martedì 28 luglio 2020

Se per il Vaticano Dio non esiste


Il nuovo documento della Pontificia Accademia per la Vita riguardo al Covid-19 è imbarazzante: non dice nulla, nulla sulla vita e nulla di cattolico. Si chiede la conversione all'ambiente e alla solidarietà, escludendo del tutto la dimensione religiosa. È un documento che piacerà a molti personaggi dei vertici mondiali.

Ahimè, la Pontificia Accademia per la Vita (Pav) ha pubblicato un altro documento sul Covid-19. Ne aveva già scritto uno il 30 gennaio 2020, ed ora ritorna sul tema con il titolo “L’Humana communitas nell’era della pandemia: riflessioni inattuali sulla rinascita della vita”. Anche questo documento – come il precedente – non dice niente: soprattutto non dice niente sulla vita, al cui ambito l’Accademia pontificia è preposta, e non dice niente di cattolico, vale a dire di ispirato alla Rivelazione di Nostro Signore.
Viene da chiedersi chi scriva materialmente questi documenti. Da come questi autori scrivono, sembrano essere anonimi funzionari di una anonima istituzione di studi sociologici. Il loro scopo è coniare frasi-slogan per fotografare inopinati processi in atto. Il lettore veda per esempio questo passaggio: “Affioriamo da una notte dalle origini misteriose: chiamati ad essere oltre ogni scelta, presto arriviamo alla presunzione e alle lamentele, rivendicando come nostro quello che ci è stato solamente concesso. Troppo tardi abbiamo imparato ad accettare l’oscurità da cui veniamo e a cui, infine, torneremo”.  Ho letto tutto il documento: garantisco che il tono è questo dall’inizio alla fine. Ci abitueremo mai ad un livello così basso dei documenti ecclesiastici?
Viene poi da chiedersi perché vengano scritti così. Questo, ad essere precisi, è il vero motivo per cui ci sottoponiamo, nonostante tutto, alla noia della loro lettura. Per cercare di capire perché una istituzione della Santa Sede debba scrivere un documento sulla pandemia con lo stesso linguaggio di un qualsiasi ufficio di una qualsiasi agenzia internazionale: le stesse frasi astruse, la stessa mancanza di principi di riferimento che non siano generici, gli stessi occhiolini fatti ai poteri forti mentre ci si vanta di difendere i deboli, le stesse proposte indecifrabili come “l’etica del rischio” o vuotamente retoriche come la “strategia globale coordinata” e la “sfida etica multidimensionale”.
In tutto il documento non si fa mai alcun riferimento né esplicito né implicito a Dio. Secondo la Pontificia Accademia la pandemia non si presta a nessuna riflessione di teologia della storia: nella pandemia Dio non si incontra. Essa non va vista come un evento naturale, ma come un fatto storico e sociale che chiama in causa le nostre responsabilità. Non essendo un fatto naturale, essa non va riferita a Dio creatore come sua causa, almeno permissiva, e quindi viene messa da parte la domanda: ma Dio perché l’ha permessa? Nella pandemia l’uomo fa esperienza della propria “fragilità”, questo il documento lo dice ma non parla mai di esperienza del proprio peccato.
Secondo l’Accademia, nella pandemia sono in gioco solo forze umane. Si chiede la conversione, ma non a Dio bensì al rispetto dell’ambiente e ad una più diffusa solidarietà. Non si chiede mai di pregare, perché Dio può agire contro la pandemia solo attraverso l’uomo. La pandemia è un prodotto umano, frutto dei disordini nei rapporti con la natura, e chiede la conversione a nuovi comportamenti umani. Dio ne rimane fuori, oppure sta dentro questa dimensione umana e coincide con essa. In ambedue i casi, questo documento è senza Dio. Ecco il perché “teologico” di documenti di questo genere: parlare di Dio vuol dire parlare dell’uomo.
Chi assume l’uomo, e non Dio, come prospettiva finisce per assimilare le ideologie più diffuse. Risulta molto difficile spiegare come il covid-19 nasca dalla “depredazione della terra”, ma il documento, in ossequio all’ideologia ambientalista, lo fa. Richiede molti sforzi dire che l’epidemia ha messo in evidenza i benefici della globalizzazione (“Il virus non conosce frontiere, ma i paesi hanno sigillato i propri confini”), ma il documento, in ossequio all’ideologia globalista e anti-sovranista, lo sostiene. Evidenziare l’importanza fondamentale di cercare un vaccino e distribuirlo a tutti senza discriminazioni richiede di non vedere che il vaccino sarà strumento di una ideologia di potere globalista e di interessi politici, economici e sanitari globali, ma l’Accademia lo fa e per ben tre volte.
Ci vuole una certa faccia tosta a non considerare il reale pericolo che la pandemia ha prodotto per la vita nascente, dato l’aumento di impegno degli Stati di garantire in ogni caso l’aborto anche a domicilio, superando le difficoltà restrittive del covid-19, ma il documento dell’Accademia per la vita non parla mai di vita nel senso in cui dovrebbe parlarne una Accademia Pontificia per la Vita, ossia in quello della Evangelium vitae. Desta molta perplessità puntare sulla Organizzazione mondiale della sanità (OMS) data la gestione politica, ideologica e spesso antiscientifica di questo organismo, ma il documento lo fa, considerandola “profondamente radicata nella sua missione di guidare il lavoro sanitario a livello mondiale”.
Non c’è dubbio: un documento che piacerà a molti personaggi dei vertici mondiali. Ma che spiacerà – ammesso che lo leggano e che lo capiscano – a quanti vorrebbero che la Pontificia Accademia per la Vita facesse la Pontificia Accademia per la Vita.

(Fonte: Stefano Fontana, LNBQ, 28 luglio 2020)



lunedì 13 luglio 2020

Il Concilio e quell’errore fatale


Il tema del Concilio Vaticano II assomiglia a un fiume carsico. Anche se per lungo tempo non emerge alla superficie, sappiamo che è lì e segna in profondità la nostra appartenenza alla Chiesa. Poi, quando di nuovo torna a manifestarsi, com’è successo di recente con il dibattito innescato da monsignor Carlo Maria Viganò, puntualmente il tema appassiona e divide. Perché è un tema che non è aggirabile.
Per molti della mia generazione (sono nato nel 1958) il Concilio per decenni non è stato un problema: è stato semplicemente un fatto. Nato e cresciuto nella Chiesa del post-Concilio, per lungo tempo ho visto nel Concilio qualcosa di ineluttabile: era necessario che a un certo punto la Chiesa facesse certe scelte.
In seguito, quando ho incominciato a studiare la Chiesa del pre-Concilio e a rendermi conto del confronto e delle ferite che segnarono l’assise conciliare, ho oscillato tra due tendenze: da un lato una sorta di rimpianto per non aver potuto vivere un periodo che deve essere stato difficile ma anche entusiasmante, dall’altro il desiderio di capire meglio il punto di vista di coloro che, in controtendenza rispetto allo spirito del tempo, misero in guardia dall’esito del Concilio e dall’uso che ne sarebbe stato fatto in futuro.
Ora che mi avvicino alla vecchiaia e avverto il bisogno di andare all’essenziale della fede, mi sembra di poter dire, in tutta umiltà e da semplice battezzato, che il Concilio mosse da un errore fatale: il desiderio di piacere al mondo.
Mi rendo conto che la mia affermazione può sembrare sbrigativa e chiedo scusa agli studiosi della materia, ma più studio gli anni del Concilio e più mi convinco che da parte di ampi settori della Chiesa, a partire dal papa Giovanni XXIII, ci fu una sorta di complesso d’inferiorità rispetto al mondo, un mondo che in quell’epoca era in fermento e appariva tanto vitale. Di qui il desiderio di non risultare attardati ma di mostrare un volto simpatico della Chiesa, in senso letterale: simpatico come colui che patisce insieme, che partecipa alle gioie e ai dolori, evitando di porsi in una posizione di superiorità e in un atteggiamento di giudizio.
Ricordo che, quando conversavo del Concilio con il cardinale Carlo Maria Martini, l’arcivescovo di Milano usava volentieri un’espressione: la Chiesa del Concilio come una Chiesa dell’intercessione. Intercedere, diceva il cardinale, significa camminare in mezzo, e così volle fare Giovanni XXIII: camminare in mezzo al mondo, senza mettersi al di sopra né davanti, ma neanche dietro.
Martini raccontava che per lui il Concilio fu come aprire le finestre e far entrare aria fresca in una Chiesa nella quale c’era odore di chiuso e di muffa. Diceva proprio così, e a me sembrava di vederli quegli uomini di fede che, raggiunti da tanti stimoli intellettuali, si infervoravano attorno a questioni teologiche e morali per consentire alla parola del Vangelo di mostrarsi di nuovo in tutta la sua bellezza e in tutta la sua novità, togliendole di dosso orpelli e incrostazioni.
Resta il problema di fondo, che è quello al quale ho accennato prima: il desiderio di piacere al mondo.
Ora, non voglio certamente psicanalizzare il Concilio, ma è davvero difficile sottrarsi all’impressione che, in fondo, quell’esigenza fosse ben presente. L’ottimismo di papa Roncalli è quello di chi, stanco di una Chiesa che sembra perdere terreno rispetto al mondo ed essere guardata come una sorta di zia arcigna e antipatica, vuole mostrarsi come madre amorevole e dolce, affidabile e accogliente. Desiderio comprensibile. Se non che, nel momento in cui, in modo più o meno cosciente, la Chiesa desidera piacere al mondo, fatalmente incomincia a tradire sé stessa e la sua missione. Perché Gesù non volle mai piacere al mondo, né fece sconti di alcun tipo pur di apparire simpatico e dialogante.
Con il Concilio certamente le finestre furono aperte e l’aria entrò. Ma insieme a una piacevole sensazione di frescura entrarono anche le idee del mondo, che sono segnate dal peccato, e la Chiesa ne restò contaminata.
Che cosa significa segnate dal peccato? Significa, in una parola, segnate dalla volontà di mettere l’uomo al posto di Dio, perché di questo, in fondo, si tratta, oggi come ieri e in ogni tempo.
Certo, non tutto incominciò con il Concilio, perché certi fiumi carsici scorrevano da tempo, ma il Concilio fu il momento in cui il desiderio di piacere al mondo, e dunque di mettere l’uomo al posto di Dio, emerse con chiarezza.
Ma il vero dramma del Concilio fu un altro. La Chiesa incominciò l’operazione di restyling e di rinnovamento in ritardo rispetto al mondo. Succede sempre così: quando la Chiesa cerca di fare come il mondo, la sua azione è in ritardo. Perché il mondo, sulla via del peccato, ovvero del tentativo di mettere l’uomo al posto di Dio, va veloce e ne inventa sempre una nuova, e la Chiesa, per quanto si impegni, non può fare altro che inseguire.
Così, il Concilio si mise a rincorrere il mondo proprio mentre il mondo già si stava accorgendo, sia pure in modo confuso, che il desiderio di autonomia dell’uomo rispetto a Dio non poteva portare ad altro se non a immani disastri sotto ogni profilo: da quello sociale e politico a quello culturale e morale.
All’interno della Chiesa furono in pochi quelli che si resero conto che l’operazione simpatia era segnata da evidenti contraddizioni teologiche ma anche da un errore strategico. La narrativa prevalente andava in tutt’altra direzione, e contro una narrativa imposta con grande intensità (da alcuni in buona fede e per autentico entusiasmo, da altri in malafede e per calcolo) c’è ben poco da fare, come vediamo anche ai nostri giorni.
In conclusione, direi così: ben vengano i dibattiti, anche accesi, sul Concilio. Chiunque voglia argomentare, in una direzione o nell’altra, aiuta la Chiesa a guardarsi dentro e a porsi salutari domande. È venuto il tempo di farlo, in tutta onestà. L’importante è non procedere con il metodo della scomunica reciproca e dell’invettiva.
È curioso come il Concilio, che volle essere non dogmatico, sia diventato esso stesso un dogma. Se invece riusciremo a guardarlo come avvenimento dai molti volti, con le speranze che regalò ma anche con tutti i suoi limiti intrinseci e gli errori di prospettiva che lo segnarono, renderemo un buon servizio alla Chiesa e alla qualità della nostra fede.

(Fonte: Aldo Maria Valli, Duc in altum, 12 luglio 2020)