Auschwitz, dovremmo abbandonare l’idea di un Dio che punisce.
In realtà, l’idea di Kasper è sbagliata, perché nella Scrittura l’attributo divino della giustizia punitiva è evidentissimo. Si tratta solo di intenderlo nel senso giusto, non come azione divina positiva tesa a recare pena o dolore al reo, ma si tratta di un’espressione metaforica presa dalla comune condotta umana, per significare il fatto che è il peccatore stesso col suo peccato a tirarsi addosso la punizione, così come per esempio chi eccede nel bere è “punito” con la cirrosi epatica. Questo è chiarissimo nella Bibbia. La morte non è qualcosa che consegue al peccato per un irrazionale o casuale intervento divino, ma è la conseguenza logica e necessaria del peccato, così come chi ingerisce un veleno necessariamente muore.
Kasper poi loda Lutero per il fatto che questi nel passo della Lettera ai Romani dove Paolo parla della “giustizia divina” (3,21), non intende la giustizia punitiva, ma l’azione misericordiosa di Dio, per la quale noi siamo “giustificati gratuitamente per la sua grazia” (v.24), “per mezzo della fede in Gesù” (v.22). 
Giustissimo, senonché però non sempre nella Bibbia la giustizia divina ha questo senso, ma in molti altri luoghi appare chiaramente come giustizia punitiva, anche se nel senso suddetto. Del resto è ben noto quanto Lutero manteneva il concetto della punizione divina, ammettendo, con la tradizione cattolica, l’esistenza del diavolo e di dannati nell’inferno.
In base a ciò, dobbiamo dire che è falsa l’affermazione di Kasper secondo la quale, con l’avvento di Cristo, “Dio ha messo definitivamente a tacere la propria ira e ha fatto spazio al suo amore e alla sua misericordia” (p. 103). Sono infatti notissimi tutti gli insegnamenti di Cristo circa l’esistenza dei dannati[1] e i passi nei quali Egli redarguisce con molta severità suoi avversari.
Indubbiamente c’è da ricordare che l’“ira divina” è un’espressione metaforica per esprimere appunto la giustizia divina. È infatti evidente che in Dio, purissimo Spirito, non esistono passioni e emozioni. L’ira divina è semplicemente la condizione penosa del peccatore privo della grazia e nemico di Dio. Dio non è nemico di nessuno. Egli, come dice S. Agostino, non ti abbandona, se non sei tu ad abbandonarLo.
La distinzione in Dio fra giustizia e misericordia non si fonda sull’essenza divina, né è proprietà necessaria di tale essenza, ma suppone l’esistenza del mondo, che Dio, se avesse voluto, poteva anche non creare. Infatti, mentre la misericordia è atto dell’amore gratuito di Dio per l’uomo peccatore, per cui questi viene da Dio indotto al pentimento e una volta pentito viene perdonato, sicchè, avendo recuperato la grazia, può compiere opere meritorie per la salvezza, la giustizia divina, come ho già detto, non è un atto positivo di Dio, ma è la giusta e logica conseguenza del peccato.
In questa luce e in questo senso la Bibbia dice che Dio premia i buoni e castiga i malvagi, confermando un’insopprimibile esigenza universale della coscienza morale naturale di ogni uomo onesto e leale. Diversamente, che senso avrebbero gli ordinamenti e gli istituti penali dello Stato e della Chiesa? Ci sarebbe la legge della giungla, dove il forte si mangia il debole e ciascuno non farebbe altro che voler prevalere sugli altri.
Se Dio non punisse i malvagi sarebbe ingiusto, anche se è vero che Egli mostra il suo amore facendo misericordia. Tuttavia la vera misericordia non si attua a scapito della giustizia, ma operando, come dice giustamente Padre Serafino, meglio e al di sopra della giustizia, che comunque va sempre rispettata. Se un peccatore è perdonato e non è punito, ciò non è ingiusto, ma è un’opera divina.
Non si deve opporre l’amore alla giustizia. Esiste infatti e deve esistere un amore per la giustizia. La punizione o l’uso della forza in se stessi non sono peccato, ma lo sono quando la pena è ingiusta, o troppo mite o troppo severa, e quando si usa la forza non in difesa del bene, ma per fare il male. Occorre dunque odiare l’ingiustizia e praticare la giustizia imitando la stessa giustizia divina.
L’impassibilità divina, come giustamente osserva P. Serafino, non è non so quale freddezza o durezza di cuore, ma significa semplicemente l’inviolabilità della natura divina e il fatto che non può essere privata di nulla e nulla le può mancare.
L’idea di un Dio solo misericordioso, che non punisce nessuno, non solo non risolve il problema dell’ateismo, ma lo esaspera. Infatti, la misericordia come tale allevia la sofferenza e solleva dalla miseria, le quali invece, in linea di principio, anche se non caso per caso, sono alla lontana, anche negli innocenti e nei santi, castigo del peccato originale e forse anche dei peccati personali o di quelli di coloro che ci fanno soffrire. 
Ebbene, se dovesse restare solo la misericordia senza la giustizia, allora tutte le pene di questa vita dovrebbero essere effetto della misericordia divina, cosa evidentemente assurda, che ci farebbe sentire beffati da un Dio di tal fatta. E’ vero che se viviamo le nostre pene quotidiane in unione a Cristo crocifisso, sperimentiamo la misericordia divina, non però per un’assurda confusione tra punizione e misericordia, ma perché in Cristo possiamo espiare le nostre colpe per puro dono della divina misericordia.
È ovvio che la tragedia di Auschwitz conduce a chiederci che ne fu allora dell’onnipotenza e della bontà divine. Perché Dio non è intervenuto o non ha impedito? Se ammettiamo la Scrittura come Parola di Dio, l’unica risposta ci viene dalla fede: perché Dio ha voluto invitare il suo Popolo a partecipare ai dolori del Messia. 
L’invito di Kasper alla speranza che simili cose non si ripetano più è giusto, ma intanto il credente non deve spiegare solo il futuro, ma anche il passato e il presente e fuori di Cristo non c’è spiegazione al mistero del male, del peccato e della sofferenza.
Quanto poi sostiene Kasper secondo il quale Kant avrebbe dimostrato l’impossibilità di dimostrare razionalmente l’esistenza di Dio mediante il principio di causalità partendo dalle cose del mondo, è una tesi assolutamente falsa, che contrasta sia con la ragione naturale e ancor più con gli insegnamenti della Chiesa, per esempio col Concilio Vaticano I, basati sulla stessa Sacra Scrittura (Cfr. Rm 1,19-20 e Sap 13,5).
Inoltre, grave calunnia contro la metafisica è l’accusa di Kasper secondo la quale la dottrina metafisica dell’Ipsum Esse, peraltro ricavata da S. Tommaso d’Aquino da Es 3,14, escluderebbe dagli attributi divini la misericordia: tesi falsissima, dato che la misericordia, dal punto di vista metafisico, non è altro che la manifestazione e l’attuazione dell’infinita bontà divina, attributo che la metafisica deduce dal trascendentale del bonum, in quanto sommo analogato della nozione del bene.
Altro grave errore teologico di Kasper è il credere che la misericordia è la proprietà fondamentale di Dio, (p.137), quasi fosse un attributo della sua stessa essenza. E giunge ad affermare che “la misericordia è la perfezione dell’essenza di Dio” (p. 105), come se Dio si dovesse perfezionare nell’esercizio della misericordia. 
Ora, dobbiamo dire che, essendo la misericordia legata all’azione divina nei confronti del mondo e poiché il mondo non fa parte dell’essenza divina, né Dio lo ha creato necessariamente o per essenza, anche la misericordia non entra necessariamente nell’essenza divina, per cui questa non si perfeziona affatto, in quanto Dio, essendo già di per sé perfezione infinita, non ha assolutamente bisogno di perfezionarsi o di essere perfezionato.
Per quanto poi riguarda la speranza della salvezza, la Bibbia non dice da nessuna parte che dobbiamo sperare la salvezza di tutti, come crede von Balthasar ripreso da Kasper, ma al contrario insegna chiarissimamente che non tutti si salvano, per quanto non sia affatto proibito ma anzi è doveroso pregare per la salvezza dei peccatori, finchè sono in vita. Viceversa io ho il dovere di sperare nella mia salvezza, fondando tale speranza su di un assiduo impegno per la salvezza mia e degli altri.
Kasper non si spinge come per esempio Rahner a dirsi certo che tutti si salvano. La sua tesi è più morbida. Egli ritiene infatti che “Possiamo sperare nella salvezza di tutti, ma di fatto non possiamo sapere se tutti si salveranno” (p. 169). Tale idea non raggiunge però ancora quanto insegnano la Bibbia e il Magistero della Chiesa. Dottrina di fede è invece che non tutti si salvano (Concilio di Trento, Denz.1523 e Concilio di Quierzy dell’853, Denz. 623).
Altro grave errore teologico di Kasper, contrario al dogma cattolico, come lascia intendere Padre Lanzetta, è l’idea di un Dio sofferente. Certo, anche qui possiamo usare la metafora o la comunicazione degli idiomi, in quanto, per esempio, possiamo dire che Dio soffre in Cristo in quanto Cristo è uomo. 
Ma asserire la sofferenza nella natura divina è eresia. Certo Kasper tenta di sfuggire a questa grave conseguenza, ma esce in espressioni contradditorie, che non hanno senso, dicendo che in Dio la sofferenza sarebbe una perfezione e addirittura espressione della sua onnipotenza: “per la Bibbia… la con-sofferenza di Dio non è espressione della sua imperfezione, della sua debolezza e della sua impotenza, ma è espressione della sua onnipotenza… Egli non può quindi essere passivamente e contro la sua volontà colpito dal dolore, però nella sua misericordia si lascia sovranamente e liberamente colpire dal dolore” (pp. 184-185)[2].
Queste posizioni di Kasper, è vero, toccano solo la metafisica, la teologia e il dogma. Di recente si è fatto conoscere un Kasper che, in vista del prossimo sinodo dei vescovi sulla famiglia, a proposito del delicato problema dei divorziati risposati, ha manifestato, in nome della “misericordia”, idee che hanno incontrato opposizioni e critiche nell’ambito dello stesso collegio cardinalizio.
Il mio timore è che le tesi lassiste di Kasper siano la conseguenza delle deviazioni di fondo denunciate da me e da Padre Serafino. Inoltre, insultare la metafisica non è senza conseguenze nel campo della fede, del dogma e della morale. E la vicenda culturale e spirituale del Card.Kasper sembra esserne una prova conturbante ed istruttiva.

[1] Al riguardo mi permetto di segnalare il mio libro L’inferno esiste. La verità negata, Edizioni Fede&Cultura, Verona 2010.
[2] Al riguardo mi permetto di segnalare i miei studi IL MISTERO DELL’IMPASSIBILITA’ DIVINA, Divinitas, 2, 1995, pp.111-167; LA QUESTIONE DELL’IMMUTABILITA’ DIVINA, in Rivista Teologica di Lugano, n.1, marzo 2011, pp.71-93. 
 
(Fonte: P. Giovanni Cavalcoli,OP, Fides Catholica, 20 settembre 2014
 
 
 

Chiesa Battista: ora anche la “Teologia Finocchia”, La Bibbia Gay, e una misteriosa “Confessione di Fede”

Il settimanale delle chiese battiste, metodiste e valdesi Riforma, nel numero del 7 giugno, ci informa che nella chiesa battista di Mottola si è parlato della “teologia queer che vede nell’incarnazione un ‘travestimento’ di Dio, un Dio che è un Dio della Liberazione”.
L’articolo non spiega che cosa sarebbe la teologia queer. Queer è una parola che, nel suo significato più ampio, vuol dire “strano” o “obliquo”, ma nel passato era usato come dispregiativo per “omosessuale”. Un po’ come l’italiano “finocchio”, parola di per sé non negativa indicando un ortaggio con ottime qualità nutritive. Negli Usa, però, questo termine è stato rivendicato proprio da omosessuali più ideologizzati, con una sfumatura più raffinata, che avrebbe qualcosa a che fare con la teoria dei generi, secondo la quale, detto approssimativamente, essere uomo o donna è una questione di influenza ambientale ovvero scelta che non ha nulla a che fare con l’essere fisicamente maschio o femmina. Quanto alla teologia queer, secondo Wikipedia è quella che “cerca di indagare e di esplorare la sessualità umana e le identità di genere (gay, lesbiche, bisex, transessuale, transgender, ecc) e il loro rapporto con Dio”. e “si pone l’obbiettivo di far nascere una riflessione su Dio a partire dal contesto queer”. Mah!
Tra le “conquiste” di questi “teologi” vi è la “bibbia gay”, detta anche la Queen James Version. In inglese la traduzione più nota della Bibbia è nota come King James Version, cioè la versione del Re Giacomo, da James I. Secondo questi “teologi”, il Re Giacomo, che pure ingravidò la moglie almeno dodici volte, aveva anche relazioni sessuali con maschi, e veniva perciò chiamato Queen James, cioè Regina Giacomo. In realtà il nome di Regina deriva da un’accusa politica, secondo la quale il suo predecessore, Elisabetta, aveva governato da re, e lui – troppo debole – da regina. Questa cosiddetta nuova traduzione, è in realtà uguale alla versione del Re Giacomo, con la sola eccezione dei passi dove si condanna, esplicitamente o implicitamente, l’omosessualità. Pertanto, in Genesi 19, dove gli abitanti di Sodoma chiedono a Lot di portare fuori i due angeli “affinché li possiamo conoscere”, il verbo “conoscere”, lo stesso che in tutte le altre circostanze viene indicato per rapporti sessuali del tutto consenzienti, viene “tradotto”, o meglio falsificato, con “stuprare e umiliare”. L’argomento, insomma, sarebbe che gli abitanti di Sodoma sono stati puniti da Dio non perché volevano avere rapporti sessuali con gli angeli ospiti di Lot, ma perché volevano averli in modo non paritario e con la sopraffazione. Ma, salvo pensare che gli angeli non vedessero l’ora di fornicare con i sodomiti, nessuno aveva mai dubitato che il pericolo paventato da Lot era per l’appunto una violenza, peraltro evidentemente omosessuale, con l’ulteriore aggravante di avere come vittime degli ospiti, per di più angeli. Non c’era bisogno di fare una traduzione falsa per questo.
Molto più interessante, per il totale dispregio della verità, è la traduzione del passo di Levitico 18, “Non giacer carnalmente con un maschio: ciò è cosa abominevole”, falsificato con “Non giacere carnalmente con un maschio davanti all’altare di Moloch: ciò è cosa abominevole”. Un goffo tentativo di sostituire la proibizione di rapporti omosessuali con un monito contro l’idolatria. Sarebbe come sostituire “Non rubare” con “Non rubare per poi dare i soldi al tempio di Baal”, o “Non uccidere”, con “Non fare sacrifici umani agli idoli”, e certamente come sostituire “Non commettere adulterio” con “Non praticare la prostituzione sacra”.
Gli stessi trucchetti sono usati anche per gli altri passi che condannano l’omosessualità, ma ciò non soddisfa i curatori della “bibbia gay”, che preannunciano ulteriori falsificazione perché “la Bibbia è ancora piena di affermazioni che vanno contro al principio di eguaglianza e contraddizioni di cui non ci siamo ancora occupati”. Sembra di sentire certi “teologi”, e “teologhe” valdesi. Altro dettaglio interessante: mentre tutti le altre versioni della Bibbia sono presto consultabili su internet, questa si deve comprare.
L’articolo di Riforma si riferisce anche che nella riunione è stato “intenso… il momento in cui è stata recitata la confessione di fede di Bangkok”. Addirittura “recitato”! E pensare che noi, proprio su RIforma siamo stati ferocemente attaccati perché sosteniamo troppo la confessione di fede. E questi addirittura la recitano in un momento intenso. Peccato che non ci sia verso di sapere che cosa sia questa fantomatica confessione di fede di Bangkok, di cui l’unica menzione nell’oceano di internet è proprio nel resoconto della memorabile riunione di Mottola. Poiché queste cose, però, accadevano in una chiesa battista, vale la pena di citare la frase iniziale di quella che è tuttora conosciuta come “la confessione di fede battista”, quella del 1689:
“La Sacra Scrittura è l’unica, bastevole, certa e infallibile regola di ogni conoscenza di salvezza, di fede e obbedienza.”
Sospettiamo che la confessione di Bangkok dica ben altro.
Paolo Castellina chiosa in proposito: “Prima che qualcuno ci dia degli ignoranti, la “Confessione di Fede di Bagkok” è propriamente detta: “Dichiarazione ed Appello di Bagkok” ed è stata prodotta nel 2009 dalla Conferenza Ecumenica Globale su Giustizia per i Dalit” del Consiglio Ecumenico delle Chiese. Con il sottotitolo “Comunità giuste ed inclusive”, essa mira a difendere la dignità dei Dalit. Paria o dalit (o erroneamente intoccabili, ma la traduzione corretta è oppressi) sono definiti i fuori casta nel sistema sociale e religioso induista, includendo anche gli aborigeni indiani e gli stranieri.Gandhi si riferì ai dalit più poveri ed emarginati come agli Harijan, cioè “figli di dio”.Il diffuso termine paria è il singolare della parola paraiyar che sono il gruppo etnico dalit più cospicuo nel Tamil Nadu. Il termine “dalit” (in sanscrito dal significa “spezzare, spaccare, aprire”). Il movimento gay la utilizza strumentalmente per affermare che gli omosessuali sono una casta oppressa la cui dignità ed uguaglianza è da affermare”.
 


 

sabato 20 settembre 2014

Chi vuole la "guerra" al Sinodo

La strategia è chiara: far passare quanti difendono la dottrina tradizionale della Chiesa in fatto di famiglia e matrimonio – vescovi, cardinali, teologi - come “nemici del Papa”, che tramano nell’ombra con strategie senza precedenti, come addirittura un libro in cui riaffermano la validità della visione della Chiesa contro i tentativi di trasformarla in qualcosa di simile a una denominazione protestante. Loschi figuri che vogliono discutere pubblicamente di cose di cui si dovrebbe parlare soltanto durante il Sinodo, e che impongono una discussione soltanto sulla comunione ai divorziati risposati quando il Sinodo dovrebbe occuparsi di tante altre sfide che riguardano la famiglia. 
Ieri avevamo già commentato l’editoriale sul Corriere della Sera di Alberto Melloni, (clicca qui) ma il Corriere insiste, stavolta con Massimo Franco, che cerca di ricostruire ancora più precisamente questo clima da congiura di palazzo contro lo spirito innovatore di papa Francesco. E a dare man forte ci pensa anche La Stampa, che addebita ai cardinali “conservatori” un clima da guerra da cui ovviamente il cardinale Walter Kasper rifugge, lui – si confessa a Vatican Insider – ha posto solo delle questioni, peraltro «in accordo con il Papa»: nessuna volontà di cambiare la dottrina, ci mancherebbe, ma solo domande su come aiutare persone e coppie nei casi complessi.
Ovviamente, ieri giornali, radio, tg ripetevano la parola d’ordine: cardinali escono allo scoperto contro il Papa, e via di questo passo.
Come abbiamo spiegato ieri, la realtà è ben diversa. Ma non solo non c’è alcun attacco al Papa – casomai c’è il tentativo di Melloni e soci di arruolarlo – ma tutta la ricostruzione del dibattito pre-sinodale è palesemente mistificatoria, tesa a dividere i padri sinodali tra una parte cattiva e mentalmente chiusa (i difensori della dottrina, diventata ormai una parolaccia) e una tutta dedita alla misericordia, dentro e fuori la Chiesa. Si ripropone il vecchio schema del Concilio Vaticano II.
Basta però avere un minimo di memoria storica per ricordare che a scatenare un’offensiva sulla comunione ai divorziati risposati e a farlo diventare tema unico del Sinodo sono stati invece proprio Kasper e soci, tanto che questa testata a un certo punto ha sentito il bisogno di proporre una serie di articoli per spiegare continente per continente le vere sfide che la Chiesa deve affrontare in fatto di famiglia. Altro che divorziati risposati, un problema che comunque riguarda una piccola minoranza nei soli paesi occidentali.
Ricordiamo allora brevemente come sono andate le cose. Quando papa Francesco all’inizio di ottobre 2013, ha annunciato il doppio Sinodo (straordinario e ordinario) dedicato alla famiglia, è stato come se il trombettiere avesse suonato la carica: immediatamente esplode il caso della diocesi di Friburgo, dove l’allora arcivescovo nonché presidente della Conferenza episcopale tedesca, Robert Zoellisch, difende un vademecum preparato dalla sua diocesi per accompagnare il cammino spirituale di separati, divorziati e divorziati risposati in cui è previsto un percorso per i divorziati risposati che li porti a riaccostarsi alla Comunione.
Immediata la reazione della Santa Sede: il portavoce padre Federico Lombardi parla di «fuga in avanti» e dice che non c’è alcun cambiamento nella posizione della Chiesa sui divorziati risposati. In Germania la situazione è calda, allora l’Osservatore Romano pubblica il 22 ottobre un intervento – originalmente pubblicato in tedesco alcuni mesi prima - del Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, Gerhard Ludwig Müller, che spiega come il dibattito non significhi che tutto possa essere messo in discussione e che non si può trasformare la misericordia in una sua caricatura. Intervengono allora – con interviste ai giornali - l’appena nominato segretario del Sinodo, Bruno Forte, e il presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia, Vincenzo Paglia, ad affermare che al Sinodo «si parlerà di tutto» e che non possono esserci delle pregiudiziali dottrinali.
È con la pubblicazione del Questionario distribuito a tutte le conferenze episcopali che però si aprono le cataratte. I giornali di tutto il mondo titolano sui cambiamenti dottrinali in materia di famiglia che ormai sono ineluttabili per la Chiesa cattolica. In realtà il questionario riguarda tutti gli aspetti possibili che riguardano la famiglia ed è preceduto da un documento introduttivo che fissa dei paletti dottrinali ben precisi alla discussione. Catechismo della Chiesa cattolica, esortazione apostolica Familiaris Consortio ed enciclica Humanae Vitae – che tanti episcopati non hanno ancora digerito - sono indicate come fonti di sicuro riferimento.
Ma è come se non fosse stato scritto: a dare materiale ai giornali ci pensano (siamo intorno al 10 novembre) anche il cardinale austriaco Christoph Schonborn e il cardinale tedesco Reinhard Marx. Il primo, al termine dei lavori della Conferenza episcopale austriaca afferma che «sul Sinodo ogni questione è aperta»; il secondo attacca invece direttamente Muller affermando che il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Chiesa «non può bloccare la discussione» sui divorziati risposati. E a conferma che il problema non è solo pastorale, ma dottrinale, Marx aggiunge che un gran numero di fedeli non può del tutto comprendere «che una seconda unione non è accettata dalla Chiesa». E a dare seguito a questa affermazione arrivava anche il rifiuto dell’arcivescovo Zollitsch di bloccare le linee guida per la comunione ai divorziati risposati. E anche altri vescovi tedeschi intervengono sulla stessa linea.
Muller replica all’inizio di dicembre, parlando con un giornale tedesco, negando che abbia intenzione di chiudere il dibattito. Ma, ha detto, «l'insegnamento di Cristo e della Chiesa non possono essere oggetto di discussione». E questo perché «il credo religioso non deve essere confuso con un programma di partito, che può essere sviluppato a seconda dei desideri degli appartenenti a quello stesso partito». La responsabilità pastorale, infatti, «deve basarsi sulla dottrina».
Concetti molto semplici, nessuna “guerra” ma difesa di una posizione pesantemente attaccata. Ed è a questo punto che entra in scena anche il cardinale Walter Kasper che all’inizio di dicembre viene intervistato dal settimanale Die Zeit e si dice quasi certo che entro breve tempo le persone divorziate e risposate potranno accedere ai sacramenti. Kasper ribadisce la necessità di «riforme, modifiche e aperture» su certi temi e ha sottolineato che i divorziati risposati devono avere la possibilità di «partecipare pienamente alla vita ecclesiastica». E questo perché «ciò che è possibile a Dio, cioè il perdono, deve valere anche per la Chiesa». Contrariamente a quel che si vuol fare credere oggi, è evidente che la posizione di Kasper e compagnia non ha una prospettiva soltanto pastorale, ma punta diretta al cambiamento della dottrina. 
Muller peraltro diventa un bersaglio costante, c’è un sistematico tentativo di screditarlo che raggiunge il vertice nell’intervento di un altro cardinale, l’honduregno Oscar Rodriguez Maradiaga, che addirittura in una intervista a un giornale tedesco in gennaio sembra prendersi gioco del prefetto dell’ex santo Uffizio: «Penso di capirlo – dice Maradiaga -. È un tedesco, si deve dirlo, è anzitutto un professore di teologia tedesco, nella sua mentalità c'è solo il vero e il falso. Però io dico: fratello mio, il mondo non è così, tu dovresti essere un po' flessibile, quando ascolti altre voci. E quindi non solo ascoltare e dire no». 
Tra gennaio e febbraio inoltre cominciano ad arrivare i questionari dalle varie Chiese locali: nelle intenzioni del Papa sarebbero dovuti restare riservati, e invece gli episcopati di Germania, Svizzera, Austria – fortemente schierati per la comunione ai divorziati risposati – fanno trapelare le risposte che vanno ovviamente in quella direzione. L’obiettivo è chiaro: appellarsi ai questionari per chiedere il cambiamento della dottrina su famiglia e omosessualità. Ed è chiara anche la richiesta di superare la Humanae Vitae, quasi l’enciclica di Paolo VI fosse stata un brutto incidente di percorso.
Finora, a contrastare questa offensiva che gode del grande sostegno della stampa laicista di tutto il mondo, è il solo Muller, peraltro soltanto con gli interventi citati. Qualcosa cambia con il Concistoro del 21 e 22 febbraio, dedicato alla famiglia, nel quale la relazione principale viene dal Papa affidata proprio al cardinale Kasper. Qualcuno la legge come una scelta di campo, ma c'è da dubitarne visto che questo è il Concistoro in cui viene consegnata la porpora cardinalizia a Muller, appena riconfermato alla guida della Congregazione per la Dottrina della Fede.
La relazione di Kasper che, nella parte finale, apre alla possibilità della comunione per i divorziati risposati suscita dure reazioni da parte di altri cardinali e – per quello che è dato sapere – la discussione è stata molto animata. Il fatto che la relazione di Kasper diventi pubblica – è anche stata messa in commercio – fa sì che escano allo scoperto anche alcuni dei suoi critici. Così ecco il cardinale Carlo Caffarra, arcivescovo di Bologna – uno dei “cattivi” che secondo Corriere e Stampa manovra contro il Papa – spiegare in una lunga intervista al Foglio tutti i punti di disaccordo. Altri cardinali a questo punto intervengono nella critica a Kasper. Alla fine, il libro di cui tanto si parla in questi giorni – Permanere nella verità di Cristo, editrice Cantagalli –, che sarebbe un’operazione editoriale senza precedenti, è la raccolta dei loro interventi sull’argomento, altro che macchinazione anti-Papa.
Peraltro non è che si fermi l’offensiva pro-Kasper. E il 21 marzo sull’argomento interviene colui che è stato nominato segretario generale del Sinodo, il neo-cardinale Lorenzo Baldisseri, che mette in soffitta la Familiaris Consortio e sostiene la necessità di «attualizzare la dottrina» in materia di famiglia. Anche perché, spiegherà in aprile al mensile Jesus, non esiste un solo modello di famiglia. 
Si va avanti così fino ad oggi, ed ecco la nuova strategia: si rovescia la realtà e si fa credere che Muller e Caffarra abbiano dichiarato guerra al Papa; e Kasper, nell’intervista di ieri a Vatican Insider, si presenta come un agnellino che i lupi vorrebbero sbranare. 
Un anno fa dicevano che non si doveva bloccare il dibattito, ora cercano di chiudere la bocca a chi non si allinea al loro progressismo. E possiamo stare tranquilli che da qui al 5 ottobre, quando il Sinodo inizierà, ne vedremo ancora delle belle.
 

(Fonte: Riccardo Cascioli, La nuova Bussola Quotidiana,19 settembre 2014)
http://www.lanuovabq.it/it/articoli-chi-vuole-la-guerra-al-sinodo-10367.htm#.VByFBKQ4Grc.facebook

 

giovedì 18 settembre 2014

Esilio a Malta per il cardinale Burke

La “rivoluzione” di Papa Francesco nel governo ecclesiastico non perde la sua spinta propulsiva. E così, come avviene in ogni rivoluzione che si rispetti, continuano a cadere teste di ecclesiastici ritenuti meritevoli di questa metaforica ghigliottina.
Nei suoi primi mesi da vescovo di Roma, papa Bergoglio provvide subito a trasferire a incarichi di minor rango tre personalità curiali di spicco: il cardinale Mauro Piacenza, l'arcivescovo Guido Pozzo e il vescovo Giuseppe Sciacca, considerati per sensibilità teologica e liturgica tra i più “ratzingeriani” della curia romana.
Sembra altrettanto segnata la sorte dell’arcivescovo spagnolo dell’Opus Dei Celso Morga Iruzubieta, segretario della congregazione per il clero, destinato a lasciare Roma per una diocesi iberica non di primissimo piano.
Ma ora sarebbe in arrivo un'ancor più eminente decapitazione.
La prossima vittima sarebbe infatti il porporato statunitense Raymond Leo Burke, che da prefetto del supremo tribunale della segnatura apostolica non sarebbe promosso – come fantasticato da alcuni nel mondo web – alla difficile ma prestigiosa sede di Chicago, bensì declassato al pomposo – ma ecclesiasticamente modestissimo – titolo di “cardinale patrono” del Sovrano Militare Ordine di Malta, subentrando all'attuale titolare Paolo Sardi che ha da poco compiuto 80 anni.
Se confermato, l'esilio di Burke sarebbe ancor più drastico di quello comminato al cardinale Piacenza, il quale, trasferito dalla importante congregazione per il clero alla marginale penitenzieria apostolica, è rimasto comunque alla guida di un dicastero curiale.
Con lo spostamento in arrivo, Burke sarebbe invece estromesso del tutto dalla curia e impiegato in un incarico puramente onorifico e senza alcuna incidenza sul governo della Chiesa universale.
Sarebbe una mossa, questa, che non sembra avere precedenti.
In passato infatti il titolo di “cardinalis patronus” dei cavalieri di Malta, in vigore dal 1961, così come quello precedente di Gran Priore di Roma, è stato sempre assegnato a cardinali di primo o primissimo piano come un incarico in più rispetto a quello principale.
È avvenuto così con i cardinali Mariano Rampolla del Tindaro (nominato Gran Priore nel 1896 restando segretario di Stato), Gaetano Bisleti (al contempo prefetto della congregazione per l’educazione cattolica), Gennaro Granito Pignatelli (cardinale decano e vescovo di Albano), Nicola Canali (governatore della Città del Vaticano), Paolo Giobbe (alla guida della dataria apostolica), Paul-Pierre Philippe (fino al compimento dei 75 anni anche prefetto della congregazione per le Chiese orientali), Sebastiano Baggio (rimosso dalla congregazione per i vescovi ma rimasto governatore della Città del Vaticano e camerlengo), Pio Laghi (fino a 77 anni anche prefetto della congregazione per l’educazione cattolica).
Due casi a sé sono quelli del cardinale Giacomo Violardo, succeduto come patrono all'89enne Giobbe all'età di 71 anni, due mesi dopo aver ricevuto la porpora al termine di un lungo servizio curiale, e dell’uscente Sardi, nominato a 75 anni pro-patrono nel 2009 e creato cardinale nel 2010 dopo essere stato per molti anni il responsabile dell'ufficio che scrive i documenti pontifici.
Oltretutto il pensionamento di Sardi non sarebbe un atto dovuto, visto che per gli incarichi extracuriali non vale il limite degli 80 anni. E infatti, con l’eccezione di Paolo Giobbe, tutti i cardinali patroni sopra citati sono passati a miglior vita “durante munere”.
Burke ha 66 anni ed è quindi ancora nel pieno dell'età. Ordinato sacerdote da Paolo VI nel 1975, ha lavorato alla segnatura apostolica da semplice prete con Giovanni Paolo II, che nel 1993 lo ha fatto vescovo della sua diocesi natale di LaCrosse in Wisconsin. Sempre papa Karol Wojtyla lo ha promosso nel 2003 arcivescovo nella prestigiosa sede, una volta cardinalizia, di St. Louis nel Missouri. Benedetto XVI lo ha richiamato a Roma nel 2008 e lo ha creato cardinale nel 2010.
Personalità molto pia, a lui è riconosciuta anche la rara virtù di non aver mai trafficato per ottenere promozioni o prebende ecclesiastiche.
In campo liturgico e teologico è molto vicino alla sensibilità di Joseph Ratzinger. Ha più volte celebrato secondo il rito antico vestendo anche la “cappa magna”, come d’altronde continuano a fare anche i cardinali George Pell e Antonio Cañizares Llovera senza per questo essere messi in castigo da papa Francesco.
Grande esperto in diritto canonico, e per questo nominato alla segnatura apostolica, non teme di trarne le conseguenze più scomode. Come quando a suon di articoli del Codice – il 915 per la precisione – ha sostenuto l’impossibilità di dare la comunione a quei politici che pertinacemente e pubblicamente sostengono il diritto di aborto, e per questo si è preso i rimbrotti di due colleghi statunitensi valorizzati da papa Francesco, Sean Patrick O’Malley di Boston e Donald Wuerl di Washington.
Libero nei suoi giudizi, è stato tra i pochissimi a svolgere delle notazioni critiche sulla “Evangelii gaudium”, segnalandone, a suo giudizio, il valore programmatico ma non propriamente magisteriale. E in vista del prossimo sinodo dei vescovi ha preso ripetutamente posizione contro le tesi del cardinale Walter Kasper – notoriamente nelle grazie di papa Francesco – favorevoli alla comunione ai divorziati risposati.
Il dicastero presieduto da Burke, eminentemente tecnico, ha di recente accolto un ricorso delle suore francescane dell’Immacolata contro un provvedimento preso nei loro confronti dalla congregazione per i religiosi. Una coraggiosa mossa controcorrente, questa di Burke, che si situa all’interno dell'azione punitiva intrapresa dalla congregazione vaticana contro una delle realtà più corpose del tradizionalismo cattolico, azione che papa Francesco ha avallato approvando in forma specifica la decisione della congregazione di impedire ai frati dell'Immacolata la celebrazione della messa secondo il rito “tridentino”. Solo con questo tipo di approvazione pontificia, infatti, un decreto della curia può contraddire la legge vigente e cioè, nel caso specifico, il motu proprio di Benedetto XVI “Summorum pontificum”.
Difficile individuare tra questi precedenti quelli che possono aver più influito sulla sorte del cardinale Burke.
Ma è facile prevedere che questo suo definitivo declassamento provocherà sia una tumultuosa reazione nel mondo tradizionalista, dove Burke è ritenuto un eroe, sia una corrispettiva ondata di giubilo in quello opposto, dove è invece considerato come uno spauracchio.
Su questo secondo versante si può ricordare che il commentatore cattolico “liberal” Michael Sean Winters, sul “National Catholic Reporter” del 26 novembre 2013, aveva chiesto la testa del cardinale Burke, in quanto membro della congregazione per i vescovi, per la nefasta influenza, a suo dire, che egli esercitava sulle nomine episcopali negli Stati Uniti.
Il 16 dicembre, in effetti, papa Francesco umiliò Burke depennandolo dai membri della congregazione. Tra gli osanna del cattolicesimo “liberal” non solo statunitense.
Il papa non lo fece certo per obbedire ai desiderata del “National Catholic Reporter”.
Ma ora sembra proprio sul punto di dare corso alla seconda e più grave degradazione di una delle più specchiate personalità che la curia vaticana conosca.


(Fonte: Sandro Magister, www.chiesa.it, 17 settembre 2014)
http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1350870

 

«No alla comunione ai divorziati» Cinque cardinali contro le aperture

«Non possumus», la celebre risposta di papa Clemente VII a Enrico VIII, all’origine dello scisma della Chiesa anglicana, quando il Pontefice non assecondò la richiesta di scioglimento di un singolo matrimonio, sia pure reale e nonostante le conseguenze, riecheggia più volte in un volume molto atteso in vista del prossimo Sinodo dei vescovi sulla famiglia. Già il titolo dice tutto: Permanere nella verità di Cristo. Matrimonio e comunione nella Chiesa cattolica. Il libro (esce quasi in contemporanea in Italia, il 1° ottobre, editore Cantagalli, e negli Stati Uniti) riunisce assieme gli scritti di cinque cardinali e di altri quattro studiosi, in risposta a quanto sostenuto nella relazione tenuta da un altro cardinale, Walter Kasper, su incarico di papa Francesco davanti al Concistoro straordinario del 20 e 21 febbraio. Allora, Kasper aveva lanciato un appello affinché la Chiesa armonizzasse «fedeltà e misericordia di Dio nella sua azione pastorale riguardo ai divorziati risposati con rito civile». Un punto focale del Concistoro, voluto da Bergoglio proprio in vista del Sinodo che si sta per aprire ad ottobre sulle «sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione».
Lo scopo del libro è rispondere all’invito di Kasper ad un’ulteriore discussione, ma costituisce una netta chiusura alle sue tesi. Il curatore del testo, Robert Dodaro, preside dell’Istituto patristico Augustinianum di Roma, alla fine della sua introduzione espone le conclusioni unitarie del gruppo: «Gli autori di questo volume sono uniti nel sostenere fermamente che il Nuovo Testamento ci mostra Cristo che proibisce senza ambiguità divorzio e successive nuove nozze sulla base del piano originale di Dio sul matrimonio disposto da Dio in Gen. 1,27 e 2,24».
Poi la contestazione del punto centrale: «La soluzione “misericordiosa” al divorzio sostenuta dal cardinale Kasper non è sconosciuta nella Chiesa antica, ma di fatto nessuno degli autori giunti a noi e che noi consideriamo autorevoli la difende. Anzi, quando la accennano, è piuttosto per condannarla come contraria alla Scrittura. Non c’è niente di sorprendente in questa situazione: gli abusi ci possono essere occasionalmente, ma la loro mera esistenza non garantisce che non siano abusi, tanto meno che siano modelli da seguire».

E infine: «La pratica ortodossa orientale attuale della oikonomia nei casi di divorzio e seconde nozze ha origine per lo più nel secondo millennio, e sorge in risposta alla pressione politica degli imperatori bizantini sulla Chiesa». L’ oikonomia è il modo in cui la Chiesa ortodossa gestisce la situazione dei fedeli divorziati ammettendoli alle seconde nozze religiose dopo un periodo di penitenza (in generale, il termine indica una deviazione discrezionale dalla lettera della legge, per adempiere allo spirito della legge e alla carità).
Come si vede, invece, la chiusura è senza appello. Tanto più forte se si considera che tra gli autori c’è il «Guardiano» dell’ortodossia cattolica, Gerhard Ludwig Müller, cioè il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, nominato da Papa Benedetto XVI, nel 2012, e fatto cardinale nel Concistoro di febbraio. Gli altri sono cardinali Raymond Leo Burke, prefetto della Segnatura apostolica; Walter Brandmüller, presidente emerito del Pontificio Comitato di scienze storiche; Carlo Caffarra, arcivescovo di Bologna e uno dei teologi più vicini a san Giovanni Paolo II sui temi della famiglia e Velasio De Paolis, presidente emerito della prefettura degli affari economici.

Oltre al riferimento al «non possumus», c’è un’altra immagine che ritorna nel volume, quella della donna adultera cui Cristo disse, «va e non peccare più» (Gv 8,11). La misericordia di Dio - scrivono gli autori - non ci dispensa dal seguire i suoi comandamenti. Quindi, il matrimonio civile che segue al divorzio implica una forma di adulterio, e rende moralmente impossibile ricevere l’eucarestia (1 Cor. 11,28), a meno che la coppia non pratichi la continenza sessuale. Queste non sono regole inventate dalla Chiesa - affermano -, esse costituiscono la legge divina e la Chiesa non può cambiarle.

(Fonte: M. Antonietta Calabrò, Corriere della Sera, 17 settembre 2014)
http://www.corriere.it/cronache/14_settembre_17/no-comunione-divorziati-cinque-cardinali-contro-aperture-eb6cd766-3e27-11e4-af68-1b0c172fb9a5.shtml#
 

giovedì 11 settembre 2014

Islam, libertà religiosa e libertà di coscienza

Negli ambienti cattolici, a cominciare, è triste a dirlo, dalle stesse gerarchie ecclesiastiche, regna una grande incapacità di cogliere il duplice attacco in corso contro l’Occidente, fatto oggetto di mire di conquista da parte dell’Islam e roso interiormente dal cancro relativista.
Anche in questi giorni di tremende persecuzioni a danno dei cristiani ad opera del neo-costituito Califfato siro-irakeno, i Pastori della Chiesa, salvo rare eccezioni, si sono purtroppo segnalati per debolezza, inadeguatezza, timidezza. E quando hanno parlato, non hanno saputo uscire da un equivoco concetto di libertà, intesa secondo la dottrina liberale.
Hanno invocato il diritto alla libertà religiosa, lo stesso che consente ai musulmani di impiantare moschee in tutta Europa e di procedere indisturbati alla islamizzazione delle antiche nazioni cristiane. Si è completamente perso il riferimento ad un orizzonte oggettivo di valori, per il quale si possa affermare una sola religione come vera e i diritti dei cristiani e della Chiesa si debbano fondare su questa verità e non sull’istanza relativista e soggettivista dell’ideologia liberale. Se neppure i Pastori rivendicano più la verità esclusiva della religione cattolica e la libertas Ecclesiae quale diritto divino denunciando la violenza islamica come espressione di una falsa religione, si deve amaramente constatare il trionfo dell’ideologia relativista sin dentro i Sacri Palazzi.
Si deve cioè riconoscere che la stessa Chiesa cattolica, nel suo aspetto umano e contingente, è attrice e vittima al medesimo tempo di quel circolo vizioso di cui sopra. E qui si aprirebbe il campo vastissimo di studi sul Concilio Vaticano II, la sua ricezione, la sua ermeneutica. È il tema della libertà religiosa del decreto Dignitatis humanae, se sia la liberale libertà di religione accolta nelle legislazioni occidentali contemporanee ed elevata a diritto umano dalle Carte internazionali, oppure la razionale e cattolica libertà della religione. Si dovrebbe poi precisare cosa si intenda per religione, se una soggettiva credenza oppure la virtù omonima.
Se l’esercizio della religione sia un diritto in virtù della libertà liberale dell’autodeterminazione soggettiva, oppure perché prima di tutto dovere di giustizia verso Dio. Quasi sempre l’impressione che si ricava dalle dichiarazioni dei Pastori è la loro adesione al paradigma liberale e tutto ciò non fa che imprigionare ancor più la Chiesa e, con essa, quella che fu la Cristianità, nel mortifero circolo vizioso tra totalitarismo islamico e relativismo liberale.
Analoga è la risposta cattolica alla dissoluzione interna dell’Occidente visibile nell’imporsi dell’ideologia gender, nella teorizzazione del transumano, nelle legislazioni abortiste, eutanasiche, omosessualiste. Si invoca il «diritto all’obiezione di coscienza» ovvero si fonda la propria risposta, la propria opposizione sul principio liberale di «libertà di coscienza». Così la risposta del mondo cattolico alla dissoluzione è essa stessa interna alla ideologia della dissoluzione: ci si oppone all’esito radicale (coerente) dell’ideologia liberale in nome di quei principi liberali (es. libertà di coscienza, libertà di religione, etc.) che sono alla radice della dissoluzione stessa. Il concetto di «libertà di coscienza», da cui deriva quello di «obiezione di coscienza», appare strutturale tanto nel linguaggio dei Pastori quanto nella così detta cultura cattolica. Potremmo anche dire che è principio cardine! Ciò ai più, cattolici compresi, apparirà a-problematico, anzi scontato.
Tuttavia ci permettiamo, con il massimo rispetto per le nobili intenzioni di tutti, di dubitare, di vagliare criticamente ciò che sembra, ormai, indubitabile e incontestabile: il dogma della libertà di coscienza! È ben vero che la coscienza nel caso concreto è per l’agente morale norma ultima benché non suprema, e che è doveroso seguire la propria coscienza anche quando invincibilmente erronea (e solo quando lo è invincibilmente), ma tutto ciò è ben lontano dal fondare il moderno principio della libertà di coscienza. Ciò per almeno tre ragioni che oppongono per contraddizione la verità classico-cristiana all’idea moderna in tema di coscienza:
1) La coscienza come giudizio della ragione pratica sulla bontà o colpevolezza di un’azione, giudizio come applicazione della legge morale al caso concreto, e non come facoltà o autocoscienza;
2) La funzione conoscitivo-applicativa e non creativa della coscienza;
3) La coscienza come norma prossima della moralità personale e non come norma oggettiva e universale della moralità che deve, invece, informare di sé l’ordinamento giuridico.
Quando si invoca «il diritto alla libertà di coscienza» si compie un indebito passaggio dal piano soggettivo a quello oggettivo, dal foro interno al foro esterno o pubblico. La coscienza ha la capacità di errare contrapponendosi oggettivamente alla giustizia, ma non ne ha il diritto, tutt’al più, se invincibilmente erronea, l’agente morale non sarà moralmente imputabile (lo sarà però eventualmente giuridicamente) per il male scelto. Ancor meno il giudizio di coscienza può pretendere di porsi come norma superiore, in sede di foro pubblico, alla norma giuridica. E vero, piuttosto, il contrario: è la coscienza a dover giudicare conformemente alla norma giuridica la quale deve essere, per essere veramente norma giuridica, conforme alla norma universale e oggettiva della moralità data dalla legge divina, naturale e positiva.
È la legge positiva, ogni singola legge positiva, a dover essere conforme alla legge divina, al diritto naturale e quando ciò non è, il cittadino non è tenuto all’obbedienza per il semplice fatto che quel testo normativo non è né può essere legge ed è propriamente un comando illegittimo e tirannico. Qui non si tratta di obiezione di coscienza ma, piuttosto, obiezione della coscienza ad un comando ingiusto. Non sarà invocato il «diritto all’obiezione di coscienza» fondato sulla «libertà di coscienza», piuttosto sarà denunciata l’ingiustizia della norma e il suo non essere legge, ne sarà pretesa la cancellazione e si riconoscerà come doverosa la resistenza (anche occulta) ad essa. Se la modernità suggerisce un diritto del singolo a non applicare una norma positiva quando giudicata soggettivamente in contrasto con i convincimenti personali in nome della «libertà di coscienza», il pensiero classico-cristiano insegna la necessaria conformità del diritto positivo al diritto naturale, il dovere per il singolo di conformarsi alla legge e il non essere legge di quegli ordini emanati dall’autorità politica in contrasto col diritto naturale.
La cultura cattolica odierna opta decisamente per la suggestione moderna tanto che è sempre più raro un riferimento al diritto naturale, così come è assente il tema dei criteri di legittimità delle leggi positive. Il richiamo ai “diritti umani” e alla “norma internazionale” non ovvia alla mancanza, anzi conferma l’opzione, visto che i diritti umani sanciti dalle Dichiarazioni e Convenzioni internazionali poco o nulla hanno a che fare con i diritti naturali dell’uomo e sono piuttosto espressione coerente (nell’errore) del razionalismo giuridico. Ciò significa accettare acriticamente il giuspositivismo dominante e il relativo indifferentismo etico finendo per sostenere proprio ciò che rende possibile quanto si dice di voler combattere.
Non è, infatti, senza gravi conseguenze una simile opzione, aggravata dalla rivendicata «libertà di coscienza» che “bilancia” l’assoluta arbitrarietà etica del diritto con una altrettanto arbitraria volontà soggettiva dei singoli. Oggi, in campo cattolico, si discute del diritto all’obiezione di coscienza di fronte ad insegnamenti ideologici impartiti a scuola e si fa così della libertà di coscienza il principio su cui fondare la lotta contro l’indottrinamento LGBT. Si invoca, ad es., il diritto dei genitori ad educare secondo le proprie convinzioni magari, facendo obiezione di coscienza quando queste non siano rispecchiate nell’insegnamento scolastico. Facciamo ora un esempio: ipotizziamo una scuola dove l’insegnamento sia conforme al buon senso e alla retta ragione, dove la morale sia insegnata avendo la legge naturale per bussola e una coppia di genitori seguaci dell’ideologia gender.
Coerentemente i sostenitori della libertà di coscienza dovrebbero riconoscere ai genitori il diritto di fare obiezione di coscienza contro la verità e il complementare diritto di indottrinare il figlio secondo l’ideologia LGBT. Il problema, come si vede, è la conformità a verità e bene della legge come dell’insegnamento, non la libertà di coscienza! Porre a cardine il principio della libertà di coscienza porta, ad esempio, a legittimare quel preteso «diritto all’autodeterminazione» che regge tutto il processo di dissoluzione. Come infatti giustificare un ordinamento che proibisca il suicidio o l’eutanasia volontaria quando si deve rispettare e promuovere, per principio, la libertà di agire secondo la propria coscienza? Quando un cittadino riterrà in coscienza di non voler più vivere rivendicherà tale diritto in nome della libertà di coscienza. E coerentemente non glielo si potrà negare! La libertà di coscienza, rispetto alle credenze più varie e soggettive, si dà quale libertà di religione, con tutto ciò che ne consegue in termini di dissoluzione della civiltà cristiana e di “disarmo” intellettuale di fronte alla pretesa egemonica dell’islam.
C’è poi la questione della laicità della democrazia, anch’essa traduzione dell’assioma liberale, e l’ambigua contrapposizione tra laicità e laicismo, l’una benedetta, l’altro negativamente giudicato. Il tema, in verità, non è così facilmente e schematicamente liquidabile; cosa sia sana laicità e cosa laicismo è non facile da dirsi. Che poi quella che viene chiamata sana laicità sia veramente cosa sana è tutto da dimostrare. Ascoltando autorevoli Pastori e la generale convinzione in campo cattolico, sembrerebbe essere il modello liberale di laicità debole-inclusiva sul modello statunitense ciò che è chiamato laicità mentre il laicismo sarebbe la laicità forte alla francese.
Ebbene, siamo proprio sicuri che il modello di laicità e libertà religiosa proprio del liberalismo anglosassone sia cosa sana? Ricordiamo che tale modello si caratterizza per l’indifferentismo dello Stato e il più spinto relativismo, dove tutto e il contrario di tutto è posto su uno stesso piano di diritto, la verità e l’errore, il bene e il male.
Veramente il male in senso forte è posto sullo stesso piano di diritto del bene se è notizia di questi mesi che è stata autorizzata, in nome della libertà religiosa, l’edificazione di un monumento a Satana da erigere nella piazza principale di Oklahoma City. Il Satanic Temple, setta satanica riconosciuta e tutelata dal diritto USA, lo ha chiesto in nome della libertà religiosa! Non si dimentichi poi che negli USA, faro e modello di sana laicità e libertà religiosa, «i veri adoratori del Diavolo, coloro che venerano la figura biblica, immagine metafisica del male, sono presenti (…) dove varie chiese sataniche hanno un riconoscimento ufficiale ed hanno i loro cappellani militari all’interno dell’esercito americano» (C. Gatto Trocchi, Occultismo, esoterismo, magia, satanismo. Analisi antropologica, p. 5) e tutto ciò in nome della libertà religiosa. E sempre la sana laicità anglosassone è quella che più facilmente offre all’islam di mettere radici, costituire comunità autoreferenziali, dare vita a vere e proprie istituzioni islamiche (rette dalla sharia) in terra d’Occidente.
La confusione sotto il cielo d’Occidente è grande, i nemici temibili, i fronti aperti più d’uno, il gregge disorientato e disperso, i Pastori quasi tutti «all’osteria a discutere di pastorizia» (card. Giacomo Biffi) mentre i lupi circondano l’ovile e sbranano gli agnelli. ()

(Fonte: Christian De Benedetto, Corrispondenza Romana, 10 settembre 2014)
http://www.corrispondenzaromana.it/islam-liberta-religiosa-e-liberta-di-coscienza/

Stop al business delle pergamene: le gestirà solo il Vaticano per dare il ricavato ai poveri

Stop alle pergamene con  le benedizioni papali che facevano affluire un fiume di denaro a decine di negozi intorno al Vaticano: pagate da dieci a cinquanta euro, e in qualche caso pure di più, portavano alle casse dell'Elemosineria apostolica - l'istituzione storica che si dedica a elargire la carità del Papa - soltanto tre euro a pergamena per la firma e il timbro. Papa Francesco ha deciso di dire basta, portando ora a compimento un processo iniziato già quattro anni fa, con  Benedetto XVI.
Lo scorso 12 aprile il vescovo Konrad Krajewski, elemosiniere pontificio, ha inviato una lettera ai titolari delle convenzioni, informandoli che tutto finirà inderogabilmente il prossimo 31 dicembre. Da gennaio 2015 non sarà dunque più possibile ordinare presso uno dei negozi esterni al Vaticano la pergamena con la benedizione, da regalare a una coppia di sposi novelli o in occasione di un anniversario.
Chiunque vorrà la benedizione, dovrà rivolgersi direttamente all'Elemosineria, come peraltro è sempre stato possibile fare, anche via fax o via web (www.elemosineria.va). Il prezzo della pergamena varia qui dai 7 euro per quella più semplice e più piccola, fino ai 25 euro per quelle di dimensioni maggiori. Chi la ordina per regalare un ricordo in occasione di qualche speciale circostanza, sa che tutto il denaro sarà donato ai poveri: negli ultimi due mesi l'Elemosineria apostolica, grazie al ricavato delle pergamene, ha potuto donare 200mila euro a persone in difficoltà nel pagare le bollette o l'affitto.
Pur avendo ricevuto un primo avviso già negli anni scorsi, e la lettera ufficiale lo scorso aprile, i negozianti stanno cercando di resistere: le pergamene vendute direttamente da loro si aggirano tra le 15 e le 20mila al mese. Il costo della carta varia dai 2 ai 4 euro, con il lavoro di stampa e le iniziali a mano si arriva a 6-8 euro. A questo si aggiunge il costo di 3 euro del timbro e della firma vaticana (gli unici soldi poi effettivamente devoluti per i poveri), e si arriva così a 9-10 euro. Tutto il resto è guadagno per il venditore. I negozianti, circa una cinquantina, hanno protestato con una lettera indirizzata al Papa, della quale ieri ha dato notizia l'agenzia Ansa.
Ma Francesco e monsignor Krajewski sono decisi a continuare per la strada intrapresa. Nella lettera inviata lo scorso 12 aprile ai titolari delle concessioni, l'Elemosineria apostolica ricorda di avere come compito proprio quello di «esercitare la carità verso i poveri a nome del Sommo Pontefice» dato che solo per questo motivo, più di un secolo fa, Leone XIII aveva dato all'elemosiniere «la facoltà di concedere la Benedizione apostolica a mezzo di diplomi, affinché l'Ufficio preposto alla carità avesse le risorse necessarie per praticarla».
Fu soprattutto in occasione dell'Anno Santo del 1950 che il Vaticano cominciò ad avvalersi anche della collaborazione di altre persone o istituzioni, come negozi e librerie, «per rendere accessibile ad un numero sempre più crescente di pellegrini che giungevano a Roma» la possibilità di ottenere la benedizione. Ma sessant'anni fa non c'era Internet, e il piccolo ufficio vaticano aveva difficoltà a ricevere fisicamente la mole di richieste. Ora bastano pochi clic, e da ogni parte del globo si può ordinare la pergamena ricevendola per posta.
Inoltre, si legge ancora nella lettera, dallo scorso settembre la facoltà di concedere la benedizione papale su pergamena è stata estesa da Francesco anche ai nunzi apostolici nei vari Paesi del mondo. Insomma, non c'è più bisogno di intermediari. C'è invece bisogno che tutto il ricavato venga distribuito ai poveri. Una missione che monsignor Krajewski, su indicazione di Bergoglio, spesso compie recandosi di persona, per portare piccoli contributi in denaro alle persone in difficoltà che scrivono chiedendo aiuto.
Gli unici «esterni» che continueranno a lavorare per l'Elemosineria, fanno sapere in Vaticano, saranno i monasteri di clausura, dove vengono preparate le pergamene più pregiate scritte interamente a mano. È probabile che, almeno inizialmente, la fine delle concessioni porti una diminuzione del numero di pergamene. Ma la gestione diretta di tutte le richieste di sicuro aumenterà i fondi da distribuire in beneficienza.


(Fonte: Andrea Tornielli, Vatican Insider, 8 settembre 2014)
http://vaticaninsider.lastampa.it/vaticano/dettaglio-articolo/articolo/francesco-francis-francisco-elemosiniere-pergamene-benedizioni-36180/
 

giovedì 4 settembre 2014

Piss Christ: l’arte ignobile che umilia anche chi non crede

Andres Serrano è un artista americano; crea immagini per interpretare la realtà e il senso delle cose. In teoria farebbe lo stesso mestiere di Caravaggio, Klimt, Picasso, Munch, Sironi, se non fosse che lui usa la fotografia.
Andres Serrano è famoso in tutto il mondo per una sua sola opera del 1987: s’intitola Piss Christ, letteralmente “Il Cristo di piscio”. Una fotografia che ritrae un crocifisso immerso nell’urina dello stesso pittore. L’opera è stata esposta in questi giorni in un museo francese (ad Ajaccio) provocando la contestazione rumorosa di molte organizzazioni cattoliche, cosa avvenuta ogni qual volta l’opera è stata esposta da qualche parte con grande godimento dell’artista che ha visto la sua popolarità e il suo mercato crescere.
Da quando nel lontano 1917, Marcel Duchamp prese un orinatoio e decise che fosse una “Fontana”, l’arte si è trasformata; insieme a capolavori e veri artisti si è sviluppato un vero e proprio circo Barnum di pagliacci travestiti da geni, di trovate shock, mescolate a volgarità e mostruosità; ed è ovvio che se il pisciatoio di un artista è potuto diventare un’opera d’arte, il passo successivo è farci diventare direttamente il piscio.
L’arte contemporanea è spesso questo: un rumore volgare e privo di senso.
Sull’argomento, Angelo Crespi, lucido intellettuale controcorrente, ha scritto un pamplet da leggere: “Ars Attack”. Crespi definisce ironicamente, questo tipo di arte “sgunz”: “lo sgunz è (o non è) un oggetto, che deve tendere all’orripilante, all’informe, all’insensato (meglio se tutto insieme), deve essere il più nuovo possibile (questo è imprescindibile), deve autodefinirsi come «arte» e avere un pubblico che pur non capendone la portata plaude entusiasta al suo valore”.
Al resto poi pensano gli altri: i critici che ne elaborano la teoria estetica, i galleristi che lo espongono, gli uffici stampa che lo immettono nel circuito dell’informazione che conta e i collezionisti che ne alimentano il mercato.
Ma Piss Christ non è solo uno sgunz; è qualcosa di più: è l’idiozia dell’Occidente quando pensa a se stesso. La cristianità è indissolubilmente legata all’arte, l’ha prodotta, ispirata e creata per secoli. Eppure da tempo i simboli della cristianità sono l’obiettivo più facile da colpire per questi artisti furbacchioni e molto attenti al loro business e alla loro fama.
Dal crocifisso con la rana ubriaca di Kippenberger nel 2008, al Cristo seduto su una sedia elettrica di Paul Fryer; passando per la Pietà di Michelangelo del belga Fabre, in cui il volto beato della Madonna fu trasformato in un orribile scheletro, sono ormai tante le opere d’arte di artisti occidentali che dissacrano la religione che è fondamento della civiltà che protegge la loro libertà di espressione.
Crespi sottolinea come la dissacrazione dei simboli cristiani sia “una scorciatoia comunicativa iconoclasta di cui l’artista contemporaneo abusa con l’unico scopo di resistere nella memoria collettiva”. Insomma non sapendo creare vera arte, la si distrugge per puro sensazionalismo mediatico.
In questi giorni, in Italia, il comune di Torino ha ritirato il suo patrocinio ad una mostra delle organizzazioni gay il cui manifesto raffigurava una grassa donna nuda che schiacciava con la scarpa le icone di Gesù e Maria.
Il punto non è chiedersi Piss Christ è blasfema, perché lo è; prendere il simbolo del Crocifisso ed immergerlo nell’urina, per quanto d’artista, è offensivo per milioni di uomini e donne che in quel simbolo riversano il loro senso della vita, dell’amore, della speranza, della pietas e il proprio senso di sé. La blasfemia è un’offesa è quella fotografia offende; i critici d’arte psicolabili e quelli ruffiani possono continuare a scrivere quanto vogliono che un Cristo immerso nel piscio è un’opera religiosa.
Il punto è, perché nel mondo dell’immaginario globalizzato e delle società multireligiose, questi geniali artisti, quando vogliono dissacrare Dio e la religione, utilizzano sempre i simboli del cristianesimo e mai quelli dell’islam? Il motivo è semplice: sono artisti liberi ma anche vigliacchi e sanno che se dovessero toccare Allah o Maometto, il rischio di ritrovarsi una Fatwa che li insegue per il resto della vita, è molto alto.
Rimane la tristezza nel pensare che nei giorni in cui migliaia di cristiani vengono perseguitati orribilmente per non rinnegare la libertà di quel crocifisso, in Europa quel crocifisso venga esposto nel piscio di un artista con il silenzio complice di intellettuali e moralizzatori.
L’Europa non muore per un debito pubblico o per il fallimento di una moneta di cartastraccia. L’Europa muore quando accetta di uccidere se stessa umiliando i simboli della sua identità.


(Fonte: Giampaolo Rossi, Il Giornale, 4 settembre 2014)
http://blog.ilgiornale.it/rossi/2014/09/04/piss-christ-larte-ignobile-che-umilia-anche-chi-non-crede