Bene, pare che Benedetto XVI abbia superato l’esame americano. C’è stato affetto, ammirazione, attenzione alle sue parole, insomma, quell’abbraccio “caldo” che i soliti commentatori bene informati mettevano in dubbio. In realtà questo Papa pare fatto apposta per spazzare via i luoghi comuni. I cattolici, orfani del grande carisma di Giovanni Paolo II, secondo costoro avrebbero dovuto ammosciarsi, perdere entusiasmo. E invece no: piazza San Pietro è sempre gremita e la gente a questo Papa vuole davvero bene. Anche se non rientra negli schemini dello schizzinoso mondo neo modernista.
La cosa si è ripetuta negli USA. Benedetto XVI vi è arrivato in sordina e se ne è andato dopo aver lasciato un segno forte e visibile. Ha preso di petto il problema della pedofilia, parlando chiaro e tondo a vescovi e cardinali. Ha incontrato le vittime dei preti pedofili scusandosi di fronte a loro e umiliandosi a tal punto da sconvolgerle e riconciliarle con la Chiesa. Ha tenuto un magistrale intervento all’Onu (che andrebbe letto, riletto e approfondito), ricevendo l’apprezzamento generale.
Ha pregato a Ground Zero, in un silenzio solenne e commosso.
“Calore, candore e compassione”, sono le caratteristiche di Benedetto XVI notate da Bill Bennett, uno dei pensatori cattolici più influenti, il quale ha aggiunto che questa visita “è servita a introdurre all’America un Papa che amava il suo predecessore, ma non conosceva lui. La sua venuta era stata preceduta da voci sulla sua presunta durezza, ideologica ed umana. Voci sotterrate per sempre”.
In effetti è un vecchio vizio quello dell’establishment culturale di costruirsi un bersaglio, secondo le proprie pretese visioni, e poi dargli addosso. Benedetto XVI è il Papa antico, anticonciliare, quello-che-porta-la-Chiesa-indietro-di-decenni, quello chiuso e poco comunicativo etc. etc. Certo, non è Giovanni Paolo II, ma è bene e bello che sia così. Anche perché l’attenzione si sposta da quello che fa a quello che dice. E quello che dice ha un suo peso specifico notevole.
Un ottimo esempio di puzza sotto il naso è quello di Susan Sarandon, la protagonista di Thelma & Luise, di cui trovo oggi un’intervista sul Corriere della sera. La Sarandon, autoproclamatasi portavoce dei cattolici americani, sostiene che “il gregge cattolico americano non si riconosce né in questa Chiesa né in questo Papa”. E sapete perché? E’ quasi banale dirlo: la Chiesa cattolica rimane “retrograda e fuori dal tempo”. E sapete ancora perché? Perché è contro l’aborto, per la sua “dura posizione nei confronti dell’omosessualità”, per “l’anacronistico celibato dei preti” e per il “dannoso atteggiamento di chiusura rispetto agli anticoncezionali”. Per non parlare, poi, del “rifiuto della ricerca sulle staminali”.
Quello della Sarandon è solo un elenco di slogan, di frasi fatte, peraltro piuttosto grossolane e imprecise, che denotano una superficialità da paura nell’approccio a certi problemi gravissimi e complicati. Nell’intervista le si obietta che però l’accoglienza è stata trionfale ovunque. Possibile che una che parla a nome di tutta la Chiesa cattolica americana non se ne sia accorta? La risposta è da manuale: “Sarà” (bellissimo questo dubbio schizzinoso davanti al fatto di folle festanti), “ma il papa e l’America appartengono a millenni diversi” (l’attrice ormai si ritiene l’incarnazione dell’America intera!) “e nessuno dei due con questa visita è riuscito a convertire l’altro. Il mondo ha bisogno di spiritualità pratica, come quella esercitata da Elen Prejean, la suora che ho interpretato nel film Dead Man Walking”.
Capito? Siccome il Papa non è conforme al modello di un personaggio da film da lei interpretato, per la Sarandon è fuori dalla storia! Roba da pazzi!
Questi, ragazzi, sono i veri cattolici che hanno la pretesa di insegnare al Papa. Questa è la puzza sotto al naso dei cittadini di una repubblica del benessere, che vorrebbe imporre all’umanità intera la nuova morale individualista e utilitarista, in fondo governata da un’elite di fortunati.
Sono quelli che mentre guardano le folle semplici e festanti intorno al Papa storcono il naso e ripetono il loro “sarà…”. Gente fuori dalla storia. Fuori dalla realtà. (Gianluca Zappa, La Cittadella, 21 aprile 2008)
venerdì 25 aprile 2008
L'America entusiasta per il “Ratzinger's look”: ma il Papa non veste Prada
L’America è impazzita per Benedetto XVI. O meglio, è impazzita per il suo look giudicato dalla maggior parte dei cronisti d’oltre Oceano più eccentrico, ricercato e insieme elegante di quello di Wojtyla. Mentre Ratzinger camminava sabato scorso per la Quinta Strada di New York, in molti vedendolo hanno girato lo sguardo a pochi passi da lui, verso il superstore Prada che per l’immaginario collettivo è la griffe che gli commissiona le scarpe rosse, in pelle, su misura, con incise su lato esterno le sue iniziali: BXVI. E poi la discesa nella voragine lasciata dallo schianto delle Torri Gemelle. Sopra un cielo grigio e nebbioso. Tanto freddo. E sotto, nella voragine, le telecamere fisse sul Papa con indosso un raffinato cappotto bianco. Scarpe e cappotto, dunque, che hanno catturato le attenzioni dei media americani.
Eppure, a ben vedere, l’attenzione mediatica per il Ratzinger’s look altro non è stata che un’illusione. Una sovreccitazione ingiustificata perché tutti gli abiti indossati da Benedetto XVI sono - e lo sono stati anche in America - esattamente uguali a quelli che indossavano i suoi predecessori. Come Ratzinger, insomma, lo stesso Wojtyla e prima di lui Luciani, Montini, Roncalli e via indietro finché si vuole. Wojtyla, è vero, non indossava il camauro (berretto rosso invernale) e raramente lo si è visto con la mozzetta di velluto rosso ornata di ermellino, ma era soltanto perché era più caloroso del suo successore, mica per altro. Insomma, nel look di Ratzinger, non c’è una ricerca di particolare raffinatezza o - lo hanno detto taluni - un ritorno all’Ottocento, quanto un’acquisizione degli abiti papali di sempre, alcuni dei quali nel lungo pontificato di Giovanni Paolo II era meno usuale vedere.
Ma torniamo alla sovra eccitazione per il Ratzinger’s look. E sfatiamo un mito. Le scarpette rosse - come detto le stesse di Wojtyla, di Luciani, di Montini, di Roncalli, etc. - non sono di Prada. Bensì provengono dalle mani del meno noto e meno pubblicizzato calzolaio Adriano Stefanelli, from Novara. Stefanelli, proprio nei giorni precedenti la partenza di Ratzinger per gli Stati Uniti, è stato ricevuto dal Papa al terzo piano del palazzo apostolico. Per Benedetto XVI, infatti, pare debba ideare, oltre che le scarpe rosse in pelle che gli servono quando esce fuori dal palazzo apostolico, anche quelle della stessa forma e colore ma di materiale diverso - di stoffa per la precisione - che deve usare quando nel suo appartamento indossa l’abito corale, quando, cioè, è vestito col suo abito bianco ma deve restare in casa. Scarpe rosse, dunque, non per un vezzo modaiolo, ma perché il rosso, colore anche del mantello, del cappello e della mozzetta, è il colore del martirio - martire fu san Pietro, di cui il Papa è successore - e insieme dell’amore ardente, del fuoco dello Spirito.
Come le scarpe, anche il cappotto bianco - elegante ma comunque uguale, colore a parte, a quello di tanti sacerdoti - non è firmato da uno stilista particolare. Viene semplicemente da una sartoria romana, da sempre impegnata nella fattura di abiti per religiosi. E da sartorie religiose vengono anche gli altri abiti che da secoli i Pontefici indossano: berretta, camauro, camice, cingolo, cotta, dalmatica, falda, mozzetta etc.
Che i Papi, come fa Ratzinger, non si inventino nulla di nuovo quando si alzano al mattino e si vestono è cosa importante per la Chiesa. Ogni particolare dell’abito, infatti, obbedisce a regole precise le quali rispondono a motivazioni non soltanto stilistiche ma anche teologiche. E, infatti, se è vero che l’abito non fa il monaco, è altrettanto vero che senza abito non c’è monaco. Ovvero, che un prete senza abito non è tale. Come non lo è un vescovo o un Papa. L’ordinazione sacerdotale, come la consacrazione dei religiosi a Dio, comporta l’acquisizione di un dato abito e non indossarlo è un po’ come per un militare tradire la propria divisa. Infatti l’abito sacro è un segno per il mondo di una vocazione abbracciata. È un modo attraverso il quale, chi si consacra a Dio, si rende riconoscibile agli occhi della comunità. Non solo: è un modo attraverso il quale il prete, il sacerdote, il vescovo, e pure il Papa, si sottomettono con umiltà alla volontà di Dio. Il rango ecclesiastico impone infatti obbedienza. E quale forma migliore di obbedienza se non quella di accettare di vestirsi nella modalità prevista per tutti dalla Chiesa? Benedetto XVI è a queste norme che risponde col proprio vestiario. Sovente, soprattutto in certi paesi, l’abito sacro ha perso di valore e il clero e i vescovi non ne fanno più uso. È probabilmente anche per questo motivo che Benedetto XVI, se d’inverno ha freddo, ripropone il camauro e non un cappello qualsiasi. O un cappotto completamente bianco e non altro. E ancora, le scarpe di pelle rossa che più che di Prada sono del successore di San Pietro, il primo Papa martire della storia della Chiesa.
(Rodari, Il Riformista, 23 aprile 2008)
Eppure, a ben vedere, l’attenzione mediatica per il Ratzinger’s look altro non è stata che un’illusione. Una sovreccitazione ingiustificata perché tutti gli abiti indossati da Benedetto XVI sono - e lo sono stati anche in America - esattamente uguali a quelli che indossavano i suoi predecessori. Come Ratzinger, insomma, lo stesso Wojtyla e prima di lui Luciani, Montini, Roncalli e via indietro finché si vuole. Wojtyla, è vero, non indossava il camauro (berretto rosso invernale) e raramente lo si è visto con la mozzetta di velluto rosso ornata di ermellino, ma era soltanto perché era più caloroso del suo successore, mica per altro. Insomma, nel look di Ratzinger, non c’è una ricerca di particolare raffinatezza o - lo hanno detto taluni - un ritorno all’Ottocento, quanto un’acquisizione degli abiti papali di sempre, alcuni dei quali nel lungo pontificato di Giovanni Paolo II era meno usuale vedere.
Ma torniamo alla sovra eccitazione per il Ratzinger’s look. E sfatiamo un mito. Le scarpette rosse - come detto le stesse di Wojtyla, di Luciani, di Montini, di Roncalli, etc. - non sono di Prada. Bensì provengono dalle mani del meno noto e meno pubblicizzato calzolaio Adriano Stefanelli, from Novara. Stefanelli, proprio nei giorni precedenti la partenza di Ratzinger per gli Stati Uniti, è stato ricevuto dal Papa al terzo piano del palazzo apostolico. Per Benedetto XVI, infatti, pare debba ideare, oltre che le scarpe rosse in pelle che gli servono quando esce fuori dal palazzo apostolico, anche quelle della stessa forma e colore ma di materiale diverso - di stoffa per la precisione - che deve usare quando nel suo appartamento indossa l’abito corale, quando, cioè, è vestito col suo abito bianco ma deve restare in casa. Scarpe rosse, dunque, non per un vezzo modaiolo, ma perché il rosso, colore anche del mantello, del cappello e della mozzetta, è il colore del martirio - martire fu san Pietro, di cui il Papa è successore - e insieme dell’amore ardente, del fuoco dello Spirito.
Come le scarpe, anche il cappotto bianco - elegante ma comunque uguale, colore a parte, a quello di tanti sacerdoti - non è firmato da uno stilista particolare. Viene semplicemente da una sartoria romana, da sempre impegnata nella fattura di abiti per religiosi. E da sartorie religiose vengono anche gli altri abiti che da secoli i Pontefici indossano: berretta, camauro, camice, cingolo, cotta, dalmatica, falda, mozzetta etc.
Che i Papi, come fa Ratzinger, non si inventino nulla di nuovo quando si alzano al mattino e si vestono è cosa importante per la Chiesa. Ogni particolare dell’abito, infatti, obbedisce a regole precise le quali rispondono a motivazioni non soltanto stilistiche ma anche teologiche. E, infatti, se è vero che l’abito non fa il monaco, è altrettanto vero che senza abito non c’è monaco. Ovvero, che un prete senza abito non è tale. Come non lo è un vescovo o un Papa. L’ordinazione sacerdotale, come la consacrazione dei religiosi a Dio, comporta l’acquisizione di un dato abito e non indossarlo è un po’ come per un militare tradire la propria divisa. Infatti l’abito sacro è un segno per il mondo di una vocazione abbracciata. È un modo attraverso il quale, chi si consacra a Dio, si rende riconoscibile agli occhi della comunità. Non solo: è un modo attraverso il quale il prete, il sacerdote, il vescovo, e pure il Papa, si sottomettono con umiltà alla volontà di Dio. Il rango ecclesiastico impone infatti obbedienza. E quale forma migliore di obbedienza se non quella di accettare di vestirsi nella modalità prevista per tutti dalla Chiesa? Benedetto XVI è a queste norme che risponde col proprio vestiario. Sovente, soprattutto in certi paesi, l’abito sacro ha perso di valore e il clero e i vescovi non ne fanno più uso. È probabilmente anche per questo motivo che Benedetto XVI, se d’inverno ha freddo, ripropone il camauro e non un cappello qualsiasi. O un cappotto completamente bianco e non altro. E ancora, le scarpe di pelle rossa che più che di Prada sono del successore di San Pietro, il primo Papa martire della storia della Chiesa.
(Rodari, Il Riformista, 23 aprile 2008)
venerdì 18 aprile 2008
Un “rosario” per l’Italia del dopo
Non è che ci serva l'Ocse con i suoi numeri per farci capire che siamo un Paese in agonia. Se ci guardiamo intorno, vediamo che tutto è bloccato: i cantieri delle grandi infrastrutture, gli impianti per la produzione di energia e quelli per lo smaltimento dei rifiuti, le riforme (delle istituzioni, della scuola, delle pensioni...). Per salvare la Compagnia di bandiera dobbiamo inchinarci ai Francesi, dai quali, del resto, acquistiamo già l'energia elettrica.
In Italia non cresce l'economia e non cresce la popolazione e le due cose sono correlate. Le famiglie faticano a tirare avanti e non c'è nessuno che le aiuta. Le donne fanno pochi figli e comunque il loro tasso di occupazione è molto basso. Perchè tutto è bloccato anche qui e una donna non è aiutata a fare la madre e a realizzarsi un una professione. Ma in piazza si va a far casino per chiedere più aborto. Siamo un popolo di insulsi idioti.
I ragazzi a scuola sono parcheggiati: la scuola serve più che altro ad allontanare il più possibile dal mondo del lavoro, perchè non collassi. I giovani sono condannati ad una vita da bamboccioni. Che piaccia o no.
E si potrebbe continuare con la lista (abbiamo ancora un Sud paralizzato dal potere alternativo della mafia), ma non faremmo che dire cose che già tutti sappiamo.
In questa situazione l'Italia è andata a votare.
E qui ci ha preso di nuovo lo sconforto. In un momento in cui più che mai c'era bisogno di unità, ognuno è andato per conto suo. Ognuno ha cercato, a modo suo, visibilità e, per essere visibile, ha giocato a spararle grosse. Abbiamo dovuto sentire la Santanchè richiamarsi ai valori cristiani e ripetere il ritornello di dare un calcio nel sedere agli immigrati.
Abbiamo dovuto constatare che la sinistra radicale ha innalzato la bandiera dell'"aborto-conquista-di-civiltà" e dei transgender, mentre Bertinotti si è ostinato a difendere l'ormai indifendibile lobby sindacale. In giro si son fatti avanti ancora gruppuscoli di No-Tav, No gassificatori, No Ponte sullo stretto, No Vat, No Nato, No aeroporti, No Tutto.
Poi c'è stato il movimento di Grillo, quello dell'antipolitica, che si è presentato in politica. Il movimento di quelli che "tanto sono tutti ladri, tanto sono una casta, mandiamoli a casa" e compagnia cantante. E questi, badate, sono il peggio del peggio, non sono il futuro. Sono l'anticamera della dittatura.
Sì, ci sarebbe stato bisogno di fare quadrato, di unirsi, di cambiare insieme. Sono rimasto deluso, parecchio deluso, da Casini, che ha tradito gli elettori del centrodestra, quelli che credevano in un progetto che nasceva dal confronto e dall'incontro di posizioni culturali e politiche molto vicine. Berlusconi è quello che è, ma la soluzione non è quella di farsi il centro per conto proprio. Se uno ha delle idee si batte e le difende, ma non spacca, non rompe.
E che dire di Veltroni? Ha preso in giro gli italiani. Ha prudentemente occultato tutti i suoi alleati coinvolti nel governo Prodi (un esempio su tutti, Fioroni. Ma che fine ha fatto?), perchè la gente dimenticasse in fretta e, cadendo nel tranello, gli desse fiducia. Chi, da sinistra, lo ha accusato di dire le stesse cose che dice da anni e anni il centrodestra, non ha detto altro che la verità. Forse la vera novità è stata la conversione di una parte della sinistra ad una politica liberale. Ma Veltroni non è il nuovo. E tanto meno sono nuovi quei radicali che ha voluto legare alla sua scalata. Tra le tante persone scomparse, azzerate, e buttate via dagli Italiani (persone note per il loro livore anticattolico…) l’unico rammarico è che il “centro” di sedicenti cattolici cristiani abbia salvato proprio lo zoccolo duro della lotta ai principi non negoziabili del cristianesimo.
Poi c'è Bossi, che ogni tanto le ha sparate grosse, ma per fortuna non spara sul serio! In ogni caso avrebbe fatto meglio a starsene zitto. Chi ha sparato davvero (uova e oggetti contundenti, Ferrara docet!) sono ben altri.
Poi sono ricominciate nelle strade, sia cittadine che dell’etere, le contestazioni, sempre e comunque contro Berlusconi: un vecchio e deprimente copione, privo di fantasia, che però sta riprendendo vigore mediatico in onda, come dimostrato da Santoro, Marco Travaglio & C., in Anno zero di giovedì 17 aprile: una trasmissione che ha riproposto solo la sgradevole puzza della sinistra antagonista più becera: il conduttore, messo alle strette da un risultato elettorale per lui incomprensibile, ha rabberciato il meglio di una serie di interventi squallidi e qualunquistici, contornato dalla solita claque di affabulatori inqualificabili, da un Di Pietro che, schiumando a rivoli nel sentirsi salvatore degli italici principi, inciampava nei verbi e nel periodare, incalzato e indirettamente chiamato in causa dall’esibizionismo culturale di un antipatico Fucsas che disquisiva sull’ignoranza crassa di parlamentari e affini; attorniato da ragazzotti filo-sinistrorsi, imboccati all’uopo dalla loro bionda coetanea “so tutto io”, che non perde occasione (in quale veste, poi?) per mandare frecciate velenose a cattolici, papa, chiesa e quant’altro.
E insomma, sì, sono davvero disgustato. Ma non perdo la speranza. Un cristiano non può perdere la speranza. Casomai reciterò un rosario per questa povera Italia. Perchè ora che dalle urne è uscito finalmente un risultato che le permette di avere un governo dalla maggioranza solida, si apra una stagione nuova, all'insegna della collaborazione, del dialogo, dell'aiuto reciproco. Perchè voglio bene a questo Paese, e voglio che i miei figli e nipoti vi possano avere un futuro. (Adattamento da Gianluca Zappa, La Cittadella, aprile 2008)
In Italia non cresce l'economia e non cresce la popolazione e le due cose sono correlate. Le famiglie faticano a tirare avanti e non c'è nessuno che le aiuta. Le donne fanno pochi figli e comunque il loro tasso di occupazione è molto basso. Perchè tutto è bloccato anche qui e una donna non è aiutata a fare la madre e a realizzarsi un una professione. Ma in piazza si va a far casino per chiedere più aborto. Siamo un popolo di insulsi idioti.
I ragazzi a scuola sono parcheggiati: la scuola serve più che altro ad allontanare il più possibile dal mondo del lavoro, perchè non collassi. I giovani sono condannati ad una vita da bamboccioni. Che piaccia o no.
E si potrebbe continuare con la lista (abbiamo ancora un Sud paralizzato dal potere alternativo della mafia), ma non faremmo che dire cose che già tutti sappiamo.
In questa situazione l'Italia è andata a votare.
E qui ci ha preso di nuovo lo sconforto. In un momento in cui più che mai c'era bisogno di unità, ognuno è andato per conto suo. Ognuno ha cercato, a modo suo, visibilità e, per essere visibile, ha giocato a spararle grosse. Abbiamo dovuto sentire la Santanchè richiamarsi ai valori cristiani e ripetere il ritornello di dare un calcio nel sedere agli immigrati.
Abbiamo dovuto constatare che la sinistra radicale ha innalzato la bandiera dell'"aborto-conquista-di-civiltà" e dei transgender, mentre Bertinotti si è ostinato a difendere l'ormai indifendibile lobby sindacale. In giro si son fatti avanti ancora gruppuscoli di No-Tav, No gassificatori, No Ponte sullo stretto, No Vat, No Nato, No aeroporti, No Tutto.
Poi c'è stato il movimento di Grillo, quello dell'antipolitica, che si è presentato in politica. Il movimento di quelli che "tanto sono tutti ladri, tanto sono una casta, mandiamoli a casa" e compagnia cantante. E questi, badate, sono il peggio del peggio, non sono il futuro. Sono l'anticamera della dittatura.
Sì, ci sarebbe stato bisogno di fare quadrato, di unirsi, di cambiare insieme. Sono rimasto deluso, parecchio deluso, da Casini, che ha tradito gli elettori del centrodestra, quelli che credevano in un progetto che nasceva dal confronto e dall'incontro di posizioni culturali e politiche molto vicine. Berlusconi è quello che è, ma la soluzione non è quella di farsi il centro per conto proprio. Se uno ha delle idee si batte e le difende, ma non spacca, non rompe.
E che dire di Veltroni? Ha preso in giro gli italiani. Ha prudentemente occultato tutti i suoi alleati coinvolti nel governo Prodi (un esempio su tutti, Fioroni. Ma che fine ha fatto?), perchè la gente dimenticasse in fretta e, cadendo nel tranello, gli desse fiducia. Chi, da sinistra, lo ha accusato di dire le stesse cose che dice da anni e anni il centrodestra, non ha detto altro che la verità. Forse la vera novità è stata la conversione di una parte della sinistra ad una politica liberale. Ma Veltroni non è il nuovo. E tanto meno sono nuovi quei radicali che ha voluto legare alla sua scalata. Tra le tante persone scomparse, azzerate, e buttate via dagli Italiani (persone note per il loro livore anticattolico…) l’unico rammarico è che il “centro” di sedicenti cattolici cristiani abbia salvato proprio lo zoccolo duro della lotta ai principi non negoziabili del cristianesimo.
Poi c'è Bossi, che ogni tanto le ha sparate grosse, ma per fortuna non spara sul serio! In ogni caso avrebbe fatto meglio a starsene zitto. Chi ha sparato davvero (uova e oggetti contundenti, Ferrara docet!) sono ben altri.
Poi sono ricominciate nelle strade, sia cittadine che dell’etere, le contestazioni, sempre e comunque contro Berlusconi: un vecchio e deprimente copione, privo di fantasia, che però sta riprendendo vigore mediatico in onda, come dimostrato da Santoro, Marco Travaglio & C., in Anno zero di giovedì 17 aprile: una trasmissione che ha riproposto solo la sgradevole puzza della sinistra antagonista più becera: il conduttore, messo alle strette da un risultato elettorale per lui incomprensibile, ha rabberciato il meglio di una serie di interventi squallidi e qualunquistici, contornato dalla solita claque di affabulatori inqualificabili, da un Di Pietro che, schiumando a rivoli nel sentirsi salvatore degli italici principi, inciampava nei verbi e nel periodare, incalzato e indirettamente chiamato in causa dall’esibizionismo culturale di un antipatico Fucsas che disquisiva sull’ignoranza crassa di parlamentari e affini; attorniato da ragazzotti filo-sinistrorsi, imboccati all’uopo dalla loro bionda coetanea “so tutto io”, che non perde occasione (in quale veste, poi?) per mandare frecciate velenose a cattolici, papa, chiesa e quant’altro.
E insomma, sì, sono davvero disgustato. Ma non perdo la speranza. Un cristiano non può perdere la speranza. Casomai reciterò un rosario per questa povera Italia. Perchè ora che dalle urne è uscito finalmente un risultato che le permette di avere un governo dalla maggioranza solida, si apra una stagione nuova, all'insegna della collaborazione, del dialogo, dell'aiuto reciproco. Perchè voglio bene a questo Paese, e voglio che i miei figli e nipoti vi possano avere un futuro. (Adattamento da Gianluca Zappa, La Cittadella, aprile 2008)
Solidarietà a Ferrara
L'hanno chiamato non solo "ciccione" (e passi), ma addirittura "assassino". Gli hanno tirato bottigliate, uova e pomodori. Le aggressioni a Giuliano Ferrara sono l'unica grave scorrettezza di questa "correttissima" campagna elettorale.
Contro Ferrara si è scatenato il più abietto integralismo laicista.
Alcuni commenti significativi: "Quella di Giuliano è una violenza insopportabile nei confronti delle donne" (Achille Occhetto - evidentemente è sopportabile la violenza contro i nascituri); "Ferrara usa i temi della morte e della vita come una clava per colpire l'avversario politico" (Piero Fassino - buttiamola in politica, che va sempre bene); "E' un errore contestare violentemente Ferrara, è un uomo che gioca con i diritti e i sentimenti femminili, è meglio lasciarlo parlare al muro" (Antonio Di Pietro - io non vedo, io non sento, io non parlo); "Hanno fatto bene a contestarlo. Dovrebbero farlo in tutte le piazze" (Manuela Palermi, del Pdci, e Flavia D'Angeli, candidata premier di Sinistra critica - istigazione alla caccia all'uomo).
A Giulianone è arrivata anche tanta, tantissima solidarietà, perfino da sinistra. Perché la gente intelligente non ci sta a legittimare la violenza settaria di quattro coglioni: "La mamma dei cretini è sempre incinta… e non abortisce mai" (Elisabetta Gardini).
Interessante, in particolare, il commento di Benedetto della Vedova, il quale, pur non augurandosi il successo della lista pro-life, sottolinea che "il dovere di difendere Ferrara è innanzitutto di chi non la pensa come lui. L'invito a non cadere nella sue provocazioni, che in molti a sinistra rivolgono ai compagni più arrabbiati, è politicamente peggiore delle botte con cui volevano accoglierlo a Bologna" (sembra detto apposta per quel grand'uomo di Di Pietro).
I fascisti di sinistra (no global e centri sociali) hanno i nervi particolarmente scoperti. E intanto l'ormai (per fortuna) ex ministro Livia Turco, sostiene che in merito alla pillola abortiva la strada "giusta" per i medici è quella di non far ricorso all'obiezione di coscienza.
Essere solidali con Ferrara significa schierarsi per la libertà di confronto e di opinione. Per la libertà di coscienza. Per la libertà di nascere. E' una lezione di democrazia. (Gianluca Zappa, La Cittadella, 5 aprile 2008)
Contro Ferrara si è scatenato il più abietto integralismo laicista.
Alcuni commenti significativi: "Quella di Giuliano è una violenza insopportabile nei confronti delle donne" (Achille Occhetto - evidentemente è sopportabile la violenza contro i nascituri); "Ferrara usa i temi della morte e della vita come una clava per colpire l'avversario politico" (Piero Fassino - buttiamola in politica, che va sempre bene); "E' un errore contestare violentemente Ferrara, è un uomo che gioca con i diritti e i sentimenti femminili, è meglio lasciarlo parlare al muro" (Antonio Di Pietro - io non vedo, io non sento, io non parlo); "Hanno fatto bene a contestarlo. Dovrebbero farlo in tutte le piazze" (Manuela Palermi, del Pdci, e Flavia D'Angeli, candidata premier di Sinistra critica - istigazione alla caccia all'uomo).
A Giulianone è arrivata anche tanta, tantissima solidarietà, perfino da sinistra. Perché la gente intelligente non ci sta a legittimare la violenza settaria di quattro coglioni: "La mamma dei cretini è sempre incinta… e non abortisce mai" (Elisabetta Gardini).
Interessante, in particolare, il commento di Benedetto della Vedova, il quale, pur non augurandosi il successo della lista pro-life, sottolinea che "il dovere di difendere Ferrara è innanzitutto di chi non la pensa come lui. L'invito a non cadere nella sue provocazioni, che in molti a sinistra rivolgono ai compagni più arrabbiati, è politicamente peggiore delle botte con cui volevano accoglierlo a Bologna" (sembra detto apposta per quel grand'uomo di Di Pietro).
I fascisti di sinistra (no global e centri sociali) hanno i nervi particolarmente scoperti. E intanto l'ormai (per fortuna) ex ministro Livia Turco, sostiene che in merito alla pillola abortiva la strada "giusta" per i medici è quella di non far ricorso all'obiezione di coscienza.
Essere solidali con Ferrara significa schierarsi per la libertà di confronto e di opinione. Per la libertà di coscienza. Per la libertà di nascere. E' una lezione di democrazia. (Gianluca Zappa, La Cittadella, 5 aprile 2008)
Le nomine di Rosy Bindi
Grande Rosy. A noi Rosy Bindi sta così simpatica che non possiamo non parlare spesso di lei. L’ultima che ha combinato, dopo due anni da ministro della Famiglia in cui non si è segnalata pressoché per nulla, se non una furibonda battaglia sul nulla dei Dico, è stata di nominare tutti suoi amici nell’Osservatorio nazionale sulla famiglia. L’organismo, voluto nel 2004 dall’ex ministro Roberto Maroni, era nato con lo scopo di fornire studi di settore sulle problematiche inerenti il tema. Sede a Bologna, pochi membri, scelte bipartisan. Bindi ha atteso due anni, e due settimane dalle elezioni, per rendere noti i nomi dei nuovi dirigenti dell’Osservatorio. Intanto ha triplicato le sedi (Bologna, Bari, Roma), nominato 46 membri, di cui “di diritto” i sindaci Nichi Vendola e Sergio Cofferati (noti per le loro lotte a favore di mamme e papà!), fatto fuori l’ex direttore Pierpaolo Donati (unanimemente riconosciuto come uno dei migliori studiosi in materie di politiche familiari) e gli esperti dell’università Cattolica di Milano, messo sulla sedia della vicepresidenza Renato Balduzzi, suo consigliere ed estensore della bozza Dico. Non lontane dalla realtà, dunque, le critiche di chi vi vede un «Osservatorio formato Dico» o un «Bindiosservatorio». I nominati, infatti, rimarranno in carica tre anni, e ci pare proprio difficile che con il prossimo governo possano andare d’amore e d’accordo. A guadagnarci solo i famigli della Bindi. A rimetterci le famiglie italiane. (Tempi, 02 Aprile 2008)
giovedì 10 aprile 2008
Le “donne giraffa” prigioniere nei loro villaggi-zoo
Ognuno di noi le avrà viste almeno una volta, sulle pagine di qualche rivista, in un documentario sui luoghi esotici. Bellissime, con quel loro collo inanellato d’oro. È per quel collo apparentemente fatto crescere a dismisura che le donne birmane sono famose in tutto il mondo. Ma la curiosità dei più si è spesso fermata alla loro eleganza da cigno, in pochi hanno fatto caso alla loro storia, al loro Paese d’origine dilaniato da una guerra civile lunga 58 anni. Così pochi sanno che queste donne fanno parte di una delle tante tribù rifugiatesi nella vicina Thailandia nel 1990 a causa di un conflitto con il regime militare birmano.
Scampate all'orrore e alla morte, qui vivono in altrettanta miseria, prigioniere di un governo che vieta loro di andarsene a causa del loro collo. Quella caratteristica che le ha rese uniche è diventata infatti anche la loro peggior catena. Per la Thailandia rappresentano un'attrazione turistica imperdibile. Così, quando alcuni Paesi come la Nuova Zelanda e la Finlandia si sono finalmente dichiarati disponibili ad accoglierle offrendo loro insperate opportunità, un’istruzione, una piena cittadinanza e soprattutto un futuro di pace, loro si sono viste costrette a rimanere.
Come la giovane Mu Lon, di cui il quotidiano Times ha appena raccontato la storia. Lei è una dei tantissimi profughi costretti ad abbandonare il Burma quando ancora erano dei bambini. Dall’età di cinque anni ha sempre vissuto in Thailandia, nei villaggi di confine con uno status legale incerto. Senza speranze, né futuro. Qualche anno fa però, a lei e a sua sorella fu offerta l’opportunità d'iniziare una nuova vita in Nuova Zelanda. I certificati medici erano pronti, tutte le formalità completate e nel 2006 le due ragazze erano pronte per partire.
Siamo nel 2008 e loro, come molte altre donne, sono ancora laggiù, bloccate. E la ragione di tutto questo non ha nulla a che fare con la religione, con la politica o con il colore della pelle. Ha a che fare con l’immagine prettamente turistica che offre il loro collo. Mu Lon appartiene a quel gruppo etnico minoritario in cui l'altra metà del cielo è conosciuta come «lunghi colli» appunto o più comunemente «donne giraffa». Sin da quando sono soltanto delle bimbe si adornano il collo con pesanti bracciali di metallo che aggiungono man mano che crescono. E quell'immagine di splendide donne cigno è divenuta in questi decenni la maggiore attrazione turistica thailandese. Poco valgono per il governo thailandese queste profughe venute dal nulla se non per un elemento fisico introvabile che ha finito per siglare la loro condanna ad una perenne prigionia.
In questi due anni Mu Lon e la sua famiglia, l'alta commissione per i rifugiati e i governi stranieri ha fatto pressioni sul governo thailandese per consentire ad una ventina di donne Kayan di ricominciare una nuova vita in Nuova Zelanda e in Finlandia. Molte di loro si sono perfino tolte gli anelli rinunciando ad una tradizione secolare in segno di protesta. Sono stati minacciati dei boicottaggi turistici, ma tutto è stato vano. Le autorità si rifiutano di consegnare loro il passaporto con giustificazioni burocratiche improbabili. La vera ragione è un segreto di Pulcinella. I villaggi locali non potrebbero vivere senza l'unica merce da esporre ai turisti, le donne Kayan. Stanco di attendere Mu Lon e la sua famiglia, il governo neozelandese ha infine ceduto i loro posti ad altri profughi. Loro sono rimaste laggiù, senza diritti né assistenza. Senza risorse finanziarie, senza libertà. Esseri umani trattati come merce, rinchiuse in uno zoo dove gli animali non hanno accesso. (Erica Orsini, Il Giornale, 10 aprile 2008)
Scampate all'orrore e alla morte, qui vivono in altrettanta miseria, prigioniere di un governo che vieta loro di andarsene a causa del loro collo. Quella caratteristica che le ha rese uniche è diventata infatti anche la loro peggior catena. Per la Thailandia rappresentano un'attrazione turistica imperdibile. Così, quando alcuni Paesi come la Nuova Zelanda e la Finlandia si sono finalmente dichiarati disponibili ad accoglierle offrendo loro insperate opportunità, un’istruzione, una piena cittadinanza e soprattutto un futuro di pace, loro si sono viste costrette a rimanere.
Come la giovane Mu Lon, di cui il quotidiano Times ha appena raccontato la storia. Lei è una dei tantissimi profughi costretti ad abbandonare il Burma quando ancora erano dei bambini. Dall’età di cinque anni ha sempre vissuto in Thailandia, nei villaggi di confine con uno status legale incerto. Senza speranze, né futuro. Qualche anno fa però, a lei e a sua sorella fu offerta l’opportunità d'iniziare una nuova vita in Nuova Zelanda. I certificati medici erano pronti, tutte le formalità completate e nel 2006 le due ragazze erano pronte per partire.
Siamo nel 2008 e loro, come molte altre donne, sono ancora laggiù, bloccate. E la ragione di tutto questo non ha nulla a che fare con la religione, con la politica o con il colore della pelle. Ha a che fare con l’immagine prettamente turistica che offre il loro collo. Mu Lon appartiene a quel gruppo etnico minoritario in cui l'altra metà del cielo è conosciuta come «lunghi colli» appunto o più comunemente «donne giraffa». Sin da quando sono soltanto delle bimbe si adornano il collo con pesanti bracciali di metallo che aggiungono man mano che crescono. E quell'immagine di splendide donne cigno è divenuta in questi decenni la maggiore attrazione turistica thailandese. Poco valgono per il governo thailandese queste profughe venute dal nulla se non per un elemento fisico introvabile che ha finito per siglare la loro condanna ad una perenne prigionia.
In questi due anni Mu Lon e la sua famiglia, l'alta commissione per i rifugiati e i governi stranieri ha fatto pressioni sul governo thailandese per consentire ad una ventina di donne Kayan di ricominciare una nuova vita in Nuova Zelanda e in Finlandia. Molte di loro si sono perfino tolte gli anelli rinunciando ad una tradizione secolare in segno di protesta. Sono stati minacciati dei boicottaggi turistici, ma tutto è stato vano. Le autorità si rifiutano di consegnare loro il passaporto con giustificazioni burocratiche improbabili. La vera ragione è un segreto di Pulcinella. I villaggi locali non potrebbero vivere senza l'unica merce da esporre ai turisti, le donne Kayan. Stanco di attendere Mu Lon e la sua famiglia, il governo neozelandese ha infine ceduto i loro posti ad altri profughi. Loro sono rimaste laggiù, senza diritti né assistenza. Senza risorse finanziarie, senza libertà. Esseri umani trattati come merce, rinchiuse in uno zoo dove gli animali non hanno accesso. (Erica Orsini, Il Giornale, 10 aprile 2008)
Curiosando tra i partiti
Walter Veltroni ha cercato in ogni modo di evitare le domande sulle "questioni eticamente sensibili", e quando ha dovuto fare delle scelte ha cercato di mascherare le sue vere intenzioni. Non c'è dubbio che Veltroni ha idee più radicali di Romano Prodi, anche se non è sulle posizioni della Sinistra arcobaleno.
A Roma, ed in particolare nei Palazzi Vaticani, ricordano con tristezza il sostegno di Veltroni al Gay Pride dell'anno giubilare del 2000. Così come non hanno dimenticato che l'attuale leader del Partito democratico propose, dopo un viaggio in Africa, che la Chiesa Cattolica distribuisse profilattici e contraccettivi nei Paesi poveri.
Benedetto XVI ha aspramente criticato il governo della città di Roma, ed il Segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone, incontrando Veltroni, ha sottolineato quanto la Chiesa sia sensibile al rispetto dei "valori non negoziabili" e cioè rispetto della persona dal concepimento alla morte naturale, difesa della famiglia composta da uomo e donna, sostegno alla libertà di educazione.
In merito alla legge sull'interruzione volontaria di gravidanza, Veltroni ha dichiarato che "la 194 è una buona legge e va attuata in tutte le sue parti".
Il programma del Pd prevede il "riconoscimento e dei diritti e delle prerogative delle persone conviventi a prescindere dall'orientamento sessuale". Come era previsto nei "Dico". Secondo Paola Concia e Andrea Benedino esponenti lesbo-gay del Pd questo concetto nel programma "è un buon passo avanti". Inoltre la presentazione con il Pd dei radicali guidati da Emma Bonino e di Umberto Veronesi, ha fatto irritare anche quella parte del mondo cattolico che milita nelle file del partito guidato da Veltroni.
A questo proposito Domenico delle Foglie, già vicedirettore di Avvenire e portavoce di Scienze&vita, in una nota pubblicata il 4 marzo su "Più Voce Net - Cattolici in rete" ha scritto "Emma Bonino: la paladina più trendy dell'aborto facile. Ignazio Marino: lo sponsor più fresco del testamento biologico. Umberto Veronesi: il testimoniai più chic dell'eutanasia. Ecco i capilista al Senato per il Pd in tre regioni chiave: il Piemonte, la Sicilia e la Lombardia.
Obiettivo non dichiarato, ma sotteso al profilo politico-culturale-professionale dì tutti e tre gli aspiranti senatori: spezzare le ultime resistenze cattoliche al Senato e varare finalmente un fronte etico disponibile a tutte le soluzioni ammantate di progressismo e sino ieri oggettivamente impossibili.
Proviamo ad elencarle, giusto per non dimenticare: difesa della legge 194 così com'è, testamento biologico (magari con scivolamento eutanasico), diagnosi preimpianto indiscriminata sugli embrioni (con deriva eugenetica). La lista non finisce qui, ma ce n'è abbastanza per alzare il livello di attenzione contro quello che si configura - dispiace dirlo - come un vero e proprio triangolo della morte che ha per vertici il Piemonte, la Lombardia e la Sicilia. Se c'è un partito della vita, dalle parti del Pd, che batta presto un colpo". ("Sì alla Vita" - marzo 2008)
A Roma, ed in particolare nei Palazzi Vaticani, ricordano con tristezza il sostegno di Veltroni al Gay Pride dell'anno giubilare del 2000. Così come non hanno dimenticato che l'attuale leader del Partito democratico propose, dopo un viaggio in Africa, che la Chiesa Cattolica distribuisse profilattici e contraccettivi nei Paesi poveri.
Benedetto XVI ha aspramente criticato il governo della città di Roma, ed il Segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone, incontrando Veltroni, ha sottolineato quanto la Chiesa sia sensibile al rispetto dei "valori non negoziabili" e cioè rispetto della persona dal concepimento alla morte naturale, difesa della famiglia composta da uomo e donna, sostegno alla libertà di educazione.
In merito alla legge sull'interruzione volontaria di gravidanza, Veltroni ha dichiarato che "la 194 è una buona legge e va attuata in tutte le sue parti".
Il programma del Pd prevede il "riconoscimento e dei diritti e delle prerogative delle persone conviventi a prescindere dall'orientamento sessuale". Come era previsto nei "Dico". Secondo Paola Concia e Andrea Benedino esponenti lesbo-gay del Pd questo concetto nel programma "è un buon passo avanti". Inoltre la presentazione con il Pd dei radicali guidati da Emma Bonino e di Umberto Veronesi, ha fatto irritare anche quella parte del mondo cattolico che milita nelle file del partito guidato da Veltroni.
A questo proposito Domenico delle Foglie, già vicedirettore di Avvenire e portavoce di Scienze&vita, in una nota pubblicata il 4 marzo su "Più Voce Net - Cattolici in rete" ha scritto "Emma Bonino: la paladina più trendy dell'aborto facile. Ignazio Marino: lo sponsor più fresco del testamento biologico. Umberto Veronesi: il testimoniai più chic dell'eutanasia. Ecco i capilista al Senato per il Pd in tre regioni chiave: il Piemonte, la Sicilia e la Lombardia.
Obiettivo non dichiarato, ma sotteso al profilo politico-culturale-professionale dì tutti e tre gli aspiranti senatori: spezzare le ultime resistenze cattoliche al Senato e varare finalmente un fronte etico disponibile a tutte le soluzioni ammantate di progressismo e sino ieri oggettivamente impossibili.
Proviamo ad elencarle, giusto per non dimenticare: difesa della legge 194 così com'è, testamento biologico (magari con scivolamento eutanasico), diagnosi preimpianto indiscriminata sugli embrioni (con deriva eugenetica). La lista non finisce qui, ma ce n'è abbastanza per alzare il livello di attenzione contro quello che si configura - dispiace dirlo - come un vero e proprio triangolo della morte che ha per vertici il Piemonte, la Lombardia e la Sicilia. Se c'è un partito della vita, dalle parti del Pd, che batta presto un colpo". ("Sì alla Vita" - marzo 2008)
Realismo elettorale
Vi confesserò che davanti alla politica, e in particolare a questa politica spettacolo, io resto piuttosto freddo. Non capisco come si faccia a vedere in "Silvio" una specie di liberatore, come gli si possa dire "grazie di esistere". Figuratevi se posso entusiasmarmi davanti al democratico "amerikano" Walter Veltroni, con quella sua faccia sempre pensosa, preoccupata e seria, con quell'aria da uomo che incarna la Morale, con quel suo lancio di sogni epici alla Martin Luther King de noantri. Ma figuriamoci!
Queste campagne elettorali sempre più stile convention americana mi lasciano piuttosto indifferente. Non mi piace questa idolatria del personaggio. Sono un cattolico e credo in molte cose, ma non credo che un Berlusconi o un Veltroni o un vattelapesca qualsiasi mi possano risolvere la vita. Vi confesso che i radicali che imperversano su Radio Radicale mi sembrano tutti matti. La politica sembra l'unica dimensione possibile. Sì, mi sembrano malati, sul serio!
Comunque, l'altra sera non mi sono perso l'occasione di assistere ad un mega raduno berlusconiano nel Palasport della mia città. Quasi più di un'ora e mezza di attesa con le note di "Azzurra libertà" e di "Per fortuna che Silvio c'è". Robaccia orribile, che uno si chiede come faccia il Cavaliere a sopportarla. Il video della seconda canzone è qualcosa di inguardabile. Sembra che il Berlusca faccia apposta a fornire materiale utile ai suoi detrattori.
Poi Silvio arriva e parla per almeno un'altra ora e mezza. Nel suo discorso (ti piaccia o no il personaggio, ti stia simpatico o meno, lo consideri un salvatore o un demagogo) ci sono molte verità. La prima è che l'Italia è ridotta talmente male e che la situazione generale in Europa e nel mondo è talmente grave, che chiunque stia pensando a guidare il Paese non riesce a dormire la notte. Questo è un realismo che mi piace. Sarebbe demagogico dire "la sinistra ha fatto solo casini, ora arriviamo noi e tutto andrà meglio". Berlusca non lo dice. Analizza la situazione a partire dalla crisi mondiale ed Europea. Poi viene all'Italia, indica i vari punti di debolezza e propone i rimedi. Compreso quello (udite udite) di pagare tutti le tasse, in modo giusto, ma pagarle tutti. Con un avvertimento anche agli evasori.
Certo, i casini combinati dal governo Prodi non se li tiene per sé. Ma solo degli inguaribili fanatici coi prosciutti agli occhi non ammettono che questi due anni di Prodi sono stati (complessivamente) un disastro, conclusosi con una morte naturale, arrivata molto presto, ma a lungo attesa. Ed ha ragione da vendere, Berlusca, quando dice che Veltroni di quei due anni è responsabile e che si tiene in casa tanta gente che ha sorretto con le stampelle il povero malato. Ancora poche settimane prima del decesso, lo stesso Veltroni diceva con una gran faccia tosta che il governo Prodi avrebbe fatto tutta la legislatura. E che dire dei vari D'Alema, Bindi, Franceschini, Rutelli, Bersani, Di Pietro e compagnia bella? Veltroni può pure tenerli nascosti, ma tutti costoro sono suoi compagni di viaggio e sono stati personaggi di spicco dell'entourage di Prodi. Dov'è il nuovo?
Nel fatto, si risponde, che il PD ha messo fuori la sinistra radicale, cioè i casinari del pugno chiuso, i veri responsabili della paralisi dell'Italia. Sì, forse a livello nazionale sarà così. Ma nelle giunte locali il PD continua ad andare a braccetto con i rossoverdi. O si rompe per bene, o non si rompe. Dov'è il nuovo? Veltroni non può pretendere di far finta di niente. Non può tagliare il cordone ombelicale con tanta disinvoltura. E' un tentativo patetico, non convince.
Il nuovo, paradossalmente, sembra essere ancora una volta Berlusconi. La nascita del PDL, e la conseguente rottura con l' UDC e con tutti i nostalgici della Democrazia Cristiana, sono stati alla fin fine dei gesti coraggiosi. In questo caso (anche nelle amministrazioni locali) c'è vera concorrenza. E Casini continua a ripetere che non appoggerà un governo Berlusconi. I toni sono molto più duri qui che altrove. Clamoroso è stato anche l'aver mantenuto una certa coerenza generale non imparentandosi con Giuliano Ferrara, un berlusconiano DOC. Si può discutere di queste esclusioni, ma i fatti restano.
Il Cavaliere ha anche ragione da vendere a proposito del "voto utile". E' anche in questo caso una lezione di realismo. Il meccanismo elettorale premia chi raccoglie più voti. Occorre allora puntare sui cavalli che hanno più probabilità di vincere la gara. Ce ne sono in giro solo due: il PDL e il PD. Ognuno è libero di regolarsi come gli pare e piace, certo, ma se vuole che il suo voto conti davvero qualcosa, se vuole incidere sul futuro del Paese, in questo momento deve schierarsi. Magari tappandosi il naso, ma schierarsi, da una parte o dall'altra.
Un'ultima osservazione riguarda i valori di riferimento. Berlusconi si è preso un paio di minuti per rileggere il proclama con cui entrò in politica nel 1994. Niente è cambiato da allora, i valori sono gli stessi. E tra i valori, quelli che collimano con una cultura cristiana, a cominciare dal principio di sussidiarietà, di più società e meno Stato, di centralità della famiglia, di libertà di educazione. E anche in questo caso ha gioco facile nello smarcarsi dal governo Prodi, che ha sferrato un attacco formidabile, nelle intenzioni, quanto goffo, nei risultati, alla cultura cristiana. Due anni passati a sognare di "fare come in Spagna".
In conclusione mi pare che, realisticamente parlando, la scelta sia piuttosto scontata... (Gianluca Zappa, La Cittadella, 5 aprile 2008)
Queste campagne elettorali sempre più stile convention americana mi lasciano piuttosto indifferente. Non mi piace questa idolatria del personaggio. Sono un cattolico e credo in molte cose, ma non credo che un Berlusconi o un Veltroni o un vattelapesca qualsiasi mi possano risolvere la vita. Vi confesso che i radicali che imperversano su Radio Radicale mi sembrano tutti matti. La politica sembra l'unica dimensione possibile. Sì, mi sembrano malati, sul serio!
Comunque, l'altra sera non mi sono perso l'occasione di assistere ad un mega raduno berlusconiano nel Palasport della mia città. Quasi più di un'ora e mezza di attesa con le note di "Azzurra libertà" e di "Per fortuna che Silvio c'è". Robaccia orribile, che uno si chiede come faccia il Cavaliere a sopportarla. Il video della seconda canzone è qualcosa di inguardabile. Sembra che il Berlusca faccia apposta a fornire materiale utile ai suoi detrattori.
Poi Silvio arriva e parla per almeno un'altra ora e mezza. Nel suo discorso (ti piaccia o no il personaggio, ti stia simpatico o meno, lo consideri un salvatore o un demagogo) ci sono molte verità. La prima è che l'Italia è ridotta talmente male e che la situazione generale in Europa e nel mondo è talmente grave, che chiunque stia pensando a guidare il Paese non riesce a dormire la notte. Questo è un realismo che mi piace. Sarebbe demagogico dire "la sinistra ha fatto solo casini, ora arriviamo noi e tutto andrà meglio". Berlusca non lo dice. Analizza la situazione a partire dalla crisi mondiale ed Europea. Poi viene all'Italia, indica i vari punti di debolezza e propone i rimedi. Compreso quello (udite udite) di pagare tutti le tasse, in modo giusto, ma pagarle tutti. Con un avvertimento anche agli evasori.
Certo, i casini combinati dal governo Prodi non se li tiene per sé. Ma solo degli inguaribili fanatici coi prosciutti agli occhi non ammettono che questi due anni di Prodi sono stati (complessivamente) un disastro, conclusosi con una morte naturale, arrivata molto presto, ma a lungo attesa. Ed ha ragione da vendere, Berlusca, quando dice che Veltroni di quei due anni è responsabile e che si tiene in casa tanta gente che ha sorretto con le stampelle il povero malato. Ancora poche settimane prima del decesso, lo stesso Veltroni diceva con una gran faccia tosta che il governo Prodi avrebbe fatto tutta la legislatura. E che dire dei vari D'Alema, Bindi, Franceschini, Rutelli, Bersani, Di Pietro e compagnia bella? Veltroni può pure tenerli nascosti, ma tutti costoro sono suoi compagni di viaggio e sono stati personaggi di spicco dell'entourage di Prodi. Dov'è il nuovo?
Nel fatto, si risponde, che il PD ha messo fuori la sinistra radicale, cioè i casinari del pugno chiuso, i veri responsabili della paralisi dell'Italia. Sì, forse a livello nazionale sarà così. Ma nelle giunte locali il PD continua ad andare a braccetto con i rossoverdi. O si rompe per bene, o non si rompe. Dov'è il nuovo? Veltroni non può pretendere di far finta di niente. Non può tagliare il cordone ombelicale con tanta disinvoltura. E' un tentativo patetico, non convince.
Il nuovo, paradossalmente, sembra essere ancora una volta Berlusconi. La nascita del PDL, e la conseguente rottura con l' UDC e con tutti i nostalgici della Democrazia Cristiana, sono stati alla fin fine dei gesti coraggiosi. In questo caso (anche nelle amministrazioni locali) c'è vera concorrenza. E Casini continua a ripetere che non appoggerà un governo Berlusconi. I toni sono molto più duri qui che altrove. Clamoroso è stato anche l'aver mantenuto una certa coerenza generale non imparentandosi con Giuliano Ferrara, un berlusconiano DOC. Si può discutere di queste esclusioni, ma i fatti restano.
Il Cavaliere ha anche ragione da vendere a proposito del "voto utile". E' anche in questo caso una lezione di realismo. Il meccanismo elettorale premia chi raccoglie più voti. Occorre allora puntare sui cavalli che hanno più probabilità di vincere la gara. Ce ne sono in giro solo due: il PDL e il PD. Ognuno è libero di regolarsi come gli pare e piace, certo, ma se vuole che il suo voto conti davvero qualcosa, se vuole incidere sul futuro del Paese, in questo momento deve schierarsi. Magari tappandosi il naso, ma schierarsi, da una parte o dall'altra.
Un'ultima osservazione riguarda i valori di riferimento. Berlusconi si è preso un paio di minuti per rileggere il proclama con cui entrò in politica nel 1994. Niente è cambiato da allora, i valori sono gli stessi. E tra i valori, quelli che collimano con una cultura cristiana, a cominciare dal principio di sussidiarietà, di più società e meno Stato, di centralità della famiglia, di libertà di educazione. E anche in questo caso ha gioco facile nello smarcarsi dal governo Prodi, che ha sferrato un attacco formidabile, nelle intenzioni, quanto goffo, nei risultati, alla cultura cristiana. Due anni passati a sognare di "fare come in Spagna".
In conclusione mi pare che, realisticamente parlando, la scelta sia piuttosto scontata... (Gianluca Zappa, La Cittadella, 5 aprile 2008)
Eco senza ritorno
Perché siamo orgogliosi di chi dice che «il nostro futuro dipende dalla morte di dieci politici»
L’aspetto sorprendente non è che Umberto Eco abbia detto a El País che «il futuro dell’Italia dipende dal fatto che muoiano una decina di persone ormai molto grandi». Il fatto sbalorditivo non è che abbia poi maliziosamente notato che «Silvio Berlusconi ha più di 70 anni». La cosa che sgomenta non è che abbia detto che anche la classe dirigente del Pd «è vecchia», eccetto Veltroni (ma perché? è del 3 luglio 1955). O che si sia spinto fino a sostenere – non proprio democraticamente – che «è un malcostume che chi perde le elezioni poi si ricandidi» (chissà cosa avrebbero detto Togliatti e Berlinguer). Il fatto singolare non è che abbia dichiarato che le Brigate rosse «avevano una idea giusta di combattere le multinazionali, ma hanno sbagliato nel credere nel terrorismo». O che disprezzi gli italiani medi (cioè tutti) che da anni si fanno abbindolare da chi ne «stimola gli istinti più bassi» affermando che «non si devono pagare le tasse» e attaccando «le forze dell’ordine e la magistratura». E non è nemmeno stupefacente che consigli ai giovani di «andare nel deserto e mettere in pratica una vita ecologica. Questo è il massimo che si può fare: non cambiare il mondo, ma ritirarsi». L’aspetto incredibile è un altro. è per noi motivo di patriottico orgoglio venire a sapere che un nostro connazionale, nato ad Alessandria il 5 gennaio 1932, goda ancora come un riccio, alla veneranda età di 76 anni, a farsi le seghe mentali. (Tempi, 9 aprile 2008)
L’aspetto sorprendente non è che Umberto Eco abbia detto a El País che «il futuro dell’Italia dipende dal fatto che muoiano una decina di persone ormai molto grandi». Il fatto sbalorditivo non è che abbia poi maliziosamente notato che «Silvio Berlusconi ha più di 70 anni». La cosa che sgomenta non è che abbia detto che anche la classe dirigente del Pd «è vecchia», eccetto Veltroni (ma perché? è del 3 luglio 1955). O che si sia spinto fino a sostenere – non proprio democraticamente – che «è un malcostume che chi perde le elezioni poi si ricandidi» (chissà cosa avrebbero detto Togliatti e Berlinguer). Il fatto singolare non è che abbia dichiarato che le Brigate rosse «avevano una idea giusta di combattere le multinazionali, ma hanno sbagliato nel credere nel terrorismo». O che disprezzi gli italiani medi (cioè tutti) che da anni si fanno abbindolare da chi ne «stimola gli istinti più bassi» affermando che «non si devono pagare le tasse» e attaccando «le forze dell’ordine e la magistratura». E non è nemmeno stupefacente che consigli ai giovani di «andare nel deserto e mettere in pratica una vita ecologica. Questo è il massimo che si può fare: non cambiare il mondo, ma ritirarsi». L’aspetto incredibile è un altro. è per noi motivo di patriottico orgoglio venire a sapere che un nostro connazionale, nato ad Alessandria il 5 gennaio 1932, goda ancora come un riccio, alla veneranda età di 76 anni, a farsi le seghe mentali. (Tempi, 9 aprile 2008)
Scurati e Odifreddi peggio di Marzullo
Capiamo la frustrazione dei giornalisti a dover intervistare i soliti noti, chessò Veltroni e Berlusconi, Luca Cordero di Montezemolo e Simona Ventura , e capiamo pure la frustrazione dei conduttori che alla fine s’intervistano l’un l’altro, Bonolis intervista Chiambretti che intervista la Parietti (l’onnipresente!) che viene intervistata da Giletti, e capiamo pure la frustrazione degli scrittori condannati a scrivere sugli stessi fogli dove solerti giornalisti intervistano i soliti noti, oppure costretti per promuovere un libro ad andare in tv e farsi intervistare dalla Bignardi, o da Bonolis, o da Chiambretti, qualcuno, il più sfortunato, perfino da Gigi Marzullo che tra tutti gli intervistatori non ha remore né cedimenti, neppure a tarda notte e ti domandi come faccia.
Capiamo tutto, anche se l’idea delle “interviste impossibili” ci appare una panacea più ridicola del male che vorrebbe curare: cioè l’inflazione delle interviste e l’insipienza degli intervistati. In contemporanea, lunedì scorso (10 marzo), in apertura della pagina cultura di Repubblica e della Stampa, due intellettuali di vaglia si cimentano in questo genere alquanto difficile, colloquiando con due personaggi storici: il romanziere Antonio Scurati vis-à-vis con Giuseppe Garibaldi e il matematico Piergiorgio Odifreddi addirittura con Galileo Galilei.
Il senso dell’operazione non è chiaro: se uno ha qualcosa da dire oggi può dirlo senza usare il mascheramento della finta intervista. In passato l’unico sensato motivo per utilizzare questo artifizio letterario era infatti la censura. Se al contrario uno davvero è convinto di poter rispondere in vece di un altro allora tanto vale affidarsi ai numerosi Napoleone che ancora s’aggirano per le nostre strade.
Tra l’altro, una delle domande pregnanti che Scurati rivolge al mito del Risorgimento è: “ne valeva la pena?”. Odifreddi non fa meglio, chiedendo al matematico pisano: “Cosa ne pensa?”. Che a ben guardare si rimpiange il lungocrinuto Marzullo e il suo tormentone “la vita è un sogno o i sogni aiutano a vivere meglio?” che nella circolarità indicibile della tautologia lascia sempre a bocca aperta. (Il Domenicale, marzo 2008)
Capiamo tutto, anche se l’idea delle “interviste impossibili” ci appare una panacea più ridicola del male che vorrebbe curare: cioè l’inflazione delle interviste e l’insipienza degli intervistati. In contemporanea, lunedì scorso (10 marzo), in apertura della pagina cultura di Repubblica e della Stampa, due intellettuali di vaglia si cimentano in questo genere alquanto difficile, colloquiando con due personaggi storici: il romanziere Antonio Scurati vis-à-vis con Giuseppe Garibaldi e il matematico Piergiorgio Odifreddi addirittura con Galileo Galilei.
Il senso dell’operazione non è chiaro: se uno ha qualcosa da dire oggi può dirlo senza usare il mascheramento della finta intervista. In passato l’unico sensato motivo per utilizzare questo artifizio letterario era infatti la censura. Se al contrario uno davvero è convinto di poter rispondere in vece di un altro allora tanto vale affidarsi ai numerosi Napoleone che ancora s’aggirano per le nostre strade.
Tra l’altro, una delle domande pregnanti che Scurati rivolge al mito del Risorgimento è: “ne valeva la pena?”. Odifreddi non fa meglio, chiedendo al matematico pisano: “Cosa ne pensa?”. Che a ben guardare si rimpiange il lungocrinuto Marzullo e il suo tormentone “la vita è un sogno o i sogni aiutano a vivere meglio?” che nella circolarità indicibile della tautologia lascia sempre a bocca aperta. (Il Domenicale, marzo 2008)
domenica 6 aprile 2008
Il meglio di alcuni nostri politici contro Papa e Chiesa: protervia, crassa ignoranza e ottusità mentale!
Il Papa parla di aborto (e non è un’ingerenza!)
Una ventina di anni fa, una sera, un teologo che si chiamava monsignor Carlo Colombo, e che era stato uno stretto collaboratore di Paolo VI, stava tenendo al Centro culturale ambrosiano una conferenza sulla Mulieris Dignitatem, lettera apostolica sulla dignità e sulla vocazione della donna scritta da Giovanni Paolo II. A un tratto una signora si alzò da una seggiola del pubblico per contestare al relatore, e indirettamente anche al Papa, la mancanza - nel documento di cui si dibatteva - di un riferimento a un qualche contratto di lavoro, mi pare fosse quello delle infermiere. Monsignor Colombo le rispose ponendo una domanda: «Quante donne ci sono in Cina?». Tra lo sbigottimento generale, si cominciò a buttare lì qualche numero: seicento milioni, settecento milioni. Al che monsignor Colombo pose un’altra domanda: «E quante donne vivono in India?». Anche qui partì il toto-abitanti: cinquecento milioni, o forse seicento. «Ecco», concluse il monsignore: «il Santo Padre, quando scrive un’enciclica, ha in testa queste dimensioni». L’episodio m’è tornato alla mente ieri assistendo alla consueta piccineria con la quale molti nostri politici - quelli sempre in prima fila nell’indignarsi per le «indebite ingerenze vaticane» - hanno reagito a un discorso pronunciato in mattinata dal Papa in materia di aborto e divorzio. Da Boselli a Bobo Craxi, da Grillini a Villetti, dalla radicale Bernardini al ministro Mussi, è stata un’alluvione di denunce contro «l’intervento a gamba tesa sulla campagna elettorale», contro il «tentativo di far diventare reati i peccati», contro «l’autoritarismo clericale», e via dicendo. Mussi, per dire il livello, ha lanciato un grido d’allarme al Paese: «Dobbiamo difendere il diritto di abortire e di divorziare con le unghie e con i denti». Aurelio Mancuso dell’Arcigay, per dire la fantasia, ha evocato indovinate un po’ che cosa: il Medioevo, le Sante Inquisizioni e Torquemada. Però. Ma davvero questi signori credono che, siccome nel loro orizzonte c’è solo qualche punto percentuale in più o in meno, anche il Papa abbia i loro stessi pensieri? Davvero credono che il capo della Chiesa universale, più che per lo sfascio delle famiglie e per i cinquanta milioni di aborti legali al mondo ogni anno, sia preoccupato del pareggio al Senato? È vero che a volte la Chiesa richiama i politici al rispetto dei valori che più le stanno a cuore. Ma lo fa appunto perché le stanno a cuore quei valori, non gli interessi di bottega di qualche partito. E lo fa, caso per caso, per mezzo delle conferenze episcopali nazionali, non per bocca del Papa. Il quale si occupa dell’universale e dell’eterno, non del locale e dell’effimero. Chi non capisce questo, giudica gli altri da se stesso.
Oltretutto ieri era evidente che non ci fosse il benché minimo riferimento alla politica e neppure alle leggi. Benedetto XVI ha parlato di aborto e divorzio in un convegno intitolato «L’olio sulle ferite», e il suo discorso è stato soprattutto un’esortazione ai cristiani affinché stiano vicini a chi quelle ferite le porta dentro: a chi ha divorziato e abortito «la Chiesa ha il dovere primario di accostarsi con amore e delicatezza, con premura e attenzione materna, per annunciare la vicinanza misericordiosa di Dio in Gesù Cristo», ha detto. Altro che Torquemada. Sull’ultimo numero del settimanale Vanity Fair ci sono due lettere di altrettante donne che hanno abortito. La prima dice: «Un pezzo di me è morto quel giorno. A distanza di 17 anni mi sento ancora malissimo». La seconda: «Sotto le coperte di quel letto d’ospedale piango in silenzio tutte le lacrime della mia vita. Niente sarà più come prima. Non mi abbandonerà mai questo dolore». Ecco, è a queste persone che ieri Ratzinger parlava: per dire loro che la Chiesa distingue tra peccato e peccatore, e che nulla è irreparabile davanti a Dio. Insomma vola un po’ più alto, il Papa tedesco, di certi nostri ottocenteschi politici e intellettuali, la cui apertura mentale è pari a quella della signora che si stupiva di non trovare, in un’enciclica sulle donne, qualche riferimento agli scatti di anzianità e ai permessi retribuiti. (Michele Brambilla, il Giornale, 6 aprile 2008)
Una ventina di anni fa, una sera, un teologo che si chiamava monsignor Carlo Colombo, e che era stato uno stretto collaboratore di Paolo VI, stava tenendo al Centro culturale ambrosiano una conferenza sulla Mulieris Dignitatem, lettera apostolica sulla dignità e sulla vocazione della donna scritta da Giovanni Paolo II. A un tratto una signora si alzò da una seggiola del pubblico per contestare al relatore, e indirettamente anche al Papa, la mancanza - nel documento di cui si dibatteva - di un riferimento a un qualche contratto di lavoro, mi pare fosse quello delle infermiere. Monsignor Colombo le rispose ponendo una domanda: «Quante donne ci sono in Cina?». Tra lo sbigottimento generale, si cominciò a buttare lì qualche numero: seicento milioni, settecento milioni. Al che monsignor Colombo pose un’altra domanda: «E quante donne vivono in India?». Anche qui partì il toto-abitanti: cinquecento milioni, o forse seicento. «Ecco», concluse il monsignore: «il Santo Padre, quando scrive un’enciclica, ha in testa queste dimensioni». L’episodio m’è tornato alla mente ieri assistendo alla consueta piccineria con la quale molti nostri politici - quelli sempre in prima fila nell’indignarsi per le «indebite ingerenze vaticane» - hanno reagito a un discorso pronunciato in mattinata dal Papa in materia di aborto e divorzio. Da Boselli a Bobo Craxi, da Grillini a Villetti, dalla radicale Bernardini al ministro Mussi, è stata un’alluvione di denunce contro «l’intervento a gamba tesa sulla campagna elettorale», contro il «tentativo di far diventare reati i peccati», contro «l’autoritarismo clericale», e via dicendo. Mussi, per dire il livello, ha lanciato un grido d’allarme al Paese: «Dobbiamo difendere il diritto di abortire e di divorziare con le unghie e con i denti». Aurelio Mancuso dell’Arcigay, per dire la fantasia, ha evocato indovinate un po’ che cosa: il Medioevo, le Sante Inquisizioni e Torquemada. Però. Ma davvero questi signori credono che, siccome nel loro orizzonte c’è solo qualche punto percentuale in più o in meno, anche il Papa abbia i loro stessi pensieri? Davvero credono che il capo della Chiesa universale, più che per lo sfascio delle famiglie e per i cinquanta milioni di aborti legali al mondo ogni anno, sia preoccupato del pareggio al Senato? È vero che a volte la Chiesa richiama i politici al rispetto dei valori che più le stanno a cuore. Ma lo fa appunto perché le stanno a cuore quei valori, non gli interessi di bottega di qualche partito. E lo fa, caso per caso, per mezzo delle conferenze episcopali nazionali, non per bocca del Papa. Il quale si occupa dell’universale e dell’eterno, non del locale e dell’effimero. Chi non capisce questo, giudica gli altri da se stesso.
Oltretutto ieri era evidente che non ci fosse il benché minimo riferimento alla politica e neppure alle leggi. Benedetto XVI ha parlato di aborto e divorzio in un convegno intitolato «L’olio sulle ferite», e il suo discorso è stato soprattutto un’esortazione ai cristiani affinché stiano vicini a chi quelle ferite le porta dentro: a chi ha divorziato e abortito «la Chiesa ha il dovere primario di accostarsi con amore e delicatezza, con premura e attenzione materna, per annunciare la vicinanza misericordiosa di Dio in Gesù Cristo», ha detto. Altro che Torquemada. Sull’ultimo numero del settimanale Vanity Fair ci sono due lettere di altrettante donne che hanno abortito. La prima dice: «Un pezzo di me è morto quel giorno. A distanza di 17 anni mi sento ancora malissimo». La seconda: «Sotto le coperte di quel letto d’ospedale piango in silenzio tutte le lacrime della mia vita. Niente sarà più come prima. Non mi abbandonerà mai questo dolore». Ecco, è a queste persone che ieri Ratzinger parlava: per dire loro che la Chiesa distingue tra peccato e peccatore, e che nulla è irreparabile davanti a Dio. Insomma vola un po’ più alto, il Papa tedesco, di certi nostri ottocenteschi politici e intellettuali, la cui apertura mentale è pari a quella della signora che si stupiva di non trovare, in un’enciclica sulle donne, qualche riferimento agli scatti di anzianità e ai permessi retribuiti. (Michele Brambilla, il Giornale, 6 aprile 2008)
giovedì 3 aprile 2008
Da Santoro l’aborto diventa come la prostata
Questo articolo è un tardivo omaggio alla fantasia perversa di una donna che stimavo. Emma Bonino (ma ho capito giusto? mi pare impossibile) mentre si parlava di quella strana cosa che a un certo punto cresce nel ventre di una donna e alla quale dopo un po' di tempo si mette un golfino, mentre insomma si discuteva di bambini non ancora nati ha detto: prostata. Levarsi di dosso una creatura, buttarla nell'immondezzaio, è tale e quale che occuparsi di una prostata. Mi è tornato in mente Marco Pannella. In una discussione pubblica, cui mi aveva invitato a Rimini, sostenne che un feto, uno zigote (lui chiama così i bambini quando non si sentono piangere perché immersi nelle acque materne) è meno di un foruncolo. La 194 si intitola: "Norme per la tutela della maternità e l'interruzione volontaria della gravidanza". Perché usare parole così? Perché non inserire in questa legge la parola prostata e foruncolo? Si potrebbe utilmente cambiare il nome alla legge e renderla più realistica. Così: "Norme per la tutela della prostata e dei foruncoli e per la loro volontaria eliminazione". I bambini come ghiandole, la gravidanza come malattia. Per questo poi la società muore, diventa vecchia, si isterilisce. Fa impressione che accada sotto Pasqua. E stupisce come questa cultura di tipo prostatico e foruncolare oggi sia il nerbo - al di là di discorsi e distinguo - del Partito democratico e della sinistra in generale. La Bonino è capolista del Partito democratico. Non una presenza generica, un ospite con cui si stabilisce un patto di reciproca convenienza, ma una bandiera preziosa. Capolista, olè, avanti prostata. Il tutto è avvenuto ad "Anno zero" di Michele Santoro e Marco Travaglio. Santoro è stato eurodeputato dell'Ulivo. La sua trasmissione è la punta di lancia della sinistra. Travaglio ne è il bazooka cattolico. La trasmissione di giovedì ha mostrato in azione quale sia l'idea di che cosa sia il nascere e quali siano i nemici della vita e del bene di questo popolo che ha in Santoro e Travaglio i suoi campioni. Di solito si dice: i temi etici. Io rifuggo dalla parola "etica". L'etica è la filosofia morale, detta le norme dei comportamenti, del dover essere. Qui siamo prima. Siamo alla concezione dell'essere uomini, al valore stesso dell'esistenza, del nostro e altrui respirare. Santoro e Travaglio dovevano occuparsi di aborto. Hanno invece fatto un processo a chi cerca di applicare la legge nel suo punto essenziale: la tutela della maternità. Con livelli di ignoranza che denotano l'ideologizzazione del tema: Santoro non sa la differenza tra pillola del giorno dopo e Ru486, ma allora di che parla? Il cattolico Travaglio nella puntata sull'aborto se l'è presa con i ciellini e la sanità lombarda. Nessuna pietà per i bambini abortiti, ma solita copiatura di sentenze per screditare chi, povero ingenuo, ritiene che la vita vada tutelata sin dal primo istante di concepimento. Questa è la Rai in tempo elettorale. Formigoni è intervenuto al telefono dopo che si è cercato di affondare la sanità della Lombardia che è la migliore d'Europa (chiedere pure a Umberto Veronesi), e Santoro irritato lo ha zittito. Intanto Franca Rame ha spiegato che il Papa e Ferrara devono tacere, l'aborto è una faccenda solo delle donne. Un po' - direbbe Emma Bonino - come la prostata per gli uomini. Mi domando ancora se ho capito giusto. Amici mi confermano. Sul sito internet di "Anno zero" ho cercato di rivedere la puntata. Non c'è ancora. In compenso in questo sito pagato dalla Rai la prima notizia in grande è questa, ma a caratteri maiuscoli: "Intervento della Corte dei Conti. Dirigenti Rai richiamati per la vicenda Santoro". Testo: «I dirigenti della Rai Antonio Marano e Agostino Saccà hanno ricevuto dal Sostituto Procuratore Regionale della Corte dei Conti Angelo Canale un "invito a dedurre" sul mancato impiego, nel periodo dal 2002 al 2005, dei giornalisti Michele Santoro e Sandro Ruotolo». Come dire: provate a toccarci, la pagherete, la magistratura è con noi. Ma sapete, cari Santoro e Travaglio, che l'avevamo sospettato? (Renato Farina, Libero 22 marzo 2008)
E per qualcuno conversione è uguale ad aggressione
Al laicismo e all’odio per la Chiesa cattolica ci siamo ormai abituati eppure non possiamo nascondere un evidente sconcerto per le reazioni scomposte - e in alcuni casi deliranti – al battesimo ricevuto da Magdi Allam in San Pietro durante la Veglia pasquale celebrata da papa Benedetto XVI. Non ci riferiamo alle reazioni del mondo islamico, in parte scontate e dove peraltro non sono mancate voci rispettose, ma a quelle di certo mondo politico italiano e addirittura di alcuni cattolici eccellenti. Segno che il laicismo e l’intolleranza anti-cattolica sono molto più profonde di quanto pensato e hanno addirittura varcato la soglia della Chiesa.
Ci riferiamo ai duri attacchi al Papa e a Magdi Cristiano Allam portati anzitutto da vari leader socialisti e della sinistra radicale – Boselli, Intini, Craxi, Spini, Venier – che si esprimono curiosamente negli stessi termini usati da Hamas, ovvero accusando il Papa di incitare alla violenza, di fomentare il fondamentalismo, di alimentare la guerra di religione. Terminando con la richiesta al Vaticano di prendere le distanze dalle opinioni di Allam. Ma anche dal Partito Democratico sono partiti dei siluri, come quello di Ludina Barzini (candidata per il Senato in Lombardia) secondo cui “parlare di Italia come culla del cristianesimo rischia di riportarci indietro di anni”. Seguendo il filo del suo ragionamento dovremmo dedurne che non potremo più affermare neanche che l’Italia è la culla del diritto (romano), che la Toscana è la culla della lingua italiana (chi sa mai che si offendano i lombardi) e così via negando la realtà e la storia. Per Franco Monaco, inoltre (sempre del Pd), fanno problema le motivazioni di Allam e “la pubblica ostentazione di una intima conversione”. Certo, molto meglio scegliere le catacombe per il battesimo in modo che nessuno lo venga a sapere, in fondo Roma ne è ancora piena. Ma Monaco, in questo suo argomentare, mentre contesta la mancanza d’umiltà di Allam si auto investe modestamente del ruolo di difensore del cristianesimo che con questo battesimo mediatico risulta ridotto a “religione civile e ideologia dell’occidente che ne mortifica l’universalità”. Così anche lui conclude con la storiella dell’incitamento “allo scontro di civiltà”. Si fosse esposto prima, probabilmente il conclave di due anni fa avrebbe eletto lui Papa e non quello scriteriato di Benedetto XVI che non si rende bene conto di cosa stia facendo.
Ma ancora più sconcertanti sono alcuni commenti provenienti da voci ostentatamente cattoliche. Come ad esempio il commento apparso il 26 marzo a pagina 8 del quotidiano Europa a firma di Aldo Maria Valli. Il noto giornalista cattolico, forse rendendosi conto dell’enormità delle cose che afferma, si nasconde dietro un presunto messaggio inviatogli da un suo anonimo amico sacerdote che “lavora sulla frontiera dell’islam” . Il messaggio, che il giornalista riporta con finto stupore e malcelata partecipazione, è una sequela di attacchi al Papa da lasciare esterrefatti. Ve ne risparmiamo il contenuto, basti ricordare che il battesimo di Magdi Allam viene considerato la reiterazione del grave errore già fatto con il discorso di Ratisbona (che peraltro è uno dei punti decisivi per la conversione di Allam): e se errare è umano, perseverare….
Anche peggiore, se possibile, il commento di don Vinicio Albanesi, responsabile della comunità di Capodarco, che quando c’è da colpire la Chiesa e il Papa non si tira mai indietro. E l’ANSA è sempre lì pronta a raccogliere le sue perle di saggezza. Ebbene, secondo don Albanesi la conversione di Magdi Allam “non aiuta il cristianesimo” e la decisione del Papa di battezzarlo nella notte di Pasqua sarebbe addirittura “un’aggressione”, tanto da fargli sentenziare che “quando il cristianesimo si è aggregato a forze militari ha sempre fallito”. Di quali forze militari vada vaneggiando don Albanesi non è dato sapere, visto che ci rifiutiamo di credere che si riferisse alle guardie svizzere. Ma ancora più incredibile è il pensiero (si fa per dire) seguente: “L’islam può essere aggressivo ma il cristianesimo non può rispondere con la stessa arma perché il suo simbolo allora non sarebbe la croce”. Cioè, se le parole hanno un senso, il battesimo di un convertito come Allam – secondo don Albanesi - esprime lo stesso grado di violenza degli attentati di al-Qaeda e delle stragi perpetrate dai kamikaze islamici. Dopodichè possiamo dedurne che le minacce della scorsa settimana di Bin Laden al Papa siano giustificate.
Evidentemente certi personaggi, insieme all’uso della ragione hanno perso anche il senso del ridicolo, e ogni commento appare dunque superfluo.
Però è giusto almeno ricordare che il “convertito” di cui si parla, additato come un provocatore, vive da cinque anni sotto scorta proprio per aver creduto nella possibilità di un islam moderato, cosa che gli ha attirato diverse condanne a morte da parte di religiosi islamici. Ed è ben consapevole che quest’ultimo passo potrebbe costargli molto caro. Forse se qualche fervente islamico decidesse – Dio non voglia - di attuare le fatwe lanciate contro Magdi Allam, i nostri illustri pensatori tirerebbero un sospiro di sollievo e l’anonimo-prete-sulla-frontiera -dell’islam vedrebbe così scongiurata una guerra di religione. Tutti insieme poi direbbero che in fondo se l’è cercata.
Costoro non si rendono conto che ciò che è accaduto la notte di Pasqua è per la libertà di tutti noi. Come ha sostenuto l’Osservatore Romano, la celebrazione del Battesimo di Magdi Cristiano Allam in San Pietro altro non è stato che un gesto di affermazione della libertà religiosa. E senza questa non esiste alcun’altra libertà. (Riccardo Cascioli, Il Giornale, 26 marzo 2008)
Ci riferiamo ai duri attacchi al Papa e a Magdi Cristiano Allam portati anzitutto da vari leader socialisti e della sinistra radicale – Boselli, Intini, Craxi, Spini, Venier – che si esprimono curiosamente negli stessi termini usati da Hamas, ovvero accusando il Papa di incitare alla violenza, di fomentare il fondamentalismo, di alimentare la guerra di religione. Terminando con la richiesta al Vaticano di prendere le distanze dalle opinioni di Allam. Ma anche dal Partito Democratico sono partiti dei siluri, come quello di Ludina Barzini (candidata per il Senato in Lombardia) secondo cui “parlare di Italia come culla del cristianesimo rischia di riportarci indietro di anni”. Seguendo il filo del suo ragionamento dovremmo dedurne che non potremo più affermare neanche che l’Italia è la culla del diritto (romano), che la Toscana è la culla della lingua italiana (chi sa mai che si offendano i lombardi) e così via negando la realtà e la storia. Per Franco Monaco, inoltre (sempre del Pd), fanno problema le motivazioni di Allam e “la pubblica ostentazione di una intima conversione”. Certo, molto meglio scegliere le catacombe per il battesimo in modo che nessuno lo venga a sapere, in fondo Roma ne è ancora piena. Ma Monaco, in questo suo argomentare, mentre contesta la mancanza d’umiltà di Allam si auto investe modestamente del ruolo di difensore del cristianesimo che con questo battesimo mediatico risulta ridotto a “religione civile e ideologia dell’occidente che ne mortifica l’universalità”. Così anche lui conclude con la storiella dell’incitamento “allo scontro di civiltà”. Si fosse esposto prima, probabilmente il conclave di due anni fa avrebbe eletto lui Papa e non quello scriteriato di Benedetto XVI che non si rende bene conto di cosa stia facendo.
Ma ancora più sconcertanti sono alcuni commenti provenienti da voci ostentatamente cattoliche. Come ad esempio il commento apparso il 26 marzo a pagina 8 del quotidiano Europa a firma di Aldo Maria Valli. Il noto giornalista cattolico, forse rendendosi conto dell’enormità delle cose che afferma, si nasconde dietro un presunto messaggio inviatogli da un suo anonimo amico sacerdote che “lavora sulla frontiera dell’islam” . Il messaggio, che il giornalista riporta con finto stupore e malcelata partecipazione, è una sequela di attacchi al Papa da lasciare esterrefatti. Ve ne risparmiamo il contenuto, basti ricordare che il battesimo di Magdi Allam viene considerato la reiterazione del grave errore già fatto con il discorso di Ratisbona (che peraltro è uno dei punti decisivi per la conversione di Allam): e se errare è umano, perseverare….
Anche peggiore, se possibile, il commento di don Vinicio Albanesi, responsabile della comunità di Capodarco, che quando c’è da colpire la Chiesa e il Papa non si tira mai indietro. E l’ANSA è sempre lì pronta a raccogliere le sue perle di saggezza. Ebbene, secondo don Albanesi la conversione di Magdi Allam “non aiuta il cristianesimo” e la decisione del Papa di battezzarlo nella notte di Pasqua sarebbe addirittura “un’aggressione”, tanto da fargli sentenziare che “quando il cristianesimo si è aggregato a forze militari ha sempre fallito”. Di quali forze militari vada vaneggiando don Albanesi non è dato sapere, visto che ci rifiutiamo di credere che si riferisse alle guardie svizzere. Ma ancora più incredibile è il pensiero (si fa per dire) seguente: “L’islam può essere aggressivo ma il cristianesimo non può rispondere con la stessa arma perché il suo simbolo allora non sarebbe la croce”. Cioè, se le parole hanno un senso, il battesimo di un convertito come Allam – secondo don Albanesi - esprime lo stesso grado di violenza degli attentati di al-Qaeda e delle stragi perpetrate dai kamikaze islamici. Dopodichè possiamo dedurne che le minacce della scorsa settimana di Bin Laden al Papa siano giustificate.
Evidentemente certi personaggi, insieme all’uso della ragione hanno perso anche il senso del ridicolo, e ogni commento appare dunque superfluo.
Però è giusto almeno ricordare che il “convertito” di cui si parla, additato come un provocatore, vive da cinque anni sotto scorta proprio per aver creduto nella possibilità di un islam moderato, cosa che gli ha attirato diverse condanne a morte da parte di religiosi islamici. Ed è ben consapevole che quest’ultimo passo potrebbe costargli molto caro. Forse se qualche fervente islamico decidesse – Dio non voglia - di attuare le fatwe lanciate contro Magdi Allam, i nostri illustri pensatori tirerebbero un sospiro di sollievo e l’anonimo-prete-sulla-frontiera -dell’islam vedrebbe così scongiurata una guerra di religione. Tutti insieme poi direbbero che in fondo se l’è cercata.
Costoro non si rendono conto che ciò che è accaduto la notte di Pasqua è per la libertà di tutti noi. Come ha sostenuto l’Osservatore Romano, la celebrazione del Battesimo di Magdi Cristiano Allam in San Pietro altro non è stato che un gesto di affermazione della libertà religiosa. E senza questa non esiste alcun’altra libertà. (Riccardo Cascioli, Il Giornale, 26 marzo 2008)
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